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    L’Ue vara il ‘pacchetto Navalny’: stop all’export di tutto ciò che può servire alla repressione in Russia

    Bruxelles – Mai più altri Alexsey Navalny. L’Unione europea vara un nuovo pacchetto di sanzioni tutto speciale contro Mosca, volto a fermare la macchina di repressione della Russia di Vladimir Putin. La morte di uno dei principali oppositori politici del leader russo è la molla che spinge il Consiglio dell’Ue a varare un pacchetto annunciato. Scatta la messa al bando di tutto ciò che può essere utilizzato ai fini di repressione, tortura, violazione dello Stato di diritto, e che quindi non potrà essere venduto alla federazione russa. Si tratta di un divieto alle esportazioni di merci, ma anche programmi informatici e dispositivi quali apparecchi radio e monitor.Il via libera garantito oggi (27 maggio) prevede anche l’iscrizione nella lista nera dell’Ue del Servizio penitenziario federale della Federazione Russa (Fsin). Si tratta dell’autorità centrale che gestisce il sistema carcerario russo, “noto per i suoi diffusi e sistematici abusi e maltrattamenti contro i prigionieri politici in Russia”, critica il Consiglio dell’Ue. In quanto agenzia federale, la FSIN è responsabile delle colonie penali, già inserite tra le entità soggette a sanzioni, in cui il politico dell’opposizione russa Alexei Navalny è stato detenuto con accuse politicamente motivate ed è infine morto il 16 febbraio 2024.Le decisioni prese a Bruxelles sono obbligate, spiega l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell. La morte di Navalny, sottolinea, “stata un altro segno dell’accelerazione e della repressione sistematica da parte del regime del Cremlino”. Come Unione europea, promette, “non risparmieremo alcuno sforzo per chiedere conto alla leadership politica e alle autorità russe” per la morte dell’oppositore politico e il rispetto dei diritti umani nel Paese, “anche attraverso questo nuovo regime di sanzioni, prendendo di mira coloro che limitano il rispetto e violano i diritti umani in Russia”.Per questo motivo l’Unione europea colpisce anche tutti quei giudici ritenuti responsabili o corresponsabili per la morte in carcere di Navalny. Per loro non sarà possibile mettere piede su suolo comunitario, e per tutti, singoli individui e autorità penitenziaria nazionale, scatterà il congelamento degli eventuali beni detenuti in uno dei Ventisette Stati membri.

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    Gaza, l’Ue studia come riprendere la gestione del varco di Rafah. Cos’è la missione europea sospesa dal 2007

    Bruxelles – Sono in corso colloqui a vari livelli per approfondire le possibilità che l’Unione Europea riprenda in mano la gestione del passaggio di merci e persone dal varco di Rafah, come già aveva fatto con EUBAM Rafah dal 2005 al 2007. Ne stanno parlando gli operatori della missione Ue ancora sul posto con Egitto e Israele, ne stanno studiando la fattibilità Bruxelles e Washington. E, come confermato da un alto funzionario Ue, ne discuteranno i ministri dei 27 al prossimo Consiglio Affari Esteri, previsto lunedì 27 maggio.“Siamo ancora in una fase molto preliminare”, placa gli entusiasmi la fonte. Ma è vero che nelle ultime settimane l’Ue “ha ricevuto richieste da diverse parti, compreso Israele, per studiare le opportunità di riaprire” la missione avviata nel novembre del 2005, dopo il disimpegno di Israele da Gaza, al fine di assicurare una presenza come parte terza al valico di Rafah tra la striscia di Gaza e l’Egitto e creare un clima di fiducia tra il governo di Israele e l’Autorità palestinese.Personale Ue e palestinese al Rafah Crossing Point nel novembre 2005 (Photo by PEDRO UGARTE / AFP)Una missione che dal 25 novembre 2005 fino all’ultimo giorno di monitoraggio Ue, il 9 giugno 2007, secondo i dati registrati da EUBAM, favorì l’attraversamento di un totale di 443.975 persone, 229.429 da Gaza in territorio egiziano, 214.117 per il percorso inverso. Il personale europeo fece in fretta e furia le valigie il 13 giugno 2007, poche ore prima che Hamas prendesse il controllo della città di Rafah e inaugurasse così il suo governo nella Striscia di Gaza.Da quel giorno, la missione EUBAM Rafah è sospesa, ma ha attuato – attraverso il lavoro di 10 membri dello staff internazionale e 8 locali – un progetto di preparazione a lungo termine con le sue controparti palestinesi, vale a dire “attività di rafforzamento delle capacità per migliorare la loro capacità di ridispiegarsi presso il varco di Rafah quando le condizioni lo consentiranno“. Nel giugno 2023, il Consiglio dell’Ue ha deciso di prorogare la missione di un anno, fino al 30 giugno 2024, con possibilità di proroga per un ulteriore anno. E con un budget di 2,36 milioni di euro per il periodo dal primo luglio 2023 al 30 giugno 2024.Ecco perché, con l’aggravarsi della situazione nel sud della Striscia a causa dell’avvio delle operazioni