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    Montenegro, pagata la prima rata del debito da 809 milioni con la Cina grazie al supporto di tre banche occidentali

    Bruxelles – Dalle sabbie mobili del debito cinese il Montenegro potrebbe aver fatto il primo significativo passo per uscirne. Il condizionale è d’obbligo, perché la somma dovuta a Pechino è vertiginosa: 809 milioni di euro, un quinto del debito pubblico complessivo di 4,33 miliardi, il 103 per cento del prodotto interno lordo del Paese. Il governo di Podgorica ha annunciato mercoledì 21 luglio il pagamento della prima rata da 33 milioni all’Export-Import (Exim) Bank of China, ente di credito statale con vocazione internazionale, e spera di essersi messo alle spalle lo scenario peggiore: quello di cedere porzioni del territorio nazionale alla Cina.
    “L’incredibile successo”, come lo ha definito il ministro delle Finanze, Milojko Spajić, è un accordo di “copertura” con tre banche occidentali per proteggere il rischio valutario (perdita potenziale per chi investe all’estero) di un prestito contratto con la Cina nel 2014, che ha abbassato il tasso di interesse dal 2 allo 0,88 per cento (e scambiato da dollaro a euro). Il governo guidato da Zdravko Krivokapić non ha voluto rendere noto quali enti hanno sostenuto l’operazione, ma il ministro delle Finanze ha specificato che “il creditore è ancora la cinese Exim Bank, ma alla transazione hanno partecipato due banche americane e una banca francese“.
    Il percorso dell’autostrada A1 Bar-Boljare in costruzione, Montenegro (fonte: Il Post)
    Il finanziamento all’ente di credito cinese era stato chiesto sette anni fa dal governo di Milo Đukanović (allora premier, oggi presidente della Repubblica) per finanziare la costruzione del primo tratto dell’autostrada che collegherà il porto montenegrino di Antivari (Bar) alla località di Boljare, circa 160 chilometri dal Mar Adriatico al confine con la Serbia. I 41 chilometri in costruzione a nord di Podgorica costituiscono uno dei tratti autostradali più costosi al mondo: oltre 20 milioni di euro al chilometro, più di dieci volte il costo medio europeo.
    Gli altri 120 sono ancora da costruire e dipenderanno dalle capacità di Podgorica di ripagare il debito: la prossima rata è fissata a gennaio 2022, anche se potrebbe essere concessa una proroga per le difficoltà economiche causate dalla pandemia COVID-19. Secondo quanto riportato dal Financial Times, se Podgorica non fosse riuscita ad adempiere ai propri obblighi entro la fine di luglio, Pechino avrebbe avuto il diritto di acquisire il controllo di parte del territorio montenegrino, verosimilmente uno sbocco sul Mediterraneo.
    La notizia dell’intervento dei tre istituti di credito occidentali ha fatto tirare un sospiro di sollievo anche a Bruxelles, dove da mesi la questione è rimasta pendente. Le conseguenze di un’eventuale cessione parziale di sovranità da parte del governo di Podgorica alla Cina per insolvenza non coinvolgono direttamente l’Unione Europea, ma gli effetti indiretti sarebbero molto gravi sul piano dell’allargamento UE nella regione balcanica.
