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    Lange (Spd/S&D): “Chiudere l’accordo commerciale con il Messico”

    Bruxelles – Commercio, commercio, commercio. A partire dal Messico. La priorità dell’Ue è tutta qui, in una necessità tutta nuova dettata da un quadro geopolitico che impone ripensamenti obbligati. Uno di questi riguarda proprio la partita geo-strategica. Su questo Bernd Lange (Spd/S&D), presidente della commissione Commercio internazionale del Parlamento europeo, non ha dubbi. “Dovremmo guardare all’accordo commerciale con il Messico”, sottolinea. Nel Paese “c’è un nuovo presidente (Claudia Sheinbaum Pardo, dall’1 ottobre 2024, ndr)”, e si aggiunge “l’attitudine di Donald Trump nei confronti del Messico” non c’è dubbio che bisogna spingere per chiudere un accordo.“In questa situazione globale è importante avere una rete commerciale di partner affidabili”, continua Lange nel corso di un incontro ristretto con i giornalisti, tra cui Eunews. Il ritorno di Trump alla testa degli Stati Uniti stravolgerà senza dubbio l’agenda a dodici stelle. “Ci attendiamo che qualche dazio arrivi presto”, visto che “Trump usa dazi anche come strumento di pressione”. E poi l’accordo con i Paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay più il Venezuela sospeso) non sembra promettere nulla di buono.“Il testo è vecchio, è fermo al 2019“, sottolinea Lange. L’accordo Ue-Mercosur non è aggiornato, insomma. “E’ stato aggiunto un protocollo e dobbiamo vedere se i protocollo aggiuntivi sono sufficienti” a convincere Parlamento europeo, Consiglio Ue e poi i parlamenti nazionali per l’eventuale ratifica. Inoltre il negoziato sembra essersi riaperto. “Non si parla di questioni ambientali, ma di riforma dell’agricoltura”, sulla spinta di Parigi. “La Francia è un problema”, ammette il presidente della commissione parlamentare. Questioni di politica interna inducono il governo francese a frenare. “Il Mercosur aiuta Le Pen?”, commenta a voce alta. E’ questo uno degli ostacoli. E poi, aggiunge ancora Lange, anche ammettendo che la Commissione Ue chiuda l’accordo, “non ho idea se possa esserci una maggioranza e quale” in Parlamento.

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    Sull’Ucraina l’Ue rimane divisa, nonostante lo spettro di Trump