militari israeliane a Rafah e la conseguente chiusura delle frontiere ai convogli umanitari, gli attori regionali e internazionali hanno intravisto la possibilità di chiamare nuovamente in causa l’Ue. Secondo quanto riportato dal quotidiano statunitense Politico, funzionari dell’amministrazione Biden stanno lavorando da settimane dietro le quinte, mediando i colloqui tra Israele ed Egitto, per trovare un accordo che metta la missione europea a capo del varco di Rafah e migliori in modo significativo il flusso di aiuti nell’enclave.Un alto funzionario a stelle e strisce avrebbe dichiarato alla testata americana che – se le trattative in corso tra Israele e Egitto sulla riapertura della frontiera andassero a buon fine e se l’Unione europea sottoscrivesse l’idea – il varco di Rafah “potrebbe essere aperto nelle prossime settimane“.A Bruxelles sono più cauti, la fase è appunto ancora “preliminare”, ma a quanto si apprende l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, già il prossimo lunedì potrebbe chiedere ai ministri dei 27 di conferirgli un mandato per studiare a fondo la possibilità di rilanciare la missione.L’urgenza di trovare una soluzione è evidente. Ed è stata sottolineata una volta di più dalla Corte di Giustizia Internazionale, che nel pomeriggio si è pronunciata per la terza volta sul possibile genocidio a Gaza e ha imposto nuove misure provvisorie a Israele. Tra cui “interrompere immediatamente la sua offensiva militare e qualsiasi altra azione nel governatorato di Rafah che possano infliggere al gruppo palestinese di Gaza condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica, totale o parziale” e “mantenere aperto il valico di Rafah per la fornitura senza ostacoli di servizi di base e di assistenza umanitaria urgentemente necessari”.

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    Tre quarti dei membri Onu riconosce la Palestina come Stato

    Bruxelles – Divisi tra loro e divisivi per l’opinione pubblica. Israeliani e palestinesi, storia praticamente infinita di una questione, quella arabo-israeliana, sempre più un rompicapo. Due popoli, due Stati: quella che dovrebbe essere la soluzione per molti continua ad essere più retorica che pratica, nonostante la comunità internazionale riconosca la Palestina come Stato. Dei 193 Stati membri dell’Organizzazione delle nazioni Unite (Onu), ben 143 oggi riconoscono il diritto dei palestinesi di esistere come entità geografica e politica. Praticamente tre quarti della comunità internazionale vede la Palestina come Stato. Tra i 50 mancanti figurano all’appello  Stati Uniti, Canada, Australia e buona parte dei membri Ue.Novembre 1988, momento chiave per la Palestina e lo status di StatoLe rivendicazioni palestinesi conoscono un momento di svolta il 15 novembre 1988, quando l’allora presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Yasser Arafat, proclamò la Palestina Stato indipendente e sovrano, con Gerusalemme capitale. Un annuncio che non restò isolato: subito dopo la proclamazione, l’Algeria riconobbe la nuova entità, aprendo la strada al riconoscimento internazionale. Altri 82 Paesi seguirono, e tra novembre e dicembre 1988 ben 83 Paesi del mondo riconobbero la Palestina come Stato.La lista dei Paesi che riconoscono lo Stato palestinese nel 1988:Algeria, Bahrein, Indonesia, Iraq, Kuwait, Libia, Malesia, Mauritania, Marocco, Somalia, Tunisia, Turchia, Yemen, Afghanistan, Bangladesh, Cuba, Giordania, Madagascar, Malta, Nicaragua, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti , Serbia, Zambia, Albania, Brunei, Gibuti, Mauritius, Sudan, Cipro, Repubblica Ceca, Slovacchia, Egitto, Gambia, India, Nigeria, Seychelles, Sri Lanka, Namibia, Russia, Bielorussia, Ucraina, Vietnam, Cina, Burkina Faso , Comore, Guinea, Guinea-Bissau, Cambogia, Mali, Mongolia, Senegal, Ungheria, Capo Verde, Corea del Nord, Niger, Romania, Tanzania, Bulgaria, Maldive, Ghana, Togo, Zimbabwe, Ciad, Laos, Sierra Leone, Uganda, Repubblica del Congo, Angola, Mozambico, Sao Tomé e Principe, Gabon, Oman, Polonia, Repubblica Democratica del Congo, Botswana, Nepal, Burundi, Repubblica Centrafricana, Bhutan, Sahara Occidentale.Il post-1988: altri 20 riconoscimenti nel XX secoloL’accreditamento internazionale della Palestina non si arresta. Al primo blocco di Paesi, alla spicciolata, se ne aggiungono altri 20 negli anni successivi, e per la fine del secolo si contano ben 103 Stati del mondo a riconoscere uno Stato palestinese, con tutti diritti del caso. Africa, Asia centrale e pure Europa: il sostegno alla causa di Arafat arriva dai diversi quadranti del mondo.Paesi che riconoscono lo Stato Palestinese tra il 1988 e il 2000:Ruanda, Etiopia, Iran, Benin, Kenya, Guinea Equatoriale, Vanuatu, Filippine (1989), Swaziland (1991), Kazakistan, Azerbaigian, Turkmenistan, Georgia, Bosnia ed Erzegovina (1992), Tagikistan, Uzbekistan, Papua Nuova Guinea (1994), Sudafrica, Kirghizistan (1995), Malawi (1998)Il nuovo millennio e il sostegno dell’America latinaIl nuovo millennio si apre con nuove iniziative politico- diplomatiche a sostegno della causa palestinese e un riconoscimento dello Stato di Palestina, che arriva con uno slancio tutto nuovo dal centro e sud America.  