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    All’Onu comincia la conferenza sulla Palestina

    Bruxelles – La diplomazia prova a battere un colpo a favore della Palestina. Con oltre un mese di ritardo, inizia oggi alla sede dell’Onu la conferenza co-presieduta da Francia e Arabia Saudita per promuovere il riconoscimento dello Stato palestinese, tra le divisioni della comunità internazionale. Nel frattempo, Tel Aviv ha momentaneamente ceduto alle pressioni dei partner e sta facendo entrare col contagocce alcuni aiuti umanitari a Gaza.La conferenza era stata annunciata oltre due mesi fa, a fine maggio, e si sarebbe dovuta svolgere a metà giugno. Poi però Israele ha sferrato il suo attacco contro l’Iran e, così, era stata rimandata sine die. Fino ad oggi (28 luglio), quando ha preso ufficialmente il via la conferenza di alto livello delle Nazioni Unite sulla “risoluzione pacifica della questione palestinese e l’attuazione della soluzione dei due Stati“, promossa da Parigi e Riad per imprimere un’accelerazione alla ricomposizione politica della cosiddetta questione israelo-palestinese.L’incontro, che si svolgerà fino a mercoledì (30 luglio) al Palazzo di vetro di New York, punta anche a centrare altri obiettivi chiave. La riforma dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), l’amministrazione guidata da Mahmoud Abbas che, operando come surrogato del futuro governo del futuro Stato palestinese, gestisce quello che rimane dei territori palestinesi occupati. Sul tavolo anche la smilitarizzazione di Hamas e la sua esclusione dalla vita politica della nazione palestinese che sarà e, infine, la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e gli Stati arabi della regione.Il presidente francese Emmanuel Macron (foto: Stephane De Sakutin/Afp)Lo scorso giovedì (24 luglio), con una mossa che ha scosso il mondo politico occidentale, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che a settembre la Francia riconoscerà formalmente lo Stato di Palestina, il primo Paese G7 a farlo da quando, nel 1988, la leadership palestinese in esilio proclamò la nascita dello Stato. Per il suo ministro degli Esteri, Joel-Noël Barrot, “la prospettiva di uno Stato palestinese non è mai stata così minacciata, o così necessaria”.“La conferenza offre un’opportunità unica per trasformare il diritto internazionale e il consenso internazionale in un piano operativo e per dimostrare la determinazione a porre fine all’occupazione e al conflitto una volta per tutte, a beneficio di tutti i popoli“, ha dichiarato l’ambasciatore palestinese all’Onu Riyad Mansour, chiedendo “coraggio” a tutte le delegazioni (un centinaio circa) partecipanti.Per la segretaria generale di Amnesty international, Agnès Callamard, la priorità assoluta dev’essere quella di “intraprendere azioni concrete per porre fine al genocidio in corso” perpetrato da Israele nei confronti dei palestinesi, nonché di terminare “la sua occupazione militare illegale del territorio palestinese, che ha alimentato violazioni di massa contro i palestinesi e ha permesso e consolidato il crudele sistema di apartheid di Israele“.Senza “un cessate il fuoco immediato e duraturo” e la fine del “blocco illegale” imposto da Tel Aviv sulla Striscia, osserva Callamard, “qualsiasi processo volto ad affrontare il futuro dei palestinesi manca di credibilità“. “Gli Stati devono essere inequivocabili: Israele non è al di sopra della legge e la responsabilità è una priorità“, conclude.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Menahem Kahana/Afp)Tel Aviv e i suoi alleati di ferro non hanno preso bene l’iniziativa franco-saudita. Per il premier israeliano Benjamin Netanyahu (sul quale pende un mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale) la mossa di Parigi “premia il terrorismo” e Donald Trump ha bollato come “ininfluente” Macron e la decisione.Una cattiva idea anche per il cancelliere tedesco Friedrich Merz, mentre il primo ministro britannico Keir Starmer è finito sotto il fuoco di fila dei deputati di Sua Maestà (inclusi i suoi stessi laburisti) affinché segua l’esempio di Macron. Giorgia Meloni schiera l’Italia sul consueto equilibrismo, sostenendo che riconoscere uno Stato palestinese che non esiste sulla cartina sia “controproducente“.Attualmente, sono 147 gli Stati membri dell’Onu che riconoscono la Palestina, su un totale di 193 Paesi. Tra questi ci sono undici membri Ue (Bulgaria, Cechia, Cipro, Irlanda, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria), ma nessuna nazione del G7. Un futuro Stato palestinese dovrebbe sorgere, teoricamente, sui territori di Gaza e della Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est), tutti occupati illegalmente da Israele sin dalla guerra dei Sei giorni del 1967.La speranza, almeno da parte dell’Eliseo, è che la spinta di Macron possa indurre altri Paesi a riconoscere la Palestina, aumentando la pressione diplomatica per una fine della guerra – virtualmente la più sanguinosa che il mondo abbia conosciuto negli ultimi decenni – e per il soccorso alla popolazione civile dell’enclave palestinese.Sfollati palestinesi si accalcano per ricevere del cibo da parte di operatori umanitari al campo profughi di Nuseirat, nella Striscia di Gaza (foto: Eyad Baba/Afp)Non solo con le bombe (metà delle quali sono made in Europe), ma anche attraverso la strumentalizzazione della fame. Tel Aviv sta affamando artificialmente centinaia di migliaia di esseri umani, negando loro gli aiuti umanitari che pure vengono stipati ai confini della Striscia – tanto che a tonnellate stanno venendo letteralmente buttati via, poiché ormai deperiti – con una deliberata strategia che ricorda l’Holodomor, il genocidio degli ucraini perpetrato dalla dirigenza sovietica nel 1932-33.Un numero crescente di Paesi, inclusi i tradizionali alleati europei, sta insistendo affinché lo Stato ebraico fermi la carneficina in corso, apra i valichi e faccia entrare a Gaza gli aiuti. Durante il weekend sono stati effettuati dei lanci di generi alimentari dal cielo, mentre il governo di Netanyahu (che incolpa l’Onu per i ritardi nella consegna degli aiuti) ha acconsentito a delle “pause tattiche” di una decina di ore al giorno “fino a nuovo avviso” e all’apertura di corridoi umanitari verso tre destinazioni nella Striscia.Ma è una goccia nel mare, che secondo gli esperti non sarà sufficiente a salvare i civili dalla malnutrizione. Nel frattempo non si interrompono i crimini di guerra dell’esercito di Tel Aviv, che ogni giorno continua ad assassinare decine di palestinesi durante la distribuzione del cibo a Gaza e continua a spalleggiare le violenze dei coloni in Cisgiordania.

