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    Commercio, trapela ottimismo sui negoziati Usa-Cina. Ma la svolta è ancora lontana

    Bruxelles – Prove di disgelo tra Stati Uniti e Cina, ad un paio di mesi dopo l’avvio della guerra commerciale scatenata da Donald Trump. I negoziatori di Washington e Pechino si stanno incontrando a Londra per il secondo giorno di fila per discutere di terre rare e semiconduttori, centrali per l’economia e le capacità strategiche statunitensi. Ma per quanto il clima sia generalmente positivo, è ancora presto per una svolta decisiva. Nel frattempo, l’Europa subisce i danni collaterali dello scontro tra i due giganti globali.Dopo un primo giorno di colloqui ieri, continuano anche oggi (10 giugno) le trattative tra le delegazioni di Stati Uniti e Cina a Londra. L’obiettivo è disinnescare la guerra dei dazi avviata da Donald Trump, o per lo meno le sue conseguenze più disastrose per le due superpotenze economiche mondiali.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)La squadra negoziale a stelle e strisce comprende il titolare del Tesoro Scott Bessent, il segretario al Commercio Howard Lutnick e il rappresentante del governo Usa per il commercio estero Jamieson Greer. Le controparti cinesi sono il vicepremier He Lifeng, il ministro al Commercio Wang Wentao e il consigliere Li Chenggang. In mattinata, l’inquilino della Casa Bianca ha dichiarato di aver ricevuto “solo buoni resoconti” dai suoi emissari, sostenendo che “stiamo lavorando bene con la Cina, la Cina non è facile“. Ma non ha voluto scoprire del tutto le sue carte: “Vedremo” se rimuovere i controlli sulle esportazioni, ha detto il tycoon.Cosa c’è sul tavoloLe misure restrittive imposte reciprocamente da Washington e Pechino sui propri export sono il fulcro delle discussioni in corso nella capitale britannica, e rappresentano una delle minacce più serie all’intera economia mondiale determinate dall’escalation tariffaria di questi mesi. Nello specifico, il nodo principale riguarda le esportazioni di terre rare, minerali critici e una serie di tecnologie avanzate (soprattutto i semiconduttori) dalla Cina verso gli Usa.Si tratta di materiali cruciali per un’ampia gamma di applicazioni fondamentali, dall’elettronica di consumo come gli smartphone agli F-35 passando per l’energia rinnovabile. Il punto è che la loro catena del valore a livello globale è in massima parte nelle mani di Pechino: anche dove non ha il monopolio dell’estrazione, il Dragone detiene comunque il controllo della lavorazione.Per questo, almeno stando alle indiscrezioni della stampa statunitense, Trump avrebbe autorizzato il team a stelle e strisce a negoziare una potenziale rimozione delle restrizioni sulla vendita di software per la produzione di chip, parti di motore a reazione ed etano. In cambio, gli Usa si aspettano che la Repubblica popolare allenti i controlli sulle terre rare. Tuttavia, al netto dei proclami altisonanti, nessuno si aspetta una svolta decisiva dalle discussioni odierne.ll presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping (foto via Imagoeconomica)La posta in palio nei negoziati, dopo tutto, è pur sempre il primato di uno dei due colossi globali nell’economia del XXI secolo: le tecnologie di cui si discute a Londra sono alla base degli scambi d’informazione, dell’intelligenza artificiale, dell’economia dei big data, dell’hi-tech, ma anche dell’industria pesante, dell’automotive e della difesa.L’incontro londinese, deciso da Trump e dal leader cinese Xi Jinping durante una telefonata la scorsa settimana (la prima da gennaio), dovrebbe servire a rimettere in carreggiata il “consenso” raggiunto a inizio maggio a Ginevra. Lì, i rappresentanti di Washington e Pechino avevano concordato una pausa di 90 giorni sui maxi-dazi reciproci: abbassando quelli statunitensi dal 145 al 30 per cento e quelli cinesi dal 125 al 10 per cento. Ma da allora, entrambe le parti si sono accusate a vicenda di aver violato i termini della tregua: gli Usa criticano la lentezza di Pechino nell’allungare la lista dei minerali critici esenti da restrizioni, venendo a loro volta redarguiti per i controlli sull’export di chip e per le restrizioni sui visti degli studenti cinesi.L’Europa nel mezzoDel resto, nella guerra commerciale tra le due superpotenze si contano anche pesanti danni collaterali. L’Ue è rimasta schiacciata nel mezzo e sta cercando di correre ai ripari da quando, un paio di mesi fa, il presidente statunitense ha annunciato i suoi dazi “reciproci” durante quello che ha ribattezzato Liberation Day. Tra i settori che pagano maggiormente il costo dell’imprevedibilità in cui il tycoon newyorkese ha piombato il commercio globale ci sono quello della difesa – dove Bruxelles sta tentando di darsi un tono tramite il piano ReArm Europe e, nello specifico, il fondo Safe da 150 miliardi – e quello dell’industria automobilistica, già in crisi nera da un paio d’anni.L’esecutivo comunitario sta provando a dialogare tanto con Washington quanto con Pechino. Il titolare del Commercio, Maroš Šefčovič, è possibilista nonostante i nuovi dazi del 50 per cento su acciaio e alluminio imposti dalla Casa Bianca, ma la verità è che non si vede ancora la luce in fondo al tunnel. Come ammesso in mattinata dal portavoce del Berlaymont Olof Gill, i negoziati con gli Usa sono “in corso”, e per il momento non è stato programmato alcun bilaterale tra Trump e Ursula von der Leyen al vertice Nato dell’Aia tra due settimane.Il commissario Ue al Commercio, Maroš Šefčovič (foto: Consiglio europeo)Allo stesso modo non pare prossima a sbloccarsi nemmeno l’impasse con la Repubblica popolare, con cui pure l’Ue ha in calendario un summit di alto livello per il mese prossimo. Šefčovič, che ha incontrato la sua controparte cinese la scorsa settimana a Parigi, ha definito “allarmante” la situazione attuale. Per il portavoce Gill, alla Commissione sono “felici di vedere che il nostro approccio sta dando risultati“.Ma non sembrano esserci grandi risultati di cui gioire, almeno per ora. I negoziati sui veicoli elettrici cinesi, colpiti dalle misure restrittive a dodici stelle, sono tutt’ora in corso. Ed è verosimile che i controlli introdotti da Pechino sulle esportazioni delle materie prime critiche – non solo verso gli Usa, ma anche verso i Ventisette – sia una rappresaglia per le indagini e le restrizioni dell’Ue. Oltre che una mossa deliberata per incrinare ulteriormente l’unità transatlantica, o quello che ne resta.L’Ue sta inoltre guardando altrove per ridurre la propria dipendenza da Pechino, ma non è un risultato che si ottiene dall’oggi al domani. La scorsa settimana, il commissario all’Industria Stéphane Séjourné ha annunciato l’approvazione di 13 nuovi progetti strategici in Paesi terzi nel quadro del Critical raw materials act, secondo il quale nessuno Stato estero dovrebbe fornire all’Ue più del 65 per cento di determinati minerali. Il problema di fondo, però, rimane lo stesso: controllando quasi il 90 per cento del mercato globale, la Cina mantiene saldamente il coltello dalla parte del manico.

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    Merz visita Trump: possibile un accordo sui dazi, ma niente sanzioni alla Russia (per ora)

    Bruxelles – Friedrich Merz evita lo scontro con Donald Trump, ma non riesce a convincerlo delle ragioni europee. Nel suo primo faccia a faccia col presidente statunitense, il cancelliere tedesco si è mostrato deferente e accomodante per non irritare la controparte, evitando di discutere di fronte alle telecamere i temi più controversi nelle relazioni tra Berlino e Washington. Dall’incontro, però, non ha portato a casa alcuna concessione particolare.Continua la processione dei leader mondiali alla corte di Donald Trump. Ieri (5 giugno) è stato il turno del cancelliere tedesco, che ha recato al tycoon un dono particolare: la copia del certificato di nascita del nonno incorniciata in oro. Friedrich Trump nacque nel 1869 a Kallstadt, un villaggio nell’attuale Länd del Palatinato che al tempo faceva parte della Baviera, ed emigrò successivamente negli Stati Uniti.Il Bundeskanzler ha dimostrato di aver studiato bene il proprio interlocutore. Ha saputo schivare gli argomenti che avrebbero potuto far precipitare la loro conversazione in uno scontro frontale, come avvenuto fra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e quello sudafricano Cyril Ramaphosa. Merz si è detto “estremamente soddisfatto” dell’incontro, aggiungendo di “aver trovato nel presidente americano una persona con cui posso parlare molto bene a livello personale”. Per contro, Trump ha descritto Merz come “una persona con cui è molto facile trattare“.Il presidente statunitense Donald Trump (sinistra) accoglie alla Casa Bianca il cancelliere tedesco Friedrich Merz, il 5 giugno 2025 (foto via Imagoeconomica)Nel tentativo di creare un clima amichevole col tycoon newyorkese, il leader della Cdu ha ricordato che il giorno successivo, cioè oggi, sarebbe occorso l’81esimo anniversario dello sbarco in Normandia. “È stato allora che gli americani hanno liberato l’Europa“, ha notato il Bundeskanzler. Con l’operazione Overlord, il 6 giugno 1944 gli alleati arrivarono sulla costa atlantica della Francia, allora sotto occupazione nazista, mentre altre armate occidentali risalivano lo Stivale dalla Sicilia e i sovietici marciavano da est su Berlino.“Non è stata una giornata piacevole per voi“, ha ribattuto Trump alludendo al fatto che il D-Day segnò l’inizio della fine per Adolf Hitler. “A lungo  termine, signor presidente, questa è stata la liberazione del mio Paese dalla dittatura nazista“, ha risposto Merz, aggiungendo che “sappiamo cosa vi dobbiamo”. Il cancelliere ha poi colto la palla al balzo, tracciando un parallelo tra l’invasione dell’Europa da parte del Terzo Reich e quella dell’Ucraina da parte della Russia di Vladimir Putin. Gli Stati Uniti, ha osservato, sono “di nuovo in una posizione molto forte per fare qualcosa per porre fine a questa guerra“.“Stiamo cercando di esercitare una maggiore pressione sulla Russia, dovremmo parlarne”, ha rimarcato Merz. Ma sulla guerra d’Ucraina non è riuscito a scucire alcuna concessione all’inquilino della Casa Bianca. Al contrario, e con buona pace delle sue stesse promesse di porre rapidamente fine al conflitto, Trump ha suggerito che potrebbe essere opportuno lasciare che Mosca e Kiev “continuino a combattere per un po’”, paragonando i due belligeranti a dei bambini litigiosi difficili da separare.Ma l’amministrazione a stelle e strisce non imporrà nuove sanzioni sul Cremlino, almeno per il momento. Se diventerà chiaro che le trattative in corso (o meglio in stallo) non porteranno a nulla, ha ammonito Trump, le contromisure di Washington potrebbero “riguardare entrambi i Paesi”. Il presidente Usa è apparso frustrato con l’Ucraina per gli attacchi condotti sul territorio della Federazione negli scorsi giorni, di cui ha parlato al telefono col suo omologo russo: Putin “è scontento”, ha detto, e “io sono scontento”. Una posizione che stona con quella degli alleati su questo lato dell’Atlantico, dove è netta la distinzione tra aggredito e aggressore, come ricordato stamattina dai portavoce della Commissione europea.Il presidente russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)Gli altri due temi chiave dell’incontro sono stati la questione della sicurezza transatlantica e la guerra commerciale tra Stati Uniti ed Unione europea. Sul primo punto, Merz ha strappato a Trump l’impegno a non ritirare nessuno dei 40mila militari statunitensi stazionati in Germania. Il timore di un disimpegno dello zio Sam dal Vecchio continente è reale tra le cancellerie europee, che si stanno preparando a dare il disco verde alla richiesta di Washington di aumentare significativamente le spese per la difesa in ambito Nato, alzando l’asticella dal 2 al 5 per cento del Pil.Quanto ai dazi, il presidente statunitense è fiducioso che “un buon accordo commerciale” con Bruxelles sia a portata di mano. Attualmente, Washington ha imposto dazi del 10 per cento su tutte le importazioni europee, più il 25 per cento sulle auto (una catastrofe per l’economia tedesca, della quale l’automotive è un pilastro fondamentale) e il 50 per cento su acciaio e alluminio. Giorni fa, Trump ha compiuto l’ennesima giravolta sospendendo fino al 9 luglio l’attivazione di un’ulteriore dazio del 50 per cento sugli import a dodici stelle.Infine, Merz ha evitato di toccare determinati temi, come ad esempio le pesanti ingerenze da parte di membri di spicco dell’amministrazione Trump nella politica interna tedesca – con il vicepresidente JD Vance e l’ormai ex braccio di ferro del tycoon, Elon Musk, che hanno apertamente sostenuto l’ultradestra di Alternative für Deutschland (AfD) – o le relazioni di Berlino e Washington col premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ma anche il rapporto burrascoso della Casa Bianca con la Corte penale internazionale. Proprio ieri, il governo Usa ha imposto sanzioni su quattro giudici della Cpi a causa delle indagini in corso sui crimini di guerra dell’esercito di Tel Aviv, in una mossa senza precedenti fermamente condannata dai vertici Ue.

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    Elezioni Australia, l’effetto Trump avvantaggia il premier laburista Albanese

    Bruxelles – Il ciclone Trump sembra sul punto di colpire anche l’Australia. Come appena accaduto in Canada, anche nel Paese oceanico gli elettori potrebbero finire per farsi guidare, nel segreto dell’urna, più dalle preoccupazioni relative alle “minacce” da Washington che dalle questioni domestiche. A tutto vantaggio del premier uscente, il laburista Anthony Albanese, e a discapito del leader liberale Peter Dutton, che paga la vicinanza politica al tycoon newyorkese.Il prossimo sabato (3 maggio) gli australiani saranno chiamati a rinnovare il mandato triennale del Parlamento bicamerale di Canberra, sciolto lo scorso 28 marzo. Il sistema elettorale è relativamente complesso (e il voto è obbligatorio per tutti i cittadini maggiorenni), ma quello che appare probabile è che dalle schede emergerà vincitore il Partito laburista del primo ministro dimissionario, Anthony Albanese, alla guida del governo dal 2022.In realtà, i laburisti sono passati in vantaggio nelle intenzioni di voto piuttosto recentemente, cioè dopo che Donald Trump ha iniziato a terremotare la politica mondiale. Fino a gennaio, quando si è insediato il 47esimo presidente degli Usa, era in testa la Coalizione, il polo liberale di centro-destra guidato da Peter Dutton, ma poi gli umori in Australia sono cambiati.Il leader della Coalizione liberale australiana, Peter Dutton (foto: David Gray/Afp)I liberali, storicamente più vicini agli Stati Uniti rispetto alle altre forze politiche, hanno sofferto in particolare l’imposizione dei dazi doganali da parte della Casa Bianca e l’esito delle attività del Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge) di Washington – tramite il quale Elon Musk ha preso a picconate le agenzie federali – che erano state emulate da Dutton nel suo gabinetto ombra.Il voto di sabato, che doveva essere un giudizio sull’operato di Albanese negli ultimi tre anni (il suo governo non è stato particolarmente amato dagli elettori), è diventato così un’introspezione su chi potrà proteggere meglio l’Australia in questa fase di incertezza globale, con quasi il 70 per cento dei cittadini che, secondo le rilevazioni, ritengono Trump “un male” per il Paese oceanico. Canberra è dipendente da Washington soprattutto nella sfera economica e in quella della sicurezza.Nel complicato sistema australiano, molti sondaggi dedicano una rilevazione specifica per determinare quale partito vincerebbe se la competizione si svolgesse a due: in questo caso, la forbice tra i laburisti di Albanese e la Coalizione di Dutton varia tra i 3 e i 6 punti percentuali, con una media del 52 per cento per i primi e del 48 per cento per i secondi.Il presidente statunitense Donald Trump annuncia l’imposizione di dazi doganali sulle importazioni, il 2 aprile 2025 (foto: Brendan Smialowski/Afp)Una dinamica che richiama da vicino quella appena andata in scena in Canada, dove il premier di centro-sinistra uscente, Mark Carney, è riuscito a capovolgere una situazione difficile per il suo partito e a mantenersi in sella per un altro mandato, tutto grazie a quello che gli analisti hanno ribattezzato “effetto Trump” (sentito ancora di più ad Ottawa a causa delle sparate del tycoon sull’annessione del vicino artico).Nella Camera dei rappresentanti, il ramo basso del Parlamento australiano dove dalla prossima legislatura ci sarà un tetto massimo di 150 deputati, la soglia della maggioranza sarà fissata a 76 seggi. Se i laburisti non riuscissero ad ottenere la maggioranza assoluta, dovranno formare un esecutivo di minoranza o, più probabilmente, allearsi con partiti minori o con i deputati indipendenti e dare vita ad un governo di coalizione.

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    I liberali di Mark Carney hanno vinto le elezioni in Canada, anche contro Trump

    Bruxelles – Il ciclone Donald Trump si fa sentire anche in Canada. Alle elezioni federali anticipate ha vinto, contro i pronostici di qualche mese fa, il Partito liberale del primo ministro Mark Carney. Sono state soprattutto le sparate del presidente statunitense, che da mesi fantastica sull’annessione del vicino settentrionale come 51esimo Stato dell’Unione, a pesare sul voto canadese trasformandolo di fatto in una prova di unità nazionale di fronte al voltafaccia di Washington.Le urne si sono chiuse alle 22 di ieri sera (28 aprile), ora locale, ma il conteggio è ancora in corso. I risultati preliminari hanno assegnato la vittoria ai liberali di centro-sinistra dell’attuale premier Mark Carney col 43,5 per cento, contro il 41,4 per cento dei conservatori guidati da Pierre Poilievre.Dei 343 deputati della Camera dei comuni, il ramo basso del legislativo federale, almeno 168 andranno così al Partito liberale, mentre i conservatori dovrebbero fermarsi a quota 144. Dato che la soglia per la maggioranza in Aula è fissata a 172 seggi, Carney potrebbe guidare un esecutivo di minoranza oppure cercare di mettere in piedi un governo di coalizione. Sia come sia, il premier ha ottenuto la sua investitura popolare in seguito alla successione a Justin Trudeau lo scorso marzo, ritiratosi dalla scena pubblica dopo 12 anni al timone del partito.Mark Carney viene scelto per succedere a Justin Trudeau come leader del Partito liberale e premier canadese, il 9 marzo 2025 (foto via Imagoeconomica)Rispetto alla consultazione del 2021, i liberali hanno aumentato i propri consensi del 10,8 per cento e gli avversari conservatori del 7,8 per cento, mentre tutti gli altri partiti hanno perso sostegno: meno 1,1 per cento sia per i Verdi sia per il Bloc Québécois, meno 4,2 per cento per il Partito popolare e meno 11,7 per cento per il Nuovo partito democratico.E pensare che, fino a qualche mese fa, alle elezioni anticipate (la