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    Kiev e l’Ue tentano di capire cosa succederà all’Ucraina con la rielezione di Trump

    Bruxelles – Ora che Donald Trump è stato rieletto alla Casa Bianca, l’Europa cerca di prevedere quali saranno le sue mosse su uno dei fronti internazionali più caldi, quello della guerra in Ucraina. Mentre a Bruxelles si teme che il sostegno militare e finanziario a stelle e strisce possa diminuire drasticamente o addirittura interrompersi, a preoccupare Kiev c’è soprattutto la promessa del presidente (ri)eletto di mettere fine al conflitto “in 24 ore”. Il capo dello Stato ucraino, Volodymyr Zelensky, sta lanciando messaggi decisamente eloquenti al suo omologo statunitense, per impedire che imponga all’ex repubblica sovietica un processo di pace accelerato che rischia di tramutarsi in una “sconfitta”.Zelensky a BudapestDopo essersi congratulato con Trump per la sua vittoria nelle urne, il presidente ucraino è tornato sulla questione del sostegno di Washington agli sforzi bellici di Kiev ieri (7 novembre) in occasione del quinto incontro della Comunità politica europea, ospitato a Budapest dal premier ungherese Viktor Orbán. Lì, parlando ai giornalisti, ha ammesso che “il presidente Trump vuole davvero una decisione rapida” su come giungere alla fine delle ostilità con la Russia, ma ha aggiunto che “ciò non significa che andrà in questo modo”. Perché, ha insistito, “tutti vogliamo che questa guerra finisca, ma con una fine giusta”: se il processo di pace “è troppo veloce, sarà una sconfitta per l’Ucraina”, ha detto chiaro e tondo.Anche il padrone di casa è apparso fiducioso sulle prospettive per una risoluzione diplomatica del conflitto aperte dal ritorno di Trump alla Casa Bianca. “Quelli che vogliono la pace sono sempre più numerosi”, ha dichiarato Orbán, rinnovando il suo appello per un cessate il fuoco immediato. “La precondizione per la pace è la comunicazione”, ha spiegato il leader magiaro, e “la condizione per la comunicazione è un cessate il fuoco”, il quale “può fornire margine e tempo alle parti in conflitto” per “cominciare a negoziare la pace”.Il primo ministro ungherese, Viktor Orbán (foto: European Council)Appello immediatamente bollato come “pericoloso” e “irresponsabile” da Zelensky, secondo cui una tregua in questo momento – cioè con circa un quinto del territorio ucraino in mano alle forze di Mosca, che stanno peraltro avanzando anche sul fronte del Donbass – equivarrebbe a “distruggere la nostra indipendenza e la nostra sovranità”. “Abbiamo già provato” a raggiungere un cessate il fuoco nel 2014, ha ricordato il presidente ucraino, “e abbiamo perso la Crimea, e poi abbiamo avuto l’invasione su larga scala nel 2022”. Come a dire: non è possibile fidarsi di Vladimir Putin, perché non è realmente interessato alla pace.Qual è l’idea di pace secondo Trump?Cercare di capire l’idea di “pace” che avrebbe in mente Trump è dunque, comprensibilmente, la questione centrale che arrovella l’intera leadership ucraina. Per ora, il presidente eletto non ha fatto trapelare pubblicamente alcun dettaglio su come intende risolvere la crisi che da dieci anni tormenta l’ex repubblica sovietica, ma alcune indiscrezioni giornalistiche parlano di diverse opzioni sul tavolo del leader repubblicano.E tutte, allontanandosi dall’approccio seguito dall’amministrazione Biden (cioè quello di lasciar decidere a Kiev quando avviare le trattative), prevedono che l’Ucraina rinunci ad una parte del suo territorio riconosciuto internazionalmente, cioè quello disegnato dai confini del 1991. In alcune versioni si tratterebbe delle regioni occupate militarmente da Mosca, in altre di una sorta di zona cuscinetto demilitarizzata (sul modello delle due Coree) i cui contorni andrebbero negoziati a tavolino e che andrebbe pattugliata da truppe internazionali. Le quali, beninteso, dovranno essere europee e non statunitensi: “Non manderemo uomini e donne americani a difendere la pace in Ucraina”, ha dichiarato un membro dell’entourage di Trump, suggerendo di farlo fare “ai polacchi, ai tedeschi, agli inglesi e ai francesi”.Un altro elemento ricorrente sarebbe l’imposizione di una qualche forma di neutralità a Kiev, quella che veniva ironicamente chiamata “finlandizzazione” dell’ex repubblica sovietica prima che Helsinki decidesse di entrare nella Nato poco dopo l’avvio dell’invasione russa. Sempre secondo questi ipotetici piani, l’ingresso nell’Alleanza nordatlantica verrebbe congelato almeno temporaneamente per l’Ucraina, che in cambio continuerebbe a ricevere sistemi d’arma occidentali come deterrente contro un’eventuale nuova aggressione.L’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, celebra la rielezione il 6 novembre 2024 (foto: Jim Watson/Afp)Un’ulteriore opzione, ancora più radicale, proposta da alcuni collaboratori della prima amministrazione Trump per costringere Kiev a sedersi al tavolo delle trattative sarebbe invece quella di interrompere le forniture di armi alla resistenza ucraina. Si tratta dell’ipotesi peggiore per Zelensky e i suoi: non solo entrerebbero nei negoziati da una posizione di estrema debolezza, ma non riuscirebbero nemmeno a contenere ulteriori attacchi russi se Putin decidesse che, prima di trattare, vuole annettere alla Federazione qualche altro pezzo dell’ex repubblica sovietica. Si tratterebbe, in altre parole, di lasciare carta bianca al Cremlino.Visione strategicaPer Kiev, l’imperativo è far capire a Trump che sostenere l’Ucraina è nello stesso interesse di Washington. Da un lato, perché qualunque soluzione temporanea al conflitto che sia troppo vantaggiosa per la Russia rischia di trasmettere a Mosca il messaggio che, alla fine, l’ha avuta vinta e che quindi può ritentarci quando vuole. Che poi è quello che è successo quando, dieci anni fa, non ci sono state grosse conseguenze per l’annessione unilaterale della Crimea e lo stazionamento di truppe in Donbass, due violazioni della sovranità ucraina che hanno posto le basi per la guerra su larga scala del 2022.Dall’altro perché, se parti dell’Ucraina cadranno definitivamente in mano alla Russia, l’Europa e gli Stati Uniti perderanno l’accesso alle risorse naturali del Paese aggredito, nonché agli asset militari che Kiev ha sviluppato in due anni e mezzo di guerra e che potrebbero essere utilizzati per la sicurezza del Vecchio continente in sinergia con le forze Nato.È questo, in fin dei conti, il senso del “piano per la vittoria” che Zelensky ha presentato ai leader dei Ventisette il mese scorso: al netto della richiesta di far entrare l’Ucraina nell’Alleanza, il presidente ha messo nero su bianco quello che il suo Paese può offrire in cambio dell’aiuto internazionale. Per far passare il messaggio che l’investimento occidentale è strategico, a lungo termine, e che cedere a Putin ora significherebbe compromettere la sicurezza dell’Europa intera.Nel frattempo, l’Ue cerca di correre ai ripari come può. Proprio oggi (8 novembre) il Consiglio ha esteso di altri due anni – fino al novembre 2026 – il mandato della sua missione di assistenza militare all’Ucraina (Eumam Ukraine), dotandola di un budget da circa 409 milioni di euro. Un messaggio simbolico di sostegno a Kiev, ma poco più che noccioline se si considera l’entità delle spese che deve sostenere la resistenza. Allo stato attuale, difficilmente i Ventisette sarebbero in grado di mantenere a galla l’Ucraina da soli nel caso in cui dovessero realmente venire meno gli aiuti dall’altro lato dell’Atlantico.