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    Macron annuncia il riconoscimento della Palestina. Israele e Stati Uniti furiosi: “Premia il terrorismo”

    Bruxelles – Mentre continua a peggiorare la catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che Parigi riconoscerà ufficialmente lo Stato di Palestina. La decisione dell’inquilino dell’Eliseo, pur nell’aria da qualche tempo, scuote comunque il mondo politico, soprattutto quello occidentale. La Francia diventerà così il primo Paese del G7 a riconoscere la statualità palestinese, aprendo una frattura diplomatica di non poco conto con gli Stati Uniti. Che, seguendo Israele, hanno immediatamente condannato la mossa del leader transalpino.Il presidente francese Emmanuel Macron ha affidato ad un post su X, nella serata di ieri (24 luglio), l’annuncio che ha scosso la diplomazia di mezzo mondo, soprattutto tra gli alleati più stretti di Parigi: “Fedele al suo storico impegno per una pace giusta e duratura in Medio Oriente, ho deciso che la Francia riconoscerà lo Stato di Palestina“, ha scritto, specificando che la comunicazione formale avverrà alla prossima sessione plenaria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in calendario per settembre.“L’urgenza oggi è che cessi la guerra a Gaza e che la popolazione civile riceva soccorso“, continua il post, dove si chiede “un cessate il fuoco immediato, la liberazione di tutti gli ostaggi e un massiccio aiuto umanitario” agli abitanti dell’enclave palestinese. Qui, decine di civili continuano a venire assassinati ogni giorno dall’esercito di Tel Aviv mentre tentano di mettere le mani sugli aiuti umanitari che lo Stato ebraico fa entrare col contagocce (con buona pace del conclamato accordo mediato dall’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas), scaricando peraltro la responsabilità per la mancata distribuzione sull’Onu.Fidèle à son engagement historique pour une paix juste et durable au Proche-Orient, j’ai décidé que la France reconnaîtra l’État de Palestine.J’en ferai l’annonce solennelle à l’Assemblée générale des Nations unies, au mois de septembre prochain.… pic.twitter.com/7yQLkqoFWC— Emmanuel Macron (@EmmanuelMacron) July 24, 2025Macron menziona tra le priorità anche “la smilitarizzazione di Hamas” e la ricostruzione della Striscia, passi fondamentali per “costruire lo Stato di Palestina, garantirne la sostenibilità e consentire che, accettando la sua smilitarizzazione e riconoscendo pienamente Israele, contribuisca alla sicurezza” dell’intera regione. “Non c’è alternativa“, incalza monsieur le Président, che conclude il suo messaggio con una promessa, o forse una speranza: “Conquisteremo la pace“.Di pace, tuttavia, non vuole assolutamente saperne il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il cui unico modo per rimanere al potere (e non finire sotto processo in patria e, potenzialmente, pure di fronte alla Corte penale internazionale) è proprio quello di prolungare la guerra. O meglio, le guerre.Non solo quella che da 21 mesi sta conducendo a Gaza – sulla carta contro Hamas, anche se appare sempre meno credibile questa foglia di fico per nascondere l’intento genocidiario e di pulizia etnica nella Striscia e nel resto dei territori palestinesi occupati (come certificato dal recente voto della Knesset, il Parlamento monocamerale di Tel Aviv, sull’annessione della Cisgiordania) – e che sta conoscendo in queste settimane l’ennesima, atroce recrudescenza. Ma anche le campagne condotte in Libano, l’aggressione contro l’Iran e i più recenti bombardamenti sulla Siria.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Andrew Caballero-Reynolds/Afp)Non a caso Netanyahu, che da sempre si oppone con forza alla possibilità di una statualità palestinese in qualsiasi forma, ha criticato duramente l’annuncio di Macron. Secondo l’uomo forte di Tel Aviv la mossa di Parigi “premia il terrorismo“, mentre “uno Stato palestinese in queste condizioni sarebbe un trampolino di lancio per annientare Israele, non per vivere in pace al suo fianco”. Un interessante rovesciamento di prospettive e responsabilità, se si guarda a quanto accade sul terreno.Furiosi anche gli Stati Uniti, alleati di ferro di Israele che respingono “fermamente” la fuga in avanti dell’Eliseo, definita dal segretario di Stato Marco Rubio come una decisione “avventata” che “ostacola il processo di pace” e rappresenta addirittura “uno schiaffo alle vittime del 7 ottobre“.Del resto, Washington non ha sottoscritto l’appello internazionale al governo di Tel Aviv perché fermi la carneficina in corso a Gaza e consenta l’accesso incondizionato degli aiuti umanitari. Tra i Paesi firmatari, arrivati a quota 28, c’è anche l’Italia (Roma ha iniziato ad alzare la voce con lo Stato ebraico solo dopo il bombardamento di una chiesa cattolica nella Striscia), mentre l’altra assenza di peso, tutt’altro che sorprendente, è la Germania.Il cancelliere federale di Berlino, Friedrich Merz, sentirà nelle prossime ore Macron e il primo ministro britannico Keir Starmer, per una “chiamata d’emergenza” in cui coordinare una posizione comune del gruppo di tre nazioni (noto come E3) sia sulla questione palestinese sia su un altro importante dossier: i colloqui con Teheran sul programma nucleare iraniano, che riprendono proprio oggi a Istanbul.Il premier laburista – che ieri sera ha dichiarato, in un comunicato congiunto con Macron e Merz, che “la sovranità è un diritto inalienabile del popolo palestinese” – sta fronteggiando crescenti pressioni dal suo stesso partito per seguire le orme del presidente francese. Ma per il momento non è in vista un cambio nella posizione ufficiale di Londra, nonostante Regno Unito e Canada avessero aperto la porta ad un futuro riconoscimento della Palestina lo scorso maggio, insieme alla Francia.Il primo ministro britannico Keir Starmer (foto via Imagoeconomica)D’altro canto, l’iniziativa del leader transalpino non arriva esattamente come un fulmine a ciel sereno. Da tempo il suo governo sta segnalando aperture nei confronti della causa palestinese (pur con tutte le attenzioni diplomatiche del caso), e da mesi ventilava la possibilità di legittimare formalmente lo Stato di Palestina, unendosi a diversi Paesi europei che già la riconoscono.Addirittura, la Francia avrebbe dovuto organizzare a metà giugno, insieme all’Arabia Saudita, una conferenza internazionale al Palazzo di vetro dell’Onu per rilanciare la cosiddetta “soluzione a due Stati” per la questione israelo-palestinese. L’evento è poi saltato a causa della guerra dei 12 giorni, ma il 28 e 29 luglio prossimi dovrebbe svolgersi una riunione a livello ministeriale, il che spiega bene il tempismo dell’annuncio di Macron.Attualmente, sono 147 gli Stati membri dell’Onu che riconoscono la Palestina, su un totale di 193 Paesi. Tra questi ci sono undici membri Ue (Bulgaria, Cechia, Cipro, Irlanda, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria), ma nessuna nazione del G7. Un futuro Stato palestinese dovrebbe sorgere, teoricamente, sui territori di Gaza e della Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est), tutti occupati illegalmente da Israele sin dalla guerra dei Sei giorni del 1967.Il vicepresidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Hussein al-Sheikh, ha accolto con favore l’apertura di Macron, che spera possa aprire la strada alla “creazione del nostro Stato indipendente“. Il capo dell’Anp, Mahmoud Abbas, si è impegnato a organizzare nuove elezioni legislative e presidenziali nel 2026 e, se mai uno Stato palestinese nascerà, a smilitarizzare le milizie di Hamas.