    Bruxelles – Dopo uno dei peggiori attacchi missilistici russi sull’Ucraina dall’inizio della guerra, a Bruxelles si sono riuniti stamattina (18 novembre) i ministri degli Esteri dei Ventisette per discutere, tra le altre cose, di come assicurare il sostegno europeo al Paese aggredito. Soprattutto alla luce della recente rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca: mentre l’Ue fatica a mantenere le sue stesse promesse sugli aiuti militari a Kiev, nelle stanze dei bottoni aleggia lo spettro di un eventuale stop alle forniture statunitensi e la possibilità che il nuovo presidente possa forzare l’omologo ucraino Volodymyr Zelensky ad accettare una pace che avvantaggi Mosca. Ma gli Stati membri continuano a rimanere divisi su come sostenere l’ex repubblica sovietica.Via libera agli Atacms in RussiaLa settimana si è aperta con l’annuncio del presidente uscente degli Stati Uniti, Joe Biden, che Washington autorizza l’esercito di Kiev a usare gli Atacms (dei missili a lunga gittata, capaci di raggiungere bersagli a 300 chilometri di distanza) per attaccare il nemico sul suo territorio. Il via libera non è un assegno in bianco, ha fatto sapere la Casa Bianca, ma andrà valutato di caso in caso ogni volta che l’Ucraina avrà bisogno di colpire obiettivi militari oltre i propri confini.La speranza di Biden è quella di dissuadere la Corea del Nord dall’inviare ulteriori truppe nella Federazione, proprio quando 10mila soldati di Pyongyang stanno prendendo parte alla controffensiva russa nell’oblast’ di Kursk (in cui gli ucraini sono penetrati lo scorso agosto). La decisione, presa ieri, rappresenta un cambiamento importante nell’approccio di Washington, ad appena due mesi dall’inaugurazione ufficiale della seconda presidenza Trump.La mossa della Casa Bianca è stata accolta positivamente dall’Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, che ha presieduto il suo probabilmente ultimo Consiglio Affari esteri a Bruxelles: “Secondo me gli ucraini dovrebbe poter usare le armi non solo per respingere gli attacchi ma anche per colpire da dove partono questi attacchi”, ha dichiarato, ribadendo la sua posizione sul tema. Ma la questione, come ha ricordato lo stesso capo della diplomazia Ue, è di competenza nazionale e saranno le cancellerie a decidere.L’Alto rappresentante dell’Unione per la politica estera e di sicurezza comune, Josep Borrell (foto: European Union)“Lavorare alla pace”Decisamente meno entusiasta il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani: “Noi continueremo a seguire la linea che abbiamo sempre seguito”, ha dichiarato ai giornalisti, cioè “quella dell’utilizzo delle nostre armi all’interno del territorio ucraino”. Il vicepremier forzista ha ricordato che “tutti quanti dobbiamo lavorare per la pace” (una pace giusta che “non significa la sconfitta dell’Ucraina”), ma sicuramente “bisogna sempre lasciare uno spazio aperto alla diplomazia”.Tuttavia, a detta del ministro azzurro, la telefonata tra il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente russo Vladimir Putin dello scorso venerdì – in cui ha chiesto al suo interlocutore di ritirare le truppe dall’Ucraina e di sedersi al tavolo per negoziare una “pace giusta”, per farsi rispondere che qualunque trattativa dovrà tenere conto delle “nuove realtà territoriali” (cioè dell’occupazione di circa un quinto del territorio ucraino) – non ha “ottenuto grandi effetti”. Secondo Tajani, serve “una scelta unitaria e coesa da parte di tutti gli interlocutori” che deve portare ad “una conferenza di pace” sul modello di quella tenuta in Svizzera, ma ha anche sottolineato che “non si può pensare di arrivare ad una trattativa senza la Russia“.Il titolare della Farnesina incontrerà martedì (19 novembre) a Varsavia i suoi omologhi di Francia, Germania, Regno Unito e Polonia (e la futura Alta rappresentante Kaja Kallas) nel cosiddetto formato “Weimar plus”, un forum per discutere della posizione europea rispetto alla guerra in Ucraina. Il ministro degli Esteri polacco, Radoslaw Sikorski, ha definito quelli di domani come “i più importanti colloqui” sul conflitto.Il ministro degli Esteri e vicepremier italiano Antonio Tajani (foto: Samuel Corum/Afp)Divisioni intestineMa nemmeno nel resto dei Ventisette le posizioni sono unanimi. Parigi è possibilista sull’uso delle armi occidentali in territorio russo: “Abbiamo detto apertamente che questa era un’opzione che avremmo preso in considerazione”, ha dichiarato il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot. La Francia e il Regno Unito hanno già fornito missili a lungo raggio a Kiev ma hanno sempre sostenuto che non ne avrebbero autorizzato l’uso oltre i confini ucraini finché Washington non avesse fatto lo stesso. Ora, la mossa di Biden potrebbe sparigliare le carte in tavola.Niente da fare, invece, per il governo tedesco, che continua a rifiutare di inviare a Kiev i missili Taurus a lungo raggio: “Il governo tedesco era informato della decisione di Washington di consentire all’Ucraina di utilizzare missili ad ampio raggio contro la Russia”, ha dichiarato Wolfgang Buechner, portavoce del cancelliere, ma “questo non modifica la posizione” dell’esecutivo. Invece, Berlino ha annunciato la fornitura di una grossa partita di droni kamikaze (circa 4mila unità), la cui consegna dovrebbe iniziare a dicembre.Per il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis, la strategia seguita dall’Ue in questi mille giorni di guerra “è fallita”: “Una pace attraverso la de-escalation è una strategia fallimentare”, ha dichiarato ai cronisti, e a questo punto “abbiamo bisogno di una strategia che venga dalla forza”, come chiesto da tempo sia da Kiev sia dagli Stati baltici. Si tratta in altre parole “di una vera rimozione di tutte le restrizioni e di una strategia effettivamente vincente”, ha incalzato Landsbergis, per garantire “un supporto effettivo all’Ucraina che aiuterebbe l’Ucraina a vincere”.Un lanciarazzi multiplo utilizza dei missili a lunga gittata Atacms (foto: Wikimedia Commons)Del medesimo tenore anche l’omologo estone Margus Tsahkna, secondo cui Putin “non ha intenzione di cambiare rotta” e, dunque, “nessuna telefonata rafforza la nostra posizione” a fianco dell’Ucraina e contro l’aggressione russa. “Domani saranno mille giorni dall’inizio dell’invasione”, ha continuato, ma “in realtà sono quattromila dal 2014”, quando Mosca ha occupato illegalmente la Crimea e ha stazionato le sue truppe in Donbass. “È buona cosa, se vera, che gli Stati Uniti hanno tolto le restrizioni” sull’uso degli Atacms, qualcosa che Tallinn chiedeva “fin dall’inizio” dell’invasione nel febbraio 2022.Droni cinesi e asset russiAl Consiglio Affari esteri di oggi ci sono state discussioni anche su altri punti relativi all’Ucraina. C’è la questione dei droni cinesi: secondo fonti di intelligence che a Bruxelles si ritengono “convincenti”, nel territorio della Repubblica popolare verrebbero assemblati dei droni di nuova generazione che sarebbero poi trasferiti in Russia per essere usati in Ucraina.Se questo fosse confermato, ha avvertito Tajani, “sarebbe un grande errore”, poiché costituirebbe l’ennesimo salto di qualità del conflitto: “Nessuna escalation è un messaggio anche per la Cina”. Al momento le indagini sono ancora in corso, hanno riferito la scorsa settimana funzionari europei, ma in caso di conferma ci saranno non meglio specificate “conseguenze concrete” per Pechino (l’extrema ratio sarebbe rappresentata dalle sanzioni, come quelle che Bruxelles ha già comminato ai danni di Iran e Corea del Nord per il rifornimento di armi alla Federazione).Il presidente russo Vladimir Putin (foto: Vyacheslav Prokofyeva via Sputnik)Inoltre, c’è la questione degli aiuti finanziari a Kiev. Nello Strumento europeo per la pace (Epf) ci sono 6,6 miliardi di euro bloccati dall’Ungheria, ma a Bruxelles si sta escogitando un modo per bypassare il veto di Budapest e far arrivare nelle casse ucraine i fondi comunitari, magari ricorrendo ad un meccanismo di contributi volontari. Dopo la prima tranche da 1,4 miliardi dello scorso agosto, l’Ue vorrebbe staccare il secondo assegno da 1,9 miliardi già il prossimo marzo, ma sta ancora mettendo a punto i dettagli concreti dell’esborso. Si tratta di risorse derivanti dagli interessi straordinari (i famosi extraprofitti) generati dagli asset russi congelati in Europa.Altri obiettivi dell’Unione sono poi quello di consegnare a Kiev un milione di proiettili d’artiglieria (un target che dovrebbe essere raggiunto entro fine anno, otto mesi in ritardo rispetto alla scadenza originariamente fissata per marzo) e quello di addestrare 75mila soldati ucraini (per ora ne sono stati addestrati circa 63mila) entro la fine dell’inverno nell’ambito della missione Eumam Ukraine, recentemente estesa fino al novembre 2026.

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    La proposta politica della Finlandia: Alleanza Ue-Stati Uniti in senso anti-Cina