    Attualmente il Montenegro è il Paese allo stadio più avanzato nel processo di adesione all’UE tra i sei dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Serbia, Macedonia del Nord). Tuttavia, la presenza e il controllo diretto di una porzione del territorio nazionale da parte di uno degli avversari geopolitici più temuti dall’Unione nell’area balcanica potrebbe mettere a serio rischio l’intero progetto di fare del Montenegro il ventottesimo Paese membro UE. Rischio noto sia al Parlamento Europeo, che già a maggio chiedeva un intervento a sostegno del vicino balcanico, sia alla Commissione UE.
    Il ponte Moracica, presso Podgorica, lungo l’autostrada A1 Bar-Boljare, Montenegro
    La richiesta di assistenza inviata in primavera dal vicepremier del Montenegro, Dritan Abazović, è rimasta solo all’apparenza inascoltata (anche perché l’Unione non era tenuta a pagare di tasca propria il debito di un Paese non-membro). È già in campo uno schema di aiuti finanziari da 60 milioni di euro, oltre al Piano economico e di investimenti da 29 miliardi per la regione sbloccato dall’accordo sullo strumento di assistenza pre-adesione IPA III. Parallelamente, fonti a Bruxelles hanno fatto sapere che erano state sondate le piste del Kreditanstalt für Wiederaufbau (istituto di credito per la ricostruzione tedesco), dell’Agenzia di sviluppo francese e della Cassa Depositi e Prestiti italiana, per guidare gli aiuti finanziari europei. Tutto questo prima dell’intervento dei tre istituti di credito di cui ancora non si conoscono i dettagli.
    In attesa di avere più informazioni a disposizione, la Commissione Europea “continuerà a sostenere il Montenegro nel suo percorso verso l’adesione”, ha assicurato la portavoce per la Politica di vicinato e l’allargamento, Anna Pisonero. “In questo contesto lavorerà con il Paese per trovare soluzioni finanziarie per i suoi progetti di investimento e per garantire anche la sostenibilità del suo debito pubblico”. In cantiere per il governo Krivokapić c’è la rivalutazione dei beni dello Stato, con l’obiettivo di venderne alcuni per raccogliere soldi da destinare al ripianamento dei debiti.
    È comunque difficile che la sola vendita di asset statali – di cui il ministro delle Finanze non ha saputo dare una stima – e le privatizzazioni possano essere sufficienti per colmare il buco da 809 milioni di euro con Pechino. Ecco perché dovrà mettersi in moto un circolo virtuoso nell’economia del Paese. Le sabbie mobili del debito cinese non sono ancora superate e la strada verso l’adesione all’Unione Europea chiede continui sforzi politici e finanziari al Montenegro.
    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    Podgorica ha raggiunto un accordo di “copertura” con due istituti di credito statunitensi e uno francese, rimettendosi sulla strada dell’adesione all’Unione Europea. Il prestito era stato chiesto nel 2014 per la costruzione dell’autostrada A1 Bar-Boljare