Tra il 2004 e il 2012 altri 30 Paesi vanno ad ingrossare la lista di quanti ritengono che sia tempo di riconoscere la Palestina, che gode adesso di 133 Nazioni mondiali esplicitamente al proprio fianco.Paesi che riconoscono la Palestina tra il 2000 e il 2012: Timor Est (2004), Paraguay (2005), Montenegro (2006), Costa Rica, Libano, Costa d’Avorio (2008), Venezuela, Repubblica Dominicana (2009), Brasile, Argentina, Bolivia, Ecuador (2010), Cile, Guyana, Perù, Suriname, Uruguay, Lesotho, Sud Sudan, Siria, Liberia, El Salvador, Honduras, Saint Vincent e Grenadine, Belize, Dominica, Antigua e Barbuda, Grenada, Islanda (2011), Thailandia (2012).2013, il riconoscimento del Vaticano e nuove nazioni pro-stato PalestineseIl 2013 segna un momento storico per la causa palestinese. Il Vaticano, che non fa parte dell’Onu, prende ufficialmente posizione della questione arabo-israeliana, e riconosce la Palestina quale Stato. Una mossa non solo politica e diplomatica, ma anche dai toni confessionali forti: lo Stato della Chiesa sposa la parta arabo-islamica delle controversie in Medio Oriente. E’ solo uno dei momenti chiave della seconda decade degli anni Duemila in poi. La Svezia rompe gli indugi di un’Ue divisa e dubbiosa, e diventa il primo Paese dell’Europa occidentale a riconoscere lo stato palestinese.Riconoscimento dello Stato palestinese dal 2013 ai giorni nostriGuatemala, Haiti, Vaticano (2013), Svezia (2014), Santas Lucia (2015), Colombia (2018), Saint Kitts and Nevis (2019), Messico (2023), Bahamas, Trinidad e Tobago, Giamaica e Barbados (2024).

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    L’Ue reagisce al “modello di comportamento provocatorio” della Russia nella regione baltica

    Bruxelles – Un’altra provocazione russa nell’arco di pochi giorni nell’area baltica, a dimostrazione dell’aumento delle preoccupazioni dei Paesi membri Ue e Nato, dall’Estonia alla Finlandia. Ma questa volta interviene anche l’Unione Europea, per mettere in chiaro che gli occhi di Bruxelles sono vigili sulle mosse del Cremlino e delle sue mire espansionistiche. “Questo incidente di confine fa parte di un più ampio modello di comportamento provocatorio e di azioni ibride da parte della Russia, anche ai suoi confini marittimi e terrestri nella regione del Mar Baltico”, è l’attacco dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in una dichiarazione in risposta alla rimozione “unilaterale” delle boe luminose poste dall’Estonia sul fiume Narva per delimitare il confine nord-orientale con la Russia.La prima ministra dell’Estonia, Kaja KallasA rendere nota l’azione “compiuta nell’ombra della notte” – alle 3 del mattino di ieri (23 maggio) – dalla Guardia di frontiera russa è stato il ministero degli Affari esteri estone con una nota, in cui ha definito l’azione “un incidente di confine provocatorio“. Da Tallinn la risposta “rimane calma e lucida” in contatto con alleati e partner Ue e Nato, a partire dalla richiesta ufficiale a Mosca di spiegazioni attraverso i rappresentanti di frontiera e i canali diplomatici e “l’immediata restituzione” delle boe luminose. La premier estone, Kaja Kallas, ha rincarato la dose con un post su X: “L’azione della Russia si inserisce nel più ampio schema del suo comportamento provocatorio in tutta Europa, anche ai confini con i Paesi vicini“.L’autocrate russo, Vladimir Putin (credits: Natalia Kolesnikova / Afp)Il riferimento implicito è a quanto accaduto all’inizio della settimana, con il giallo della bozza di documento ufficiale del ministero della Difesa russo per rivedere la frontiera marittima della Russia nel Mar Baltico orientale. Una proposta senza alcuna consultazione con i vicini della regione – ma scomparsa dal sito del ministro poche ore più tardi – motivata secondo la Russia dal fatto che la misurazione sovietica del confine del 1985 avrebbe utilizzato carte nautiche della metà del XX secolo e di conseguenza non corrisponderebbe pienamente alle coordinate cartografiche “più moderne”. Le modifiche sarebbero dovute entrare in vigore nel gennaio 2025 ed erano rivolte agli equipaggi delle navi, alle forze dell’ordine e ai funzionari della difesa e della sicurezza che operano nel Golfo orientale della Finlandia.A pochi giorni dalla prima provocazione diplomatica, la nuova azione del Cremlino viene seguita con preoccupazione da tutte le capitali baltiche e scandinave, ma anche dalle istituzioni Ue “in cooperazione e solidarietà con l’Estonia e gli altri Stati membri”, spiega l’alto rappresentante Borrell. “L’Unione Europea ha monitorato attentamente la situazione fin dall’inizio” e ora “si aspetta una spiegazione da parte della Russia” sulle sue azioni “inaccettabili” lungo la frontiera.