    Bruxelles – Meno Cina nell’agenda dell’Unione europea, e più Stati Uniti. La Finlandia prova a riorganizzare la politica dell’Unione europea, suggerendo ai partner di entrambe le sponde dell’Atlantico il modo di andare avanti. Suggerisce un’alleanza commerciale tutta euro-americana e dazi contro Pechino, il tutto in considerazione delle alleanze sullo scacchiere internazionale, prime fra tutte quelle militari. Elina Valtonen, ministra degli Esteri finlandese, tiene a ricordare come il conflitto russo-ucraino si sia allargato, con la partecipazione di Corea del Nord, Iran e “anche Cina” al fianco di Mosca.“Se la Cina sta ostacolando in modo così importante la sicurezza e l’architettura della sicurezza dell’Europa non possiamo continuare con le relazioni normali”, scandisce la ministra al suo arrivo a Bruxelles per i lavori del consiglio Affari esteri: “Non possiamo andare avanti con il ‘business as usual’ con la Cina per quanto riguarda il nostro commercio”.Da qui l’invito di Valtonen, che “vale anche per l’Europa” e non solo per gli Stati Uniti, di tessere nuove relazioni trans-atlantiche. Per ragioni storiche e contingenti “la relazione tra Ue e Usa è più importante che mai, e in tal senso siccome siamo alleati così uniti e condividiamo gli stessi valori non possiamo imporci dazi l’uno contro l’altro“.La sottolineatura di Valtonen conferma una volta di più i timori dell’Ue per una guerra commerciale che il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca potrebbe innescare, vista la natura molto più decisa del presidente eletto a tutelare e difendere interesse ed economia degli Stati Uniti. Allo stesso tempo le considerazioni della ministra finlandese offrono un esempio di realpolitik: visto che a Washington si vede nella Repubblica popolare il principale concorrente economico un’alleanza in senso anti-cinese potrebbe aiutare entrambe le parti. Del resto l’imposizione a titolo definitivo di dazi Ue sulle auto elettriche cinesi ha già aperto un fronte di guerra commerciale a cui aggiungerne un altro per l’Europa diventerebbe complicato.

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    Alla Cop29 il focus è su chi paga per il cambiamento climatico. Da von der Leyen a Lula, i leader disertano

    Bruxelles – Comincia oggi (11 novembre) la 29esima Conferenza delle parti (Cop), il forum delle Nazioni unite dove si discute di come combattere il cambiamento climatico. I leader mondiali si riuniscono quest’anno a Baku, in Azerbaigian, ma l’edizione 2024 non si annuncia come risolutiva. Da un lato, non ci si aspettano grandi progressi nei negoziati tra i partecipanti, soprattutto quando si parlerà di chi dovrà pagare la transizione energetica. Dall’altro, nella capitale caucasica si registrano una serie di assenze di peso, dall’Ue al Brasile. Infine, aleggerà sui dibattiti il fantasma della prossima presidenza Trump, che ritirerà (di nuovo) gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi, complicando ulteriormente il già difficile cammino globale verso la neutralità carbonica.Il nodo dei finanziamentiLa Cop29, iniziata ufficialmente oggi a Baku, durerà fino al 22 novembre, ma gli osservatori non si aspettano che dalla sessione di negoziati escano risultati particolarmente ambiziosi. L’argomento principale sul tavolo dovrebbe essere quello dei finanziamenti, vale a dire di chi metterà i soldi (e quanti) per tradurre in pratica le decisioni prese l’anno scorso alla Cop28 di Dubai, che in molti avevano definito “storica”. Tra gli accordi raggiunti a nel dicembre 2023 nella capitale emiratina c’era quello sull’introduzione di un fondo internazionale di compensazione per le perdite e i danni provocati dal cambiamento climatico, nonché per sostenere gli sforzi di adattamento e mitigazione.In teoria, dovrebbero essere i Paesi più ricchi e sviluppati a sostenere almeno in parte i costi della transizione ecologica nei Paesi in via di sviluppo e sottosviluppati, nonché a rimediare ai danni che l’inquinamento storico delle economie più avanzate ha causato nel sud del mondo. Uno dei punti più controversi riguarderà l’eventuale partecipazione di Pechino a questo fondo monstre – che era stato istituito con l’obiettivo di fornire 100 miliardi di dollari all’anno ai Paesi in via di sviluppo, una cifra che i diretti interessati vorrebbero aumentare fino a 1000 miliardi. La Cina, pur essendo la seconda economia mondiale, viene ancora considerata un Paese in via di sviluppo, il che le permetterebbe di usufruire dei generosi finanziamenti climatici senza dovervi contribuire – un vantaggio che le cancellerie occidentali reputano indebito.Nel suo discorso alla cerimonia di apertura Simon Stiell, capo della Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc), ha tenuto a precisare che “il finanziamento degli aiuti climatici da parte dei paesi ricchi non è un beneficenza ed è nell’interesse di tutti”, poiché “nessuna economia, neanche quelle del G20, potrà sopravvivere a un riscaldamento globale fuori controllo”. Sulla falsariga di Stiell anche l’intervento di António Guterres, segretario generale dell’Onu: “Coloro che cercano disperatamente di ritardare e negare l’inevitabile fine dell’era dei combustibili fossili cercano di trasformare l’energia pulita in una parolaccia. Perderanno. L’economia è contro di loro. Le