More stories

  • in

    Trump, l’elefante nella stanza del G7. Dazi, sanzioni alla Russia, la crisi Israele-Iran: tutto dipende da lui

    Bruxelles – Qualcuno l’ha già ribattezzato ‘G7 meno uno’: il vertice dei sette grandi del mondo alla prova di Donald Trump. In Canada, a Kananaskis, i leader di Regno Unito, Francia, Italia, Germania, Giappone, Canada ed Unione europea affrontano il presidente degli Stati Uniti in uno dei summit più densi degli ultimi anni. Al nodo delle sanzioni alla Russia si è affiancata la pericolosa escalation tra Israele e Iran. Dietro le quinte, tutti cercano di strappare al tycoon un accordo per mettere fine alla minaccia dei dazi.Sulla linea dura contro Mosca, lo strappo è già consumato. Bruxelles ha messo sul tavolo la misura chiave del diciottesimo pacchetto di sanzioni al Cremlino, la riduzione del tetto massimo del prezzo del petrolio russo da 60 a 45 dollari al barile. L’Ue e il Regno Unito insistono perché la misura sia coordinata con Washington, ma Trump ha finora chiuso la porta: “Le sanzioni ci costano molto denaro”, ha dichiarato durante una conferenza stampa con il premier britannico Keir Starmer, suggerendo che “prima dovrebbero farlo gli europei”. Agli antipodi rispetto agli alleati, Trump ha sostenuto che “buttare fuori” la Russia dal G8 è stato un errore: “Non credo che in questo momento ci sarebbe una guerra, se la Russia fosse stata dentro”, ha spiegato. Dimenticando che Putin venne escluso dalla kermesse proprio in seguito all’invasione e annessione della Crimea nel 2014.Il bilaterale tra Donald Trump e Ursula von der Leyen al G7 a KananaskisDopodiché, il waltzer dei bilaterali per risolvere la questione dei dazi americani. Sorride Starmer, che riesce a finalizzare con Trump un accordo “storico” per limitare la portata delle tariffe reciproche. Poi il presidente americano ha un confronto con Meloni, che gli ribadisce l’importanza di raggiungere un accordo con il blocco Ue, con il cancelliere tedesco Friedrich Merz e con il presidente francese Emmanuel Macron. Incontra anche i leader Ue: Antonio Costa gli regala una maglietta di Cristiano Ronaldo con scritto “Giochiamo per la pace. Come una squadra”, mentre Ursula von der Leyen affronta con il tycoon “questioni critiche, dall’Ucraina al commercio”. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, la presidente della Commissione europea si mostra ottimista in vista della deadline del 9 luglio: “Abbiamo chiesto ai team di accelerare il lavoro per raggiungere un accordo equo e giusto“, afferma in un post su X.Von der Leyen, intervenendo al summit, ha ribadito che “i dazi, indipendentemente da chi li stabilisce, sono in definitiva una tassa pagata da consumatori e imprese in patria”. E “creano incertezza che ostacola gli investimenti e la crescita”. Poi, la leader Ue ammicca a Trump e cerca di individuare un nemico comune. “Quando concentriamo la nostra attenzione sui dazi tra i partner, distogliamo le nostre energie dalla vera sfida, una sfida che ci minaccia tutti”, avverte: la Cina. Von der Leyen ha denunciato la concorrenza sleale di Pechino, sottolineando che “le fonti del più grande problema collettivo che abbiamo hanno origine dall’adesione della Cina al Wto nel 2001”.I leader di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia, Germania, Giappone, Canada ed Unione europea durante i lavori del G7Ammansire Trump, richiamarlo alla compattezza di un tempo – perché il G7 “insieme rappresenta il 45 per cento del Pil mondiale”, prima di sottoporgli una nuova proposta: secondo quanto riportato dal quotidiano tedesco Handelsblatt, la Commissione europea sarebbe pronta ad accettare dazi provvisori del 10 per cento su tutte le esportazioni verso gli Stati Uniti, se non ci saranno tariffe più elevate su automobili, farmaci e prodotti elettronici. L’Ue sarebbe disposta, in cambio, a ridurre i dazi sui veicoli prodotti negli Stati Uniti e a modificare eventuali ostacoli tecnici o giuridici per facilitare la vendita delle automobili statunitensi in Europa.Poi il colpo di scena: Trump lascia il vertice in anticipo, sembrerebbe per dedicarsi con urgenza, e unilateralmente, alla crisi in Medio Oriente. È lui stesso a smentire, attaccando personalmente Macron, reo di aver “erroneamente affermato” che Trump fosse di ritorno a Washington per lavorare a un cessate il fuoco tra Israele e Iran. “Che lo faccia intenzionalmente o meno, Emmanuel sbaglia sempre”, ha scritto l’inquilino della Casa Bianca sulla sua piattaforma social, Truth. Aggiungendo che “si tratta di qualcosa di molto più importante”.Prima di lasciare il Canada, Trump ha firmato una dichiarazione congiunta per la de-escalation in Medio Oriente, che non lascia però dubbi sull’attribuzione delle responsabilità di quanto sta accadendo nella regione: per le democrazie più influenti del mondo “l’Iran è la principale fonte di instabilità e terrorismo nella regione” ed “Israele ha il diritto di difendersi”. Teheran, ribadiscono i leader, “non potrà mai dotarsi di armi nucleari”. Per i partner europei, la preoccupazione maggiore è “salvaguardare la stabilità dei mercati”, come sottolineato nella dichiarazione. Ma anche qui, la strategia di Trump è decisamente più aggressiva. Il tycoon, di ritorno negli Usa, ha lanciato una pericolosa minaccia a Teheran: rinunciare completamente all’arricchimento dell’uranio o “succederà qualcosa”. Nel frattempo, i ministri degli Esteri dei 27 Ue si sono riuniti proprio questa mattina, convocati dall’Alta rappresentante Ue per gli Affari esteri, Kaja Kallas, per fare un punto sulla situazione. Senza l’elefante nella stanza.