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    Il giallo del documento russo (poi sparito) che minaccia di cambiare le frontiere nel Baltico orientale

    Bruxelles – Era il 26 marzo 2022 quando, per un presunto errore di pubblicazione, l’autocrate russo, Vladimir Putin, rendeva nota al mondo la strategia sul lungo termine che aveva spinto l’aggressione della Russia all’Ucraina. Un articolo che per la prima volta dimostrava le mire espansionistiche del Cremlino per superare “la tragedia del 1991, quella terribile catastrofe della nostra storia” e che oggi, più di due anni dopo, trova un’altra conferma in una bozza di documento ufficiale del ministero della Difesa russo.L’autocrate russo, Vladimir Putin (credits: Natalia Kolesnikova / Afp)La nuova proposta è quella di rivedere la frontiera marittima della Russia nel Mar Baltico orientale, dal momento in cui – secondo quanto riportato dallo stesso ministero della Difesa – la misurazione sovietica del confine del 1985 aveva utilizzato carte nautiche della metà del XX secolo e di conseguenza non corrispondeva pienamente alle coordinate cartografiche “più moderne”.Le modifiche proposte – ma prive di indicazioni su come avrebbero effettivamente impattato le frontiere – sarebbero dovute entrare in vigore nel gennaio 2025 ed erano rivolte agli equipaggi delle navi, alle forze dell’ordine e ai funzionari della difesa e della sicurezza che operano nel Golfo orientale della Finlandia. Tuttavia la bozza è stata cancellata nella giornata di ieri (22 maggio) dal sito del ministero senza ulteriori spiegazioni, dopo l’ondata di critiche e irritazione dei vicini nella regione, tutti membri Nato (la Finlandia dal 2023 e la Svezia dal marzo 2024)L’allarme è stato alzato in tutta la regione baltica, con i ministri degli Esteri di Lituania, Lettonia, Estonia, Finlandia e Svezia in contatto tra loro per chiarire la situazione. “Le azioni della Russia sono viste come una provocazione deliberata e mirata per intimidire i Paesi vicini e le loro società”, ha dichiarato a Politico il ministero degli Esteri lituano: “Questa è un’ulteriore prova che la politica aggressiva e revisionista della Russia è una minaccia per la sicurezza dei Paesi vicini e dell’Europa nel suo complesso”. Il premier finlandese, Petteri Orpo, ha chiarito che “non c’è stato alcun contatto” con Mosca sulla questione, mentre l’omologo svedese, Ulf Kristersson, ha ribadito senza sconti che “la Russia non può decidere unilateralmente nuovi confini”.

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    Kiev e Bruxelles guardano alla data del 25 giugno per iniziare i negoziati di adesione Ue dell’Ucraina

    Bruxelles – Le prime indicazioni erano già arrivate dalla più alta carica del Consiglio Europeo, Charles Michel, dopo il vertice dei leader Ue di marzo, e ora le indiscrezioni che trapelano da Palazzo Europa confermano che il lavoro è intenso per iniziare i negoziati di adesione Ue con l’Ucraina già entro la fine di giugno. Più precisamente il 25 giugno, quando si riunirà il prossimo Consigli Affari Generali, responsabile per la decisione (all’unanimità) sul via libera alle conferenze intergovernative con i candidati all’ingresso nell’Unione.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, e il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel (7 febbraio 2023)A confermare questa spinta a Bruxelles sono alcune fonti di Politico, che riportano come i diplomatici Ue e ucraini abbiano intensificato gli sforzi nelle ultime settimane per cercare di convincere il governo ungherese guidato da Viktor Orbán a non porre il veto e fare sì che la questione non debba riproporsi (o essere depennata fino a fine anno) proprio durante la presidenza di turno ungherese del Consiglio dell’Ue. Già al termine del Consiglio Europeo del 21 marzo Michel aveva confessato che la speranza era quella di “arrivare alla prima conferenza intergovernativa sotto presidenza belga“, prima del passaggio di consegne a Budapest per la guida semestrale dell’istituzione Ue (che definisce calendari e temi in agenda delle riunioni dei ministri nelle diverse composizioni del Consiglio).Da sinistra: il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, e il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán (7 febbraio 2023)Dopo la concessione dello status di Paese candidato all’Ucraina nel giugno 2022 e nonostante i progressi costanti registrati dalla Commissione Europea nel corso del successivo anno e mezzo, è stato il premier ungherese Orbán a scegliere la via dell’ostruzionismo per provare a impedire il via libera ai negoziati di adesione con Kiev. Solo attraverso una costante pressione delle istituzioni Ue – e lo sblocco da parte della Commissione di circa 10 miliardi di euro congelati a Budapest – Orbán ha compiuto un gesto abbastanza inconsueto ed eclatante al Consiglio Europeo del 14 dicembre 2023: ha lasciato la sala al momento del voto, così che gli altri 26 leader Ue potessero approvare la più