soluzioni non sono mai state più economiche e accessibili”.Il segretario generale dell’Onu António Guterres (foto: Joaquin Sarmiento/Afp)A supportare queste considerazioni c’è uno studio dello scorso settembre intitolato Why investing in climate action makes good economic sense (“Perché investire nell’azione climatica ha senso economicamente”) e condotto dal Boston consulting group insieme alla Cambridge judge business school e al Cambridge climate traces lab. Il dato evidenziato dalla rilevazione è che, se gli Stati non intervengono con azioni coordinate per contrastare il cambiamento climatico, le perdite economiche potrebbero ammontare al 10-15 per cento del Pil globale entro il 2100. Tali impatti potrebbero essere scongiurati con un investimento di meno del 2 per cento del Pil mondiale, che dovrebbe permettere di mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2ºC.L’ombra di TrumpA pendere sopra i negoziati sul clima come un’enorme spada di Damocle c’è l’indiscrezione dei media statunitensi che il giorno stesso del proprio insediamento Donald Trump ritirerà gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi del 2015, uno degli architravi della lotta al cambiamento climatico targata Onu, come aveva già fatto nel 2019 (prima che il suo successore Joe Biden riportasse dentro Washington nel 2021). Gli Usa sono il maggior produttore globale di petrolio e gas, e uno dei principali responsabili delle emissioni di CO2 a livello planetario (con quasi 15 tonnellate pro-capite nel 2022, contro le 8 della Cina).Il neo-rieletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump (foto: Mandel Ngan/Afp)Alla Cop21 ospitata nella capitale transalpina i leader mondiali erano riusciti a concordare degli obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti per contenere il riscaldamento globale entro dei limiti che avrebbero dovuto impedire conseguenze catastrofiche per il pianeta: un amento di non oltre 2ºC rispetto all’era preindustriale (1850-1900), e possibilmente inferiore agli 1,5ºC. Ma quei target potrebbero ormai essere irraggiungibili. Stamattina, l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha dichiarato che quegli obiettivi “sono in grave pericolo” dopo aver annunciato che il 2024 è “sulla strada” per diventare l’anno più caldo mai registrato, con temperature medie di 1,54ºC superiori ai livelli preindustriali nel periodo tra gennaio e settembre.Ora che la partecipazione degli Usa è rimessa in discussione, secondo un alto funzionario Ue ci sarà “incertezza” nella cooperazione internazionale in ambito di contrasto al cambiamento climatico. John Podesta, l’inviato dell’amministrazione del presidente uscente Joe Biden, ha provato a gettare acqua sul fuoco: “Anche se il governo federale degli Stati Uniti sotto Donald Trump sospenderà l’azione sul clima, il lavoro per contenere il cambiamento climatico continuerà negli Stati Uniti con impegno, passione e fede”. Ma già dall’inizio del 2025 (l’inaugurazione del 47esimo presidente è in calendario per il 20 gennaio) questo impegno verrà meno.Assenze e contraddizioniA pesare sulla Cop29 ci sono poi una serie di assenze di peso tra i leader mondiali, cui è dedicata una sessione specifica tra martedì 12 e mercoledì 13. Mancheranno all’appello, tra gli altri, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz (alle prese con una crisi di governo che rischia di precipitare Berlino nel caos proprio nel momento in cui va approvato il bilancio per il 2025), la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (impegnata con la transizione istituzionale verso il suo secondo mandato, proprio mentre gli eurodeputati interrogheranno i suoi vicepresidenti esecutivi nell’ultimo giorno delle audizioni parlamentari dei commissari designati), il presidente russo Vladimir Putin e quello brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. A rappresentare l’Ue ci sarà, martedì 12 novembre, il commissario uscente al Clima Wopke Hoekstra, mentre oggi c’è il presidente del Consiglio europeo Charles Michel.Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel (sinistra) incontra il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ai margini della Cop29 a Baku (foto: European Union)Infine, la conferenza di Baku si terrà all’insegna di una lampante contraddizione: come già l’edizione dell’anno scorso negli Emirati Arabi Uniti, la Cop29 è ospitata da un grande produttore di petrolio e gas naturale (da cui Bruxelles sta acquistando ingenti quantità di metano per sostituire la propria dipendenza energetica da Mosca), che non brilla certo per gli impegni presi nella tutela dell’ambiente.E nemmeno, se è per quello, per il rispetto dei diritti fondamentali o della democrazia, a partire dalla libera espressione del dissenso: nei giorni e settimane precedenti alla riunione dell’Onu, nel Paese caucasico sono stati arrestati svariati attivisti ambientalisti. La co-capogruppo dei Verdi all’Europarlamento, Terry Reintke, ha scritto su X che i lavori della Conferenza sono ospitati “da un regime corrotto, che vive di petrodollari” e che “mette dietro le sbarre i critici”. Il tutto dopo che Baku ha ripreso il controllo, nell’autunno 2023, dell’enclave armena del Nagorno-Karabakh con un’operazione militare che ha provocato una grave crisi umanitaria condannata da Bruxelles.