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    L’Ue sul filo del rasoio

    Di Ian LesserL’Europa non è stata colta di sorpresa. I circoli politici all’interno e all’esterno dell’Ue si stanno preparando da tempo per una potenziale vittoria di Donald Trump.La preoccupazione attuale, tuttavia, è diversa da quella del 2016, quando l’attenzione era rivolta alla gestione di Trump come personalità politica. La questione persiste, ma ora ci sono altre questioni più preoccupanti.In primo luogo, è probabile che le differenze commerciali e regolamentari esistenti nell’Atlantico impallidiscano di fronte alle sfide poste dalle tariffe proposte da Trump. C’è la prospettiva di una guerra commerciale aperta degli Stati Uniti con la Cina, con implicazioni negative per l’Europa. Con ogni probabilità, questo protezionismo si estenderà all’UE. Il ritorno di Trump alimenterà il nazionalismo economico, già in crescita su entrambe le sponde dell’Atlantico. L’Europa, già alle prese con una crescita lenta e una competitività in calo, non ha carte forti in questo gioco.In secondo luogo, Trump farà sicuramente molta più pressione sull’Europa per quanto riguarda la condivisione degli oneri della difesa. È improbabile che si concretizzino gli scenari più estremi di un ritiro americano dalla Nato o di un completo disimpegno dalla sicurezza europea. Ma la prospettiva di un più rapido allontanamento degli Stati Uniti dall’Europa in termini di sicurezza è scoraggiante anche per coloro che vedono con favore una maggiore autonomia strategica europea. Questo obiettivo, tuttavia, rimane in gran parte aspirazionale. La capacità dell’Europa di compensare i cambiamenti nella posizione e nella credibilità della difesa americana è lontana, nella migliore delle ipotesi, molti anni. Su una serie di questioni di politica internazionale vicine agli interessi europei, dall’Iran alla sicurezza energetica, Bruxelles e Washington non saranno sulla stessa pagina.In terzo luogo, il contrasto con gli anni di Biden sarà probabilmente più pronunciato nell’atteggiamento di Washington verso l’Ue stessa. L’amministrazione uscente vedeva il blocco come un interlocutore chiave su una serie di questioni di politica internazionale, non solo sul commercio. C’è stata una relazione particolarmente stretta tra la Casa Bianca e la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il suo gabinetto. Si tratta di un fatto insolito. Le precedenti amministrazioni statunitensi, indipendentemente dal partito, erano generalmente meno entusiaste, preferendo un impegno bilaterale con i principali alleati europei. Una seconda amministrazione Trump probabilmente inquadrerà le relazioni con l’Europa in termini bilaterali, con i singoli Stati e i singoli leader, alcuni dei quali saranno abbastanza a loro agio con l’esito delle elezioni statunitensi. Bruxelles potrebbe essere emarginata.Questo commento è stato originariamente pubblicato sul sito del German Marshall Fund of the United States.

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    Trump torna alla Casa Bianca, e l’Unione europea si preoccupa