attesa tra le conclusioni del vertice. Al successivo vertice di marzo è arrivato l’invito dei capi di Stato e di governo ai 27 ministri degli Affari europei ad “adottare rapidamente” i progetti di quadri di negoziazione e “a portare avanti i lavori senza indugio”.Da allora la diplomazia Ue, belga (che detiene fino al 31 giugno la presidenza di turno) e ucraina si sono impegnate intensamente con Budapest per rispondere alle preoccupazioni sulle minoranze ungheresi in Ucraina, anche attraverso la risposta da Kiev a un elenco di 11 punti stilato dall’Ungheria. La speranza è che il governo Orbán possa essere interessato a chiudere la questione dei colloqui di adesione dell’Ucraina prima di assumere la presidenza semestrale, per evitare che il proprio semestre sia costellato da pressioni e polemiche a riguardo (e considerato il fatto che non si tratta dell’ultima occasione per l’Ungheria di utilizzare il potere di veto per bloccare l’adesione Ue di Kiev). Prima però va concordato il quadro negoziale sulla base della proposta della Commissione Europea, che si trova ora al vaglio dei 27 governi e dal cui semaforo verde dipenderà l’avvio della prima conferenza intergovernativa. Forse già il 25 giugno.Come funziona il processo di adesione UeIl processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.L’Ucraina e gli altri 9. A che punto è l’allargamento UeLo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio 2022 dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada. Il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha approvato la linea tracciata dalla Commissione nella sua raccomandazione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Nel Pacchetto Allargamento Ue 2023 la Commissione ha raccomandato al Consiglio di avviare i negoziati di adesione con Ucraina e Moldova e di concedere alla Georgia lo status di Paese candidato. Tutte le richieste sono state poi accolte dal vertice dei leader Ue di dicembre e ora si attende solo l’avvio formale dei negoziati e l’adozione dei quadri negoziali per le prime due.Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Albania e Macedonia del Nord i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Montenegro e Serbia si trovano a questo stadio rispettivamente da 12 e 10 anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre 2022 anche la Bosnia ed Erzegovina è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione e al Consiglio Europeo del 21 marzo ha ricevuto l’endorsement all’avvio formale dei negoziati di adesione. Il Kosovo è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata a fine 2022: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue – Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia – continuano a non riconoscerlo come Stato sovrano.I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è stato affrontato in una relazione strategica apposita a Bruxelles.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Spagna, Irlanda e Norvegia annunciano il riconoscimento dello Stato di Palestina. Israele: “Hanno scelto di premiare Hamas”

    Bruxelles – I due Paesi Ue più attivi in solidarietà del popolo palestinese rompono gli indugi e annunciano il riconoscimento dello Stato di Palestina. Spagna e Irlanda compiranno il passo formale il prossimo 28 maggio. Con loro anche la Norvegia: i tre vanno così ad aggiungersi ai 140 Paesi nel mondo che già attribuiscono alla Palestina lo status di entità statale. Ira di Israele: “Questi Paesi hanno scelto di premiare Hamas”. E richiama a Tel Aviv gli ambasciatori a Dublino e Oslo.Il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez, annuncia il riconoscimento della Palestina al Congresso dei deputati (Photo by Thomas COEX / AFP)I primi ministri di Spagna, Irlanda e Norvegia hanno annunciato il riconoscimento sulla base dei confini del 1967 in contemporanea: Pedro Sanchez si è presentato al Congresso dei deputati di Madrid, mentre il primo ministro irlandese Simon Harris e quello norvegese Jonas Gahr Støre hanno convocato due conferenze stampa. “E’ giunto il momento di passare dalla parole ai fatti. Per la pace, per la giustizia e per la coerenza”, ha dichiarato Sanchez in Aula. Per il premier norvegese la decisione è figlia del fatto che “non può esserci pace in Medioriente se non c’è riconoscimento“. Dello stesso avviso Harris: “Il riconoscimento dello Stato di Palestina rappresenta un sostegno inequivocabile alla soluzione dei due Stati” ed è “l’unica via credibile verso la pace tra Israele e Palestina”, ha dichiarato.Tutti e tre hanno poi auspicato che altri Paesi seguano la strada tracciata da Madrid, Dublino e Oslo. A partire dalla Slovenia, che nei mesi scorsi si è detta pronta a riconoscere unilateralmente la Palestina e che dovrebbe procedere entro il 13 giugno – quando il Parlamento di Lubiana voterà sulla questione -, ma anche Belgio, Lussemburgo e Portogallo, Paesi che tentennano tra l’azione unilaterale e la posizione ufficiale del blocco Ue, pronta a riconoscere