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    Kiev e l’Ue tentano di capire cosa succederà all’Ucraina con la rielezione di Trump

    Bruxelles – Ora che Donald Trump è stato rieletto alla Casa Bianca, l’Europa cerca di prevedere quali saranno le sue mosse su uno dei fronti internazionali più caldi, quello della guerra in Ucraina. Mentre a Bruxelles si teme che il sostegno militare e finanziario a stelle e strisce possa diminuire drasticamente o addirittura interrompersi, a preoccupare Kiev c’è soprattutto la promessa del presidente (ri)eletto di mettere fine al conflitto “in 24 ore”. Il capo dello Stato ucraino, Volodymyr Zelensky, sta lanciando messaggi decisamente eloquenti al suo omologo statunitense, per impedire che imponga all’ex repubblica sovietica un processo di pace accelerato che rischia di tramutarsi in una “sconfitta”.Zelensky a BudapestDopo essersi congratulato con Trump per la sua vittoria nelle urne, il presidente ucraino è tornato sulla questione del sostegno di Washington agli sforzi bellici di Kiev ieri (7 novembre) in occasione del quinto incontro della Comunità politica europea, ospitato a Budapest dal premier ungherese Viktor Orbán. Lì, parlando ai giornalisti, ha ammesso che “il presidente Trump vuole davvero una decisione rapida” su come giungere alla fine delle ostilità con la Russia, ma ha aggiunto che “ciò non significa che andrà in questo modo”. Perché, ha insistito, “tutti vogliamo che questa guerra finisca, ma con una fine giusta”: se il processo di pace “è troppo veloce, sarà una sconfitta per l’Ucraina”, ha detto chiaro e tondo.Anche il padrone di casa è apparso fiducioso sulle prospettive per una risoluzione diplomatica del conflitto aperte dal ritorno di Trump alla Casa Bianca. “Quelli che vogliono la pace sono sempre più numerosi”, ha dichiarato Orbán, rinnovando il suo appello per un cessate il fuoco immediato. “La precondizione per la pace è la comunicazione”, ha spiegato il leader magiaro, e “la condizione per la comunicazione è un cessate il fuoco”, il quale “può fornire margine e tempo alle parti in conflitto” per “cominciare a negoziare la pace”.Il primo ministro ungherese, Viktor Orbán (foto: European Council)Appello immediatamente bollato come “pericoloso” e “irresponsabile” da Zelensky, secondo cui una tregua in questo momento – cioè con circa un quinto del territorio ucraino in mano alle forze di Mosca, che stanno peraltro avanzando anche sul fronte del Donbass – equivarrebbe a “distruggere la nostra indipendenza e la nostra sovranità”. “Abbiamo già provato” a raggiungere un cessate il fuoco nel 2014, ha ricordato il presidente ucraino, “e abbiamo perso la Crimea, e poi abbiamo avuto l’invasione su larga scala nel 2022”. Come a dire: non è possibile fidarsi di Vladimir Putin, perché non è realmente interessato alla pace.Qual è l’idea di pace secondo Trump?Cercare di capire l’idea di “pace” che avrebbe in mente Trump è dunque, comprensibilmente, la questione centrale che arrovella l’intera leadership ucraina. Per ora, il presidente eletto non ha fatto trapelare pubblicamente alcun dettaglio su come intende risolvere la crisi che da dieci anni tormenta l’ex repubblica sovietica, ma alcune indiscrezioni giornalistiche parlano di diverse opzioni sul tavolo del leader repubblicano.E tutte, allontanandosi dall’approccio seguito dall’amministrazione Biden (cioè quello di lasciar decidere a Kiev quando avviare le trattative), prevedono che l’Ucraina rinunci ad una parte del suo territorio riconosciuto internazionalmente, cioè quello disegnato dai confini del 1991. In alcune versioni si tratterebbe delle regioni occupate militarmente da Mosca, in altre di una sorta di zona cuscinetto demilitarizzata (sul modello delle due Coree) i cui contorni andrebbero negoziati a tavolino e che andrebbe pattugliata da truppe internazionali. Le quali, beninteso, dovranno essere europee e non statunitensi: “Non manderemo uomini e donne americani a difendere la pace in Ucraina”, ha dichiarato un membro dell’entourage di Trump, suggerendo di farlo fare “ai polacchi, ai tedeschi, agli inglesi e ai francesi”.Un altro elemento ricorrente sarebbe l’imposizione di una qualche forma di neutralità a Kiev, quella che veniva ironicamente chiamata “finlandizzazione” dell’ex repubblica sovietica prima che Helsinki decidesse di entrare nella Nato poco dopo l’avvio dell’invasione russa. Sempre secondo questi ipotetici piani, l’ingresso nell’Alleanza nordatlantica verrebbe congelato almeno temporaneamente per l’Ucraina, che in cambio continuerebbe a ricevere sistemi d’arma occidentali come deterrente contro un’eventuale nuova aggressione.L’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, celebra la rielezione il 6 novembre 2024 (foto: Jim Watson/Afp)Un’ulteriore opzione, ancora più radicale, proposta da alcuni collaboratori della prima amministrazione Trump per costringere Kiev a sedersi al tavolo delle trattative sarebbe invece quella di interrompere le forniture di armi alla resistenza ucraina. Si tratta dell’ipotesi peggiore per Zelensky e i suoi: non solo entrerebbero nei negoziati da una posizione di estrema debolezza, ma non riuscirebbero nemmeno a contenere ulteriori attacchi russi se Putin decidesse che, prima di