  • in

    Israele attacca l’Iran: “Stanno costruendo la bomba”. L’Ue non condanna Tel Aviv ma esorta alla de-escalation

    Bruxelles – Israele alza la posta e allarga la già acuta crisi in Medio Oriente, attaccando direttamente l’Iran. La notte scorsa, Tel Aviv ha avviato un’azione militare su larga scala contro il suo storico rivale regionale che, nelle parole dello stesso Benjamin Netanyahu, durerà per tutto il tempo necessario. Con i suoi “attacchi preventivi”, lo Stato ebraico starebbe puntando ad impedire alla Repubblica islamica di costruire la bomba nucleare. Dall’Ue arrivano reazioni miste, ma tutti esortano le parti ad impegnarsi nella de-escalation.L’attacco di Tel Aviv (e la risposta di Teheran)Nella notte tra il 12 e il 13 giugno, le forze armate israeliane (Idf) hanno avviato una pesante campagna di bombardamenti sull’Iran, allargando pericolosamente l’escalation militare all’intera regione mediorientale. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha presentato l’operazione Leone rampante come un’azione preventiva per garantire la sicurezza dello Stato ebraico, che sarebbe minacciata dall’avanzamento del programma nucleare militare di Teheran.Moments ago, Israel launched Operation “Rising Lion”, a targeted military operation to roll back the Iranian threat to Israel’s very survival.This operation will continue for as many days as it takes to remove this threat.——Statement by Prime Minister Benjamin Netanyahu: pic.twitter.com/XgUTy90g1S— Benjamin Netanyahu – בנימין נתניהו (@netanyahu) June 13, 2025L’operazione continuerà “per tutti i giorni necessari”, ha dichiarato Netanyahu (sul cui capo pende dallo scorso novembre un mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale): se lasciata incontrollata, sostiene, “la crescente gittata dei missili balistici iraniani porterebbe l’incubo nucleare nelle città europee e, alla fine, anche in America“.L’esercito di Tel Aviv ha fatto alzare in volo più di 200 aerei, colpendo un centinaio di obiettivi tra siti nucleari (incluso quello di Natanz, il più grande del Paese), impianti missilistici e della contraerea, depositi di armi ma anche zone residenziali in tutta la Repubblica islamica. L’Idf ha confermato di aver assassinato “i tre più alti comandanti militari” di Teheran, tra cui il comandante delle Guardie rivoluzionarie Hossein Salami e il capo di Stato maggiore dell’esercito Mohammad Bagheri, nonché una mezza dozzina di scienziati sospettati di avere un ruolo chiave nell’arricchimento dell’uranio degli ayatollah.Per l’ennesima volta, Tel Aviv aumenta così drasticamente la tensione nell’intera regione, dopo oltre un anno e mezzo di crimini di guerra e contro l’umanità portati avanti nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania accompagnati da bombardamenti a tappeto e incursioni terrestri in Libano e Siria.Uno degli edifici colpiti dagli attacchi israeliani a Teheran, il 13 giugno 2025 (foto: Atta Kenare/Afp)In risposta ai bombardamenti notturni, Teheran ha promesso un’immediata rappresaglia che è in effetti già in corso, affidata ad almeno un centinaio di droni. Il leader supremo Ali Khamenei ha annunciato “una punizione severa”, mentre l’esercito iraniano ha parlato di una risposta “letale”. Israele è entrato stamattina in lockdown, con le strade delle principali città deserte e le autorità che suggeriscono agli abitanti di rimanere chiusi in casa e dotarsi di scorte di cibo sufficienti per un paio di settimane. Lo Stato ebraico e la vicina Giordania stanno al momento intercettando i droni iraniani nei rispettivi spazi aerei.Le reazioni dai leader mondiali e dall’UeNelle ultime ore si sono moltiplicate le reazioni da parte dei leader mondiali, che richiamano entrambi i Paesi alla moderazione per prevenire l’ennesima, devastante escalation. La Turchia condanna le “azioni aggressive” di Israele, mentre il premier britannico Keir Starmer (il cui governo ha recentemente sanzionato due membri dell’esecutivo israeliano) ha definito “preoccupanti” gli attacchi.Dai vertici dell’Ue arrivano commenti decisamente più indulgenti. Per la presidente dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen, tutte le parti devono “dare prova di massima moderazione, allentare immediatamente la tensione e astenersi da ritorsioni“. Un messaggio replicato anche dal presidente del Consiglio europeo, António Costa, secondo cui “è necessario evitare un’ulteriore pericolosa escalation“, mentre l’Alta rappresentante Kaja Kallas si dice “pronta a sostenere qualsiasi sforzo diplomatico volto a ridurre la tensione“. I portavoce della Commissione e del Servizio di azione esterna (Seae) hanno confermato di essere in contatto con entrambe le parti (Kallas avrebbe avuto un colloquio in mattinata con il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar), ma si sono rifiutati di fornire “qualsiasi valutazione sulla compatibilità degli attacchi israeliani con il diritto internazionale“.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas (foto: Consiglio europeo)Più critici gli eurodeputati italiani di centro-sinistra, che da qualche tempo stanno alzando la voce sulla necessità che Bruxelles sospenda l’accordo di associazione con Tel Aviv: quest’ultimo si trova attualmente in fase di revisione, ma per metterlo in pausa serve l’unanimità dei Ventisette, che rimane una chimera. Pierfrancesco Maran (Pd) suggerisce di “interrompere le forniture militari ad Israele“, mentre il suo gruppo (S&D) si limita a chiedere la sospensione delle relazioni commerciali con lo Stato ebraico. Leoluca Orlando (Avs) predice “effetti più imprevedibili ed estesi di quelli della guerra in Ucraina“, bollando l’esecutivo di Netanyahu come “un insulto alla cultura ebraica”.Per la delegazione del M5s, “Israele usa le bombe (metà delle quali sono prodotte in Europa, ndr) per sfidare il diritto internazionale e mettere in pericolo la sicurezza globale“, e Bruxelles dovrebbe smettere “di tollerare l’arroganza del governo Netanyahu“. Il gruppo dei pentastellati a Strasburgo, la Sinistra, chiede l’embargo sulle armi, la sospensione immediata dell’accordo di associazione Ue-Israele e di dare seguito al mandato di arresto emesso dalla Cpi.La posizione di Washington (e gli avvertimenti dell’Aiea)Diversamente dal solito, l’amministrazione statunitense – avvertita in anticipo dell’attacco – ha cercato di distanziarsi dalle azioni di Tel Aviv, sottolineando che si è trattato di una decisione unilaterale. “Non siamo coinvolti in attacchi contro l’Iran e la nostra priorità è proteggere le forze americane nella regione”, si legge in una nota diffusa da Marco Rubio, il capo della diplomazia a stelle e strisce, che insolitamente non include nessuna generica formula di sostegno allo Stato ebraico.La relativa freddezza dello zio Sam (tradizionalmente il più solido alleato dello Stato ebraico) sarebbe dovuta al fatto che Donald Trump nutriva ancora delle speranze di poter raggiungere un accordo con la dirigenza iraniana sul suo programma nucleare. I colloqui tra le parti vanno avanti da mesi ma si stavano arenando nelle ultime settimane, anche se il tycoon sembra sperare ancora in una ripresa delle trattative con la Repubblica islamica. Il sesto round di negoziati era previsto per questo weekend, ma gli eventi di stanotte hanno probabilmente azzerato ogni possibilità di raggiungere una svolta in tempi brevi.Il presidente statunitense Donald Trump (foto: Roberto Schmidt/Afp)Rafael Grossi, direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), ha reiterato gli appelli alla moderazione per evitare un disastro nucleare nella regione e si è reso disponibile “a recarmi sul posto al più presto per valutare la situazione e garantire la sicurezza, la protezione e la non proliferazione in Iran”. Giusto ieri, l’agenzia dell’Onu ha censurato per la prima volta in 20 anni il governo di Teheran, sostenendo che le autorità iraniane non stanno rispettando i loro impegni per quanto riguarda le “salvaguardie nucleari internazionali“.Nel 2015, l’Iran aveva siglato uno storico accordo multilaterale mediato dall’Ue sul proprio programma nucleare, noto come Joint common plan of action (Jcpoa), che prevedeva tra le altre cose un controllo internazionale sull’arricchimento dell’uranio della Repubblica islamica, permesso unicamente per usi civili. Il trattato è poi saltato nel 2018, durante il primo mandato di Trump alla Casa Bianca. Dal Berlaymont si ribadisce che “l’Ue non abbandona il Jcpoa“.