    Bruxelles – Dopo aver tenuto il mondo col fiato sospeso per mesi, alla fine le presidenziali statunitensi si sono concluse con la rielezione di Donald Trump. Lo scrutinio dei voti non è ancora completato, ma dai risultati parziali disponibili mercoledì mattina (6 novembre) è già certo che sarà il tycoon newyorkese a varcare, per la seconda volta, la soglia dell’ufficio ovale della Casa Bianca, da cui rimarrà invece esclusa la vicepresidente in carica, la candidata democratica Kamala Harris. È l’esito che temevano (quasi) tutti sull’altra sponda dell’Atlantico, poiché rischia di mettere nuovamente a dura prova le relazioni tra Washington e Bruxelles, nonostante i leader europei si stiano già congratulando con il presidente neo-rieletto.I risultati parzialiMancano ancora i risultati definitivi di cinque Stati – Alaska, Arizona, Maine, Michigan e Nevada – ma il quadro finale è già abbondantemente chiaro. Con 277 delegati già assicurati contro i 224 cui è rimasta inchiodata la sfidante democratica, il capo-padrone del Partito repubblicano (il Grand old party, come lo chiamano negli Usa) può dirsi già certo della rielezione, per la quale gliene bastavano 270. (Qui avevamo spiegato come funziona il complesso meccanismo del voto indiretto negli Usa.)Il voto popolare riflette del resto il vantaggio di Donald Trump su Kamala Harris: oltre 71 milioni per il primo, poco più di 66 milioni per la seconda. Così, dopo essere stato il 45esimo, Trump sarà il 47esimo presidente degli Stati Uniti, anche se la sua nomina formale da parte dei delegati all’Electoral college non avverrà prima di dicembre. L’insediamento è in calendario per il 20 gennaio 2025, qualche giorno dopo l’anniversario dell’assalto a Capitol Hill, da lui stesso fomentato il 6 gennaio 2021.Com’è andata l’elezionePer la seconda volta nella storia degli Usa, un ex presidente ha ottenuto un secondo mandato non consecutivo al primo (il precedente è di Grover Cleveland, presidente dal 1885 al 1889 e poi dal 1893 al 1897). Per la seconda volta, la candidata donna è stata sconfitta, ed entrambe le volte a vincere è stato proprio Trump (con Harris ora, con Hillary Clinton otto anni fa).Ma un dato importante da osservare è quello relativo ai consensi. Il candidato del Gop ha fatto meglio rispetto alla volta scorsa virtualmente ovunque: in ogni Stato, in ogni gruppo etnico, in ogni segmento d’età della popolazione (con aumenti anche di 12 punti percentuali, come in alcune contee in Florida). Dei sette swing states che secondo i pronostici avrebbero deciso l’esito della corsa presidenziale, l’ex inquilino della Casa Bianca ha sicuramente conquistato la Georgia, il North Carolina, la Pennsylvania (il più succulento in termini di voti, coi suoi 19 grandi elettori) e il Wisconsin, ed è in vantaggio anche in quelli dove il conteggio non è ancora terminato.Scoramento tra i sostenitori della candidata democratica Kamala Harris all’evento elettorale della Howard University a Washington, il 5 novembre 2024 (foto: Charly Triballeau/Afp)Soprattutto, Trump è riuscito a “ribaltare” tre Stati che erano blu (cioè erano andati ai dem) nell’ultima tornata elettorale del 2020, vinta dal presidente uscente Joe Biden, e facendoli diventare rossi (cioè a maggioranza repubblicana): Georgia, Pennsylvania e Wisconsin, cui si sta per aggiungere il Michigan. Insomma, nel cosiddetto blue wall – letteralmente “muro blu”, costituito da una dozzina di Stati che avevano rappresentato altrettante roccaforti democratiche dai primi anni Novanta (pur con qualche oscillazione nelle ultime tre elezioni) – si sono aperti dei buchi importanti, spalancando al tycoon le porte della Casa Bianca. Viceversa, Harris è andata male anche in quei distretti dove ci si aspettava una vittoria dei democratici.Non solo. Oltre alla presidenza, gli elettori votavano ieri anche per rinnovare un terzo dei senatori e l’intera Camera dei rappresentanti. I repubblicani hanno ottenuto la maggioranza al Senato (il che faciliterà il processo con cui Trump dovrà nominare esponenti dei rami esecutivo e giudiziario), mentre non è ancora detta per la Camera, dove i dem potrebbero avere ancora qualche flebile speranza. Se pure quella andrà al Gop, Trump avrà il Congresso in pugno almeno fino alle prossime elezioni di mid-term.Le reazioni dall’EuropaMercoledì mattina, Trump ha reclamato la vittoria durante un comizio in Florida, annunciando l’inizio di “una nuova età dell’oro per l’America”. Ma già nella notte tra martedì e mercoledì, dall’altra sponda dell’oceano sono cominciate ad arrivare le prime reazioni dei leader europei. La presidente dell’esecutivo Ue, Ursula von der Leyen, si è congratulata “calorosamente” con il candidato repubblicano, sottolineando la volontà di “lavorare insieme su un’agenda transatlantica forte”.Le ha fatto eco il presidente uscente del Consiglio europeo, Charles Michel, che ha ribadito come tra Usa e Ue ci sia “un’alleanza duratura e un legame storico” e come vada mantenuta la “cooperazione costruttiva” tra Washington e Bruxelles, “difendendo il sistema multilaterale basato sulle regole”. Al momento in cui scriviamo, non c’è alcuna comunicazione ufficiale da parte del capo della diplomazia comunitaria, l’Alto rappresentante Josep Borrell.Congratulations to President-elect @realDonaldTrump.& have an enduring alliance and a historic bond. As allies and friends, the EU looks forward to continuing our constructive cooperation.The EU will pursue its course in line with the strategic agenda as a strong,…— Charles Michel (@CharlesMichel) November 6, 2024Che la maggior parte delle cancellerie europee sperassero in una vittoria di Harris, comunque, è un segreto di Pulcinella. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha il potenziale di cambiare molte cose per Bruxelles in diversi dossier cruciali e in una congiuntura internazionale particolarmente delicata. Un cambiamento che avrebbe il sapore del ritorno ad un passato che l’Ue aveva vissuto con estrema difficoltà e che era ben contenta di aver archiviato.Le conseguenze per l’Ue (e il mondo)Uno dei sismi maggiori arriverà in politica estera. A partire dall’Ucraina, dove da due anni e mezzo infuria una guerra che il neo-eletto presidente ha millantato di poter far finire nel giro di 24 ore. Non a caso, una delle prime reazioni alle elezioni è arrivata proprio da Kiev: “Continuiamo a contare sul forte supporto bipartisan per l’Ucraina negli Stati Uniti”, ha scritto su X Volodymyr Zelensky. Il suo Paese, ha detto, “è impegnato nell’assicurare pace e sicurezza a lungo termine all’Europa e alla comunità transatlantica, con il sostegno dei nostri alleati”. Come a dire: noi vogliamo continuare a difenderci, ma ci serve l’aiuto di Washington. Che, con Trump alla Casa Bianca, non può essere dato per scontato, dato che il presidente eletto ha fatto ampiamente intendere che punta a ridurre fortemente, o addirittura interrompere completamente, gli aiuti militari e finanziari a Kiev.Sullo scacchiere mediorientale, una seconda presidenza Trump significherà con ogni probabilità che il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrà carta bianca per continuare la sua guerra regionale, potendo contare sulla protezione incondizionata dell’ombrello a stelle e strisce in qualsiasi confronto miliare con i molti nemici dello Stato ebraico. Si spiega così la reazione di giubilo del capo del governo di Tel Aviv per la “enorme vittoria” del candidato repubblicano: “Congratulazioni per il ritorno più grande della storia!”, ha scritto Netanyahu su X, aggiungendo che tale “ritorno storico alla Casa Bianca offre un nuovo inizio all’America e un rinnovo del convinto impegno nella grande alleanza tra Israele e l’America”.Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (sinistra) e la moglie Sara in visita alla residenza di Donald Trump a Mar-a-Lago, in Florida (foto: Afp via Israeli government)In dubbio, almeno in termini di contribuzione finanziaria, potrebbe essere anche la partecipazione statunitense alla Nato. L’uscita di Washington dall’Alleanza appare ad oggi remota, ma è verosimile che nei prossimi quattro anni l’Europa debba ripensare in maniera strutturale la propria sicurezza, nel caso in cui Trump non voglia garantirla di fronte, ad esempio, all’aggressivo neo-imperialismo del presidente russo Vladimir Putin.Anche il commercio internazionale subirà un duro colpo a causa dei pesanti dazi che Trump ha annunciato di voler reintrodurre non soltanto sui prodotti made in China ma anche su quelli provenienti dal Vecchio continente. Un problema che si presenterà non solo per la Germania, che di fatto vive del suo export, ma anche per l’Italia (vedi ad esempio alla voce esportazioni casearie). Tanto che la premier Giorgia Meloni ha provato subito a metterci una pezza, richiamando l’importanza dei legami transatlantici come fatto dai vertici comunitari e ricordando come i due Paesi siano “Nazioni sorelle, legate da un’alleanza incrollabile, valori comuni e una storica amicizia” e da un “legame strategico”.Altri ambiti in cui la cooperazione tra Europa e Stati Uniti potrebbe presto entrare in crisi sono quelli del contrasto al cambiamento climatico (Trump nel 2020 ha ritirato Washington dagli accordi di Parigi) e della transizione energetica, visto che il neo-eletto presidente è un fautore del ricorso alle fonti fossili e di tecniche di estrazione controverse come il fracking.