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    Israele-Iran, Trump annuncia il cessate il fuoco (già violato nel giro di qualche ora)

    Bruxelles – Il Medio Oriente è sempre più volatile. Poche ore dopo l’annuncio di un cessate il fuoco da parte di Donald Trump, Iran e Israele si sono accusati a vicenda di aver violato la tregua. Mentre le vicende sono in evoluzione continua, l’inquilino della Casa Bianca parte per il summit Nato dell’Aia visibilmente alterato, rimproverando le leadership di entrambi i Paesi e sostenendo che l’accordo sia ancora in vigore.In una girandola di eventi che continuano a susseguirsi a ritmo accelerato, nelle ultime ore il conflitto tra Israele e Iran è parso sul punto di allargarsi coinvolgendo anche gli Stati Uniti, per poi sembrare risolversi con un inaspettato cessate il fuoco tra le due potenze regionali e, infine, riaccendersi a causa di presunte violazioni della tregua appena concordata.Era appena passata la mezzanotte di oggi (24 giugno) quando Donald Trump ha trionfalmente proclamato sulla sua piattaforma social, Truth, che lo Stato ebraico e la Repubblica islamica avevano raggiunto l’intesa per un cessate il fuoco. “Partendo dal presupposto che tutto funzioni come dovrebbe, e così sarà”, ha scritto il tycoon, “vorrei congratularmi con entrambi i Paesi, Israele e Iran, per aver dimostrato la forza, il coraggio e l’intelligenza necessari” per per porre fine a quella che suggeriva di ribattezzare “la guerra dei 12 giorni”. Quest’ultima, ha osservato, era “una guerra che sarebbe potuta durare anni e distruggere l’intero Medio Oriente“: ma, diceva, ciò “non è successo e non succederà mai”.Da subito erano nate incomprensioni circa l’orizzonte temporale della tregua, che il tycoon avrebbe descritto come un impegno di 24 ore e che, sempre secondo Trump, sarebbe entrata ufficialmente in vigore intorno alle 7 di stamattina. Nelle ore successive, entrambe le parti avevano confermato di essere intenzionate ad osservare una pausa nelle ostilità.Un ruolo importante nella stipula dell’accordo sarebbe stato giocato dal Qatar, dove ieri sera si era materializzata la rappresaglia dell’Iran per la partecipazione degli Usa nel conflitto, avvenuta tramite il bombardamento dei siti nucleari di Fordo, Natanz e Isfahan dello scorso 22 giugno. In un’azione largamente simbolica (e preannunciata alla Casa Bianca), gli ayatollah hanno colpito la base statunitense di Al Udeid, nei pressi di Doha.Tuttavia, verso le 9:30 di oggi, Israele ha denunciato una violazione del cessate il fuoco da parte iraniana, sostenendo che dei missili avrebbero raggiunto il proprio territorio, un’accusa respinta al mittente dalla Repubblica islamica. Il ministro degli Esteri di Tel Aviv, Israel Katz, ha promesso che lo Stato ebraico avrebbe risposto “con forza” colpendo direttamente “il cuore di Teheran” con “attacchi intensi”.Ma prima che avvenisse la ritorsione dell’esercito israeliano (Idf), Trump ha rimproverato entrambi i belligeranti per aver violato la tregua. “Sostanzialmente abbiamo due Paesi che stanno combattendo da così a lungo e così duramente che non sanno che c**** stanno facendo”, ha dichiarato ai reporter prima di partire per l’importante vertice Nato dell’Aia di oggi e domani.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Menahem Kahana/Afp)E ha mostrato particolare irritazione per il comportamento dell’alleato Benjamin Netanyahu: “Israele deve calmarsi“, ha sbottato rivolgendosi allo storico alleato, sostenendo che non si onora un cessate il fuoco rovesciando sulla controparte “il più grande carico (di bombe, ndr) che abbia mai visto“.Trump ha sentito al telefono Netanyahu, ingiungendogli di annullare l’attacco. “Israele non attaccherà l’Iran”, ha scritto nell’ennesimo post su Truth, ripetendo che “il cessate il fuoco è in vigore“. Il capo dell’esecutivo di Tel Aviv ha accettato di ridimensionare la portata dell’attacco su Teheran, facendo colpire un bersaglio simbolico e ritirando il resto dei caccia già in volo sopra la capitale iraniana.Gli ultimi sviluppi gettano l’intera regione in una condizione di ulteriore incertezza, e segnano l’ennesimo fallimento delle iniziative diplomatiche messe in campo dalle potenze occidentali, o quantomeno la loro estrema fragilità. Gli europei avevano tentato di ingaggiare la Repubblica islamica tramite dei colloqui sul suo programma nucleare svoltisi a Ginevra lo scorso 20 giugno, ma quel tavolo era saltato a seguito dell’attacco statunitense sugli impianti atomici iraniani, lanciato appena 24 ore dopo.Peraltro, il bombardamento dei B-2 Spirit è stato definito illegale da Emmanuel Macron giusto ieri sera: “Potrebbe essere considerato legittimo neutralizzare gli impianti nucleari in Iran, dati i nostri obiettivi”, ha ragionato il presidente francese. “Tuttavia non esiste un quadro giuridico” che giustifichi una simile azione alla luce del diritto internazionale e della Carta Onu, ha aggiunto, “e quindi dobbiamo dire le cose come stanno: questi attacchi non sono legali“.Il presidente francese Emmanuel Macron (foto: Frederic Sierakowski via Imagoeconomica)Dai vertici comunitari, per il momento, non sono arrivate reazioni ufficiali rispetto alle violazioni della tregua. La presidente dell’esecutivo Ue, Ursula von der Leyen, aveva accolto l’annuncio del cessate il fuoco come “un passo importante per il ripristino della stabilità in una regione tesa“, sottolineando che “questa dev’essere la nostra priorità collettiva”.Riguardo agli ultimi sviluppi, i portavoce della Commissione ribadiscono che “il lancio di missili segnalato sottolinea quanto possa essere fragile questo cessate il fuoco” e rinnovano l’esortazione a “tutte le parti a dare prova di massima moderazione”. “Invitiamo l’Iran a impegnarsi seriamente in un processo diplomatico credibile, perché il tavolo negoziale rimane l’unica via percorribile“, continuano dal Berlaymont.Riprendendo il messaggio espresso ieri dall’Alta rappresentante Kaja Kallas, i portavoce reiterano che “stiamo dialogando con tutte le parti perché l’escalation non giova a nessuno” e che “tutti sono preoccupati dalla stessa cosa, cioè l’effetto a catena” che simili azioni possono produrre nell’intera regione.