trattare, vuole annettere alla Federazione qualche altro pezzo dell’ex repubblica sovietica. Si tratterebbe, in altre parole, di lasciare carta bianca al Cremlino.Visione strategicaPer Kiev, l’imperativo è far capire a Trump che sostenere l’Ucraina è nello stesso interesse di Washington. Da un lato, perché qualunque soluzione temporanea al conflitto che sia troppo vantaggiosa per la Russia rischia di trasmettere a Mosca il messaggio che, alla fine, l’ha avuta vinta e che quindi può ritentarci quando vuole. Che poi è quello che è successo quando, dieci anni fa, non ci sono state grosse conseguenze per l’annessione unilaterale della Crimea e lo stazionamento di truppe in Donbass, due violazioni della sovranità ucraina che hanno posto le basi per la guerra su larga scala del 2022.Dall’altro perché, se parti dell’Ucraina cadranno definitivamente in mano alla Russia, l’Europa e gli Stati Uniti perderanno l’accesso alle risorse naturali del Paese aggredito, nonché agli asset militari che Kiev ha sviluppato in due anni e mezzo di guerra e che potrebbero essere utilizzati per la sicurezza del Vecchio continente in sinergia con le forze Nato.È questo, in fin dei conti, il senso del “piano per la vittoria” che Zelensky ha presentato ai leader dei Ventisette il mese scorso: al netto della richiesta di far entrare l’Ucraina nell’Alleanza, il presidente ha messo nero su bianco quello che il suo Paese può offrire in cambio dell’aiuto internazionale. Per far passare il messaggio che l’investimento occidentale è strategico, a lungo termine, e che cedere a Putin ora significherebbe compromettere la sicurezza dell’Europa intera.Nel frattempo, l’Ue cerca di correre ai ripari come può. Proprio oggi (8 novembre) il Consiglio ha esteso di altri due anni – fino al novembre 2026 – il mandato della sua missione di assistenza militare all’Ucraina (Eumam Ukraine), dotandola di un budget da circa 409 milioni di euro. Un messaggio simbolico di sostegno a Kiev, ma poco più che noccioline se si considera l’entità delle spese che deve sostenere la resistenza. Allo stato attuale, difficilmente i Ventisette sarebbero in grado di mantenere a galla l’Ucraina da soli nel caso in cui dovessero realmente venire meno gli aiuti dall’altro lato dell’Atlantico.

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    L’Ue sul filo del rasoio

    Di Ian LesserL’Europa non è stata colta di sorpresa. I circoli politici all’interno e all’esterno dell’Ue si stanno preparando da tempo per una potenziale vittoria di Donald Trump.La preoccupazione attuale, tuttavia, è diversa da quella del 2016, quando l’attenzione era rivolta alla gestione di Trump come personalità politica. La questione persiste, ma ora ci sono altre questioni più preoccupanti.In primo luogo, è probabile che le differenze commerciali e regolamentari esistenti nell’Atlantico impallidiscano di fronte alle sfide poste dalle tariffe proposte da Trump. C’è la prospettiva di una guerra commerciale aperta degli Stati Uniti con la Cina, con implicazioni negative per l’Europa. Con ogni probabilità, questo protezionismo si estenderà all’UE. Il ritorno di Trump alimenterà il nazionalismo economico, già in crescita su entrambe le sponde dell’Atlantico. L’Europa, già alle prese con una crescita lenta e una competitività in calo, non ha carte forti in questo gioco.In secondo luogo, Trump farà sicuramente molta più pressione sull’Europa per quanto riguarda la condivisione degli oneri della difesa. È improbabile che si concretizzino gli scenari più estremi di un ritiro americano dalla Nato o di un completo disimpegno dalla sicurezza europea. Ma la prospettiva di un più rapido allontanamento degli Stati Uniti dall’Europa in termini di sicurezza è scoraggiante anche per coloro che vedono con favore una maggiore autonomia strategica europea. Questo obiettivo, tuttavia, rimane in gran parte aspirazionale. La capacità dell’Europa di compensare i cambiamenti nella posizione e nella credibilità della difesa americana è lontana, nella migliore delle ipotesi, molti anni. Su una serie di questioni di politica internazionale vicine agli interessi europei, dall’Iran alla sicurezza energetica, Bruxelles e Washington non saranno sulla stessa pagina.In terzo luogo, il contrasto con gli anni di Biden sarà probabilmente più pronunciato nell’atteggiamento di Washington verso l’Ue stessa. L’amministrazione uscente vedeva il blocco come un interlocutore chiave su una serie di questioni di politica internazionale, non solo sul commercio. C’è stata una relazione particolarmente stretta tra la Casa Bianca e la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il suo gabinetto. Si tratta di un fatto insolito. Le precedenti amministrazioni statunitensi, indipendentemente dal partito, erano generalmente meno entusiaste, preferendo un impegno bilaterale con i principali alleati europei. Una seconda amministrazione Trump probabilmente inquadrerà le relazioni con l’Europa in termini bilaterali, con i singoli Stati e i singoli leader, alcuni dei quali saranno abbastanza a loro agio con l’esito delle elezioni statunitensi. Bruxelles potrebbe essere emarginata.Questo commento è stato originariamente pubblicato sul sito del German Marshall Fund of the United States.