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    Presidenziali Usa, come funziona l’elezione dal risultato imprevedibile

    Bruxelles – Sembra quasi un paradosso, ma forse dice qualcosa sullo stato del mondo di questi tempi. Le presidenziali negli Stati Uniti, cioè le elezioni più importanti del 2024 – un anno elettorale senza precedenti nella storia globale – sono praticamente impossibili da prevedere. La posta in gioco è decisamente alta, soprattutto sullo scacchiere internazionale, ma mai come stavolta il risultato della sfida a due per la Casa Bianca è stato così difficile da anticipare. E si ridurrà tutto, alla fine, alla conquista di pochi Stati in bilico, o addirittura di uno solo. Potrebbe essere decisiva una manciata di voti. Ecco cosa c’è da sapere sul testa a testa tra la candidata democratica e vicepresidente in carica, Kamala Harris, e lo sfidante repubblicano ed ex presidente, Donald Trump, che si sta combattendo oggi (5 novembre) e che avrà enormi ripercussioni per il mondo in generale e per l’Europa in particolare.Come funziona il votoPer cominciare, va ricordato che quelle per la scelta del presidente degli Stati Uniti non sono elezioni dirette ma indirette: i cittadini non votano per il loro candidato preferito, bensì per la lista dei cosiddetti grandi elettori collegata al candidato suddetto. Ciascuno Stato federato dispone di un numero di grandi elettori (detti anche delegati) pari alla somma totale dei suoi rappresentanti al Congresso: il numero dei deputati alla Camera varia in base alla popolazione, mentre ogni Stato ha due senatori. Così, ad esempio, quest’anno la California ha 54 grandi elettori e il Delaware tre. Ci sono inoltre tre rappresentanti per il District of Columbia, il territorio non statale dove ha sede la capitale federale di Washington.Ora, l’assegnazione dei delegati avviene quasi sempre con il sistema winner-takes-all: tutti i grandi elettori di uno specifico Stato vengono ottenuti dal candidato presidente che ottiene la maggioranza semplice nel voto popolare di quello Stato (50 per cento più uno dei consensi). Solo due Stati, il Maine e il Nebraska (quattro e cinque delegati rispettivamente), adottano un metodo proporzionale: i due delegati “territoriali” (cioè quelli in rappresentanza del Senato) vengono ottenuti da chi vince il voto popolare su base statale, mentre gli altri vengono ripartiti tra i vari distretti elettorali in cui si dividono i due Stati.Il collegio elettoraleI grandi elettori sono in tutto 538 e si riuniranno a dicembre formando quello che si chiama Electoral college, letteralmente collegio elettorale, un organo che decide tramite un voto di “secondo livello” chi guiderà la Casa Bianca a partire dal 6 gennaio 2025. Il “numero magico”, cioè la soglia da superare per ottenere la presidenza, è di 270 voti, la maggioranza semplice dei grandi elettori. Nel caso in cui si arrivasse ad un pareggio (entrambi i candidati a 269 voti), a decidere tra i due è la Camera dei deputati, che attualmente è a maggioranza repubblicana.Un simile meccanismo comporta che, tecnicamente, per i candidati presidenti non è tanto importante vincere il voto popolare quanto assicurarsi un numero sufficiente di delegati nell’Electoral college. Per quanto possa sembrare controintuitivo, le due cose non sono necessariamente collegate: vincere il voto popolare su base nazionale (cioè quello dei cittadini in tutti e 50 gli Stati della federazione) non assicura automaticamente la presidenza se non si vincono abbastanza grandi elettori. Nell’ultimo quarto di secolo, per due volte è stato eletto presidente il candidato che aveva perso il voto popolare: nel 2000 con George W. Bush (contro lo sfidante Al Gore) e nel 2016 con Donald Trump (contro Hillary Clinton).Gli Stati in bilicoEcco perché, in questa competizione elettorale, la geografia politica gioca un ruolo determinante. Alcuni Stati sono tradizionalmente democratici (o blu, dal colore del partito) mentre altri sono roccaforti repubblicane (o rossi). La vera battaglia si combatterà invece in una manciata di Stati che si suole definire “in bilico” (gli swing states), in cui cioè non c’è una netta preferenza per nessuno dei due partiti: si tratta di Arizona (11 delegati), Georgia (16), Michigan (15), Nevada (6), North Carolina (16), Pennsylvania (19) e Wisconsin (10).Attualmente, secondo le ultime proiezioni, Harris dovrebbe già contare con ragionevole certezza su un tesoretto di 226 delegati mentre Trump su un numero che andrebbe da 219 a 230. Ad essere determinanti saranno insomma le “combinazioni” di Stati in bilico che ciascuno dei due candidati potrà portare a casa: se è pur vero che la Pennsylvania, coi suoi 19 grandi elettori, è quello più “succulento”, è anche vero che vincere solo quello non sarà sufficiente se non verranno conquistati anche i delegati di almeno altri due swing states. Uno degli scenari più accreditati in questo momento è quello per cui Trump riesce ad assicurarsi l’Arizona, la Georgia, il Nevada ed il North Carolina, arrivando a 268 delegati, mentre Harris si attesterebbe a 251 conquistando Michigan e Wisconsin. A quel punto, i 19 voti della Pennsylvania sarebbero determinanti per aprire ad entrambi le porte della Casa Bianca.Cosa dicono i sondaggiE qui si aprono i problemi delle previsioni. In nessuno dei sondaggi disponibili si registra un vantaggio netto di un candidato nei sette swing states: nella maggior parte dei casi, il distacco è inferiore ai due punti percentuali, cioè troppo vicino al margine di errore per poter accettare le rilevazioni come affidabili. In Pennsylvania sembrerebbe in leggero vantaggio Trump, ma il testa a testa è così serrato che si parla di una distanza dello 0,3 per cento.C’è anche il caso di un recente sondaggio che darebbe Harris in vantaggio su Trump di quattro punti in Iowa, uno Stato che nelle ultime due elezioni è andato ai repubblicani e che si pensava sarebbe rimasto rosso anche stavolta. Potrebbe trattarsi di un abbaglio (ricordiamo che i sondaggi non sono una scienza esatta, per quanto i modelli che adottano migliorino col tempo), oppure di una dinamica capace di rimettere in discussione anche altri Stati che i due partiti considerano blindati.A livello nazionale, i sondaggi danno Harris in lieve vantaggio, ma si tratta di una distanza dell’1 per cento. Il tycoon newyorkese era davanti all’attuale presidente, Joe Biden, finché quest’ultimo non si è ritirato lo scorso luglio lasciando il posto alla sua vice. Da allora, Harris è rimasta quasi sempre in testa, ma negli ultimi giorni il distacco tra i due candidati si è ridotto.I risultati definitiviAd ogni modo, per sapere chi ha vinto le elezioni dovremo probabilmente aspettare un po’. Gli ultimi seggi chiudono in Alaska e alle Hawaii alla mezzanotte locale, cioè le 6 di mercoledì mattina in Italia. Le prime elaborazioni parziali dei risultati dovrebbero arrivare già intorno alle 2 di notte, ma difficilmente si potrà avere un quadro sufficientemente completo della situazione prima delle 7-8 di mattina. Questo, naturalmente, nel caso in cui l’esito del voto sia chiaro: altrimenti, il conteggio potrebbe prendere ancora più tempo. Nel 2020, ad esempio, ci sono voluti quattro giorni perché Biden fosse proclamato presidente eletto, mentre nel 2000 Bush ha dovuto aspettare un mese prima che il suo sfidante concedesse la sconfitta.Data la crescente polarizzazione dell’elettorato statunitense e la pervasività di fake news e teorie del complotto, c’è da aspettarsi che, se i risultati di quest’elezione non consegneranno una vittoria netta a nessuno dei due candidati, la parte sconfitta rifiuti di riconoscere la vittoria dell’altra e si mobiliti per contestarla: tramite l’avvio di infinte cause legali nel migliore dei casi o, nel peggiore, con una riedizione dell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021.