  • in

    Usa e Cina verso una tregua commerciale (che c’era già). L’Ue rimane alla finestra

    Bruxelles – Stati Uniti e Cina avrebbero trovato la quadra per sospendere l’escalation tariffaria che stava portando le due più grandi economie del mondo alla guerra commerciale aperta. Questa, almeno, è la lettura di Donald Trump. In realtà, Washington e Pechino hanno solo fatto enorme fatica per tornare al punto in cui si trovavano un mese fa, mentre non appare vicina una soluzione strutturale e duratura. L’unica cosa certa, per ora, è che l’Europa continua a rimanere alla finestra, nell’attesa che il presidente statunitense cambi idea sui dazi.Fumata bianca da Londra“Il nostro accordo con la Cina è concluso“, ha scritto ieri (11 giugno) Donald Trump sul suo social Truth, specificando che manca ora solo “l’approvazione finale” da parte sua e del presidente cinese Xi Jinping. Parlando alla stampa, il tycoon newyorkese ha successivamente definito come “ottimo” l’accordo raggiunto: “Abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno e ne trarremo grandi vantaggi. Speriamo che anche loro ne traggano beneficio”, ha dichiarato.Non sono stati resi noti molti dettagli dell’intesa preliminare raggiunta tra le squadre negoziali, emerse ieri da una maratona di due giorni a Londra. Per ora si sa solo che Pechino si è impegnata a riprendere le esportazioni verso gli States di magneti e terre rare senza limitazioni, mentre Washington ha fatto retromarcia sulle minacce di sospendere i visti per gli studenti provenienti dalla Repubblica popolare.Sul versante dazi, l’amministrazione a stelle e strisce ha mantenuto una pressione tariffaria complessiva del 55 per cento (rispetto al 145 per cento in vigore precedentemente) sui prodotti cinesi, così composta: 10 per cento di dazi “reciproci” imposti durante il Liberation Day, un ulteriore 20 per cento comminato al Dragone (insieme a Canada e Messico) come punizione per gli sforzi giudicati insufficienti nel contrasto alla diffusione del fentanyl e, infine, il 25 per cento introdotto da Trump durante il suo primo mandato e mai rimosso dal suo successore Joe Biden. Viceversa, i dazi cinesi sulle merci statunitensi si abbasseranno dal 125 al 10 per cento.I lati oscuri dell’accordoSecondo molti osservatori, tuttavia, l’entusiasmo dell’inquilino della Casa Bianca sarebbe eccessivo. Da un lato, le discussioni nella capitale britannica non hanno portato a progressi reali nei negoziati tra Washington e Pechino per evitare uno scontro a tutto campo. Tale eventualità non sarà scongiurata definitivamente finché non verrà stipulato il famigerato “accordo commerciale globale” tra i due colossi economici (Trump vorrebbe siglarlo entro la fine dell’estate).In effetti, i due Paesi si ritrovano ora nella medesima posizione in cui si erano lasciati il mese scorso, quando a Ginevra avevano concordato un compromesso che, di fatto, è tale e quale quello di ieri. Nelle settimane che sono intercorse, le due parti si sono reciprocamente accusate di aver violato i termini pattuiti in quell’occasione, dando il via ad una rapida escalation tariffaria che rischiava di danneggiare pesantemente entrambe.La Repubblica popolare aveva mancato di rimuovere alcune restrizioni sull’export di terre rare e magneti, e gli Usa avevano reagito limitando la vendita di semiconduttori, software, prodotti chimici e minacciando di sospendere i visti per studenti e ricercatori cinesi.Il segretario al Tesoro statunitense, Scott Bessent (sinistra), e il vicepremier cinese He Lifeng a Londra, il 9 giugno 2025 (foto: Li Ying via Afp)Come sottolineato dal viceministro al Commercio di Pechino Li Chenggang, quello concordato nei colloqui di Londra non è niente più che un “accordo quadro” valido “in linea di principio”, che dovrà servire a tradurre in concreto “il consenso raggiunto dai due capi di Stato durante la telefonata del 5 giugno e il consenso raggiunto durante l’incontro di Ginevra“.A sentire il segretario al Commercio Usa, Howard Lutnick, la due giorni londinese – che alcune indiscrezioni giornalistiche hanno descritto come tesa, a riprova del clima di sfiducia tra le rispettive squadre negoziali – ha “messo ordine” rispetto alle priorità delle parti: “Siamo sulla strada giusta”, dice, ma è una strada che rimane in salita. Anche per il titolare del Tesoro, Scott Bessent, il processo per giungere ad un accordo complessivo sarà “molto più lungo“.D’altra parte, notano diversi analisti, Trump avrebbe fatto il passo più lungo della gamba anche da un punto di vista strategico e geopolitico. Sarebbe stato un azzardo alzare così tanto la voce con la Repubblica popolare sia perché, a conti fatti, la Cina ha più alternative rispetto agli Usa se gli scambi tra le due superpotenze dovessero ridursi ulteriormente (o addirittura interrompersi), sia perché la leadership comunista ha uno spazio di manovra sconosciuto a qualunque governo democratico.Il presidente cinese Xi Jinping (foto: Photo by Tingshu Wang via Afp)Battere i pugni sul tavolo e ricattare, innescando una spirale incontrollabile di rappresaglie commerciali, potrebbe non essere il modo più lungimirante per trattare con Pechino, soprattutto per chi – come Washington – tratta da una situazione di sostanziale dipendenza dalle materie prime critiche su cui la Cina detiene virtualmente un monopolio planetario.E senza le quali le industrie a stelle e strisce (quella pesante, quella automobilistica, quella tecnologica e soprattutto quella militare) andrebbero a schiantarsi, con buona pace dei deliri di onnipotenza in salsa Maga. Insomma, Trump potrebbe aver ingaggiato un braccio di ferro che, semplicemente, gli Stati Uniti non sono oggi in grado di vincere.L’Ue rimane al paloAd ogni modo, il presidente Usa ha suggerito oggi (12 giugno) che nelle prossime settimane sentirà i partner commerciali di Washington per negoziare nuovi dazi unilaterali, prima che scadano le sospensioni temporanee concesse ad alcuni Paesi e all’Ue. La data fatidica è il 9 luglio, ma la finestra potrebbe allungarsi anche oltre: è “altamente probabile” che “posticiperemo la data per continuare i negoziati in buona fede“, ha pronosticato Bessent.Per il momento, a Bruxelles, l’esecutivo comunitario non si sbottona. Quelle arrivate da Londra sono “buone notizie per il mondo intero”, sostiene la portavoce Paula Pinho, ma “dobbiamo aspettare per saperne di più, vedere se e come (l’intesa tra Usa e Cina, ndr) avrà effetti sull’Ue”. Le trattative tra la Commissione – rappresentata dal titolare del Commercio Maroš Šefčovič – e la Casa Bianca continuano a porte chiuse, mentre rimangono in vigore i dazi del 50 per cento su acciaio e alluminio made in Europe.Il commissario al Commercio, Maroš Šefčovič, e la presidente dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen (foto: Christophe Licoppe/Commissione europea)Verosimilmente, a questo punto, la matassa potrà essere sbrogliata solo da un incontro al massimo livello tra Trump e Ursula von der Leyen. Tutti gli occhi sono puntati sul G7 che si terrà a Kananaskis, in Canada, dal 15 al 17 giugno, ma dal Berlaymont non trapela alcuna conferma su un bilaterale tra i due leader.Che qualche giorno dopo, il 24 e il 25, si incontreranno nuovamente all’Aia in occasione del summit della Nato, durante il quale i membri dell’Alleanza dovrebbero dare il disco verde ai nuovi obiettivi di spesa militare al 5 per cento del Pil. Dopo tutto, si tratta di una richiesta avanzata dallo stesso Trump: e chissà che, se gli europei accetteranno di mettere mano al portafoglio, anche il tycoon non possa ridursi a più miti consigli sulle tariffe che stanno strangolando l’economia del Vecchio continente.