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    A Ginevra la diplomazia europea cerca di salvare l’accordo sul nucleare iraniano

    Bruxelles – La diplomazia inizia a muoversi, seppur timidamente, per provare a ricomporre la crisi mediorientale. Ad una settimana esatta dall’avvio dell’aggressione israeliana contro l’Iran, i ministri degli Esteri di Parigi, Berlino, Londra e Teheran si stanno incontrando a Ginevra insieme all’Alta rappresentante Ue per cercare di mantenere aperta la pista negoziale. Nel frattempo, gli Usa prendono tempo prima di scendere in campo a fianco dello Stato ebraico, mentre la Russia prova (almeno a parole) a fissare dei paletti all’escalation.Esattamente una settimana dopo l’inizio della guerra scatenata da Benjamin Netanyahu contro l’Iran, i titolari degli Esteri di Francia, Germania, Regno Unito e Iran – Jean-Noël Barrot, Johann Wadephul, David Lammy e Abbas Araghchi – si sono dati appuntamento oggi (20 giugno) a Ginevra, alla presenza anche del capo della diplomazia a dodici stelle, Kaja Kallas.L’incontro, che si sta svolgendo in queste ore presso la sede della rappresentanza tedesca alle Nazioni Unite, ha l’obiettivo di aprire un canale negoziale formale per cercare di fornire una risposta politica alla pericolosissima escalation che sta infiammando il Medio Oriente. Nessuno si aspetta svolte eclatanti dai colloqui, ma è sicuramente incoraggiante vedere che la diplomazia multilaterale prova a crearsi uno spazio e a mantenere attivo il dialogo mentre continuano a cadere le bombe da una parte e dall’altra.We, Europeans, are engaging in dialogue with Iran to de-escalate the situation.The only possible way forward is dialogue. pic.twitter.com/JjRA6E1ZV3— Jean-Noël Barrot (@jnbarrot) June 20, 2025Per ora, questo è il massimo che si può ottenere. È lo stesso Araghchi, del resto, a ribadire che Teheran non accetterà di negoziare con Washington finché lo Stato ebraico continua le sue operazioni, bollandole come un “tradimento” del processo diplomatico in corso tra Iran e Stati Uniti.Gli europei stanno cercando tra mille difficoltà di far ripartire le trattative sul binario, che sembrava morto, del Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), lo storico accordo del 2015 stipulato da Usa e Iran con la mediazione di Francia, Germania e Regno Unito (il cosiddetto formato E3) più Unione europea, Russia e Cina. Nel 2018, fu Donald Trump a ritirare Washington dall’accordo: da quel momento le trattative entrarono in una fase di stallo prolungato, dalla quale il tycoon stava cercando di uscire prima dell’attacco israeliano.Le cancellerie del Vecchio continente provano così a smarcarsi e a definire una propria posizione autonoma dalla Casa Bianca, dopo essersi appiattiti per anni sulla linea dello zio Sam. Ma l’Iran non è un cliente facile per nessuno e in ogni caso gli ayatollah percepiscono gli europei come troppo vicini allo Stato ebraico.Difficile contestare quest’ultimo punto, se si considera la fatica che stanno facendo i Ventisette a rimettere in discussione l’accordo di associazione con Tel Aviv, per non parlare delle sanzioni ai membri più estremisti del governo israeliano o, addirittura, dell’arresto di Netanyahu in ottemperanza al mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto via Imagoeconomica)Del resto, la posizione ufficiale di Bruxelles rimane sempre la stessa: lo Stato ebraico ha il diritto di difendersi – seppur entro i limiti del diritto internazionale, come è recentemente riuscita ad ammettere la stessa Kallas dopo sette mesi in carica – e l’Iran non può in alcun modo mettere le mani sull’arma atomica.Sull’altra sponda dell’Atlantico, intanto, Trump non ha ancora deciso se entrare in guerra al fianco del suo storico alleato e dice di voler rimandare la questione di un paio di settimane. Da un lato, il tycoon starebbe aspettando di vedere se quello di Ginevra è un bluff, sostenendo di voler lasciare spazio alla pista negoziale. Dall’altro, non vuole rischiare di perdersi per strada l’ala più oltranzista del popolo Maga, ferocemente contraria a qualunque intervento militare all’estero.Per il momento, il Pentagono ha iniziato a muovere i propri asset nell’Oceano Indiano, ottenendo da Londra l’autorizzazione ad utilizzare le basi militari di Sua Maestà nell’eventualità di dover impiegare i bombardieri B-2 Spirit, gli unici in grado di sganciare le bombe bunker buster per colpire gli impianti di arricchimento sotterranei di Fordo, protetti dalle montagne a sud di Teheran.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Il Cremlino nel frattempo indica la sua linea rossa. Se Israele procederà ad assassinare il leader supremo della Repubblica islamica Ali Khamenei (come suggerito dal ministro degli Esteri Israel Katz, per essere smentito nel giro di qualche ora dal capo dello Stato Isaac Herzog), ammonisce Vladimir Putin, verrà scoperchiato il “vaso di Pandora” e la situazione precipiterà in maniera incontrollabile. Lo zar, almeno stando alle ultime indiscrezioni mediatiche, avrebbe presentato alle dirigenze israeliana e iraniana delle proposte alternative a quelle in discussione a Ginevra per una soluzione negoziata della crisi.Sulla carta, la Russia è uno degli alleati più stretti dell’Iran, dal quale compra i famigerati droni suicidi Shahed con cui attacca quotidianamente l’Ucraina. Ma diversi osservatori mettono in dubbio la reale intenzione di Mosca – al netto delle sue concrete capacità – di scendere in campo in aiuto degli ayatollah se la situazione dovesse peggiorare ulteriormente.Non è detto, ad esempio, che la difesa dell’alleato sciita valga più del mantenimento di rapporti tutto sommato buoni con Tel Aviv, così come sarebbe problematico per Putin inimicarsi il presidente statunitense in una fase in cui si sta dimostrando particolarmente indulgente nei confronti della Federazione.