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    Presidenziali Usa: Trump contro Harris, e l’Europa nel mezzo

    Bruxelles – La corsa per le presidenziali statunitensi è ormai giunta all’ultimo miglio. La data fatidica del 5 novembre si fa sempre più vicina, e nell’Unione europea aumenta di giorno in giorno l’apprensione per l’esito di quello che è forse il voto più rilevante di questo anno elettorale senza precedenti nella storia globale. A Bruxelles, la vittoria di Donald Trump è vissuta come un pericolo da scongiurare a ogni costo, mentre se venisse eletta Kamala Harris tutte le cancellerie (o quasi) dei Ventisette tirerebbero un sospiro di sollievo. Su quasi tutti i temi di interesse europeo le priorità dell’ex presidente repubblicano e della sua sfidante democratica si pongono in sostanziale opposizione. Quali potrebbero essere dunque i risvolti per l’Europa (e soprattutto l’Ue) nel caso di una vittoria dell’uno o dell’altra contendente?Politica esteraSicuramente, uno degli ambiti nei quali si misurano distanze siderali tra i due candidati è quello della politica estera. Per quanto riguarda la guerra in Ucraina, ad esempio, Trump ha ripetuto più volte che intende, a modo suo, mettere fine al più presto al conflitto. Secondo le indiscrezioni, il tycoon newyorkese intenderebbe proporre al presidente ucraino Volodymyr Zelensky di cedere alla Russia almeno una parte delle regioni occupate, probabilmente alcune aree del Donbass e la Crimea, in cambio della cessazione delle ostilità. Se Washington decidesse di interrompere dall’oggi al domani il sostegno militare e finanziario a Kiev, sarebbe difficile per gli europei continuare a difendere l’ex repubblica sovietica.L’effetto che il disimpegno statunitense dall’Ucraina avrebbe sulla sicurezza del Vecchio continente – cui Trump non sembra essere particolarmente interessato – è difficilmente calcolabile ma sarebbe senza dubbio estremamente negativo per gli alleati transatlantici, che solo di recente (anche di fronte alla prospettiva di un secondo mandato dell’ex presidente) hanno iniziato a prendere più seriamente la questione della cosiddetta autonomia strategica.Un’amministrazione Harris si porrebbe invece su una linea di continuità con le scelte prese dal presidente uscente Joe Biden: Congresso permettendo, il supporto all’Ucraina verrebbe garantito almeno nel medio periodo. La vicepresidente democratica uscente ha esplicitamente criticato come “arrendevoli” le posizioni del rivale, rifiutando qualunque negoziato bilaterale con Mosca che escluda Kiev.Riguardo allo scacchiere mediorientale le differenze tra Harris e Trump potrebbero essere più sfumate, data la tradizionale solidità dell’alleanza tra Washington e Tel Aviv. Tuttavia, è verosimile che una Casa Bianca guidata dall’ex presidente garantirebbe allo Stato ebraico un appoggio virtualmente incondizionato (va ricordato che fu Trump l’architetto dei cosiddetti accordi di Abramo del 2020 per la normalizzazione dei rapporti diplomatici nella regione), finendo per esacerbare ancora di più le divisioni tra i Ventisette sulla crisi regionale in corso.La sfidante democratica potrebbe tentare di mettere alle strette (si fa per dire) il premier israeliano Benjamin Netanyahu, anche se, ormai, quest’ultimo appare più una scheggia impazzita (disposto a colpire addirittura i caschi blu dell’Onu) che un partner affidabile. Ma il Medio Oriente è un tassello troppo importante per la politica estera statunitense perché qualunque presidente abbandoni l’alleato storico al proprio destino.Il futuro della NatoLa guerra d’Ucraina si intreccia poi con la questione relativa al futuro della Nato: da tempo, Trump denuncia quello che definisce un impegno insufficiente da parte degli alleati del Vecchio continente (alcuni dei quali non hanno ancora raggiunto il target del 2 per cento del Pil da destinare alle spese militari), e ha polemicamente invitato il presidente russo Vladimir Putin a invadere i Paesi europei che non fanno la propria parte. Nemmeno il Congresso sembra dormire sonni tranquilli, dato che ha recentemente adottato una legge in cui si mette nero su bianco che per ritirare gli Usa dall’Alleanza non basta un decreto presidenziale ma serve l’approvazione parlamentare.Nei fatti, comunque, se Trump volesse ridimensionare la partecipazione statunitense alla Nato non avrebbe bisogno di abbandonarla: basterebbe semplicemente, in caso di attivazione del famigerato articolo 5 della Carta nordatlantica (per cui, in caso di attacco ad uno Stato membro, tutti gli altri dovrebbero “adottare le misure che ritengono necessarie per proteggere l’alleato attaccato”), non fornire una risposta militare ma semplicemente supporto diplomatico o civile. Da mesi, nella sede della Nato a Bruxelles, le alte sfere degli altri 31 Paesi membri stanno escogitando piani su come mantenere funzionale l’organizzazione (la cui guida è da poco passata nelle mani dell’ex premier olandese Mark Rutte) anche nel caso di una rielezione del candidato repubblicano.Politica commercialeLa politica commerciale è invece una materia in cui le differenze tra Harris e Trump potrebbero non essere così marcate come si crede. Durante il suo primo mandato, quest’ultimo ha preso alla sprovvista i partner europei con un’agenda (eloquentemente soprannominata America first) di feroce protezionismo, imponendo tariffe doganali elevate sulle importazioni dall’estero e mettendo in crisi il principio alla base del commercio internazionale, cioè l’apertura dei mercati.Se con la Cina c’è stata una vera e propria guerra dei dazi, nemmeno i Ventisette si sono vissuti tranquillamente la presidenza Trump, a cominciare dalla Germania (che letteralmente sopravvive grazie all’export). Il candidato repubblicano ha recentemente ventilato l’idea di reintrodurre tasse del 10 per cento su tutti i prodotti esteri in entrata negli States, provocando un certo panico al di là dell’Atlantico. Un’altra tecnica che l’ex presidente potrebbe adottare è quella di colpire con dazi mirati solo determinate tipologie di merci, creando così una dinamica di rivalità e competizione interna in Europa, secondo la vecchia tattica del divide et impera.D’altra parte, una presidenza democratica significherebbe il mantenimento di normali rapporti commerciali con l’Europa e con il resto del mondo, ma le scelte di Harris si porrebbero verosimilmente in continuità con quelle del suo predecessore. Il quale, partendo dall’eredità dell’era Trump, ha espanso l’arsenale di armi economiche in funzione anti-cinese e ha stimolato la produzione interna con l’Inflation reduction act (Ira), che a Bruxelles è stato visto come un gesto di concorrenza sleale – tanto che ha fatto da base di partenza per le riflessioni, incluse quelle del report di Mario Draghi, sul rilancio della competitività europea e sulla necessità di una strategia industriale comune.Cooperazione internazionaleIl ritorno del trumpismo, che nella sua essenza (non solo economica) è isolazionista e protezionista, avrebbe dei riflessi anche nei rapporti internazionali degli Usa, il che a sua volta produrrebbe inevitabili ricadute anche sull’Ue. Non è un mistero che l’ex presidente nutra poco rispetto per il multilateralismo, che dipinge più spesso come una camicia di forza che non come un’opportunità.Una differenza fondamentale tra i due candidati è proprio l’approccio verso gli alleati e più in generale i partner internazionali: per Harris si tratta di risorse potenzialmente fondamentali, per Trump di pesi morti o addirittura sanguisughe di cui sbarazzarsi. Stesso dicasi per le istituzioni multilaterali: la prima, in continuità con il suo attuale capo, punterebbe a farne uso e, eventualmente, riformarle, mentre il secondo preferisce ignorarle se non direttamente eliminarle.Per citare un tema in cui la cooperazione internazionale è centrale, il tycoon è convintamente ostile agli sforzi multilaterali in ambito climatico e ambientale. Nel 2020 ha fatto ritirare gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi del 2015, che ha definito “un disastro”, e ha promesso che se verrà rieletto continuerà su questa strada, annullando il rientro del Paese nel trattato (voluto da Biden all’inizio della sua presidenza) e magari andando anche oltre.Sul versante energia, una presidenza Trump 2.0 riporterebbe poi in auge (ancora di più) l’approvvigionamento energetico tramite i combustibili fossili, il che andrebbe evidentemente contro agli obiettivi che Bruxelles si è imposta con il Green deal. Harris dovrebbe invece puntare più decisamente sulle fonti rinnovabili, potenzialmente coinvolgendo l’Europa e altri partner globali nel percorso verso il definitivo phasing out degli idrocarburi.

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    L’attentato a Donald Trump indigna l’Ue. La condanna unanime dei leader alla violenza politica