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    Trump torna alla Casa Bianca, e l’Unione europea si preoccupa

    Bruxelles – Dopo aver tenuto il mondo col fiato sospeso per mesi, alla fine le presidenziali statunitensi si sono concluse con la rielezione di Donald Trump. Lo scrutinio dei voti non è ancora completato, ma dai risultati parziali disponibili mercoledì mattina (6 novembre) è già certo che sarà il tycoon newyorkese a varcare, per la seconda volta, la soglia dell’ufficio ovale della Casa Bianca, da cui rimarrà invece esclusa la vicepresidente in carica, la candidata democratica Kamala Harris. È l’esito che temevano (quasi) tutti sull’altra sponda dell’Atlantico, poiché rischia di mettere nuovamente a dura prova le relazioni tra Washington e Bruxelles, nonostante i leader europei si stiano già congratulando con il presidente neo-rieletto.I risultati parzialiMancano ancora i risultati definitivi di cinque Stati – Alaska, Arizona, Maine, Michigan e Nevada – ma il quadro finale è già abbondantemente chiaro. Con 277 delegati già assicurati contro i 224 cui è rimasta inchiodata la sfidante democratica, il capo-padrone del Partito repubblicano (il Grand old party, come lo chiamano negli Usa) può dirsi già certo della rielezione, per la quale gliene bastavano 270. (Qui avevamo spiegato come funziona il complesso meccanismo del voto indiretto negli Usa.)Il voto popolare riflette del resto il vantaggio di Donald Trump su Kamala Harris: oltre 71 milioni per il primo, poco più di 66 milioni per la seconda. Così, dopo essere stato il 45esimo, Trump sarà il 47esimo presidente degli Stati Uniti, anche se la sua nomina formale da parte dei delegati all’Electoral college non avverrà prima di dicembre. L’insediamento è in calendario per il 20 gennaio 2025, qualche giorno dopo l’anniversario dell’assalto a Capitol Hill, da lui stesso fomentato il 6 gennaio 2021.Com’è andata l’elezionePer la seconda volta nella storia degli Usa, un ex presidente ha ottenuto un secondo mandato non consecutivo al primo (il precedente è di Grover Cleveland, presidente dal 1885 al 1889 e poi dal 1893 al 1897). Per la seconda volta, la candidata donna è stata sconfitta, ed entrambe le volte a vincere è stato proprio Trump (con Harris ora, con Hillary Clinton otto anni fa).Ma un dato importante da osservare è quello relativo ai consensi. Il candidato del Gop ha fatto meglio rispetto alla volta scorsa virtualmente ovunque: in ogni Stato, in ogni gruppo etnico, in ogni segmento d’età della popolazione (con aumenti anche di 12 punti percentuali, come in alcune contee in Florida). Dei sette swing states che secondo i pronostici avrebbero deciso l’esito della corsa presidenziale, l’ex inquilino della Casa Bianca ha sicuramente conquistato la Georgia, il North Carolina, la Pennsylvania (il più succulento in termini di voti, coi suoi 19 grandi elettori) e il Wisconsin, ed è in vantaggio anche in quelli dove il conteggio non è ancora terminato.Scoramento tra i sostenitori della candidata democratica Kamala Harris all’evento elettorale della Howard University a Washington, il 5 novembre 2024 (foto: Charly Triballeau/Afp)Soprattutto, Trump è riuscito a “ribaltare” tre Stati che erano blu (cioè erano andati ai dem) nell’ultima tornata elettorale del 2020, vinta dal presidente uscente Joe Biden, e facendoli diventare rossi (cioè a maggioranza repubblicana): Georgia, Pennsylvania e Wisconsin, cui si sta per aggiungere il Michigan. Insomma, nel cosiddetto blue wall – letteralmente “muro blu”, costituito da una dozzina di Stati che avevano rappresentato altrettante roccaforti democratiche dai primi anni Novanta (pur con qualche oscillazione nelle ultime tre elezioni) – si sono aperti dei buchi importanti, spalancando al tycoon le porte della Casa Bianca. Viceversa, Harris è andata male anche in quei distretti dove ci si aspettava una vittoria dei democratici.Non solo. Oltre alla presidenza, gli elettori votavano ieri anche per rinnovare un terzo dei senatori e l’intera Camera dei rappresentanti. I repubblicani hanno ottenuto la maggioranza al Senato (il che faciliterà il processo con cui Trump dovrà nominare esponenti dei rami esecutivo e giudiziario), mentre non è ancora detta per la Camera, dove i dem potrebbero avere ancora qualche flebile speranza. Se pure quella andrà al Gop, Trump avrà il Congresso in pugno almeno fino alle prossime elezioni di mid-term.Le reazioni dall’EuropaMercoledì mattina, Trump ha reclamato la vittoria durante un comizio in Florida, annunciando l’inizio di “una nuova età dell’oro per l’America”. Ma già nella notte tra martedì e mercoledì, dall’altra sponda dell’oceano sono cominciate ad arrivare le prime reazioni dei leader europei. La presidente dell’esecutivo Ue, Ursula von der Leyen, si è congratulata “calorosamente” con il candidato repubblicano, sottolineando la volontà di “lavorare insieme su un’agenda transatlantica forte”.Le ha fatto eco il presidente uscente del Consiglio europeo, Charles Michel, che ha ribadito come tra Usa e Ue ci sia “un’alleanza duratura e un legame storico” e come vada mantenuta la “cooperazione costruttiva” tra Washington e Bruxelles, “difendendo il sistema multilaterale basato sulle regole”. Al momento in cui scriviamo, non c’è alcuna comunicazione ufficiale da parte del capo della diplomazia comunitaria, l’Alto rappresentante Josep Borrell.Congratulations to President-elect @realDonaldTrump.& have an enduring alliance and a historic bond. As allies and friends, the EU looks forward to continuing our constructive cooperation.The EU will pursue its course in line with the strategic agenda as a strong,…— Charles Michel (@CharlesMichel) November 6, 2024Che la maggior parte delle cancellerie europee sperassero in una vittoria di Harris, comunque, è un segreto di Pulcinella. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha il potenziale di cambiare molte cose per Bruxelles in diversi dossier cruciali e in una congiuntura internazionale particolarmente delicata. Un cambiamento che avrebbe il sapore del ritorno ad un passato che l’Ue aveva vissuto con estrema difficoltà e che era ben contenta di aver archiviato.Le conseguenze per l’Ue (e il mondo)Uno dei sismi maggiori arriverà in politica estera. A partire dall’Ucraina, dove da due anni e mezzo infuria una guerra che il neo-eletto presidente ha millantato di poter far finire nel giro di 24 ore. Non a caso, una delle prime reazioni alle elezioni è arrivata proprio da Kiev: “Continuiamo a contare sul forte supporto bipartisan per l’Ucraina negli Stati Uniti”, ha scritto su X Volodymyr Zelensky. Il suo Paese, ha detto, “è impegnato nell’assicurare pace e sicurezza a lungo termine all’Europa e alla comunità transatlantica, con il sostegno dei nostri alleati”. Come a dire: noi vogliamo continuare a difenderci, ma ci serve l’aiuto di Washington. Che, con Trump alla Casa Bianca, non può essere dato per scontato, dato che il presidente eletto ha fatto ampiamente intendere che punta a ridurre fortemente, o addirittura interrompere completamente, gli aiuti militari e finanziari a Kiev.Sullo scacchiere mediorientale, una seconda presidenza Trump significherà con ogni probabilità che il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrà carta bianca per continuare la sua guerra regionale, potendo contare sulla protezione incondizionata dell’ombrello a stelle e strisce in qualsiasi confronto miliare con i molti nemici dello Stato ebraico. Si spiega così la reazione di giubilo del capo del governo di Tel Aviv per la “enorme vittoria” del candidato repubblicano: “Congratulazioni per il ritorno più grande della storia!”, ha scritto Netanyahu su X, aggiungendo che tale “ritorno storico alla Casa Bianca offre un nuovo inizio all’America e un rinnovo del convinto impegno nella grande alleanza tra Israele e l’America”.Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (sinistra) e la moglie Sara in visita alla residenza di Donald Trump a Mar-a-Lago, in Florida (foto: Afp via Israeli government)In dubbio, almeno in termini di contribuzione finanziaria, potrebbe essere anche la partecipazione statunitense alla Nato. L’uscita di Washington dall’Alleanza appare ad oggi remota, ma è verosimile che nei prossimi quattro anni l’Europa debba ripensare in maniera strutturale la propria sicurezza, nel caso in cui Trump non voglia garantirla di fronte, ad esempio, all’aggressivo neo-imperialismo del presidente russo Vladimir Putin.Anche il commercio internazionale subirà un duro colpo a causa dei pesanti dazi che Trump ha annunciato di voler reintrodurre non soltanto sui prodotti made in China ma anche su quelli provenienti dal Vecchio continente. Un problema che si presenterà non solo per la Germania, che di fatto vive del suo export, ma anche per l’Italia (vedi ad esempio alla voce esportazioni casearie). Tanto che la premier Giorgia Meloni ha provato subito a metterci una pezza, richiamando l’importanza dei legami transatlantici come fatto dai vertici comunitari e ricordando come i due Paesi siano “Nazioni sorelle, legate da un’alleanza incrollabile, valori comuni e una storica amicizia” e da un “legame strategico”.Altri ambiti in cui la cooperazione tra Europa e Stati Uniti potrebbe presto entrare in crisi sono quelli del contrasto al cambiamento climatico (Trump nel 2020 ha ritirato Washington dagli accordi di Parigi) e della transizione energetica, visto che il neo-eletto presidente è un fautore del ricorso alle fonti fossili e di tecniche di estrazione controverse come il fracking.