Ramallah solo una volta che sarà inserita nel processo di una soluzione a due Stati. La mossa compiuta oggi dai due Paesi Ue e dalla Norvegia prova a invertire il ragionamento: la soluzione a due Stati non può che partire dal riconoscimento dello Stato palestinese.Il primo ministro irlandese Simon Harris (C), affiancato dal ministro degli Affari Esteri, Michel Martin (R), e dal ministro dei Trasporti, Eamon Ryan (L),  annunciano il riconoscimento della Palestina (Photo by Paul FAITH / AFP)Anche perché la posizione di Bruxelles – condivisa peraltro con gli Stati Uniti – è nei fatti sbarrata dalla riluttanza del governo israeliano di Benjamin Netanyahu, che ha ribadito a più riprese la propria opposizione alla soluzione a due Stati. “Con questo passo significativo, Spagna, Irlanda e Norvegia hanno dimostrato ancora una volta il loro incrollabile impegno per la soluzione a due Stati e per garantire al popolo palestinese la giustizia da tempo attesa”, ha commentato il ministero degli Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese, sottolineando inoltre come il riconoscimento della Palestina sia “in linea con il diritto internazionale e con tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite in materia”.Dei 27 Paesi Ue, la Svezia era stata finora l’unico ad aver proceduto al riconoscimento della Palestina mentre era membro del blocco, nel 2014. Mentre Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Ungheria, Malta, Romania, Polonia e Slovacchia hanno fatto questo passo prima di entrare nell’Unione. Con l’annuncio di Spagna e Irlanda, saranno ora 11 le capitali Ue a riconoscere Ramallah, ancora meno della metà. E soprattutto, alla conta mancano ancora Parigi, Berlino e Roma.Il primo ministro norvegese, Jonas Gahr Store (R), e il ministro per gli Affari esteri, Espen Barth Eide, annunciano il riconoscimento della Palestina (Photo by Erik Flaaris Johansen / NTB / AFP) / Norway OUTLa Francia di Emmanuel Macron ha già sostenuto di essere pronta a “contribuire” al riconoscimento di uno Stato palestinese, “sia in Europa che in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu”. Mentre Italia e Germania, seppur non ostili all’idea, la vincolano al contemporaneo riconoscimento da parte di Israele. Nulla di più lontano, a giudicare dalla reazione di Tel Aviv all’annuncio di Spagna, Irlanda e Norvegia: il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha già richiamato in patria gli ambasciatori a Dublino e Oslo, minacciando di fare lo stesso con il corpo diplomatico israeliano a Madrid.“Israele non rimarrà in silenzio di fronte a coloro che minano la sua sovranità e mettono in pericolo la sua sicurezza”, ha dichiarato Katz in una nota, sostenendo che in questo modo i tre Paesi “hanno scelto di premiare Hamas e l’Iran” nonostante “il più grande massacro di ebrei dai tempi dell’Olocausto“. Per il ministro il riconoscimento unilaterale della Palestina “mina le possibilità di pace e mette in discussione il diritto di Israele alla pace”. Katz va oltre, minacciando “ulteriori gravi conseguenze” nei confronti dei tre Paesi. Che altro non hanno fatto che uniformarsi ai 139 Paesi membri dell’Onu che già hanno riconosciuto lo Stato di Palestina. Circa il 70 per cento di chi siede all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

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    I programmi elettorali dei partiti/ 6: Le promesse dell’allargamento Ue e il destino incrociato dei Trattati

    Bruxelles – Potrebbero essere le ultime elezioni europee a 27, quelle che precedono un nuovo allargamento Ue, dopo il trauma politico del primo addio – per opera del Regno Unito – nel corso della legislatura agli sgoccioli. E anche se non sarà il primissimo tema nelle agende politiche in vista del voto del 6-9 giugno per il rinnovo del Parlamento Europeo, il modo in cui l’allargamento dell’Unione a nuovi potenziali membri si è legato alla riforma interna del funzionamento delle istituzioni Ue ha senz’ombra di dubbio garantito uno spazio non indifferente nei programmi delle famiglie politiche europee (fatta eccezione per Identità e Democrazia che ha scelto di non adottarne uno comune per i partiti aderenti). Nessuno è più contrario a un incremento nel numero dei Paesi membri, perché ciascuna capitale e ciascun partito europeo hanno propri interessi e fini, ma possono differire sensibilmente le tappe e le modalità di gestione di un processo molto politico oltre che tecnico.Il Ppe e le “misure intermedie”“Ogni Paese candidato deve essere pronto per l’adesione, nel frattempo dovremmo adottare misure intermedie e una più stretta cooperazione per mettere i candidati nella migliore posizione per l’adesione”, è questo il cuore della posizione del Partito Popolare Europeo (Ppe) per quanto riguarda il “mantenere le promesse di adesione dell’Ue e una strategia di allargamento lungimirante” per i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), Ucraina, Moldova e Georgia. Come emerge dal