  • in

    Commercio, trapela ottimismo sui negoziati Usa-Cina. Ma la svolta è ancora lontana

    Bruxelles – Prove di disgelo tra Stati Uniti e Cina, ad un paio di mesi dopo l’avvio della guerra commerciale scatenata da Donald Trump. I negoziatori di Washington e Pechino si stanno incontrando a Londra per il secondo giorno di fila per discutere di terre rare e semiconduttori, centrali per l’economia e le capacità strategiche statunitensi. Ma per quanto il clima sia generalmente positivo, è ancora presto per una svolta decisiva. Nel frattempo, l’Europa subisce i danni collaterali dello scontro tra i due giganti globali.Dopo un primo giorno di colloqui ieri, continuano anche oggi (10 giugno) le trattative tra le delegazioni di Stati Uniti e Cina a Londra. L’obiettivo è disinnescare la guerra dei dazi avviata da Donald Trump, o per lo meno le sue conseguenze più disastrose per le due superpotenze economiche mondiali.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)La squadra negoziale a stelle e strisce comprende il titolare del Tesoro Scott Bessent, il segretario al Commercio Howard Lutnick e il rappresentante del governo Usa per il commercio estero Jamieson Greer. Le controparti cinesi sono il vicepremier He Lifeng, il ministro al Commercio Wang Wentao e il consigliere Li Chenggang. In mattinata, l’inquilino della Casa Bianca ha dichiarato di aver ricevuto “solo buoni resoconti” dai suoi emissari, sostenendo che “stiamo lavorando bene con la Cina, la Cina non è facile“. Ma non ha voluto scoprire del tutto le sue carte: “Vedremo” se rimuovere i controlli sulle esportazioni, ha detto il tycoon.Cosa c’è sul tavoloLe misure restrittive imposte reciprocamente da Washington e Pechino sui propri export sono il fulcro delle discussioni in corso nella capitale britannica, e rappresentano una delle minacce più serie all’intera economia mondiale determinate dall’escalation tariffaria di questi mesi. Nello specifico, il nodo principale riguarda le esportazioni di terre rare, minerali critici e una serie di tecnologie avanzate (soprattutto i semiconduttori) dalla Cina verso gli Usa.Si tratta di materiali cruciali per un’ampia gamma di applicazioni fondamentali, dall’elettronica di consumo come gli smartphone agli F-35 passando per l’energia rinnovabile. Il punto è che la loro catena del valore a livello globale è in massima parte nelle mani di Pechino: anche dove non ha il monopolio dell’estrazione, il Dragone detiene comunque il controllo della lavorazione.Per questo, almeno stando alle indiscrezioni della stampa statunitense, Trump avrebbe autorizzato il team a stelle e strisce a negoziare una potenziale rimozione delle restrizioni sulla vendita di software per la produzione di chip, parti di motore a reazione ed etano. In cambio, gli Usa si aspettano che la Repubblica popolare allenti i controlli sulle terre rare. Tuttavia, al netto dei proclami altisonanti, nessuno si aspetta una svolta decisiva dalle discussioni odierne.ll presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping (foto via Imagoeconomica)La posta in palio nei negoziati, dopo tutto, è pur sempre il primato di uno dei due colossi globali nell’economia del XXI secolo: le tecnologie di cui si discute a Londra sono alla base degli scambi d’informazione, dell’intelligenza artificiale, dell’economia dei big data, dell’hi-tech, ma anche dell’industria pesante, dell’automotive e della difesa.L’incontro londinese, deciso da Trump e dal leader cinese Xi Jinping durante una telefonata la scorsa settimana (la prima da gennaio), dovrebbe servire a rimettere in carreggiata il “consenso” raggiunto a inizio maggio a Ginevra. Lì, i rappresentanti di Washington e Pechino avevano concordato una pausa di 90 giorni sui maxi-dazi reciproci: abbassando quelli statunitensi dal 145 al 30 per cento e quelli cinesi dal 125 al 10 per cento. Ma da allora, entrambe le parti si sono accusate a vicenda di aver violato i termini della tregua: gli Usa criticano la lentezza di Pechino nell’allungare la lista dei minerali critici esenti da restrizioni, venendo a loro volta redarguiti per i controlli sull’export di chip e per le restrizioni sui visti degli studenti cinesi.L’Europa nel mezzoDel resto, nella guerra commerciale tra le due superpotenze si contano anche pesanti danni collaterali. L’Ue è rimasta schiacciata nel mezzo e sta cercando di correre ai ripari da quando, un paio di mesi fa, il presidente statunitense ha annunciato i suoi dazi “reciproci” durante quello che ha ribattezzato Liberation Day. Tra i settori che pagano maggiormente il costo dell’imprevedibilità in cui il tycoon newyorkese ha piombato il commercio globale ci sono quello della difesa – dove Bruxelles sta tentando di darsi un tono tramite il piano ReArm Europe e, nello specifico, il fondo Safe da 150 miliardi – e quello dell’industria automobilistica, già in crisi nera da un paio d’anni.L’esecutivo comunitario sta provando a dialogare tanto con Washington quanto con Pechino. Il titolare del Commercio, Maroš Šefčovič, è possibilista nonostante i nuovi dazi del 50 per cento su acciaio e alluminio imposti dalla Casa Bianca, ma la verità è che non si vede ancora la luce in fondo al tunnel. Come ammesso in mattinata dal portavoce del Berlaymont Olof Gill, i negoziati con gli Usa sono “in corso”, e per il momento non è stato programmato alcun bilaterale tra Trump e Ursula von der Leyen al vertice Nato dell’Aia tra due settimane.Il commissario Ue al Commercio, Maroš Šefčovič (foto: Consiglio europeo)Allo stesso modo non pare prossima a sbloccarsi nemmeno l’impasse con la Repubblica popolare, con cui pure l’Ue ha in calendario un summit di alto livello per il mese prossimo. Šefčovič, che ha incontrato la sua controparte cinese la scorsa settimana a Parigi, ha definito “allarmante” la situazione attuale. Per il portavoce Gill, alla Commissione sono “felici di vedere che il nostro approccio sta dando risultati“.Ma non sembrano esserci grandi risultati di cui gioire, almeno per ora. I negoziati sui veicoli elettrici cinesi, colpiti dalle misure restrittive a dodici stelle, sono tutt’ora in corso. Ed è verosimile che i controlli introdotti da Pechino sulle esportazioni delle materie prime critiche – non solo verso gli Usa, ma anche verso i Ventisette – sia una rappresaglia per le indagini e le restrizioni dell’Ue. Oltre che una mossa deliberata per incrinare ulteriormente l’unità transatlantica, o quello che ne resta.L’Ue sta inoltre guardando altrove per ridurre la propria dipendenza da Pechino, ma non è un risultato che si ottiene dall’oggi al domani. La scorsa settimana, il commissario all’Industria Stéphane Séjourné ha annunciato l’approvazione di 13 nuovi progetti strategici in Paesi terzi nel quadro del Critical raw materials act, secondo il quale nessuno Stato estero dovrebbe fornire all’Ue più del 65 per cento di determinati minerali. Il problema di fondo, però, rimane lo stesso: controllando quasi il 90 per cento del mercato globale, la Cina mantiene saldamente il coltello dalla parte del manico.

  • in

    Merz visita Trump: possibile un accordo sui dazi, ma niente sanzioni alla Russia (per ora)