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    A Ginevra la diplomazia europea cerca di salvare l’accordo sul nucleare iraniano

    Bruxelles – La diplomazia inizia a muoversi, seppur timidamente, per provare a ricomporre la crisi mediorientale. Ad una settimana esatta dall’avvio dell’aggressione israeliana contro l’Iran, i ministri degli Esteri di Parigi, Berlino, Londra e Teheran si stanno incontrando a Ginevra insieme all’Alta rappresentante Ue per cercare di mantenere aperta la pista negoziale. Nel frattempo, gli Usa prendono tempo prima di scendere in campo a fianco dello Stato ebraico, mentre la Russia prova (almeno a parole) a fissare dei paletti all’escalation.Esattamente una settimana dopo l’inizio della guerra scatenata da Benjamin Netanyahu contro l’Iran, i titolari degli Esteri di Francia, Germania, Regno Unito e Iran – Jean-Noël Barrot, Johann Wadephul, David Lammy e Abbas Araghchi – si sono dati appuntamento oggi (20 giugno) a Ginevra, alla presenza anche del capo della diplomazia a dodici stelle, Kaja Kallas.L’incontro, che si sta svolgendo in queste ore presso la sede della rappresentanza tedesca alle Nazioni Unite, ha l’obiettivo di aprire un canale negoziale formale per cercare di fornire una risposta politica alla pericolosissima escalation che sta infiammando il Medio Oriente. Nessuno si aspetta svolte eclatanti dai colloqui, ma è sicuramente incoraggiante vedere che la diplomazia multilaterale prova a crearsi uno spazio e a mantenere attivo il dialogo mentre continuano a cadere le bombe da una parte e dall’altra.We, Europeans, are engaging in dialogue with Iran to de-escalate the situation.The only possible way forward is dialogue. pic.twitter.com/JjRA6E1ZV3— Jean-Noël Barrot (@jnbarrot) June 20, 2025Per ora, questo è il massimo che si può ottenere. È lo stesso Araghchi, del resto, a ribadire che Teheran non accetterà di negoziare con Washington finché lo Stato ebraico continua le sue operazioni, bollandole come un “tradimento” del processo diplomatico in corso tra Iran e Stati Uniti.Gli europei stanno cercando tra mille difficoltà di far ripartire le trattative sul binario, che sembrava morto, del Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), lo storico accordo del 2015 stipulato da Usa e Iran con la mediazione di Francia, Germania e Regno Unito (il cosiddetto formato E3) più Unione europea, Russia e Cina. Nel 2018, fu Donald Trump a ritirare Washington dall’accordo: da quel momento le trattative entrarono in una fase di stallo prolungato, dalla quale il tycoon stava cercando di uscire prima dell’attacco israeliano.Le cancellerie del Vecchio continente provano così a smarcarsi e a definire una propria posizione autonoma dalla Casa Bianca, dopo essersi appiattiti per anni sulla linea dello zio Sam. Ma l’Iran non è un cliente facile per nessuno e in ogni caso gli ayatollah percepiscono gli europei come troppo vicini allo Stato ebraico.Difficile contestare quest’ultimo punto, se si considera la fatica che stanno facendo i Ventisette a rimettere in discussione l’accordo di associazione con Tel Aviv, per non parlare delle sanzioni ai membri più estremisti del governo israeliano o, addirittura, dell’arresto di Netanyahu in ottemperanza al mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto via Imagoeconomica)Del resto, la posizione ufficiale di Bruxelles rimane sempre la stessa: lo Stato ebraico ha il diritto di difendersi – seppur entro i limiti del diritto internazionale, come è recentemente riuscita ad ammettere la stessa Kallas dopo sette mesi in carica – e l’Iran non può in alcun modo mettere le mani sull’arma atomica.Sull’altra sponda dell’Atlantico, intanto, Trump non ha ancora deciso se entrare in guerra al fianco del suo storico alleato e dice di voler rimandare la questione di un paio di settimane. Da un lato, il tycoon starebbe aspettando di vedere se quello di Ginevra è un bluff, sostenendo di voler lasciare spazio alla pista negoziale. Dall’altro, non vuole rischiare di perdersi per strada l’ala più oltranzista del popolo Maga, ferocemente contraria a qualunque intervento militare all’estero.Per il momento, il Pentagono ha iniziato a muovere i propri asset nell’Oceano Indiano, ottenendo da Londra l’autorizzazione ad utilizzare le basi militari di Sua Maestà nell’eventualità di dover impiegare i bombardieri B-2 Spirit, gli unici in grado di sganciare le bombe bunker buster per colpire gli impianti di arricchimento sotterranei di Fordo, protetti dalle montagne a sud di Teheran.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Il Cremlino nel frattempo indica la sua linea rossa. Se Israele procederà ad assassinare il leader supremo della Repubblica islamica Ali Khamenei (come suggerito dal ministro degli Esteri Israel Katz, per essere smentito nel giro di qualche ora dal capo dello Stato Isaac Herzog), ammonisce Vladimir Putin, verrà scoperchiato il “vaso di Pandora” e la situazione precipiterà in maniera incontrollabile. Lo zar, almeno stando alle ultime indiscrezioni mediatiche, avrebbe presentato alle dirigenze israeliana e iraniana delle proposte alternative a quelle in discussione a Ginevra per una soluzione negoziata della crisi.Sulla carta, la Russia è uno degli alleati più stretti dell’Iran, dal quale compra i famigerati droni suicidi Shahed con cui attacca quotidianamente l’Ucraina. Ma diversi osservatori mettono in dubbio la reale intenzione di Mosca – al netto delle sue concrete capacità – di scendere in campo in aiuto degli ayatollah se la situazione dovesse peggiorare ulteriormente.Non è detto, ad esempio, che la difesa dell’alleato sciita valga più del mantenimento di rapporti tutto sommato buoni con Tel Aviv, così come sarebbe problematico per Putin inimicarsi il presidente statunitense in una fase in cui si sta dimostrando particolarmente indulgente nei confronti della Federazione.

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    A Ginevra la diplomazia europea cerca di salvare l’accordo sul nucleare iraniano