Manifesto per le elezioni europee del 2024, il Ppe non fa sconti sul fatto che “tutti i Paesi candidati debbano sottostare alle stesse regole nel percorso verso la piena adesione” e, nonostante “non vogliamo un processo infinito”, i criteri di Copenaghen che sanciscono le basi fondanti per l’ingresso nell’Unione “devono essere chiaramente soddisfatti” per qualsiasi processo di allargamento Ue.La presidente della Commissione Europea in carica, Ursula von der Leyen, nominata Spitzenkandidatin del Partito Popolare Europeo al Congresso di Bucarest il 7 marzo 2024 (credits: Daniel Mihailescu / Afp)Non trovano spazio nel programma dei popolari europei la riforma dei Trattati e il suo legame con il futuro allargamento Ue, ma il riferimento al “rispetto delle relazioni di buon vicinato con tutti gli Stati membri dell’Ue” mostra tra le righe quanto il Ppe sia particolarmente sensibili ad alcune istanze dei partiti nazionali che aderiscono alla famiglia politica europea di centro-destra (come nel caso dei greci di Nuova Democrazia con l’Albania e con la Macedonia del Nord e dei bulgari di Gerb di nuovo con i vicini macedoni). “Qualsiasi decisione deve basarsi su risultati concreti forniti dai Paesi candidati”, dopo valutazioni di “prerequisiti minimi per ogni Stato che aspira ad entrare nell’Ue“, tra cui anche rispetto dello Stato di diritto, delle istituzioni democratiche e dei diritti umani. Per quanto riguarda il delicato capitolo sulla Turchia – i cui negoziati sono congelati dal 2018 – il Ppe per il momento “esclude la possibilità di un’adesione” di Ankara all’Unione, ma spinge per un “miglioramento dell’unione doganale esistente e la facilitazione dei visti” per “aprire la strada alla sua vocazione europea”.Il Pes tra allargamento “efficace” e architettura UeIl Manifesto del Partito del Socialismo Europeo (Pes) per le elezioni europee 2024 evidenzia come l’allargamento Ue sia stato nella storia recente dell’Europa “un successo, che ha portato democrazia, prosperità e sicurezza” sul continente. Per questo motivo viene visto “con favore” l’avvio dei negoziati di adesione con Ucraina, Moldova e Bosnia ed Erzegovina “e sosteniamo le aspirazioni europee della Georgia” (nonostante le recenti sfide poste dal suo stesso governo). Nessuno sconto invece per la Turchia, a differenza dei popolari europei: “In assenza di un drastico cambiamento di rotta, il processo di adesione non può essere ripreso nelle attuali circostanze”.Il commissario europeo per il Lavoro e i diritti sociali, Nicolas Schmit, nominato Spitzenkadidat del Partito del Socialismo Europeo al Congresso di Roma (2 marzo 2024)I socialisti europei parlano dell’attuazione di una politica di allargamento Ue “efficace”, con il punto di partenza nei Balcani Occidentali”, ma pur sempre “insistendo affinché tutti i Paesi candidati soddisfino tutti i criteri di adesione”. È qui però che si innesta la questione parallela all’allargamento Ue della “seria valutazione delle riforme dell’architettura dell’Ue” considerate “necessarie” per un’Europa “più efficiente e democratica, più trasparente e più vicina ai cittadini”. È con questo obiettivo che il Pes promette di “utilizzare la prossima legislatura per rafforzare la capacità dell’Ue di agire in un’Unione allargata, con modifiche mirate del Trattato“. In questo quadro – anche se la proposta rimane piuttosto vaga – l’idea è di dotare Parlamento e Commissione Ue di “strumenti per salvaguardare la nostra democrazia, rafforzare la nostra economia, proteggere il nostro ambiente e il nostro modello sociale”.Renew Europe per “riaprire i Trattati”È nelle 10 priorità di Renew Europe che si legge la più stretta interconnessione tra allargamento Ue e riforma dei Trattati fondanti dell’Unione. “Più siamo e più siamo forti, ma la governance di un intero continente non è una questione banale, è tempo di riaprire i Trattati“, è l’esortazione in vista delle europee di giugno, accompagnata da un avvertimento preciso: “Senza riforme profonde, l’allargamento rischia di trasformarsi in un fallimento per tutti“. A proposito dell’ingresso di nuovi membri, i liberali europei si concentrano soprattutto sull’Ucraina – che “deve aderire e aderirà” – e sul fatto che tutti coloro che soddisfano i criteri di Copenaghen “dovrebbero aderire all’area di libera circolazione di Schengen senza ulteriori ritardi”. Ma i Ventisette devono “essere in grado di accoglierla, come gli altri candidati” sulla base di un intenso lavoro interno.Da sinistra, i tre candidati comuni per la campagna Renew Europe Now lanciata a Bruxelles (20 marzo 2024): Sandro Gozi (Pde), Marie-Agnes Strack-Zimmermann (Alde) e Valérie Hayer (Renaissance)L’obiettivo dichiarato è che la riforma dei Trattati Ue “deve avvenire e deve avvenire ora”, attraverso una serie di proposte per una maggiore integrazione europea. In primis un aumento di “efficienza, trasparenza e responsabilità” delle istituzioni dell’Unione – “le riunioni in cui si riuniscono i ministri nazionali