    Bruxelles – Friedrich Merz evita lo scontro con Donald Trump, ma non riesce a convincerlo delle ragioni europee. Nel suo primo faccia a faccia col presidente statunitense, il cancelliere tedesco si è mostrato deferente e accomodante per non irritare la controparte, evitando di discutere di fronte alle telecamere i temi più controversi nelle relazioni tra Berlino e Washington. Dall’incontro, però, non ha portato a casa alcuna concessione particolare.Continua la processione dei leader mondiali alla corte di Donald Trump. Ieri (5 giugno) è stato il turno del cancelliere tedesco, che ha recato al tycoon un dono particolare: la copia del certificato di nascita del nonno incorniciata in oro. Friedrich Trump nacque nel 1869 a Kallstadt, un villaggio nell’attuale Länd del Palatinato che al tempo faceva parte della Baviera, ed emigrò successivamente negli Stati Uniti.Il Bundeskanzler ha dimostrato di aver studiato bene il proprio interlocutore. Ha saputo schivare gli argomenti che avrebbero potuto far precipitare la loro conversazione in uno scontro frontale, come avvenuto fra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e quello sudafricano Cyril Ramaphosa. Merz si è detto “estremamente soddisfatto” dell’incontro, aggiungendo di “aver trovato nel presidente americano una persona con cui posso parlare molto bene a livello personale”. Per contro, Trump ha descritto Merz come “una persona con cui è molto facile trattare“.Il presidente statunitense Donald Trump (sinistra) accoglie alla Casa Bianca il cancelliere tedesco Friedrich Merz, il 5 giugno 2025 (foto via Imagoeconomica)Nel tentativo di creare un clima amichevole col tycoon newyorkese, il leader della Cdu ha ricordato che il giorno successivo, cioè oggi, sarebbe occorso l’81esimo anniversario dello sbarco in Normandia. “È stato allora che gli americani hanno liberato l’Europa“, ha notato il Bundeskanzler. Con l’operazione Overlord, il 6 giugno 1944 gli alleati arrivarono sulla costa atlantica della Francia, allora sotto occupazione nazista, mentre altre armate occidentali risalivano lo Stivale dalla Sicilia e i sovietici marciavano da est su Berlino.“Non è stata una giornata piacevole per voi“, ha ribattuto Trump alludendo al fatto che il D-Day segnò l’inizio della fine per Adolf Hitler. “A lungo  termine, signor presidente, questa è stata la liberazione del mio Paese dalla dittatura nazista“, ha risposto Merz, aggiungendo che “sappiamo cosa vi dobbiamo”. Il cancelliere ha poi colto la palla al balzo, tracciando un parallelo tra l’invasione dell’Europa da parte del Terzo Reich e quella dell’Ucraina da parte della Russia di Vladimir Putin. Gli Stati Uniti, ha osservato, sono “di nuovo in una posizione molto forte per fare qualcosa per porre fine a questa guerra“.“Stiamo cercando di esercitare una maggiore pressione sulla Russia, dovremmo parlarne”, ha rimarcato Merz. Ma sulla guerra d’Ucraina non è riuscito a scucire alcuna concessione all’inquilino della Casa Bianca. Al contrario, e con buona pace delle sue stesse promesse di porre rapidamente fine al conflitto, Trump ha suggerito che potrebbe essere opportuno lasciare che Mosca e Kiev “continuino a combattere per un po’”, paragonando i due belligeranti a dei bambini litigiosi difficili da separare.Ma l’amministrazione a stelle e strisce non imporrà nuove sanzioni sul Cremlino, almeno per il momento. Se diventerà chiaro che le trattative in corso (o meglio in stallo) non porteranno a nulla, ha ammonito Trump, le contromisure di Washington potrebbero “riguardare entrambi i Paesi”. Il presidente Usa è apparso frustrato con l’Ucraina per gli attacchi condotti sul territorio della Federazione negli scorsi giorni, di cui ha parlato al telefono col suo omologo russo: Putin “è scontento”, ha detto, e “io sono scontento”. Una posizione che stona con quella degli alleati su questo lato dell’Atlantico, dove è netta la distinzione tra aggredito e aggressore, come ricordato stamattina dai portavoce della Commissione europea.Il presidente russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)Gli altri due temi chiave dell’incontro sono stati la questione della sicurezza transatlantica e la guerra commerciale tra Stati Uniti ed Unione europea. Sul primo punto, Merz ha strappato a Trump l’impegno a non ritirare nessuno dei 40mila militari statunitensi stazionati in Germania. Il timore di un disimpegno dello zio Sam dal Vecchio continente è reale tra le cancellerie europee, che si stanno preparando a dare il disco verde alla richiesta di Washington di aumentare significativamente le spese per la difesa in ambito Nato, alzando l’asticella dal 2 al 5 per cento del Pil.Quanto ai dazi, il presidente statunitense è fiducioso che “un buon accordo commerciale” con Bruxelles sia a portata di mano. Attualmente, Washington ha imposto dazi del 10 per cento su tutte le importazioni europee, più il 25 per cento sulle auto (una catastrofe per l’economia tedesca, della quale l’automotive è un pilastro fondamentale) e il 50 per cento su acciaio e alluminio. Giorni fa, Trump ha compiuto l’ennesima giravolta sospendendo fino al 9 luglio l’attivazione di un’ulteriore dazio del 50 per cento sugli import a dodici stelle.Infine, Merz ha evitato di toccare determinati temi, come ad esempio le pesanti ingerenze da parte di membri di spicco dell’amministrazione Trump nella politica interna tedesca – con il vicepresidente JD Vance e l’ormai ex braccio di ferro del tycoon, Elon Musk, che hanno apertamente sostenuto l’ultradestra di Alternative für Deutschland (AfD) – o le relazioni di Berlino e Washington col premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ma anche il rapporto burrascoso della Casa Bianca con la Corte penale internazionale. Proprio ieri, il governo Usa ha imposto sanzioni su quattro giudici della Cpi a causa delle indagini in corso sui crimini di guerra dell’esercito di Tel Aviv, in una mossa senza precedenti fermamente condannata dai vertici Ue.