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    Presidenziali Usa, come funziona l’elezione dal risultato imprevedibile

    Bruxelles – Sembra quasi un paradosso, ma forse dice qualcosa sullo stato del mondo di questi tempi. Le presidenziali negli Stati Uniti, cioè le elezioni più importanti del 2024 – un anno elettorale senza precedenti nella storia globale – sono praticamente impossibili da prevedere. La posta in gioco è decisamente alta, soprattutto sullo scacchiere internazionale, ma mai come stavolta il risultato della sfida a due per la Casa Bianca è stato così difficile da anticipare. E si ridurrà tutto, alla fine, alla conquista di pochi Stati in bilico, o addirittura di uno solo. Potrebbe essere decisiva una manciata di voti. Ecco cosa c’è da sapere sul testa a testa tra la candidata democratica e vicepresidente in carica, Kamala Harris, e lo sfidante repubblicano ed ex presidente, Donald Trump, che si sta combattendo oggi (5 novembre) e che avrà enormi ripercussioni per il mondo in generale e per l’Europa in particolare.Come funziona il votoPer cominciare, va ricordato che quelle per la scelta del presidente degli Stati Uniti non sono elezioni dirette ma indirette: i cittadini non votano per il loro candidato preferito, bensì per la lista dei cosiddetti grandi elettori collegata al candidato suddetto. Ciascuno Stato federato dispone di un numero di grandi elettori (detti anche delegati) pari alla somma totale dei suoi rappresentanti al Congresso: il numero dei deputati alla Camera varia in base alla popolazione, mentre ogni Stato ha due senatori. Così, ad esempio, quest’anno la California ha 54 grandi elettori e il Delaware tre. Ci sono inoltre tre rappresentanti per il District of Columbia, il territorio non statale dove ha sede la capitale federale di Washington.Ora, l’assegnazione dei delegati avviene quasi sempre con il sistema winner-takes-all: tutti i grandi elettori di uno specifico Stato vengono ottenuti dal candidato presidente che ottiene la maggioranza semplice nel voto popolare di quello Stato (50 per cento più uno dei consensi). Solo due Stati, il Maine e il Nebraska (quattro e cinque delegati rispettivamente), adottano un metodo proporzionale: i due delegati “territoriali” (cioè quelli in rappresentanza del Senato) vengono ottenuti da chi vince il voto popolare su base statale, mentre gli altri vengono ripartiti tra i vari distretti elettorali in cui si dividono i due Stati.Il collegio elettoraleI grandi elettori sono in tutto 538 e si riuniranno a dicembre formando quello che si chiama Electoral college, letteralmente collegio elettorale, un organo che decide tramite un voto di “secondo livello” chi guiderà la Casa Bianca a partire dal 6 gennaio 2025. Il “numero magico”, cioè la soglia da superare per ottenere la presidenza, è di 270 voti, la maggioranza semplice dei grandi elettori. Nel caso in cui si arrivasse ad un pareggio (entrambi i candidati a 269 voti), a decidere tra i due è la Camera dei deputati, che attualmente è a maggioranza repubblicana.Un simile meccanismo comporta che, tecnicamente, per i candidati presidenti non è tanto importante vincere il voto popolare quanto assicurarsi un numero sufficiente di delegati nell’Electoral college. Per quanto possa sembrare controintuitivo, le due cose non sono necessariamente collegate: vincere il voto popolare su base nazionale (cioè quello dei cittadini in tutti e 50 gli Stati della federazione) non assicura automaticamente la presidenza se non si vincono abbastanza grandi elettori. Nell’ultimo quarto di secolo, per due volte è stato eletto presidente il candidato che aveva perso il voto popolare: nel 2000 con George W. Bush (contro lo sfidante Al Gore) e nel 2016 con Donald Trump (contro Hillary Clinton).Gli Stati in bilicoEcco perché, in questa competizione elettorale, la geografia politica gioca un ruolo determinante. Alcuni Stati sono tradizionalmente democratici (o blu, dal colore del partito) mentre altri sono roccaforti repubblicane (o rossi). La vera battaglia si combatterà invece in una manciata di Stati che si suole definire “in bilico” (gli swing states), in cui cioè non c’è una netta preferenza per nessuno dei due partiti: si tratta di Arizona (11 delegati), Georgia (16), Michigan (15), Nevada (6), North Carolina (16), Pennsylvania (19) e Wisconsin (10).Attualmente, secondo le ultime proiezioni, Harris dovrebbe già contare con ragionevole certezza su un tesoretto di 226 delegati mentre Trump su un numero che andrebbe da 219 a 230. Ad essere determinanti saranno insomma le “combinazioni” di Stati in bilico che ciascuno dei due candidati potrà portare a casa: se è pur vero che la Pennsylvania, coi suoi 19 grandi elettori, è quello più “succulento”, è anche vero che vincere solo quello non sarà sufficiente se non verranno conquistati anche i delegati di almeno altri due swing states. Uno degli scenari più accreditati in questo momento è quello per cui Trump riesce ad assicurarsi l’Arizona, la Georgia, il Nevada ed il North Carolina, arrivando a 268 delegati, mentre Harris si attesterebbe a 251 conquistando Michigan e Wisconsin. A quel punto, i 19 voti della Pennsylvania sarebbero determinanti per aprire ad entrambi le porte della Casa Bianca.Cosa dicono i sondaggiE qui si aprono i problemi delle previsioni. In nessuno dei sondaggi disponibili si registra un vantaggio netto di un candidato nei sette swing states: nella maggior parte dei casi, il distacco è inferiore ai due punti percentuali, cioè troppo vicino al margine di errore per poter accettare le rilevazioni come affidabili. In Pennsylvania sembrerebbe in leggero vantaggio Trump, ma il testa a testa è così serrato che si parla di una distanza dello 0,3 per cento.C’è anche il caso di un recente sondaggio che darebbe Harris in vantaggio su Trump di quattro punti in Iowa, uno Stato che nelle ultime due elezioni è andato ai repubblicani e che si pensava sarebbe rimasto rosso anche stavolta. Potrebbe trattarsi di un abbaglio (ricordiamo che i sondaggi non sono una scienza esatta, per quanto i modelli che adottano migliorino col tempo), oppure di una dinamica capace di rimettere in discussione anche altri Stati che i due partiti considerano blindati.A livello nazionale, i sondaggi danno Harris in lieve vantaggio, ma si tratta di una distanza dell’1 per cento. Il tycoon newyorkese era davanti all’attuale presidente, Joe Biden, finché quest’ultimo non si è ritirato lo scorso luglio lasciando il posto alla sua vice. Da allora, Harris è rimasta quasi sempre in testa, ma negli ultimi giorni il distacco tra i due candidati si è ridotto.I risultati definitiviAd ogni modo, per sapere chi ha vinto le elezioni dovremo probabilmente aspettare un po’. Gli ultimi seggi chiudono in Alaska e alle Hawaii alla mezzanotte locale, cioè le 6 di mercoledì mattina in Italia. Le prime elaborazioni parziali dei risultati dovrebbero arrivare già intorno alle 2 di notte, ma difficilmente si potrà avere un quadro sufficientemente completo della situazione prima delle 7-8 di mattina. Questo, naturalmente, nel caso in cui l’esito del voto sia chiaro: altrimenti, il conteggio potrebbe prendere ancora più tempo. Nel 2020, ad esempio, ci sono voluti quattro giorni perché Biden fosse proclamato presidente eletto, mentre nel 2000 Bush ha dovuto aspettare un mese prima che il suo sfidante concedesse la sconfitta.Data la crescente polarizzazione dell’elettorato statunitense e la pervasività di fake news e teorie del complotto, c’è da aspettarsi che, se i risultati di quest’elezione non consegneranno una vittoria netta a nessuno dei due candidati, la parte sconfitta rifiuti di riconoscere la vittoria dell’altra e si mobiliti per contestarla: tramite l’avvio di infinte cause legali nel migliore dei casi o, nel peggiore, con una riedizione dell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021.