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    Dialogo Serbia-Kosovo, ennesima fumata nera. Ora per l’UE diventa difficile gestire le tensioni tra Vučić e Kurti

    Bruxelles – Così non va. Dopo un anno dalla ripresa del dialogo tra Serbia e Kosovo mediato dall’UE, è difficile continuare a illudersi alla vigilia di ogni incontro che possa essere arrivato il momento dello sblocco delle trattative e ritrovarsi l’indomani a tracciare l’ennesimo bilancio negativo. Parlare di “approcci molto diversi delle due parti“, come ha fatto il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, al termine della riunione ad alto vertice di ieri (lunedì 19 luglio), la quinta dal 12 luglio del 2020, sembra ormai un eufemismo.
    Il confronto tra Pristina e Belgrado, che si era interrotto per nove mesi tra settembre 2020 e giugno 2021, sembrava essere pronto per approdare in un porto sicuro, sotto le pressioni dell’Unione di risolvere le questioni regionali come prerequisito per l’adesione UE. E invece a Bruxelles si sta arenando nelle secche delle accuse reciproche e della mancanza di volontà di cercare un compromesso. Le grandi speranze dell’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ogni volta vengono spente dagli scontri tra i rappresentanti serbi e kosovari. Era successo al vertice di giugno, è riaccaduto ieri: “Abbiamo ottenuto pochissimi progressi“, ha confessato Lajčák in conferenza stampa.
    Il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák
    Il confronto tra Serbia e Kosovo facilitato dall’UE inizia ad assumere i tratti di un processo autoreferenziale: l’importante è che non si fermi, nella speranza che prima o poi qualcosa si sblocchi. “L’unico risultato che posso riferire è che il dialogo continuerà“, ha rivendicato il rappresentante speciale, tentando di far passare per promettente un risultato che non può essere all’altezza delle ambizioni che si è fissata la Commissione Europea. In particolare, continuano a pesare le parole di Borrell dell’ottobre dello scorso anno, quando prometteva che un accordo “è questione di mesi, non di anni”.
    Di mensile c’è invece solo la continuazione delle riunioni tecniche dei negoziatori, con la prospettiva di un sesto incontro di alto livello a settembre. Sarà il terzo per il premier kosovaro, Albin Kurti, ma con le premesse dell’incontro di ieri si fatica a capire come in soli due mesi si potranno ricucire i rapporti lacerati con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić.
    Fuoco incrociato
    All’apertura del quinto incontro del dialogo Serbia-Kosovo l’alto rappresentante Borrell aveva richiamato le parti a un “approccio costruttivo e pragmatico”, per “chiudere una volta per tutte i capitoli del loro doloroso passato con un accordo definitivo e giuridicamente vincolante”. Auspici che sono stati vanificati dall’atteggiamento di Kurti e Vučić nei confronti della rispettiva controparte.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić
    Il presidente serbo ha definito l’incontro “molto negativo in tutti i sensi” e si è scagliato contro la delegazione kosovara per aver respinto una proposta in tre punti avanzata dai mediatori europei. Oltre agli incontri mensili tra i capi-delegazione, la proposta UE “si riferiva all’intensificazione degli sforzi comuni per l’identificazione dei resti delle persone scomparse e all’impegno ad astenersi da azioni destabilizzanti”. Stando alle parole di Vučic, Kurti avrebbe risposto solo accusando Belgrado di essere responsabile di tre genocidi: nel 1878 dopo l’indipendenza ottenuta al congresso di Berlino, durante le guerre balcaniche e la prima guerra mondiale, e infine durante la guerra in Kosovo nel 1998-1999. “Non hanno fatto altro che chiedere alla Serbia di rispondere del suo passato“.
    Il presidente serbo ha detto di aver insistito sul “rispetto degli accordi raggiunti nell’aprile 2013 a Bruxelles”, a partire dalla creazione della Comunità delle municipalità serbe in Kosovo. Un tema su cui Pristina sembra essere sorda. “Non ci sarà molto da aspettarsi” da un nuovo round di negoziati tecnici a fine agosto, si è sbilanciato Vučic. A suo avviso, la parte kosovara “non ha alcun interesse a negoziare”, perché il suo unico obiettivo sarebbe “ottenere il sì della Serbia all’indipendenza del Kosovo e imporci di riconoscere presunti crimini e genocidi ai danni del popolo kosovaro albanese”.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti
    Dal canto suo, il premier Kurti ha denunciato che la proposta di un accordo di pace in sei punti presentata dalla sua delegazione “è stata respinta senza essere neanche letta” dal presidente serbo. Questo dimostrerebbe “la loro riluttanza a raggiungere un’intesa”. Il primo ministro kosovaro non ha negato di aver insistito sul passato tra Pristina e Belgrado: “Non capisco perché dovremmo avere paura di affrontarlo, quando sappiamo di avere problemi”. Secondo lui la Serbia “non vuole riconoscere il suo passato criminale, né l’indipendenza del Kosovo“, due fattori del dialogo “strettamente collegati l’uno all’altro”.
    Da quando Kurti è stato nominato nuovo premier del Kosovo, i rapporti con Belgrado sono diventati sempre più tesi, alimentando una spirale di nazionalismo nei rispettivi territori. Con un atto palesemente provocatorio Kurti ieri ha regalato a Borrell e soprattutto a Vučić tre libri sui crimini serbi in Kosovo: una confessione di donne violentate durante la guerra, il lavoro dell’attivista serba per i diritti umani, Nataša Kandić, sull’uccisione di 1.133 bambini e la scomparsa di altri 109 nel conflitto del 1998-1999, e un’opera sullo sterminio degli albanesi fra il 1878 e il 1884 nel Sangiaccato di Niš. “La Serbia è arrivata in Kosovo con un genocidio ed è andata via con un altro genocidio“, ha attaccato il premier kosovaro. Le premesse in vista dell’incontro di settembre, tutt’altro che incoraggianti, sono tutte qui.

    Nessun progresso dal quinto vertice di alto livello a Bruxelles, che evidenzia l’incapacità di cercare un compromesso tra Pristina e Belgrado. Le parti si accusano reciprocamente di voler affossare il confronto, con la ripresa programmata a settembre

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    Allargamento UE, la Serbia e quella pericolosa alleanza con Orbán: “Belgrado può contare sul sostegno dell’Ungheria”

    Bruxelles – Viktor Orbán non sta godendo di un momento di grande popolarità nell’Unione Europea, per usare un eufemismo. La legge anti-LGBT+ del premier ultra-conservatore ungherese è da settimane al centro di una bufera tra le istituzioni europee che coinvolge direttamente il rispetto dello Stato di diritto nel Paese. Ma, proprio nel giorno in cui è entrata in vigore quella legge “vergognosa” – come l’ha definita la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen – c’è un Paese che ha deciso di riceverlo con tutti gli onori del caso: la Serbia. In maniera quasi beffarda, proprio quella Serbia che sta negoziando con Bruxelles l’adesione all’Unione Europea e che è al centro della politica di allargamento dell’Unione nei Balcani occidentali.
    Questa mattina (giovedì 8 luglio) Orbán è arrivato a Belgrado con il ministro degli Esteri, Peter Szijjarto (che ha ricevuto l’Ordine della bandiera serba, un’onorificenza statale), e a altri componenti del governo ungherese. Dopo essere stato accolto all’aeroporto della capitale da Nikola Selaković, ministro degli Esteri serbo, il premier magiaro si è incontrato con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. I due leader politici sono legati da stima reciproca e da un rapporto che ormai si è trasformato in amicizia e non sono rare le visite nei rispettivi Paesi. In particolare Vučić non ha mai nascosto la sua ammirazione per Orbán, preso a modello come uomo forte all’interno dell’UE: “È un veterano della politica europea”.
    Allo stesso tempo, il primo ministro ungherese guarda con interesse all’allargamento dell’Unione nei Balcani occidentali, come potenziale bacino di influenza e di possibili partner futuri a Bruxelles. Vanno in questa direzione le parole di supporto all’adesione della Serbia, pronunciate nel corso della conferenza stampa congiunta post-vertice: “La Serbia è un Paese chiave per la stabilità della regione balcanica, allo stesso modo della Polonia nell’Europa centrale“. Il riferimento all’Est Europa non è casuale. Polonia e Ungheria fanno entrambe parte del Gruppo di Visegrád (con Repubblica Ceca e Slovacchia) e stanno dando grossi grattacapi a Bruxelles: dalla minaccia prolungata di veto per il vincolo sullo Stato di diritto sull’approvazione del bilancio pluriennale UE 2021-2027 e del Recovery Fund, alla violazione dell’indipendenza del sistema giudiziario, fino alla questione del mancato rispetto dei diritti LGBT+.
    “Fino a quando non sarà integrata la Serbia nell’Unione Europea, i Balcani occidentali non lo saranno“, ha sottolineato con forza Orbán, che poi ha utilizzato i suoi consueti toni aggressivi nei confronti delle istituzioni europee: “La Serbia è un Paese chiave e questo l’UE lo deve capire“. Tanto che, secondo lui, “è più nel suo interesse avere con sé la Serbia, piuttosto che di Belgrado entrare nell’Unione”. Per questo motivo “Belgrado può contare sul nostro sostegno, come Budapest conta su di voi“, ha concluso a effetto l’ospite ungherese.

    Мађарска влада и премијер Виктор Орбан су прави пријатељи Србије. Мађарска ће увек моћи да рачуна на српско пријатељство.https://t.co/JuMfYiRKnP pic.twitter.com/oxPljPQBkl
    — Александар Вучић (@avucic) July 8, 2021

    Lusinghe che non hanno lasciato indifferente il presidente serbo: “Molti dicono di appoggiare il percorso della Serbia verso l’integrazione nell’Unione, ma sono pochi quelli che lo fanno apertamente e con coraggio, disposti anche a incassare critiche, come lo fate voi”. È così che si rinsalda “l’amicizia” tra ungheresi e serbi, almeno di alto vertice. Senza dimenticare l’aspetto commerciale, con l’Ungheria al quinto posto tra i partner commerciali della Serbia, delle infrastrutture (è in cantiere un progetto di linea ferroviaria veloce tra le due capitali) e la comunione di visioni: “Le nostre minoranze godono di pieni diritti senza alcun problema di convivenza interetnica”, ha rivendicato Vučić.
    Curiosamente, è passato invece sotto silenzio il tema dei diritti LGBT+. In Serbia si attende ancora l’approvazione della legge sull’istituto del partenariato, vale a dire il riconoscimento delle coppie dello stesso sesso. Non è equiparabile al matrimonio – riservato solo alle coppie eterosessuali – ma garantirà diritti sul fronte dell’eredità, delle assicurazioni e dell’acquisto di immobili. Come in Italia, invece, non permetterà le adozioni. Mentre in Ungheria ieri è stata punita con una multa di 700 euro la pubblicazione di un libro di fiabe della Rainbow Families Foundation che raffigurava al suo interno anche alcune famiglie arcobaleno. Sarebbe interessante conoscere l’opinione della premier serba, Ana Brnabić, omosessuale dichiarata che ogni anno sfila al Pride di Belgrado, sull’amicizia tra Serbia e Ungheria e sui rischi che il Paese corre nel seguire questo alleato sulla strada del mancato rispetto dei diritti dei cittadini.

    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    Proprio nel giorno dell’entrata in vigore della legge anti-LGBT+ al centro delle polemiche a Bruxelles, il premier ungherese è stato ospitato dal presidente Vučić: “Sono pochi quelli che ci appoggiano come fate voi”

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    Allargamento UE, Sassoli riceve presidenti dei Parlamenti balcanici: “Istituzioni siano motore di pace e democrazia”

    Bruxelles – Se la politica di allargamento dell’UE rispecchiasse fedelmente le espressioni di intenti, l’Unione sarebbe già da tempo ben avviata sulla strada dei trentatré Paesi membri. I progressi dei sei Stati dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia-Eerzegovina, Macedonia del nord, Montenegro, Kosovo, Serbia), in materia di riforme e cooperazione regionale sono stati evidenziati a più riprese a Bruxelles ma, per motivazioni che variano da caso a caso, l’orizzonte dell’adesione è ancora lontano. Rimane però una certezza: se le promesse non saranno seguite da fatti concreti, l’entusiasmo cederà il passo alla disillusione e i Balcani guarderanno con sempre più interesse ad altre potenze, come Russia e Cina.
    Di tutto questo si è parlato nel corso del secondo vertice del Parlamento Europeo e dei presidenti dei Parlamenti dei Balcani Occidentali (lunedì 28 giugno), a distanza di un anno e cinque mesi dal primo incontro di questo tipo a Bruxelles. Un’occasione per ribadire il ruolo centrale delle istituzioni democratiche nel processo di allargamento UE nella regione, con l’impegno a rafforzarne la dimensione parlamentare.
    Il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, firma la dichiarazione congiunta durante il secondo vertice con i presidenti dei Parlamenti dei Balcani Occidentali (28 giugno 2021)
    Tutto ciò è emerso non solo dallo scambio di vedute durante la riunione, ma anche da quanto messo nero su bianco nella dichiarazione congiunta del presidente del Parlamento UE, David Sassoli, degli omologhi dei Parlamenti portoghese e sloveno (rispettivamente Igor Zorčič ed Eduardo Ferro Rodrigues), in rappresentanza delle presidenze attuali e future del Consiglio dell’UE, e di quelli balcanici: Gramoz Ruçi (Albania), Bakir Izetbegović (Bosnia ed Erzegovina), Glauk Konjufca (Kosovo), Talat Xhaferi (Macedonia del Nord), Aleksa Bečić (Montenegro) e Ivica Dačić (Serbia).
    Anche in vista del summit UE-Balcani Occidentali che dovrebbe tenersi a Lubiana durante il semestre di presidenza slovena, la prospettiva dei Parlamenti nazionali dovrà essere sempre più quella di uno “spazio inclusivo di dialogo”, con l’obiettivo di “favorire la riconciliazione” e di “fornire un contributo diretto alla pace, alla stabilità, alla prosperità e al rafforzamento della democrazia” in tutta la regione. Il focus su cui lavorare rimane l’attuazione delle riforme richieste da Bruxelles, dallo Stato di diritto all’indipendenza della magistratura, dal pluralismo all’indipendenza del media e della magistratura, fino alla parità di genere e alla lotta contro i cambiamenti climatici.
    Ma se le istituzioni balcaniche dovranno dimostrare un vero impegno su questi punti, altrettanto fondamentale sarà quello che l’Unione Europea dovrà mettere in campo. Non solo attraverso il dialogo interparlamentare con l’Eurocamera e il coinvolgimento della società civile dei Balcani durante la Conferenza sul futuro dell’Europa, ma soprattutto “tenendo fede alle promesse” del Consiglio dell’UE. L’invito è ad accelerare il processo di allagamento, “un interesse politico, economico e di sicurezza della stessa Unione”, conclude la dichiarazione congiunta.

    Very positive 2nd summit with the speakers from the #WesternBalkans!
    Enlargement means hope, for all sides! We call on the Council to keep its promises and speed up the enlargement process.
    This is a geostrategic investment, for a strong, united Europe. https://t.co/znHkqeU1NH pic.twitter.com/ounhDFgGXS
    — David Sassoli (@EP_President) June 28, 2021

    L’esortazione ai governi dei Ventisette nel rispettare le promesse fatte ai Paesi balcanici è stata ribadita con forza anche dal presidente del Parlamento UE, che dopo l’incontro ha parlato di “speranza per tutte le parti” se si procederà sulla strada dell’allargamento dell’Unione. Il processo di adesione dei Balcani occidentali “basato sul merito” rappresenta un “investimento geostrategico, per un’Europa forte e unita“, ha commentato su Twitter.
    Secondo Sassoli, questa consapevolezza scaturisce dalle conseguenze della pandemia COVID-19, che “ha ulteriormente evidenziato quanto dipendiamo gli uni dagli altri per affrontare le sfide attuali e future”. In questo senso, gli atti di solidarietà e cooperazione a livello finanziario e umanitario confermano gli sforzi dell’UE per “contribuire allo sviluppo sostenibile e alla ripresa socio-economica a lungo termine” della regione.
    Ma il vero “motore di pace e democrazia” sono proprio i Parlamenti nazionali, che “possono favorire la comprensione reciproca e la riconciliazione nei Balcani occidentali”. Con questo obiettivo, l’Eurocamera “rimarrà un partner impegnato verso un futuro europeo comune” e offrirà sostegno in diversi modi: sia nell’area della “mediazione e dialogo”, sia nel “rafforzamento delle capacità parlamentari”, ma anche attraverso “l’osservazione elettorale e le azioni per i diritti umani”, è stata la promessa del presidente del Parlamento Europeo al termine del vertice.
    Da sinistra, i presidenti: Igor Zorčič (Assemblea nazionale slovena), Talat Xhaferi (Assemblea della Macedonia del Nord), Aleksa Bečić (Assemblea del Montenegro), Bakir Izetbegović (Camera dei Popoli della Bosnia ed Erzegovina), David Sassoli (Parlamento Europeo), Gramoz Ruçi (Assemblea di Albania), Ivica Dačić (Assemblea nazionale della Serbia) e Glauk Konjufca (Assemblea del Kosovo)