  • in

    Ucraina, Trump sente Putin (di nuovo). Ma all’orizzonte non c’è nessuna tregua

    Bruxelles – La pace in Ucraina è ancora lontana. È quanto emerso dalla nuova conversazione telefonica avvenuta ieri sera (4 giugno) tra Vladimir Putin e Donald Trump, durante la quale il capo del Cremlino ha promesso una dura rappresaglia agli attacchi compiuti da Kiev negli ultimi giorni (che gli Stati Uniti non sembrano interessati a impedire). Il presidente russo avrebbe anche offerto alla Casa Bianca una sponda nei complessi negoziati sul programma nucleare iraniano.La chiamata è stata riassunta dal presidente statunitense con un post sul suo social personale, Truth: “È stata una buona conversazione, ma non una conversazione che porterà ad una pace immediata“, ha scritto il tycoon. “Il presidente Putin ha detto, e molto fermamente, che dovrà rispondere al recente attacco sugli aeroporti“, ha aggiunto Trump, senza specificare se nella conversazione di circa 75 minuti abbia tentato di dissuadere il suo interlocutore dal portare a compimento suddetta rappresaglia. Stamattina, il palazzo dell’amministrazione regionale di Cherson è stato colpito con le famigerate “bombe plananti” dall’aviazione russa.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Lo smacco che lo zar non poteva lasciare impunito è una serie di attacchi compiuti negli scorsi giorni dai servizi ucraini contro diversi obiettivi sul territorio russo. Sono stati colpiti alcuni ponti – nelle oblast’ di Kursk, invasa dalle truppe di Kiev lo scorso agosto e recentemente “bonificata” da Mosca, e di Bryansk, ma soprattutto quello di Kerch che collega la Federazione con la Crimea occupata – e sono stati distrutti una quarantina di bombardieri strategici (usati per sganciare appunto le bombe plananti mantenendosi a distanza di sicurezza dalla contraerea nemica), cioè circa un terzo del totale.Bollando il governo ucraino come una “organizzazione terrorista“, Putin ha sostenuto che non ci sono più le condizioni per trattare col suo omologo Volodymyr Zelensky (nonostante lui stesso avesse aperto a questa possibilità poco più di un mese fa), confermando il sostanziale buco nell’acqua del secondo round di colloqui tra le delegazioni dei due Paesi belligeranti svoltisi a Istanbul all’inizio di questa settimana.Del resto, appare sempre più evidente il fiasco della mediazione statunitense nel complicatissimo processo negoziale tra Mosca e Kiev. Al netto di una serie di false partenze, le trattative per una tregua nel conflitto sono sostanzialmente ferme, date le posizioni inconciliabili di Russia e Ucraina su praticamente qualsiasi punto, a partire dalle condizioni per accettare un cessate il fuoco.Dalla prospettiva europea, peraltro, il disimpegno dello zio Sam dal Vecchio continente sembra ormai incontrovertibile. Per la prima volta in quasi tre anni e mezzo, il capo del Pentagono Pete Hegseth era assente alla riunione del gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina (il cosiddetto formato Ramstein) tenutasi ieri a Bruxelles. E, stando alle indiscrezioni circolate nelle scorse ore, l’amministrazione a stelle e strisce ha anche definitivamente rifiutato di fornire copertura aerea ad eventuali operazioni della “forza di rassicurazione” franco-britannica, una richiesta su cui avevano a lungo insistito i membri della coalizione dei volenterosi.Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (foto via Imagoeconomica)Un altro punto importante della chiamata Trump-Putin ha riguardato i difficili negoziati in corso (o meglio in stallo) sul nucleare iraniano. Secondo il tycoon, lo zar sarebbe “d’accordo” sul fatto che Teheran “non può possedere” un’arma atomica. Il presidente russo si sarebbe addirittura offerto di “partecipare nelle discussioni” con la Repubblica islamica, suggerendo di poter portare le discussioni “ad una rapida conclusione” mentre gli ayatollah starebbero rallentando le trattative. “Avremo bisogno di una risposta definitiva in un tempo molto breve!”, ha concluso l’inquilino della Casa Bianca.Dopo aver sentito Trump, Putin ha parlato brevemente anche col papa Leone XIV. L’inquilino del Cremlino avrebbe ringraziato il pontefice per la disponibilità mostrata dalla Santa Sede a ospitare in Vaticano futuri colloqui di pace tra Russia e Ucraina, un cambio di passo non indifferente da parte di Robert Francis Prevost rispetto al suo predecessore José Maria Bergoglio.Ma, appunto, non sembra ancora giunto il momento delle trattative. Per ora, Mosca ha proposto delle tregue temporanee (48 o 72 ore) limitate ad alcune zone del fronte per permettere a entrambi gli eserciti di recuperare i cadaveri dei caduti, ma Kiev ha rispedito l’offerta al mittente. Le diplomazie dei belligeranti sarebbero tuttavia impegnate per portare a termine un nuovo scambio di prigionieri di guerra e per la restituzione reciproca di diverse migliaia di salme. La Russia avrebbe anche accettato di rilasciare diverse centinaia di minori ucraini deportati dalle regioni occupate.

  • in

    I dazi di Trump sono illegali: una Corte federale Usa blocca l’arma commerciale di Washington