sono troppo opache” – ma anche la trasformazione della Commissione “in un vero e proprio governo democratico, con un solo presidente alla guida dell’esecutivo dell’Ue“, il rafforzamento del ruolo del Parlamento Europeo “affinché la voce dei cittadini risuoni ancora più forte di oggi”, e soprattutto “vogliamo eliminare i veti” che tengono in ostaggio le decisioni comuni a Bruxelles.I Verdi e il rispetto delle promesse“Il prossimo passo necessario, un’Europa unita pronta per l’allargamento”, è il titolo del capitolo del Manifesto del Partito Verde Europeo per le europee 2024 a proposito dell’Unione presente e futura, che non lascia spazio a dubbi sulla necessità di “riformare i suoi Trattati e procedere verso un’Europa federale in grado di agire e di accogliere nuovi membri“. Il punto di partenza è la Conferenza sul futuro dell’Europa del 2019, in cui i cittadini dei 27 Paesi membri “hanno lanciato un chiaro messaggio di sostegno a nuovi Trattati che conferiscano maggiori competenze all’Ue”, ma anche il desiderio di “molte persone nel vicinato europeo di diventare cittadini” di un progetto politico che è “una promessa di pace, giustizia, valori condivisi e prosperità”. Da qui dovrebbe scaturire “una nuova spinta” all’allargamento Ue, “attesa da tempo” e con implicazioni geopolitiche”, in primis sul fatto che continua a rendere “meno importanti le frontiere” ed è perciò “la migliore prospettiva per una pace e una sicurezza durature in Europa”.Da sinistra, i due candidati comuni del Partito Verde Europeo nominati al Congresso di Lione (3 febbraio 2024): Terry Reintke e Bas Eickhout (credits: Olivier Chassignole / Afp)Con questa visione di breve e lungo periodo “tutti i Paesi europei che aspirano a far parte o a rientrare nell’Ue” – un chiaro messaggio di apertura ai cittadini del Regno Unito – “e che condividono i nostri valori devono essere accolti”, ricevendo da Bruxelles “tutto il sostegno necessario per soddisfare i criteri”. Perché per i Verdi europei si tratta di “mantenere le promesse” fatte ai Paesi candidati (ma non viene citata la Turchia), con un accento particolare posto sul “sostegno agli sforzi del Kosovo per diventare un candidato all’adesione” e sul fatto che “ogni Paese candidato dovrebbe essere in grado di seguire il proprio percorso verso l’Ue indipendentemente dai progressi degli altri Paesi candidati” (a proposito di Albania e Macedonia del Nord, e di Kosovo e Serbia). Inoltre viene rimarcato che il “futuro dell’Ucraina è nell’Unione Europea” e i Verdi europei si impegnano a “sostenere le autorità ucraine nell’introduzione delle riforme necessarie”. Per fare tutto questo, le istituzioni Ue dovrebbero “collaborare più strettamente con la società civile”, ma soprattutto “superare l’unanimità in Consiglio che attualmente ostacola l’adesione“. Perché, in definitiva, “l’accoglienza di nuovi membri deve servire come spinta vitale per le riforme interne”, facendo sì che gli Stati membri possano prendere decisioni “in modo efficiente ed efficace”.Ecr contro l’allargamento Ue come aumento dell’integrazioneBreve ma incisivo il paragrafo sull’allargamento Ue nel Manifesto del Partito dei Conservatori e Riformisti Europei (Ecr) in vista delle elezioni europee di giugno: “È fondamentale che l’Ue non sfrutti questa opportunità per espandere i propri poteri”. Nonostante i conservatori europei si dicano disposti a “prendere in considerazione un ulteriore allargamento Ue a Paesi strategicamente importanti” (sulla base di merito e sul rispetto dei criteri di Copenaghen), mettono in chiaro che “rifiuteremo categoricamente qualsiasi approfondimento automatico dell’integrazione politica dell’Ue come risultato diretto” del processo di allargamento. Porta chiusa a una riforma dei Trattati Ue, senza eccezioni.La Sinistra e le salvaguardie democraticheLo Spitzenkadidat del Partito della Sinistra Europea nominato al Congresso di Lubiana (24 febbraio 2024), Walter BaierAnche il Manifesto del Partito della Sinistra Europea si concentra sulle priorità dell’allargamento Ue – senza citare alcuna riforma dei Trattati o maggiore integrazione europea – mettendo però al centro i “criteri chiari che non devono essere indeboliti” in questa sfera: “Gli Stati possono diventare membri dell’Ue solo se rispettano i diritti umani, lo Stato di diritto e i diritti sociali e politici delle loro popolazioni, comprese le minoranze”. In questo senso la politica di allargamento Ue “non deve essere uno strumento per approfondire le fratture all’interno dell’Europa e aumentare le tensioni militari”, né tantomeno dovrebbe “assegnare ai Paesi aderenti il ruolo di fornitori di materie prime, prodotti agricoli e manodopera a basso costo, come sta già facendo”. L’esortazione della Sinistra è quella di “concentrarsi sulla salvaguardia della democrazia e dello Stato di diritto” e parallelamente sul “rafforzamento della coesione sociale nei Paesi candidati e negli Stati membri”.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews