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    Il primo summit di alto livello Ue-Asean tra Russia, energia, sicurezza e sostenibilità

    Bruxelles – Sicurezza e stabilità, a livello mondiale e regionale. Senza trascurare il commercio, la questione energetica e la transizione sostenibile. Unione europea e Asean (blocco che racchiude Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam) discutono di tutto questo nel primo summit di alto livello di sempre, a livello di capi di Stato e di governo, organizzato in occasione dei 45 anni di relazioni diplomatiche. “L’occasione di ribadire la vicinanza e la cooperazione tra i due blocchi in un momento di turbolenza”, caratterizzato dal conflitto russo-ucraino e le sue conseguenze, ma non solo, si sottolinea a Bruxelles.
    Le tensioni nel mar cinese del sud, con la rinnovata contrapposizione tra Cina e Taiwan, il colpo di Stato militare in Myanmar, membro Asean, e il cui leader non è stato invitato al summit, i cambiamenti in Afghanistan, sono tutti elementi di un’agenda ricca di sfide che i due blocchi sono decisi ad affrontare insieme. Si intende rilanciare relazioni costruite nel tempo e che i tempi moderni necessitano di aggiornare. Quello Ue-Asean è “un partenariato bilaterale strategico” che si intende rendere ancor più fondamentale, ammettono addetti ai lavori. Sul fronte comunitario le aspettative sono altre. Si guarda quanto fatto in passato e cosa fare per il futuro, incluso transizione sostenibile.
    A tal proposito la questione della cooperazione industriale ed economica intende permettere di allineare i Paesi del sud-est asiatico all’agenda verde dell’Unione. Gli Stati asiatici sono ancora fortemente dipendenti dal carbone, ma “pieni di potenziale pulito”, riconoscono a Bruxelles. Sarà fondamentale dunque investire qui, e la Commissione europea metterà sul tavolo il primo pacchetto di investimento per l’Asean da 10 miliardi di euro. Servirà per sostenere, innanzitutto con fondi pubblici, competenze, digitale, sostenibilità. Con l’obiettivo di mobilitare anche capitale privato.
    Il capitolo relativo alle relazioni economico-commerciali sarà un tema portante del summit Ue-Asean. A riprova di ciò è prevista, a margine del vertice, la firma di due partenariati con Thailandia e Malesia, nonché l’accordo comprensivo sui trasporti. Dati alla mano, l’Asean è il terzo partner commerciale dell’Ue al di fuori dell’Europa, dopo Stati Uniti e Cina. Mentre nel 2021 l’Ue è stata il secondo maggiore fornitore di investimenti diretti esteri esteri nell’area Asean. “Le relazioni commerciali sono importanti” e si intende rafforzarle. “Si promuove multilateralismo”, si sottolinea nella capitale dell’Ue. Un messaggio rivolto a chi, sullo scacchiere internazionale, preferisce protezionismi.
    Il tema più delicato è quello relativo alla Russia. La dichiarazione finale del summit prevede un passaggio sull’aggressione in Ucraina, e servirà un lavoro attento a parole e toni per trovare una formula che metta d’accordo entrambe le parti. Nulla di impossibile. A Bruxelles si dicono “certi che si troverà il linguaggio appropriato, e che mandi un messaggio chiaro e inequivocabile”.
    Nel più ampio spettro di politica estera dei Ventisette, si intende cercare quanto più possibile di attuare i principi della strategia indo-pacifica all’area del sud-est asiatico. Vuol dire lavorare assieme ai 10 Paesi dell’area per uno sviluppo sostenibile, attento al fenomeno dei cambiamenti climatici e di risposta ai disastri naturali che ne derivano. La base di partenza, qui, è il piano d’azione Ue-Asean 2023-2027, che intende sviluppare una risposta comune a queste problematica, inclusa la ripresa post-pandemica e una cooperazione nel campo della salute.
    Altro tema di quest’agenda quadriennale è la lotta allo sfruttamento del lavoro e la promozione di condizioni occupazionali rispettosi della dignità. Un aspetto, quest’ultimo, non indifferente sia per la questione dei diritti umani sia perché l’Ue tocca l’aspetto economico-commerciale. L’Ue ha deciso di non far entrare nel mercato unico prodotti frutto del lavoro forzato, e altrettanto ha deciso per tutti i ‘made in’ extra-Ue frutto del lavoro minorile. Il primo summit di alto livello Ue-Asean non è solo una passerella per i leader.

    Dopo 45 anni di relazioni diplomatiche a Bruxelles il vertice a livello di blocchi per rendere ancora più strategica un’alleanza vista come irrunciabile

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    Clima, appello del Papa all’ ‘eco-conversione’: Urge ridurre le emissioni

    Rona – A una settimana dall’annuncio dell’adesione della Santa Sede alla Convenzione dell’Onu sul Clima e all’Accordo di Parigi, Papa Francesco lancia un nuovo appello per ridurre le emissioni e chiede una conversione ecologica.
    Il fenomeno del cambiamento climatico, sottolinea, è diventato un’emergenza che “non resta più ai margini della società”. Ha, al contrario, assunto un ruolo “centrale”, rimodellando non solo i sistemi industriali e agricoli ma anche “influenzando negativamente la famiglia umana globale, specialmente i poveri e coloro che vivono nelle periferie economiche del nostro mondo”. Il Pontefice parla in un messaggio inviato alla Conferenza ‘Resilience of People and Ecosystems under Climate Stress’, organizzata in Vaticano dalla Pontificia Accademia delle Scienze.
    Le sfide che abbiamo davanti, è il richiamo, sono due: “Ridurre i rischi climatici riducendo le emissioni e aiutare e consentire alle persone di adattarsi ai cambiamenti del clima che si stanno progressivamente aggravando“. Francesco si confessa preoccupato per la perdita di biodiversità e le numerose guerre in corso. I conflitti che piegano diverse regioni del mondo, tuona, “comportano conseguenze dannose per la sopravvivenza e il benessere dell’uomo, tra cui i problemi di sicurezza alimentare e l’inquinamento crescente”. Queste crisi dimostrano che “tutto è collegato” e che la promozione del bene comune a lungo termine del nostro pianeta è “essenziale per un’autentica conversione ecologica”.
    Servono “sforzi coraggiosi, cooperativi e lungimiranti tra i leader religiosi, politici, sociali e culturali a livello locale, nazionale e internazionale”, afferma, pensando, in particolare, al ruolo che “le nazioni economicamente più avvantaggiate possono svolgere nel ridurre le proprie emissioni” e nel fornire assistenza finanziaria e tecnologica, affinché le aree meno prospere del mondo possano seguire il loro esempio. Fondamentale, scandisce, è “l’accesso all’energia pulita e all’acqua potabile, il sostegno agli agricoltori di tutto il mondo, perché passino a un’agricoltura resiliente”.

    A una settimana dall’annuncio dell’adesione della Santa Sede alla Convenzione dell’Onu e all’Accordo di Parigi, nuovo richiamo del Pontefice per salvare il Pianeta

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    Entro la fine del 2022 sarà istituito il Club internazionale del clima. I leader G7 ne fissano i tre pilastri

    Bruxelles – Un circolo aperto a tutti i Paesi del mondo, da istituire “entro la fine dell’anno”. La volontà messa nero su bianco dai leader del Gruppo dei Sette (Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti) in un allegato specifico alle conclusioni del vertice del G7 a Schloss Elmau, in Baviera, è di dare vita al “Club del clima” internazionale “aperto e cooperativo”, per spingere il percorso verso la neutralità climatica entro il 2050. Un Club che sostenga “l’effettiva attuazione” dell’Accordo di Parigi, considerato che al momento “né l’ambizione climatica globale né l’attuazione sono sufficienti” per raggiungerne gli obiettivi, notano “con preoccupazione” i leader.
    I leader del G7 a Schloss in Baviera (26 giugno 2022)
    Il Club del clima internazionale si baserà su tre pilastri. Il primo riguarda la promozione delle politiche di mitigazione “per ridurre l’intensità delle emissioni delle economie partecipanti nel percorso verso la neutralità climatica”: le politiche e i risultati saranno resi “coerenti con le nostre ambizioni”, saranno rafforzati “i meccanismi di misurazione e rendicontazione delle emissioni” e contrastata la “rilocalizzazione delle emissioni di carbonio a livello internazionale”. Il secondo pilastro pone l’obiettivo di “trasformare congiuntamente le industrie per accelerare la decarbonizzazione“, anche a partire dai target dell’Agenda per la decarbonizzazione industriale, del Patto d’azione per l’idrogeno e dell’espansione dei mercati per i prodotti industriali verdi.
    Infine, la terza gamba del Club del clima internazionale è il rafforzamento dell’ambizione internazionale a “sbloccare i benefici socio-economici della cooperazione per il clima e promuovere una giusta transizione energetica“. Partnenariati e cooperazione internazionale serviranno a mobilitare il sostegno e l’assistenza ai Paesi in via di sviluppo, non solo per la decarbonizzazione dell’energia e dei settori industriali, ma anche per la trasparenza, la capacità tecnica, lo sviluppo e la diffusione del trasferimento tecnologico, “a seconda del loro livello di ambizione climatica“, si legge nell’allegato firmato dai leader del G7.
    Il Club del clima internazionale, “in quanto forum intergovernativo ad alta ambizione”, avrà una natura “inclusiva e aperta” a tutti i Paesi del mondo che si impegnano ad attuare “pienamente” l’Accordo di Parigi e le relative decisioni, in particolare il Patto per il Clima di Glasgow. “Invitiamo i partner, compresi i principali emettitori, i membri del G20 e altre economie emergenti e in via di sviluppo, a intensificare le discussioni e le consultazioni con noi su questo tema”, è l’invito finale dei sette ‘Grandi’ della Terra, che designeranno ciascuno il proprio ministero competente “per sviluppare termini di riferimento completi, raggiungendo partner interessati e ambiziosi”, negli ultimi sei mesi del 2022.

    Un allegato delle conclusione del vertice del Gruppo dei Sette ha formalizzato la proposta da implementare nei prossimi mesi per sostenere “l’effettiva attuazione” dell’Accordo di Parigi. Sarà aperto a tutti i Paesi del mondo con l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050

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    Finanziamenti e tecnologie per il clima, riprende il dialogo UE-USA per preparare la COP27 di Sharm El-Sheikh

    Bruxelles – Finanziamenti, tecnologie e partership per aiutare i Paesi in via di sviluppo ad affrontare la transizione energetica. La COP26 di Glasgow si è chiusa da neanche un mese e Unione Europea e Stati Uniti sono già alle prese con i lavori per arrivare preparati alla prossima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite di Sharm el-Sheikh (Egitto), in programma dal 7 al 18 novembre 2022. A questo scopo ieri (9 dicembre) l’inviato speciale per il clima degli USA, John Kerry, ha raggiunto a Bruxelles il vice presidente per il Green Deal della Commissione europea, Frans Timmermans, per la riunione del gruppo di azione per il clima ad alto livello UE-USA.
    John Kerry accolto da Ursula von der Leyen
    “C’è molto da fare e ora possiamo iniziare a costruire la nostra narrativa e le nostre azioni, e tutto ciò che dobbiamo fare per prepararci bene per Sharm El Sheikh, dove sono sicuro che gli Stati Uniti e l’Unione Europea lavoreranno di nuovo a stretto contatto per renderla una COP con un anche un finale di successo”, ha detto Timmermans in un punto stampa. “Mappare l’attuazione degli obiettivi raggiunti a Glasgow è il motivo per cui sono qui”, ha precisato Kerry.
    Prosegue lo sforzo congiunto per fare pressione alle più grandi economie al mondo “per aumentare il passo e costruire i loro sforzi per essere conformi con l’obiettivo” di circoscrivere l’aumento della temperatura “di 1,5 gradi: siamo usciti da Glasgow con il 65 per cento dell’attività economica globale impegnata a pianificare come raggiungere l’1,5 gradi”, ha ricordato Kerry. “Ma dobbiamo lavorare con altri Paesi per i quali più difficile” la transizione e per questo “Bruxelles e Washington hanno una magnifica opportunità di cooperare insieme per mettere sul tavolo finanziamenti, tecnologie e partnership per raggiungere questi obiettivi”. Meno di un decennio di tempo per realizzarli. “Frans ed io siamo impegnati a mettere in campo finanziamenti e tecnologie per i Paesi che non li hanno e fare ogni sforzo possibile per raggiungere gli obiettivi stabiliti a Glasgow e costruire una partnership ancora più forte”, ha concluso Kerry.

    L’inviato speciale per il clima John Kerry a Bruxelles per incontrare Frans Timmermans al Gruppo di azione per il clima ad alto livello UE-USA. “Sosterremo i Paesi in via di sviluppo ad affrontare la transizione verde”

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    COP26: il carbone frena le ambizioni di Glasgow, accordo sul clima al ribasso. L’UE: “Il lavoro non è finito”

    Bruxelles – Due settimane di negoziati intensi per arrivare a un accordo che va indiscutibilmente nella giusta direzione, ma non entusiasma proprio tutti. La Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP26) si è chiusa sabato sera (13 novembre) con la firma di un Patto per il clima di Glasgow, in cui gli oltre 190 Paesi partecipanti si sono impegnati a rafforzare i propri obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 e a rivederli ogni anno a partire dal 2022 per “mantenere vivo” l’obiettivo di circoscrivere la temperatura globale entro i 1,5°C, in linea con quanto prescritto ormai sei anni fa dagli accordi di Parigi.
    Oggi le stime degli esperti parlano di una rotta globale che porterebbe a una temperatura compresa tra 1,8°C e 2,4°C, per questo nelle conclusioni i Paesi si sono impegnati a rivedere ogni anno (e non più ogni cinque, come accade ora) le loro traiettorie con un nuovo processo di revisione, per mantenersi sulla buona strada per 1,5°C di riscaldamento. Il tassello più rivoluzionario e allo stesso tempo più deludente per il mondo ambientalista dell’accordo di Glasgow è però il riferimento al carbone, tra i combustibili fossili il più inquinante e responsabile di circa il 40 per cento delle emissioni di CO2.
    L’accordo di Glasgow è considerato positivo a metà perché per la prima volta in un patto internazionale sul clima delle Nazioni Unite i Paesi si impegnano a “ridurre gradualmente” la parte di loro energia prodotta dal carbone, ma il testo finale è stato in parte annacquato all’ultimo quando l’India, sostenuta dalla Cina e da altri Paesi in via di sviluppo più dipendenti dal carbone, si è opposta alla dicitura “eliminazione graduale”, spingendo per sostituirla con un impegno più tiepido a “ridurre gradualmente” (“phase down”) il loro uso di energia prodotta da carbone. Il compromesso sul carbone è un netto passo avanti in termini di impegni rispetto a quanto le grandi potenze globali erano riuscite a ottenere, anche nel quadro dei negoziati G20, ma manca anche di un chiaro riferimento temporale a quando l’impegno dovrebbe attuarsi.
    Alok Sharma
    Ai Paesi è servito un giorno in più per chiudere l’accordo, facendo concludere il vertice sabato invece che venerdì. Il presidente della COP26, il britannico Alok Sharma, si è detto “profondamente dispiaciuto” per come si sono conclusi gli eventi, ma era necessario preservare l’accordo nel suo insieme e dunque arrivare a un compromesso con quelle economie che non si ritengono pronte ad abbandonare completamente l’uso del carbone per produrre energia. “I testi approvati sono un compromesso. Riflettono gli interessi, le condizioni, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo di oggi”, ha ammesso anche Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite al termine della COP. “Fanno passi importanti, ma purtroppo la volontà politica collettiva non è bastata a superare alcune profonde contraddizioni”.
    Passi avanti si sono registrati sulla finanza climatica, ovvero il tentativo di ridurre il divario finanziario tra Paesi ricchi e poveri per la lotta ai cambiamenti climatici e anche l’adattamento ad essi (ad esempio la costruzione di infrastrutture protettive). Tutti i Paesi sviluppati si sono impegnati a raddoppiare la quota collettiva dei finanziamenti per l’adattamento entro il 2025 e a raggiungere l’obiettivo di 100 miliardi di dollari ai Paesi poveri “il prima possibile”. Le stime presentate proprio in occasione della COP26 dicono che l’impegno per 100 miliardi non sarà raggiungibile prima del 2023, con circa 3 anni di ritardo sulla tabella di marcia.
    In ultimo, ma non da meno, dopo due tentativi falliti alle precedenti COP di Katowice e Madrid, i Paesi hanno concluso un accordo sul regolamento dell’accordo di Parigi, compreso l’insieme delle regole (l’articolo 6 rimasto incompleto) che disciplina i mercati globali del carbonio e sugli obblighi di trasparenza e rendicontazione delle emissioni di CO2.
    Le reazioni europee
    Ursula von der Leyen
    L’Unione Europea – tra le potenze partecipanti più ambiziose in termini climatici – è contenta a metà di quanto raggiunto a Glasgow dopo due intense settimane di negoziati. “La COP26 è un passo nella giusta direzione. I 1,5 gradi Celsius rimangono a portata di mano; ma il lavoro è tutt’altro che finito”, riassume la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in una nota che fa seguito alla sigla del patto climatico. “Il minimo che possiamo fare ora è attuare le promesse di Glasgow il più rapidamente possibile e poi puntare più in alto”, aggiunge, dando appuntamento a tutti alla prossima COP che si terrà in Egitto nel 2022. L’augurio che “ci metta saldamente sulla buona strada per i1,5 gradi”.
    Pur non essendo un accordo perfetto, “mantiene vivo l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. Ora, le promesse devono essere mantenute e gli impegni consegnati rapidamente. La lotta al cambiamento climatico non può subire ulteriori ritardi”, ha ammonito in un tweet il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli.

    Although not perfect, #COP26 Glasgow keeps the goal of limiting global warming to 1.5 degrees alive. Now, promises must be kept and commitments delivered on quickly. The fight against climate change cannot suffer any further delay.
    — David Sassoli (@EP_President) November 14, 2021

    Presente a Glasgow nella seconda settimana di lavori (8-12 novembre) anche una delegazione di eurodeputati. Per il francese Pascal Canfin (Renew Europe) – capo delegazione e presidente della commissione Ambiente (ENVI) – “l’accordo alla COP26 presenta alcuni buoni passi avanti sull’obiettivo di raccogliere 100 miliardi di dollari per i paesi in via di sviluppo vulnerabili e la coalizione per fermare il finanziamento pubblico di nuovi progetti di combustibili fossili all’estero. Tuttavia, dobbiamo ammettere che l’accordo si basa sul minimo comune denominatore. La priorità ora per tutti i più grandi emettitori è quella di condividere tabelle di marcia concrete e credibili verso emissioni nette zero”.
    Gli impegni collaterali alla COP26
    A margine delle discussioni vere e proprie della COP26, si sono tenute varie riunioni collaterali che hanno portato ad alleanze o impegni all’unanimità tra gruppi ristretti di Paesi. La COP26 si è aperta con un impegno di oltre 100 Paesi a fermare la deforestazione entro il 2030, compresi quelli come Brasile, Canada, Colombia e Russia che contano l’85 per cento delle aree forestali del mondo. Molti critici mettono in evidenza che l’impegno non è vincolante e che questa promessa era già stata fatta nel 2014 e gli obiettivi per il 2020 di ridurre il tasso di deforestazione al 50 per cento sono stati mancati con un enorme margine di difetto.
    Venticinque Paesi – compresa l’Italia – si sono impegnati poi a porre fine al finanziamento diretto internazionale con fondi pubblici per i sussidi ai fossili entro il 2022 e 103 Paesi hanno sottoscritto il Global Methane Pledge, l’alleanza lanciata da USA e UE per ridurre le emissioni globali di metano del 30 per cento entro il 2030. Segnali positivi (anche se poco concreti) di un avvicinamento tra Cina e USA, che hanno siglato un accordo per lavorare insieme sulla questione climatica. Nulla di molto concreto, ma è un segnale positivo che i due maggiori emettitori al mondo (rispettivamente il 31 e il 14 per cento delle emissioni al mondo) abbiano intenzione di discutere di prima, nonostante i loro rapporti diplomatici tesi.

    Luci e ombre di un compromesso che va senza dubbio nella giusta direzione, ma che in molti si aspettavano più ambizioso. Von der Leyen: “Il minimo ora è attuare le promesse di Glasgow il più rapidamente possibile e puntare più in alto”

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    Lukashenko minaccia l’UE: “Niente sanzioni oppure stop al gas”

    Bruxelles – “Noi riscaldiamo l’Europa e ora loro ci minacciano con la chiusura del confine. Cosa accadrebbe se bloccassimo il transito di gas naturale?”.  Aljaksandr Lukashneko torna ad attaccare l’UE in merito alla crisi dei migranti che in questi giorni ha scaldato la frontiera tra Polonia e Bielorussia.
    La minaccia del presidente bielorusso segue le notizie sul quinto pacchetto di sanzioni – ora confermate da fonti della Commissione europea – che i Paesi UE stanno discutendo. La Commissione ha ribadito che “le sanzioni sono solo uno degli strumenti che l’Unione ha a disposizione” e che una decisione in merito da parte degli Stati membri arriverà a breve.
    Non si conoscono con certezza i settori che potrebbero essere colpiti da eventuali sanzioni. Per il momento è possibile che ad essere interessate saranno quelle compagnie aeree colpevoli di trasportare illegalmente migranti dal Medio Oriente alla Bielorussia, dove vengono utilizzati per mettere sotto pressione le frontiere polacche e lituane. Anche in questo caso la Commissione non si è ancora espressa ma ha confermato di essere in contatto con le principali compagnie aeree per portare avanti delle indagini.
    Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia, ha risposto che “non dovremmo sentirci intimiditi dalle minacce della Bielorussia”. Posizione ribadita dalla Commissione, che giudica il taglio alla fornitura di gas come “uno scenario estremamente ipotetico”, che “danneggerebbe in primis la Bielorussia”.
    Lukashenko minaccia l’UE, ma gli serve il permesso di Putin
    Il gas che attraversa il Paese per arrivare in Polonia, e da lì arriva in Europa, scorre attraverso il gasdotto Yamal che nel suo tratto bielorusso è di esclusiva competenza di Gazprom – la controllata statale russa. Anche la materia prima proviene esclusivamente dalla Federazione, che lo estrae principalmente nel mare di Kara.
    Interrompere le forniture significherebbe, come riferito dalla Commissione, “danneggiare i fornitori” e dunque la Russia, unico alleato di Lukashenko e partner insostituibile per preservare la stabilità del regime bielorusso.
    Per tagliare l’approvvigionamento di gas, Minsk dovrebbe innanzitutto avere il via libera da Mosca. Il consenso del Cremlino, tuttavia, trascinerebbe la Russia in una vicenda a cui vorrebbe rimanere estranea (almeno a livello ufficiale) – posizione che il presidente Vladimir Putin ha fatto intendere anche durante una recente telefonata con Angela Merkel.

    Il Presidente della Bielorussia risponde all’Unione europea, che in questi giorni pensa all’emissione di un quinto pacchetto di sanzioni contro il governo di Minsk per l’utilizzo come arma dei migranti. Adesso Lukashenko minaccia di interrompere il flusso dei gasdotti russi che, passando attraverso il Paese, riscaldano gli Stati europei

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    COP26, Johnson: nuove tecnologie per dimezzare le emissioni di CO2 al 2030

    Bruxelles – ‘Ripulire’ i cinque principali settori ad alta impronta di carbonio, quelli che insieme contribuiscono al 50% delle emissioni globali di anidride carbonica, tra i principali fattori del surriscaldamento del pianeta. La comunità internazionale riunita a Glasgow per la conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP26) tenta di riscrivere le regole del gioco, con il Regno Unito che rivendica un ruolo guida in tal senso. Sul tavolo negoziale è arrivata la proposta per dimezzare le emissioni di CO2 a firma del primo ministro britannico Boris Johnson. Si tratta di un’agenda di contrasto ai cambiamenti climatici che passa per l’utilizzo di nuove soluzioni a basso impatto ambientale nei comparti energia, trasporto su strada, acciaio, idrogeno e agricoltura.
    Londra propone un piano internazionale per fornire tecnologia pulita e conveniente ovunque entro il 2030, sostenuta e sottoscritta da “oltre 40 leader mondiali”, fa sapere la delegazione britannica. Tra gli aderenti  Stati Uniti, India, UE, Cina, economie in via di sviluppo e alcuni dei paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici, che insieme rappresentano oltre il 70 per cento dell’economia mondiale e di ogni regione .
    In base all’agenda Paesi e aziende si coordineranno per “accelerare drasticamente” lo sviluppo e l’impiego di nuovi modelli produttivi. Si punta ad energia pulita per tutti, al fine di soddisfare il proprio fabbisogno energetico in modo efficiente entro la fine del decennio. In secondo luogo i veicoli dovranno diventare “la nuova normalità”, accessibile in tutte le regioni. Ancora, nel settore siderurgico si vuole un uso efficiente e una produzione di acciaio a emissioni quasi zero. Cambiamenti anche per quanto riguarda l’idrogeno: si vuole quello rinnovabile a prezzi accessibili disponibile a livello globale. Infine si vuole un settore primario in grado di adattarsi alle sfide poste dai cambiamenti del clima.
    Tutto questo si traduce in iniziative internazionali per accelerare l’innovazione e ampliare le industrie verdi. Si tratta di in particolare di regole comuni internazionali, non solo per aree geografiche od organizzazioni. Il piano britannico suggerisce di “allineare politiche e standard”, e apre a cooperazione internazionale nel settore della ricerca industriale attraverso maggiori “sforzi di ricerca e sviluppo”.
    Riuscire in questi cinque settori, stimano i britannici, potrebbe creare 20 milioni di nuovi posti di lavoro a livello globale e aggiungere oltre 16 trilioni di dollari (cioè 16 milioni di milioni) sia nelle economie emergenti che in quelle avanzate. 
    “Facendo della tecnologia pulita la scelta più conveniente, accessibile e attraente, il punto di partenza predefinito in quelli che sono attualmente i settori più inquinanti, possiamo ridurre le emissioni in tutto il mondo”, sostiene Johnson. Il premier britannico sostiene convintamente che i Glasgow Breakthroughs, nome dato da Londra alla sua proposta per dimezzare le emissioni di CO2, “daranno una spinta in avanti, in modo che entro il 2030 le tecnologie pulite possano essere godute ovunque, non solo riducendo le emissioni ma anche creando più posti di lavoro e maggiore prosperità”.

    Il premier vuole velocizzare lo sviluppo di tecnologia pulita nei comparti energia, trasporto su strada, acciaio, idrogeno e agricoltura. Fondamentali regole e alleanze internazionali

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    Norvegia al voto: la scelta tra transizione green e sicurezza economica

    Bruxelles – Si chiudono oggi 13 settembre alle 21 le urne in Norvegia per il rinnovo dello Storting, il Parlamento unicamerale del Paese. La primo ministro Erna Solberg, in carica dal 2013 e leader del partito di centro-destra Høyre, rischia di non essere riconfermata, in un’elezione che si gioca principalmente sul tema della transizione ecologica.
    Il dibattito elettorale
    Come negli altri Stati scandinavi, in Norvegia la questione ambientale è particolarmente sentita dalla popolazione: il 95 per cento dell’energia viene prodotto con l’idroelettrico e 7 automobili vendute su 10 sono elettriche. Tuttavia l’economia del Paese si basa quasi interamente sull’esportazione di petrolio e gas naturale, di cui è il maggior produttore dell’Europa Occidentale. Il settore dei combustibili fossili impiega oltre 200mila persone, più del 7 per cento della forza lavoro nazionale. Come gestire la futura transizione ecologica è dunque il maggior punto di divisione tra le forze politiche, con i conservatori di Høyre che sono fortemente contrari a uno stop all’esplorazione e alla produzione di idrocarburi, preoccupati per le ricadute economiche e occupazionali. Su posizioni simili il centro-sinistra laburista e i centristi di SP, oltre che la destra populista di FrP. Al contrario, tutti i partiti di sinistra a partire dai Verdi premono per uno stop immediato all’esplorazione e per la fine della produzione di combustibili fossili entro i prossimi 15-20 anni.
    Altro tema divisivo sono i rapporti con l’Unione Europea. Oslo non è membro dell’UE, ma aderisce a Schengen e allo Spazio Economico Europeo (SEE). Laburisti e Høyre sono favorevoli all’appartenenza del Paese alla SEE, mentre la sinistra e i centristi sono più euroscettici. In particolare, il carismatico leader di SP Trygve Slagsvold Vedum si è battuto affinché il comparto della regolamentazione del settore energetico torni ad essere interamente nelle mani del governo norvegese.
    Sondaggi e prospettive
    I sondaggi vedono in prima posizione il partito laburista (AP), con un consenso stimato intorno al 24 per cento. Il suo leader Jonas Gahr Støre, già ministro degli Esteri tra il 2005 e il 2012, è dunque il favorito per diventare il prossimo capo del governo. Al contrario, in caso di vittoria del centrodestra Erna Solberg (soprannominata “Iron Erna” per via della sua ammirazione per Margaret Thatcher) diventerebbe la prima premier della storia norvegese ad essere eletta per tre mandati consecutivi. Tuttavia, le rilevazioni non le sorridono. Nonostante una buona popolarità personale, il suo partito Høyre sarebbe inchiodato al 19 per cento dei consensi. A complicare la situazione, il rischio che gli alleati liberali di Venstre e cristiano-democratici di KrF non superino la soglia di sbarramento fissata al 4 per cento. Decisivo potrebbe essere il ruolo dei centristi di SP, che con un seguito stimato intorno al 13 per cento rappresentano il vero ago della bilancia di queste elezioni. 

    Più frammentata la situazione alla sinistra di AP. Sinistra Socialista (SV), Verdi (MDG) e Partito Rosso (R) sono tutti ostili al SEE e favorevoli allo stop delle esplorazioni di idrocarburi, ma si dividono sulla visione economica, con i rossi che hanno una dottrina dichiaratamente marxista. A completare il quadro politico la destra libertaria e populista del Partito del Progresso (FrP), che nonostante un seguito più che discreto dovrebbe essere esclusa dalla formazione del prossimo governo. Il leader laburista Gahr Støre ha dichiarato di augurarsi di riuscire a formare una coalizione progressista con i centristi e Sinistra Socialista. Non sarà semplice, le distanze sul tema energetico sono ampie e la strada per il nuovo governo, complici la frammentazione politica e la legge elettorale proporzionale, risulta essere tutta in salita.

    Elezioni a Oslo: il centrodestra rischia di perdere la guida del governo dopo 8 anni. Favoriti i laburisti. Il Paese, grande produttore di petrolio, alla prova della transizione green