    Nella dichiarazione congiunta firmata durante il secondo vertice interparlamentare è stato ribadito l’impegno a collaborare per “favorire la riconciliazione nella regione”. Dal presidente dell’Eurocamera l’invito al Consiglio dell’UE a “rispettare le promesse” per l’adesione dei sei Paesi

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    Bosnia ed Erzegovina, la prospettiva UE è un “atto di fede”: servono ancora riforme strutturali e riconciliazione etnica

    Bruxelles – L’allargamento dell’Unione Europea ai Balcani occidentali procede come un elastico: il cammino è tracciato, ma non sono rari né gli slanci di entusiasmo improvviso né la sensazione che tutto il processo stia ristagnando. Talvolta la prospettiva europea dei Balcani può essere considerata come vero e proprio “atto di fede”, prendendo in prestito l’espressione usata dall’eurodeputato Paulo Rangel (PPE) durante la presentazione della relazione sul rapporto 2019/2020 della Commissione UE sulla Bosnia ed Erzegovina.
    In plenaria il testo è stato approvato con 483 voti a favore, 73 voti contrari e 133 astenuti, l’ultimo delle sei relazioni sui progressi dei Paesi dei Balcani occidentali (il primo dibattito su Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Serbia si era tenuto lo scorso 25 marzo, il secondo sul Montenegro il 18 maggio). L’impressione rimane quella di un sostegno diffuso del Parlamento Europeo alle aspirazioni di adesione all’UE della Bosnia ed Erzegovina, anche se le condizioni in cui versano la società e le istituzioni del Paese pongono una serie di paletti sulle modalità e le tempistiche con cui questo processo potrà avere luogo.
    Il relatore per la Bosnia ed Erzegovina, Paulo Rangel (PPE)
    “La diversità etnica e religiosa è parte del DNA dell’Unione Europea, perciò la futura integrazione della Bosnia ed Erzegovina non può che essere un fenomeno naturale”, ha spiegato il relatore Rangel. Se gli eurodeputati sono “grandi sostenitori” del commino europeo di Sarajevo, servono però “riforme profonde e un impegno di riconciliazione etnica” per aspirare allo status di Paese candidato all’adesione all’UE. C’è molto da fare sui 14 criteri di Copenaghen, che disciplinano le condizioni base per iniziare il processo negoziale: dal rispetto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, alle garanzie per la democrazia in una società multietnica, passando per le fondamentali riforme costituzionali, elettorali, della giustizia e del sistema scolastico.
    Allo stesso tempo, quel “crediamo nei cittadini bosniaci e nel futuro europeo della Bosnia” prende le mosse da alcuni piccoli passi in avanti. Il vicepresidente del gruppo del PPE ha sottolineato che “nonostante la difficile situazione causata dalla pandemia COVID-19, abbiamo registrato progressi”, come le elezioni nella città di Mostar (le prime dal 2008) e la ripresa dei lavori del comitato parlamentare di stabilizzazione e di associazione UE-Bosnia Erzegovina. “I leader bosniaci devono garantire che la popolazione sia cosciente del nostro sostegno e delle prospettive europee, nell’ottica della riconciliazione”, ha concluso l’europarlamentare portoghese.
    Parola a Commissione e Consiglio
    Parole di supporto sono arrivate anche da Consiglio e Commissione UE, anche se “i progressi dipendono dal rispetto dei 14 criteri”, ha sottolineato la segretaria di Stato portoghese e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Ana Paula Zacarias. In primis, la questione della “piena cooperazione con la Corte internazionale di giustizia” e la “fine della glorificazione dei criminali di guerra condannati“, come ha dimostrato la sentenza sul caso Ratko Mladić, comandante militare dei serbo-bosniaci durante la guerra del 1992-1995.
    La segretaria di Stato portoghese e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Ana Paula Zacarias