    Bruxelles – “La violenza politica non ha posto in una democrazia”. Le parole con cui Ursula von der Leyen ha condannato l’attentato a Donald Trump sono il leit-motiv che si ritrova in tutti i commenti dei leader europei. Dopo il tentato omicidio del primo ministro slovacco, Robert Fico, e diversi casi di aggressioni a candidati alle elezioni europee in Germania e in Francia, l’Europa non si sente più immune alla spirale di violenza politica che ha toccato il suo apice al comizio del candidato repubblicano alla Casa Bianca a Butler, in Pennsylvania.Sabato 13 luglio, l’ex presidente americano è stato ferito ad un orecchio da un proiettile sparato da un giovane elettore repubblicano, Thomas Matthew Crooks, durante l’ultimo comizio prima della convention prevista oggi a Milwaukee, dove Trump accetterà ufficialmente la candidatura alla Casa Bianca. Nelle ore immediatamente successive, i messaggi di vicinanza al tycoon e di condanna per il fallito attentato si sono moltiplicati: per il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, “la violenza politica è assolutamente inaccettabile in una democrazia“, mentre l’alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, ha messo l’accento su una tendenza preoccupante: “Ancora una volta assistiamo ad atti di violenza inaccettabili contro i rappresentanti politici”, ha dichiarato.I am deeply shocked by the shooting that took place during former President Trump’s campaign rally.I wish Donald Trump a speedy recovery and offer my condolences to the family of the innocent victim.Political violence has no place in a democracy.— Ursula von der Leyen (@vonderleyen) July 14, 2024Dello stesso tenore il commento di Kaja Kallas, prima ministra estone e candidata a sostituire Borrell a capo della diplomazia Ue: “La violenza politica in qualsiasi forma non ha alcuna giustificazione”, ha dichiarato. “Una tragedia per le nostre democrazie“, l’ha definita il presidente francese Emmanuel Macron, mentre il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha scelto la parola “minaccia”. La premier italiana, Giorgia Meloni, ha ricordato che “nel dibattito politico, in tutto il mondo, ci sono limiti che non dovrebbero mai essere superati”.Donald Trump e Viktor Orban in Florida, 11/07/24 [Ph: Account Facebook Viktor Orban]Scioccato il primo ministro ungherese Viktor Orbán – tra i maggiori sostenitori del ritorno di Trump a Washington -, che aveva incontrato l’ex presidente solo due giorni prima in Florida: “I miei pensieri e le mie preghiere sono con il presidente Trump in queste ore buie”, ha twittato Orbán nei minuti successivi all’attentato. Chi ha reagito con trasporto alla notizia è senz’altro il premier slovacco, Robert Fico, sopravvissuto a un attentato solo due mesi fa. Dalle sue parole emerge il rancore verso i media e gli oppositori politici nel proprio Paese: “Se l’aggressore di Donald Trump parlasse slovacco, gli sarebbe bastato leggere Denník N, Denník SME o Aktuality.sk (tre importanti media slovacchi, ndr) per sentirsi in dovere di sistemare le cose con l’ex presidente disobbediente”, ha attaccato Fico. Nel parallelismo con la sua vicenda personale tracciato dal leader populista, Fico ha proseguito: “Gli oppositori politici di Donald Trump cercano di imprigionarlo e, quando non ci riescono, fanno infuriare l’opinione pubblica a tal punto che qualche poveraccio prende una pistola“.Chi ha immediatamente legato la sparatoria alle future intenzioni di voto del popolo americano è stato Geert Wilders, leader del partito di estrema destra al governo nei Paesi Bassi: “Confido che il 45° Presidente diventi il 47°. Nessuno lo merita di più”, ha dichiarato in un post su X.Le prime pagine di diversi quotidiani internazionali, 15/07/24 (Photo by DAVID GRAY / AFP)In una campagna elettorale già esacerbata da toni violenti e iper polarizzata, tutto lascia suggerire che l’immagine fortissima di Trump sanguinante in volto mentre alza il pugno in segno di resistenza – mentre alle sue spalle sventola la bandiera a stelle e strisce -, possa soltanto spingerlo verso un secondo mandato alla Casa Bianca. Il tycoon ha già colto la palla al balzo, mantenendo i toni aggressivi che lo contraddistinguono: “In questo momento è più importante che mai rimanere uniti e mostrare il nostro vero carattere di americani, rimanendo forti e determinati e non permettendo al male di vincere”, è l’appello dell’ex presidente, convinto che “solo Dio ha impedito che l’impensabile accadesse“.Il presidente Joe Biden ha invece fatto il pompiere, supplicando il popolo americano a “non percorrere” la strada della violenza, una strada “già percorsa nel corso della nostra storia” e che “non è mai stata la risposta”. Di certo, da un’ottica puramente elettorale, l’immagine da martire di Trump non può che indebolire ancora un già acciaccato Biden. In un recente sondaggio condotto tra il 5 e il 9 luglio da Abc News/Washington Post/Ipsos, i due erano più o meno in parità, ma il 67 per cento degli americani vorrebbero che l’anziano candidato democratico si ritirasse dalla corsa presidenziale. Questo, prima dell’attentato a Trump. Ma il 5 novembre, giorno del voto, è ancora lontano.