    Bruxelles – La diplomazia inizia a muoversi, seppur timidamente, per provare a ricomporre la crisi mediorientale. Ad una settimana esatta dall’avvio dell’aggressione israeliana contro l’Iran, i ministri degli Esteri di Parigi, Berlino, Londra e Teheran si stanno incontrando a Ginevra insieme all’Alta rappresentante Ue per cercare di mantenere aperta la pista negoziale. Nel frattempo, gli Usa prendono tempo prima di scendere in campo a fianco dello Stato ebraico, mentre la Russia prova (almeno a parole) a fissare dei paletti all’escalation.Esattamente una settimana dopo l’inizio della guerra scatenata da Benjamin Netanyahu contro l’Iran, i titolari degli Esteri di Francia, Germania, Regno Unito e Iran – Jean-Noël Barrot, Johann Wadephul, David Lammy e Abbas Araghchi – si sono dati appuntamento oggi (20 giugno) a Ginevra, alla presenza anche del capo della diplomazia a dodici stelle, Kaja Kallas.L’incontro, che si sta svolgendo in queste ore presso la sede della rappresentanza tedesca alle Nazioni Unite, ha l’obiettivo di aprire un canale negoziale formale per cercare di fornire una risposta politica alla pericolosissima escalation che sta infiammando il Medio Oriente. Nessuno si aspetta svolte eclatanti dai colloqui, ma è sicuramente incoraggiante vedere che la diplomazia multilaterale prova a crearsi uno spazio e a mantenere attivo il dialogo mentre continuano a cadere le bombe da una parte e dall’altra.We, Europeans, are engaging in dialogue with Iran to de-escalate the situation.The only possible way forward is dialogue. pic.twitter.com/JjRA6E1ZV3— Jean-Noël Barrot (@jnbarrot) June 20, 2025Per ora, questo è il massimo che si può ottenere. È lo stesso Araghchi, del resto, a ribadire che Teheran non accetterà di negoziare con Washington finché lo Stato ebraico continua le sue operazioni, bollandole come un “tradimento” del processo diplomatico in corso tra Iran e Stati Uniti.Gli europei stanno cercando tra mille difficoltà di far ripartire le trattative sul binario, che sembrava morto, del Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), lo storico accordo del 2015 stipulato da Usa e Iran con la mediazione di Francia, Germania e Regno Unito (il cosiddetto formato E3) più Unione europea, Russia e Cina. Nel 2018, fu Donald Trump a ritirare Washington dall’accordo: da quel momento le trattative entrarono in una fase di stallo prolungato, dalla quale il tycoon stava cercando di uscire prima dell’attacco israeliano.Le cancellerie del Vecchio continente provano così a smarcarsi e a definire una propria posizione autonoma dalla Casa Bianca, dopo essersi appiattiti per anni sulla linea dello zio Sam. Ma l’Iran non è un cliente facile per nessuno e in ogni caso gli ayatollah percepiscono gli europei come troppo vicini allo Stato ebraico.Difficile contestare quest’ultimo punto, se si considera la fatica che stanno facendo i Ventisette a rimettere in discussione l’accordo di associazione con Tel Aviv, per non parlare delle sanzioni ai membri più estremisti del governo israeliano o, addirittura, dell’arresto di Netanyahu in ottemperanza al mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto via Imagoeconomica)Del resto, la posizione ufficiale di Bruxelles rimane sempre la stessa: lo Stato ebraico ha il diritto di difendersi – seppur entro i limiti del diritto internazionale, come è recentemente riuscita ad ammettere la stessa Kallas dopo sette mesi in carica – e l’Iran non può in alcun modo mettere le mani sull’arma atomica.Sull’altra sponda dell’Atlantico, intanto, Trump non ha ancora deciso se entrare in guerra al fianco del suo storico alleato e dice di voler rimandare la questione di un paio di settimane. Da un lato, il tycoon starebbe aspettando di vedere se quello di Ginevra è un bluff, sostenendo di voler lasciare spazio alla pista negoziale. Dall’altro, non vuole rischiare di perdersi per strada l’ala più oltranzista del popolo Maga, ferocemente contraria a qualunque intervento militare all’estero.Per il momento, il Pentagono ha iniziato a muovere i propri asset nell’Oceano Indiano, ottenendo da Londra l’autorizzazione ad utilizzare le basi militari di Sua Maestà nell’eventualità di dover impiegare i bombardieri B-2 Spirit, gli unici in grado di sganciare le bombe bunker buster per colpire gli impianti di arricchimento sotterranei di Fordo, protetti dalle montagne a sud di Teheran.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Il Cremlino nel frattempo indica la sua linea rossa. Se Israele procederà ad assassinare il leader supremo della Repubblica islamica Ali Khamenei (come suggerito dal ministro degli Esteri Israel Katz, per essere smentito nel giro di qualche ora dal capo dello Stato Isaac Herzog), ammonisce Vladimir Putin, verrà scoperchiato il “vaso di Pandora” e la situazione precipiterà in maniera incontrollabile. Lo zar, almeno stando alle ultime indiscrezioni mediatiche, avrebbe presentato alle dirigenze israeliana e iraniana delle proposte alternative a quelle in discussione a Ginevra per una soluzione negoziata della crisi.Sulla carta, la Russia è uno degli alleati più stretti dell’Iran, dal quale compra i famigerati droni suicidi Shahed con cui attacca quotidianamente l’Ucraina. Ma diversi osservatori mettono in dubbio la reale intenzione di Mosca – al netto delle sue concrete capacità – di scendere in campo in aiuto degli ayatollah se la situazione dovesse peggiorare ulteriormente.Non è detto, ad esempio, che la difesa dell’alleato sciita valga più del mantenimento di rapporti tutto sommato buoni con Tel Aviv, così come sarebbe problematico per Putin inimicarsi il presidente statunitense in una fase in cui si sta dimostrando particolarmente indulgente nei confronti della Federazione.

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    Medio Oriente, l’Europa tenta la carta negoziale. Convocati a Ginevra colloqui diretti con l’Iran sul programma nucleare