    Sul fronte delle riforme, “rileviamo slanci solo in tempi più recenti”, ha precisato Zacarias: “La Costituzione continua a non essere in linea con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo” e per questo si deve “puntare sulle riforme costituzionali, che spazzino via tutte le discriminazioni ancora esistenti”. Visione condivisa dal commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi: “Come ho detto ai leader bosniaci nell’ultimo anno, ci sono ancora molte questioni in sospeso e dovranno fare la loro parte”, anche sul fronte della parità di rappresentanza, del funzionamento degli organi dello Stato, del conflitto di interessi e degli appalti pubblici. Ma soprattutto, “deve finire il negazionismo sui crimini di guerra e la retorica divisiva degli ultimi mesi“, ha avvertito il commissario Várhelyi. “L’unica prospettiva della Bosnia nell’UE è quella di un Paese unico, unito e sovrano“.
    L’Unione Europea rimane però particolarmente impegnata in tutta la regione, Bosnia compresa. L’approvazione dello strumento IPA III, per Sarajevo, significa investimenti in infrastrutture, “come il corridoio 5G, i collegamenti stradali ed energetici con Serbia e Montenegro e lo sminamento del fiume Sava per rilanciare gli scambi commerciali fluviali”, ha assicurato Várhelyi. C’è poi il capitolo della lotta al COVID-19: “Dall’inizio della pandemia abbiamo stanziato 80,5 milioni di euro in sovvenzioni immediate e 250 milioni in micro-finanziamenti”. Ma tra maggio e agosto sono in arrivo anche 651 mila dosi di vaccino Pfizer/BioNTech dall’UE (di cui 213.800 alla Bosnia), 952 mila dal programma COVAX (177 mila alla Bosnia), oltre alle 30 mila dalla Croazia e 4.500 dalla Slovenia direttamente a Sarajevo: “Non ci fermiamo qui, mobiliteremo sempre più Stati membri perché mettano a disposizione vaccini non appena saranno disponibili”.
    Il confronto in Aula
    Animato il confronto in plenaria, con i gruppi politici che hanno espresso posizioni diverse sulla strategia da adottare nei confronti del cammino europeo del Paese balcanico. “La Bosnia appartiene all’UE, perciò lanciamo un appello agli Stati membri perché le concedano lo status di Paese candidato“, è stata l’esortazione di Dietmar Köster (S&D). “Vanno però rafforzate le libertà dei media, il contrasto a ogni discriminazione e il superamento delle tensioni etniche”. Klemen Grošelj (Renew Europe) ha sottolineato che gli accordi di Dayton del 1995 avevano come priorità la pace, “non il funzionamento Stato”, ma ora la Bosnia “si trova di fronte alla scelta se continuare a basarsi sulla divisione etnica o sui principi comunitari“.
    L’eurodeputato del Movimento 5 Stelle e vicepresidente del Parlamento UE, Fabio Massimo Castaldo
    A questo proposito, l’eurodeputato del Movimento 5 Stelle e vicepresidente del Parlamento UE, Fabio Massimo Castaldo, ha avvertito che “non possiamo nasconderci dietro un dito, accettando questo precario status quo” e non appoggiando “soluzioni condivise da autorità politiche e società civile, per elaborare una nuova Costituzione”. L’UE non deve avere la “presunzione di imporre le 14 priorità, perché il dialogo si costruisce anche e soprattutto facilitandolo“. Ecco perché Castaldo ha accolto “con grande favore” la proposta di accogliere i Balcani occidentali nella Conferenza sul futuro dell’Europa, “per rinnovare quello slancio e quella promessa di prospettiva europea che spesso i nostri partner non hanno visto così decisa e così determinata come avrebbero dovuto”.
    Željana Zovko (PPE) ha però avvertito che “potrebbe essere un grave danno, se sarà negato il concetto dei popoli costituenti”, così come stabilito dagli accordi di pace di Dayton (ovvero bosgnacchi musulmani, croati cattolici e serbi ortodossi). Dure le destre, con Dominique Bilde (ID) che ha parlato di un “rischio di diminuire la fiducia dei cittadini europei“, se l’UE insiste “acriticamente” con l’allargamento, “non considerando le questioni di sicurezza sul rimpatrio degli jihadisti nei Balcani e la crisi migratoria”. Ruža Tomašić (ECR) ha invece attaccato la linea del Parlamento Europeo di “negare l’identità di chi non vuole ascoltare e ignorare la questione dei tre popoli costituenti secondo gli accordi di Dayton”.