    Bruxelles – Una sentenza storica emessa dalla Corte del commercio internazionale degli Stati Uniti ha dichiarato illegittima l’imposizione dei dazi generalizzati annunciata da Donald Trump nel ‘Liberation Day’, lo scorso 2 aprile. Un colpo di scena clamoroso, che mette un freno alla linea aggressiva del presidente in materia di politica commerciale e che rimescola le carte nella complessa partita delle negoziazioni che i partner commerciali di Washington – Unione europea compresa – stanno portando avanti con la nuova amministrazione americana.La decisione, giunta ieri sera (28 maggio) da un collegio di tre giudici presso la sede della corte a New York, arriva a seguito di numerosi ricorsi presentati da imprese e stati americani, che accusano il tycoon di aver abusato dei propri poteri presidenziali. Al centro della contesa, l’uso dell’International emergency economic powers act (Ieepa), una legge nata per gestire minacce “inusuali e straordinarie” in tempi di emergenza nazionale, che secondo la corte non può essere utilizzata per introdurre dazi su scala globale. La corte ha dichiarato che gli ordini tariffari di Trump “superano qualsiasi autorità conferita al presidente in materia di regolamentazione dell’importazione tramite dazi”.Nella sentenza si sottolinea come i giudici non abbiano espresso alcun giudizio sull’opportunità o efficacia delle misure tariffarie in sé, ma piuttosto abbiano rilevato la loro incompatibilità con l’attuale quadro normativo. “L’uso dei dazi è inammissibile non perché è inefficace o poco saggio, ma perché la legge federale non lo consente”, si legge nella motivazione.Il presidente statunitense Donald Trump annuncia l’imposizione di dazi sulle importazioni dai partner globali, il 2 aprile 2025 (foto: Brendan Smialowski/Afp)La sentenza mette in discussione uno degli strumenti chiave del trumpismo economico: l’utilizzo di dazi punitivi per esercitare pressione su partner commerciali, rilocalizzare la produzione e ridurre il deficit commerciale statunitense, che ammonta a oltre 1.200 miliardi di dollari. Secondo la corte, il presidente non può aggirare il Congresso giustificando tali misure con la semplice esistenza di un disavanzo commerciale, che non costituisce di per sé un’emergenza nazionale. Il pronunciamento giudiziario invalida immediatamente tutti gli ordini tariffari emessi tramite l’Ieepa. Trump, dunque, sarà costretto a revocare i provvedimenti e, eventualmente, emettere nuovi ordini che riflettano l’ingiunzione permanente, entro dieci giorni. Va precisato che la decisione non si applica ai dazi settoriali del 25 per cento su auto, componenti, acciaio e alluminio, imposti da Trump all’Ue precedentemente e già in vigore.I mercati finanziari hanno accolto con entusiasmo la notizia. Il dollaro ha registrato un’impennata, guadagnando terreno su euro, yen e franco svizzero. In Europa, le principali borse hanno chiuso in rialzo: il Dax di Francoforte è salito dello 0,9 per cento, il Cac 40 di Parigi dell’ 1 per cento, il Ftse 100 di Londra ha guadagnato lo 0,1 per cento mentre il Ftse Mib di Milano si attesta a +0,3 per cento. I mercati asiatici hanno condiviso la scia positiva, mentre i futures a Wall Street indicano un’apertura in forte rialzo.Nonostante ciò, la Casa Bianca ha reagito duramente alla decisione. Kush Desai, portavoce dell’amministrazione, ha contestato con forza l’autorità dei giudici: “Non spetta a giudici non eletti decidere come affrontare un’emergenza nazionale”. Stephen Miller, vice-capo di gabinetto, ha parlato di “un colpo giudiziario fuori controllo”, mentre Donald Trump non ha ancora reagito ufficialmente alla questione. La decisione sarà impugnata in appello presso la Corte federale di Washington e, potenzialmente, davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Il verdetto mette in seria difficoltà la strategia di Trump, costruita su dazi estesi che miravano a rinegoziare gli equilibri commerciali globali. Senza il ricorso all’Ieepa, l’amministrazione dovrebbe ora seguire iter più lenti e complessi, basati su indagini commerciali formali e l’applicazione di altre leggi specifiche in materia doganale.US President Donald Trump speaks with European Commission President Ursula von der Leyen prior to their meeting at the World Economic Forum in Davos, on January 21, 2020. (Photo by JIM WATSON / AFP)La corte si è pronunciata su due cause principali. La prima è stata intentata da un gruppo di piccole imprese americane, che hanno lamentato danni economici ingenti, mentre la seconda è stata avviata da una dozzina di stati, guidati dall’Oregon. Il procuratore generale dello stato, Dan Rayfield, ha commentato: “Questa sentenza ribadisce che le nostre leggi contano e che le decisioni commerciali non possono dipendere dai capricci del presidente”. Gli avvocati dei ricorrenti hanno sostenuto che il deficit commerciale non costituisce un’emergenza ai sensi dell’Ieepa, ricordando che gli Stati Uniti registrano un disavanzo commerciale da 49 anni consecutivi. La tesi centrale era che l’utilizzo della legge d’emergenza per introdurre dazi fosse un abuso di potere, e la corte ha dato loro ragione.Il caso resta aperto a ulteriori sviluppi giudiziari ma intanto, con questa sentenza, i giudici mettono un argine alle derive unilaterali della politica commerciale statunitense, riaffermando la centralità del diritto, e del Congresso, nelle decisioni economiche di portata globale, e ricordando a Trump che spesso avere carte in mano non significa poterle giocare a proprio piacimento.The judicial coup is out of control. https://t.co/PRRZ1zU6lI— Stephen Miller (@StephenM) May 28, 2025