    Bruxelles – La diplomazia prova a battere un colpo. A una settimana dall’inizio della guerra di Israele contro l’Iran, gli europei cercano di far ripartire le trattative sul nucleare di Teheran, convocando a Ginevra un round di negoziati con gli emissari della Repubblica islamica. È una corsa contro il tempo per scongiurare il rischio, sempre più reale, che l’intero Medio Oriente esploda nuovamente in un’escalation incontrollabile.La notizia è arrivata nel cuore della notte, nelle prime ore di oggi (19 giugno): i ministri degli Esteri di Parigi, Berlino e Londra (rispettivamente Jean-Noël Barrot, Johann Wadephul e David Lammy) hanno dato appuntamento al loro omologo iraniano Abbas Araghchi per domani a Ginevra, nel tentativo di riportare la Repubblica islamica al tavolo delle trattative e ridare vita al processo negoziale sul suo programma nucleare. Ai colloqui, confermati da Teheran in mattinata, prenderà parte anche Kaja Kallas, la responsabile dell’azione esterna dell’Ue.L’Europa cerca uno spazio diplomaticoSi tratta della prima iniziativa diplomatica dall’inizio della guerra, innescata dall’aggressione israeliana dello scorso 13 giugno. “La diplomazia europea è completamente mobilitata“, affermano i portavoce dell’esecutivo comunitario, i quali fanno sapere che l’Alta rappresentante è in contatto costante con tutti gli interlocutori regionali, inclusi i Paesi arabi del Golfo. “L’Ue contribuirà a tutti gli sforzi diplomatici volti a ridurre le tensioni e a trovare una soluzione duratura alla questione nucleare iraniana, che potrà essere raggiunta solo attraverso un accordo negoziato”, ripetono dal Berlaymont.Kallas, insieme ai suoi omologhi francese, tedesco e britannico, ha sentito al telefono Araghchi lunedì (16 giugno) per ribadirgli le “preoccupazioni di lunga data” riguardo al programma di arricchimento dell’uranio degli ayatollah, che “supera ampiamente qualsiasi scopo civile credibile, e al continuo mancato rispetto da parte dell’Iran dei suoi obblighi” nel quadro degli accordi multilaterali cui si è vincolato, nello specifico il Joint comprehensive plan of action (Jcpoa) e il trattato di non-proliferazione nucleare.Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi (foto: Anwar Amro/Afp)Il confronto è avvenuto il giorno prima del Consiglio Affari esteri straordinario dedicato specificamente all’escalation in Medio Oriente. Secondo l’ex premier estone una composizione politica della crisi è l’unica possibilità, poiché una continuazione delle operazioni militari – o peggio ancora un loro allargamento, nel caso di un coinvolgimento statunitense – diventerebbe incontrollabile e “non è nell’interesse di nessuno”. La posizione ufficiale di Bruxelles rimane dunque la stessa: no ad un Iran con la bomba atomica, sì alla de-escalation.Il dialogo sul programma atomico di Teheran procedeva con alti e bassi da un paio di decenni – dopo che la guida spirituale iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, vietò tramite fatwa lo sviluppo di ordigni nucleari – e sembrava essere giunto ad una svolta storica nel 2015, quando gli Stati Uniti di Barack Obama stipularono con la Repubblica islamica il Jcpoa, mediato dagli europei (Francia, Germania e Regno Unito, nel cosiddetto formato E3, più l’Ue) insieme a Russia e Cina. Fu proprio Donald Trump, nel 2018, a ritirare Washington dall’accordo. Le trattative con l’Iran entrarono a quel punto in una fase di stallo prolungato, dalla quale il tycoon stava cercando di uscire prima dell’attacco israeliano.Il fattore TrumpIn questa fase, tuttavia, Trump non sembra particolarmente interessato a riprendere il dialogo con Teheran. Stando alle ricostruzioni mediatiche circolate nelle ultime ore, il presidente (trinceratosi nella situation room della Casa Bianca per una serie di incontri col suo Stato maggiore) starebbe valutando un potenziale intervento militare al fianco di Israele.Sarebbe dubbioso, pare, circa l’utilizzo degli ordigni cosiddetti bunker buster (nome tecnico GBU-57A/B MOP) per colpire gli impianti sotterranei di Fordo, ad una sessantina di metri di profondità in mezzo alle montagne a sud di Teheran. Gli Usa sono i soli al mondo a possederli e a poterli trasportare, tramite i bombardieri stealth B-2 Spirit, quelli già visti in azione in Iraq nel 2003.Il presidente statunitense Donald Trump (foto: Brendan Smialowski/Afp)Per ora si tiene strette le sue carte, il tycoon, mantenendo l’ambiguità strategica attraverso una comunicazione volutamente contraddittoria. Del resto, lo stesso popolo Maga è spaccato sulla questione. Ma il tempo stringe e aumenta la pressione sull’uomo più potente del mondo perché prenda una decisione. “Potrei farlo, potrei non farlo. Nessuno sa cosa farò“, ha tagliato corto Trump rispondendo ai giornalisti che ieri gli chiedevano se intendesse unirsi ai bombardamenti dello Stato ebraico.D’altra parte, la dirigenza iraniana ha minacciato cruenti rappresaglie contro le basi Usa nella regione se Washington prenderà parte al conflitto: “Se gli Stati Uniti intendono entrare in campo al fianco del regime sionista”, ha ammonito il viceministro degli Esteri Kazem Gharibabadi, Teheran “insegnerà una lezione agli aggressori e difenderà la propria sicurezza nazionale”. Un’altra opzione sul tavolo della Repubblica islamica potrebbe essere la chiusura dello Stretto di Hormuz, attraverso il quale passa circa un quinto del commercio globale di petrolio e gnl, ma sarebbe probabilmente un’extrema ratio che finirebbe per danneggiare la stessa economia iraniana.Teheran verso la bomba?Per il sesto giorno di fila, intanto, i due belligeranti continuano a scambiarsi missili colpendo obiettivi militari, infrastrutture strategiche e strutture civili. La fine delle ostilità non appare in vista, mentre il ministro degli Esteri di Tel Aviv, Israel Katz, esce allo scoperto e conferma esplicitamente che l’eliminazione del leader supremo Khamenei “fa parte della campagna militare” dello Stato ebraico: “Quest’uomo, che intende attaccarci, non deve restare vivo“, ha detto.Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha giustificato l’attacco preventivo – una pratica estremamente controversa sotto il profilo del diritto internazionale – sostenendo che l’Iran, acerrimo nemico di Israele, fosse prossimo a costruire (almeno) un ordigno nucleare, senza fornire alcuna prova. Richiamando pertanto il parallelo con la fialetta di antrace agitata all’Onu 22 anni fa dall’allora segretario di Stato Usa Colin Powell, mentre accusava l’Iraq di Saddam Hussein di possedere armi chimiche di distruzione di massa. Che in realtà, come si scoprì in seguito, non erano mai esistite.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Menahem Kahana/Afp)Rafael Grossi, il capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), si sta sperticando da giorni precisando di non aver mai asserito che l’Iran stesse assemblando testate atomiche. “Non abbiamo prove di un programma sistematico per una bomba”, ha dichiarato. Gli ispettori Onu avevano rilevato che la percentuale di arricchimento dell’uranio stava superando il 60 per cento e si avvicinava al 90 per cento (la soglia fatidica per produrre le testate nucleari), ha concesso Grossi, “ma per l’arma servono altri passaggi”. “Non è questione di giorni, ma di anni, forse non pochi“, osserva.Peraltro, le dichiarazioni del premier israeliano erano state smentite mesi fa dagli stessi servizi a stelle e strisce. La direttrice dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard aveva riferito lo scorso marzo di non essere a conoscenza di piani operativi della Repubblica islamica per costruire la bomba, e che se anche ci fossero stati ci sarebbero voluti, appunto, diversi anni per realizzarli. Trump, che ha spalleggiato Netanyahu sulla questione, ha liquidato il rapporto di Gabbard in questi termini: “Non m’interessa cos’ha detto, io credo che (gli iraniani, ndr) fossero molto vicini” a confezionare l’ordigno.