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    L’ultimo di Stoltenberg, il primo “a prova di futuro”. Il vertice Nato di Washington con la minaccia Trump

    Bruxelles – Quello al via oggi (9 luglio) a Washington sarà uno dei vertici Nato che probabilmente entreranno nella storia. Ancora non si sa se per decisioni “irreversibili”, ma sicuramente perché rappresenta uno spartiacque per il futuro dell’Alleanza Atlantica e per i rapporti tra gli Stati Uniti e gli altri 31 alleati. E, non di poco conto, perché sarà l’ultimo Summit di Jens Stoltenberg, il segretario generale che ha guidato la Nato in un periodo particolarmente turbolento: dal 2014 a oggi ha assistito al ritiro delle truppe dall’Afghanistan e il ritorno al potere dei talebani, alla guerra a bassa intensità nel Donbass ucraino fino all‘invasione russa in Ucraina e i successivi due anni e mezzo di guerra, all’aumento delle tensioni tra la Cina e Taiwan in uno dei luoghi più delicati al mondo per gli equilibri geopolitici tra le potenze internazionali.Il segretario generale della Nato, Jens StoltenbergIn programma fino a giovedì (11 luglio) il 75esimo vertice dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord conterà per la prima volta 32 membri dopo l’ingresso della Svezia a marzo, e vedrà ancora una volta la partecipazione del presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, proprio come a Vilnius lo scorso anno. La questione ucraina sarà una delle più calde sul tavolo degli alleati transatlantici, sia sul fronte degli aiuti militari sia su quello della futura adesione di Kiev alla Nato. A poche ore del vertice è da escludere che sarà accolta la richiesta di ingresso, ma l’ambizione più alta è quella di dare il via libera all’aggettivo “irreversibile” per definire il percorso di futura adesione. Cosa significhi precisamente in uno scenario in cui né gli Stati Uniti né le maggiori potenze europee stanno aprendo alla richiesta non è dato sapere, ma il leader ucraino cercherà risposte a Washington.Da sinistra: il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e l’ex-presidente degli Stati Uniti, Donald Trump (14 novembre 2019)Sul fronte dell’invio di armi c’è sempre in agenda il programma di assistenza pluriennale da 100 miliardi di dollari per cinque anni, proposto ad aprile dal segretario generale Stoltenberg e che dovrebbe costituire l’impegno più concreto dei 32 alleati perché la Nato prenda direttamente in mano la responsabilità dell’assistenza militare all’Ucraina. È questo il cardine della volontà di rendere “a prova di futuro” il sostegno dell’Alleanza Atlantica a Kiev, anche attraverso un nuovo comando militare a Wiesbaden (Germania) responsabile per il coordinamento delle operazioni di invio degli aiuti e di addestramento dei soldati ucraini. In termini concreti questo significherà che la responsabilità passerà dagli Stati Uniti (il cui dipartimento della Difesa a ora guida il Gruppo di contatto per la difesa ucraina) alla Nato intera, garantendo – appunto – un futuro anche in caso di tempesta politica a Washington. Il rischio maggiore è quello del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca dopo le elezioni di novembre, che potrebbe rimettere completamente in discussione la partecipazione statunitense nell’organizzazione e nel suo finanziamento, ma anche la protezione degli alleati e i rapporti con la Russia di Vladimir Putin.Il primo ministro uscente dei Paesi Bassi e prossimo segretario generale della Nato, Mark Rutte (credits: Kenzo Tribouillard / Afp)L’ultima missione di Stoltenberg da segretario generale sarà quella di tenere uniti i capi di Stato e di governo dei 32 Paesi membri Nato, prima di passare il testimone all’ex-premier olandese, Mark Rutte, che lo succederà a partire dal primo ottobre. La nomina ufficiale di Rutte è arrivata lo scorso 26 giugno al termine della riunione del Consiglio del Nord Atlantico: “Guidare questa organizzazione è una responsabilità che non prendo alla leggera, sono grato a tutti gli alleati per aver riposto la loro fiducia in me”, erano state le prime parole del futuro segretario generale della Nato, in linea di perfetta continuità con l’eredità di Stoltenberg: “Ha fornito alla Nato una leadership eccezionale negli ultimi 10 anni e per il quale ho sempre nutrito grande ammirazione”. In un’Alleanza Atlantica che da Washington potrebbe uscire “a prova di futuro”, la promessa di Rutte è quella che “rimarrà la pietra angolare della nostra sicurezza collettiva“, anche con l’allineamento di tutti i Paesi alleati al target minimo del 2 per cento di spesa per la difesa sul Prodotto interno lordo.