scadenza naturale della legislatura sarebbe stata il prossimo ottobre) il favorito era proprio Poilievre, dopo nove anni in cui la guida del Paese era rimasta in mano ai liberal-democratici. Ma per il leader conservatore è stata fatale la vicinanza politica a Donald Trump. Il voto di ieri si è di fatto trasformato in una questione di unità e sicurezza nazionale, e contemporaneamente in un referendum sull’inquilino della Casa Bianca.Il quale da mesi insiste sul potenziale ingresso del Canada negli Stati Uniti come 51esimo membro dell’Unione, ha colpito Ottawa con pesanti dazi commerciali e si è spinto fino a compiere, ieri, un’interferenza elettorale in piena regola, suggerendo agli elettori di votare per Poilievre. Una vittoria di quest’ultimo, ha scritto sul suo social Truth il tycoon newyorkese, avrebbe portato prosperità economica e sicurezza al “Grande popolo del Canada”.Un’ingerenza che non è andata giù nemmeno allo stesso Poilievre, che ha dovuto rivolgersi al suo (ex?) alleato chiedendogli di “starsene fuori” dai processi democratici di una nazione sovrana. “Le uniche persone che decideranno il futuro del Canada sono i canadesi alle urne“, ha scritto il leader conservatore su X, ribadendo che “il Canada sarà sempre orgoglioso, sovrano e indipendente e non sarà MAI il 51esimo Stato“. “Oggi i canadesi possono votare per il cambiamento, in modo da rafforzare il nostro Paese, stare in piedi da soli e affrontare l’America da una posizione di forza“, ha aggiunto.Carney ha proclamato la vittoria all’alba di oggi, dichiarando che Ottawa non si piegherà “mai” al neo-imperialismo che è una cifra fin troppo chiara del trumpismo e promettendo di “rappresentare tutti coloro che chiamano il Canada casa“. “Il presidente Trump sta cercando di spezzarci per far sì che l’America possa possederci”, ha affermato, per poi promettere che “questo non accadrà mai e poi mai“.Si tratta di uno spartiacque storico nella politica canadese, che tradizionalmente ha sempre guardato agli States come ad un solido alleato (entrambi i Paesi fanno parte del G7 e della Nato insieme ai partner europei). “Abbiamo superato lo shock del tradimento americano, ma non dobbiamo mai dimenticare la lezione”, ha osservato Carney, ammonendo che ora “dobbiamo guardarci le spalle, e soprattutto dobbiamo prenderci cura gli uni degli altri”. Il primo ministro si è impegnato a ridurre la dipendenza dell’economia nazionale da Washington, approfondendo al contempo i legami con gli alleati più “affidabili”. In una mossa insolita, ha condotto il suo primo viaggio all’estero da premier in Europa, incontrando funzionari francesi e britannici.Il leader del Partito conservatore canadese, Pierre Poilievre (foto: Peter Power/Afp)Parallelamente, Poilievre ha riconosciuto la sconfitta. Il leader conservatore rischia addirittura di non rientrare in Parlamento, essendo rimasto indietro nella sfida uninominale nel suo collegio in Ontario. “Metteremo sempre il Canada al primo posto, mentre ci troviamo di fronte ai dazi e alle altre minacce irresponsabili del presidente Trump“, ha dichiarato prendendo le distanze dalle posizioni indifendibili del tycoon. Ha promesso di lavorare con Carney per il bene del Paese, pur osservando che il premier dovrà ora guidare un “governo di minoranza sottile come un rasoio”.Dall’altro lato dell’Atlantico, la vittoria dei liberali è stata accolta positivamente. Il capo dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, ha sottolineato che “il legame tra Europa e Canada è forte e si sta rafforzando” anticipando di voler collaborare per difendere “i nostri valori democratici condivisi”, promuovere “il multilateralismo” e sostenere “un commercio libero ed equo”. Anche il presidente del Consiglio europeo, António Costa, ha voluto ribadire che Ue e Canada sono “alleati e forti partner commerciali” e che, soprattutto, condividono “gli stessi valori” tra cui l’attaccamento “alla Carta delle Nazioni Unite e all’ordine internazionale basato sulle regole“.