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    Israele-Iran, Kallas predica “de-escalation” e “diplomazia”. Ma l’Ue non ha una vera strategia

    Bruxelles – Mentre non accenna a fermarsi l’escalation in Medio Oriente, l’Ue tenta di trovare un punto di caduta. Ma non c’è nulla di nuovo sul piatto dei ministri degli Esteri, riunitisi oggi per una sessione d’emergenza, oltre alle solite dichiarazioni trite e ritrite. Kaja Kallas parla di de-escalation e moderazione nello stesso momento in cui Benjamin Netanyahu minaccia di assassinare il leader iraniano Ali Khamenei e Donald Trump ingiunge alla Repubblica islamica di abbandonare completamente qualsiasi programma nucleare.Parlando ai giornalisti al termine del Consiglio Affari esteri straordinario riunitosi stamattina (17 giugno) in formato virtuale per discutere della guerra scatenata da Israele contro l’Iran, l’Alta rappresentante Kaja Kallas ha reiterato per l’ennesima volta le stesse formule, ormai quasi stucchevoli, che i vertici comunitari, gli Stati membri e i leader del G7 stanno ripetendo da giorni.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas (foto: Consiglio europeo)L’Ue, ha detto l’ex premier estone, “chiede a entrambe le parti di rispettare il diritto internazionale e dare prova di moderazione“. La riunione odierna è stata utile, ha spiegato Kallas, anche per “coordinare gli Stati membri nell’evacuazione dei nostri cittadini dalla regione“, scopo per cui l’Ue ha attivato il meccanismo di protezione civile.La pista negoziale: il nodo del nucleare iranianoLe discussioni si sono incentrate “su cosa possiamo fare per facilitare la de-escalation“, ha spiegato. Bruxelles, sottolinea Kallas, “sostiene una soluzione diplomatica” su tutti i fronti: sia per quel che riguarda la guerra in corso, ormai al suo quinto giorno, sia per riportare in carreggiata il processo negoziale relativo al programma nucleare di Teheran. “Ora che i colloqui tra Iran e Stati Uniti si sono interrotti, l’Ue ha un ruolo da giocare“, dice, annunciando di essere in contatto con le controparti israeliana e iraniana nonché coi partner locali, poiché “la stabilità della regione è nell’interesse di tutti“. E tale stabilità, osserva, passa per un Iran senza bomba atomica.Sul tema, l’approccio di Bruxelles pare meno tranchant rispetto a quello di Washington. Se l’inquilino della Casa Bianca ha intimato alla dirigenza di Teheran di rinunciare completamente a qualunque forma di arricchimento dell’uranio (incluso per scopi civili), Kallas ammette di aver “avuto discussioni con l’Iran riguardo al suo programma nucleare“, dando conto delle diverse sensibilità sulle due sponde dell’Atlantico: “Gli Stati Uniti parlano per sé“, rimarca, e non anche per i Ventisette.Il presidente statunitense Donald Trump (foto: Brendan Smialowski/Afp)L’Alta rappresentante ha definito “deplorevole” il ritiro degli Usa dal Joint comprehensive plan of action (Jcpoa) nel 2018, deciso dallo stesso Donald Trump durante il suo primo mandato. Le trattative bilaterali tra Washington e Teheran per trovare una nuova intesa, in sostituzione dello storico accordo del 2015 (mediato proprio dall’Ue), erano giunte ad un punto morto nelle scorse settimane. Un paio di mesi fa, il presidente statunitense aveva lanciato un ultimatum alla dirigenza iraniana, allo scadere del quale sono arrivate, puntuali, le bombe dello Stato ebraico.Il fronte militareBenjamin Netanyahu ha giustificato quell’attacco preventivo – una pratica controversa sotto il profilo del diritto internazionale – sostenendo che la Repubblica islamica sarebbe stata ad un passo dalla bomba atomica, con la quale avrebbe minacciato direttamente l’esistenza di Israele. Ma la stessa intelligence a stelle e strisce segnalava da mesi che sarebbero serviti almeno tre anni agli ayatollah per costruire un ordigno e usarlo contro i propri nemici.Ad ogni modo, l’Alta rappresentante considera che un intervento diretto degli Stati Uniti a fianco dello Stato ebraico “trascinerebbe l’intera regione in un conflitto più ampio e questo non è nell’interesse di nessuno“, ricordando che da Teheran è giunta la disponibilità a fermare i missili se Israele sospende i bombardamenti.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto via Imagoeconomica)Ma Kallas non è stata in grado di definire nello specifico quali iniziative diplomatiche l’Ue abbia in programma, o in quali modi intenda “esercitare pressione” sui belligeranti per ottenere la conclamata de-escalation. Nel frattempo, nonostante il “veto” che Trump sostiene di aver posto su un’operazione simile, le alte sfere di Tel Aviv continuano ad accarezzare l’idea di assassinare la guida suprema iraniana Ali Khamenei.Per quest’ultimo, dicono, potrebbe essere in serbo una sorte simile a quella di Saddam Hussein, il dittatore iracheno deposto e giustiziato in seguito all’invasione del 2003 del Paese del Golfo ad opera della coalizione dei volenterosi – l’originale – guidata dagli Stati Uniti. Un parallelo interessante, considerato che quella guerra fu giustificata con il presunto possesso da parte di Baghdad di armi di distruzione di massa che in realtà non erano mai esistite.Da Gaza a Kiev (e Mosca)I ministri degli Esteri hanno anche discusso, brevemente, della catastrofe umanitaria che continua a consumarsi nella Striscia, messa in secondo piano dall’escalation militare ordinata da Netanyahu. “Non lasceremo cadere l’attenzione su Gaza“, ha ribadito il capo della diplomazia a dodici stelle, ripetendo la necessità che venga “garantito immediatamente l’ingresso degli aiuti umanitari e messo in piedi un cessate il fuoco completo” che includa il rilascio di tutti gli ostaggi. La revisione dell’accordo di associazione Ue-Israele, su cui stanno lavorando i servizi della Commissione, sarà invece sul tavolo del Consiglio Affari esteri di lunedì prossimo (23 giugno).Il presidente russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)Infine, c’è stato tempo anche per menzionare la guerra in Ucraina. Nelle scorse ore, ha detto Kallas, la Russia ha condotto su Kiev uno dei raid più devastanti da oltre tre anni a questa parte, dimostrando di non essere interessata ad alcuna tregua. Pertanto, taglia corto l’Alta rappresentante, Vladimir Putin non può in alcun modo essere investito del ruolo di mediatore nel conflitto tra Tel Aviv e Teheran, come recentemente suggerito da Trump e, anzi “dobbiamo mantenere la pressione” sul Cremlino.Tradotto: avanti tutta con l’approvazione del 18esimo pacchetto di sanzioni. Che però è destinato a rimanere zoppo, dato che il tycoon ha confermato di non appoggiare una delle sue componenti centrali, cioè l’abbassamento del tetto al prezzo del greggio russo da 60 a 45 dollari al barile (sul quale devono essere d’accordo tutti i partner G7). Secondo Kallas, “dovremmo andare avanti” sul price cap, e l’escalation mediorientale fornisce una ragione in più: “Proteggere la stabilità dei mercati globali dell’energia“. Non è chiaro, tuttavia, come i Ventisette possano implementare autonomamente una misura del genere senza coordinarsi con Washington.