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    Lo sdegno di Bruxelles alle minacce di Trump sulla Nato: “Se gli alleati non si difendono, tutti a rischio”

    Bruxelles – La corsa per le presidenziali degli Stati Uniti ora inizia a preoccupare seriamente Bruxelles, e non solo l’Unione Europea. Con le ultime minacce dell’ex-presidente Donald Trump – in corsa per diventare il candidato repubblicano alle elezioni 2024 per la Casa Bianca – è tutta la Nato a ritrovarsi in un incubo che negli ultimi anni di presidenza democratica di Joe Biden sembrava essere ormai alle spalle. “Qualsiasi indicazione che gli alleati non si difenderanno a vicenda mina tutta la nostra sicurezza, compresa quella degli Stati Uniti, e mette i soldati americani ed europei a maggior rischio”, ha denunciato il segretario generale dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, Jens Stoltenberg, rispondendo alle minacce di Trump secondo cui Washington non dovrebbe difendere da un’aggressione russa gli alleati che non spendono abbastanza per la difesa.

    Da sinistra: il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e l’ex-presidente degli Stati Uniti, Donald Trump (14 novembre 2019)Il punto di rottura si è registrato sabato (10 febbraio), quando nel corso di un comizio in South Carolina Trump ha usato parole durissime contro gli altri 30 alleati della Nato, ricordando i suoi anni da presidente degli Stati Uniti: “Uno dei leader di un grosso Paese ha chiesto ‘Se non paghiamo e veniamo attaccati dalla Russia, ci proteggerete?’, e io ho risposto ‘Non avete pagato, non vi proteggeremo. Li incoraggerei [i russi, ndr] a farvi quello che diavolo vogliono”. Una prospettiva inquietante in vista di una eventuale ri-elezione di The Donald alla Casa Bianca e dello scetticismo dilagante dei repubblicani al Congresso nel fornire ulteriore sostegno militare e finanziario a Kiev, alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina dal 24 febbraio 2022 e dei rischi di una futura estensione del conflitto in Europa. È per questo che non si sono fatte attendere le reazioni sdegnate non solo di Stoltenberg, ma anche dei leader delle istituzioni comunitarie e dei Paesi membri Ue, a pochi giorni dal vertice dei ministri della Difesa Nato in programma giovedì (15 febbraio) e dalla Conferenza sulla sicurezza di Monaco tra venerdì e domenica (16-18 febbraio) che vedrà questi temi sul tavolo delle discussioni.

    “L’Alleanza transatlantica ha sostenuto la sicurezza e la prosperità di americani, canadesi ed europei per 75 anni, le dichiarazioni avventate sulla sicurezza della Nato e sulla solidarietà dell’articolo 5 servono solo agli interessi di Putin, non portano maggiore sicurezza o pace al mondo”, è quanto messo in chiaro dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, che invoca allo stesso tempo “la necessità per l’Ue di sviluppare ulteriormente e con urgenza la propria autonomia strategica e di investire nella propria difesa”, mantenendo “forte la nostra Alleanza”. Anche il primo ministro belga e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Alexander De Croo, ha ribadito che “la nostra più grande risorsa di fronte a Putin è la nostra unità, e l’ultima cosa che dovremmo fare è comprometterla”. Secco il commento dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, a quella che definisce “una sciocca idea” come “tante ne vedremo e sentiremo durante la campagna elettorale” statunitense: “La Nato non può essere un’alleanza militare à la carte, che dipende dall’umore del presidente degli Stati Uniti“, perché “o esiste o non esiste”. Il ministro della Difesa della Polonia, Władysław Kosiniak-Kamysz, ha avvertito che “nessuna campagna elettorale è una scusa per giocare con la sicurezza dell’Alleanza”, mentre il ministero degli Esteri della Germania ha pubblicato su X il motto “uno per tutti e tutti per uno”, ricordando che “la Nato tiene al sicuro più di 950 milioni di persone, da Anchorage a Erzurum”.“Mi aspetto che, indipendentemente da chi vincerà le elezioni presidenziali, gli Stati Uniti rimarranno un alleato della Nato forte e impegnato“, ha riassunto il segretario generale della Nato Stoltenberg: “Qualsiasi attacco all’Alleanza sarà affrontato con una risposta unita e decisa”. Al centro della questione ci sono due temi: gli investimenti nazionali nella difesa e l’articolo 5 della Nato. Nel 2014 gli alleati hanno concordato l’obiettivo di spendere almeno il 2 per cento del Pil nel settore della difesa e della sicurezza, anche se diversi Paesi membri dell’Alleanza (Italia compresa) non si sono ancora allineati a questo target. L’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico afferma che un attacco contro un alleato è un attacco contro ogni componente dell’Alleanza e che, di conseguenza, ognuno dei 31 Paesi Nato “assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata”. In altre parole si tratta di una clausola di mutua difesa collettiva, che può essere attivata (ma non necessariamente o in modo obbligatorio) nel caso di un’aggressione a un componente della Nato. “Se il mio avversario riuscirà a riconquistare il potere, sta dicendo chiaramente che abbandonerà i nostri alleati in caso di attacco da parte della Russia e permetterà a quest’ultima di ‘fare quello che diavolo vuole’ con loro”, è stato l’affondo dell’attuale presidente Usa e candidato democratico anche per il 2024, Joe Biden.