  • in

    Von der Leyen chiama Trump, nuova giravolta sui dazi: sospesi fino al 9 luglio

    Bruxelles – Nuovo passo indietro di Donald Trump sui dazi alle merci Ue. Dopo la minaccia, arrivata come un fulmine a ciel sereno, di tariffe del 50 per cento su tutte le importazioni a partire dal primo giugno, ieri (25 maggio) il presidente americano ha ricevuto la telefonata di Ursula von der Leyen. La leader Ue l’avrebbe convinto – il condizionale ormai è d’obbligo – a congelare i dazi reciproci e mantenere aperto il dialogo fino al 9 luglio, riconfermando la proroga di 90 giorni decisa lo scorso 9 aprile.“Una buona telefonata”, l’ha definita von der Leyen. La prima, da quando il tycoon è tornato alla Casa Bianca. “L’Unione europea e gli Stati Uniti intrattengono il rapporto commerciale più stretto e importante al mondo. L’Europa è pronta a far avanzare i colloqui con rapidità e decisione. Per raggiungere un buon accordo avremmo bisogno di tempo fino al 9 luglio“, ha affermato la presidente della Commissione europea in un post su X. Dall’altro capo della cornetta, Trump ha “acconsentito alla proroga” chiesta da von der Leyen. “È stato un privilegio per me farlo. La presidente della Commissione ha affermato che i colloqui inizieranno rapidamente. Grazie per l’attenzione dedicata a questa questione!”, ha scritto sul suo social Truth. In realtà, i Paesi Ue continuano comunque a essere soggetti a tariffe reciproche del 10 per cento su tutto l’export negli Stati Uniti, e a dazi del 25 per cento sull’export di acciaio, alluminio e derivati, auto e componenti.Di buono c’è che per la prima volta Washington e Bruxelles hanno stabilito un confronto diretto al massimo livello sulla questione. “È grazie all’Italia se si è avuto questo rapporto diretto von der Leyen-Trump”, si è affrettato a dire questa mattina il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani. Nel tentativo di mantenere il ruolo di mediatore abilmente ritagliatosi – e minacciato dal ponte diretto tra i due leader -, Giorgia Meloni starebbe accelerando il lavoro diplomatico per orchestrare un vertice europeo prima del D-Day.Il presidente statunitense Donald Trump annuncia l’imposizione di dazi sulle importazioni dai partner globali, il 2 aprile 2025 (foto: Brendan Smialowski/Afp)Ruolo effettivo o presunto di Roma a parte, la telefonata e le dichiarazioni immediatamente successive di Trump e von der Leyen portano una ventata di ottimismo. Lo confermano le borse europee, che oggi si sono svegliate in deciso rialzo, con il Dax di Francoforte al +1,76 per cento, il Cac40 di Parigi al +1,36 per cento e il Ftse Mib di Milano al +1,53 per cento.Ora la palla torna nelle mani di Maroš Šefčovič, il commissario europeo per il commercio, che guida i complessi negoziati con le controparti americane. Finora, il socialista slovacco sta tornando da Washington ogni volta a mani vuote: venerdì scorso (23 maggio), l’ultimo round di negoziati ha portato all’annuncio furioso di Trump – che ha addirittura raddoppiato l’onere delle tariffe sull’import Ue rispetto a quanto previsto nel ‘Liberation Day‘ – accompagnato dal commento: “Le nostre discussioni con loro non stanno andando da nessuna parte!“.Lo stesso Šefčovič aveva dichiarato piccato, dopo i colloqui con il rappresentante commerciale americano Jamieson Greer e il segretario al Commercio Howard Lutnick, che il commercio tra Ue e Stati Uniti “deve essere guidato dal rispetto reciproco, non dalle minacce“. Aggiungendo che Bruxelles è “pronta a difendere i nostri interessi”. Il piano B svelato dalla Commissione europea, in caso le trattative naufragassero, prevede contromisure su una lunga lista di prodotti americani, dal valore di 95 miliardi di euro, e una procedura formale contro Washington all’Organizzazione Mondiale del Commercio. Ma anche Bruxelles ha un asso nella manica con cui minacciare Trump: lo strumento anti-coercizione, con cui potrebbe tassare pesantemente i profitti delle big tech americane nel vecchio continente. La Commissione europea ha fatto sapere che già oggi pomeriggio Šefčovič avrà un nuovo contatto telefonico con Lutnick.