    Approvata dagli eurodeputati in plenaria la relazione sui progressi di Sarajevo verso l’adesione all’UE. Ma rimane ancora lunga la strada per soddisfare i 14 criteri su Stato di diritto e rispetto delle minoranze

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    Allargamento UE, al via prime conferenze intergovernative con Serbia e Montenegro. Ma è ancora stallo in Consiglio su Albania e Macedonia

    Bruxelles – Prende sempre più slancio la prospettiva europea di Serbia e Montenegro. Dopo l’adozione della nuova metodologia per i negoziati di adesione dei due Paesi dei Balcani occidentali, ieri sera (martedì 22 giugno) sono state avviate le prime conferenze intergovernative con i rappresentanti politici di Belgrado e Podgorica. A presiederle, il commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e la segretaria di Stato portoghese e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Ana Paula Zacarias.
    “Sono lieto che il Montenegro e la Serbia abbiano accettato la metodologia rivista, aprendo la porta alle prime conferenze intergovernative politiche”, ha sottolineato il commissario Várhelyi, dopo aver accolto prima il team montenegrino guidato dal primo ministro, Zdravko Krivokapić, e successivamente quello serbo della premier, Ana Brnabić. “Come abbiamo visto stasera, su questa base rilanceremo il processo di adesione rendendolo più prevedibile, più credibile, più dinamico e soggetto a un orientamento politico più forte”.
    Sul fronte di Podgorica, “questo incontro invia un forte segnale politico dell’impegno dell’Unione Europea“, aprendo la porta a un confronto politico “aperto” sulle riforme chiave. Il Montenegro ha già aperto tutti i capitoli negoziali, ma Várhelyi ha precisato che ora sono necessarie “discussioni sullo Stato di diritto, che determineranno il ritmo dei nostri negoziati“. La priorità “assoluta” su cui è stato trovato un accordo è “soddisfare i parametri intermedi stabiliti nei capitoli sullo Stato di diritto”, vale a dire il 23 (potere giudiziario e diritti fondamentali) e il 24 (giustizia e affari interni). “Mi ha fatto piacere sentire l’impegno e il piano molto dettagliato del primo ministro per affrontare le questioni in sospeso”, ha sottolineato il commissario, che ha assicurato anche il sostegno di Bruxelles per la ricostruzione dell’economia montenegrina dopo la crisi COVID-19.

    At 1st political Intergovernmental Conference w #Montenegro under revised methodology tonight: Strong political signal & political dialogue on key reforms. 🇲🇪 already opened all chapters & needs to focus on rule of law to fulfil opening benchmarks in chapters 23&24. pic.twitter.com/dSkPbHMfG0
    — Oliver Varhelyi (@OliverVarhelyi) June 22, 2021

    A stretto giro, si è tenuta anche la prima conferenza intergovernativa con i rappresentanti serbi. “Abbiamo avuto una discussione sostanziale su ciò che dovrà essere fatto e abbiamo anche fatto il punto sui progressi”, è stato il commento del commissario Várhelyi. Per quanto riguarda i progressi, è stato aperto il primo cluster (gruppo tematico di capitoli negoziali) sullo Stato di diritto. Di conseguenza, “possiamo passare a dinamizzare il processo di adesione per la Serbia durante la presidenza slovena”, a partire dal primo luglio e per tutto il prossimo semestre.
    I passi in avanti anche sul terzo cluster (competitività e crescita inclusiva) e il quarto (Agenda verde e connettività sostenibile) danno la speranza che si crei un “nuovo slancio per tutti noi”, ha aggiunto Várhelyi. Ma “serve che la Serbia sia all’altezza“: un messaggio politico che la premier Brnabić “ha sentito da tutti noi”. Anche in relazione alle questioni in sospeso a livello regionale, dialogo Belgrado-Pristina su tutte.

    At 1st political Intergovernmental Conference w #Serbia under revised methodology tonight. We had a substantial discussion on what needs to be done&took stock of progress. 🇷🇸 has done significant work in last months&accelerated reforms, be it on the rule of law or clusters 3&4. pic.twitter.com/YqhAm6sOGC
    — Oliver Varhelyi (@OliverVarhelyi) June 22, 2021

    Ma il commissario europeo si è trovato costretto a commentare anche i (non) risultati del Consiglio Affari Generali di ieri sul tema dell’allargamento dell’UE nei Balcani occidentali. Perché se “la presidenza portoghese ha compiuto enormi sforzi in tutti i fascicoli-chiave” – dall’accordo politico con il Parlamento UE sullo strumento IPA III di finanziamento del Piano economico e degli investimenti, alla nuova metodologia negoziale per Serbia e Montenegro – è anche vero che il quadro negoziale per l’avvio del processo di adesione di Albania e Macedonia del Nord è ancora in stallo.
    “Negli ultimi mesi abbiamo percorso molto terreno”, ma “non siamo stati in grado di concludere questo lavoro durante il semestre portoghese”. Durante la presidenza slovena, “che è pronta a portarlo avanti”, è necessario un “vero impegno per aprire le prime conferenze intergovernative con entrambi i Paesi“, ha concluso Várhelyi. “Nonostante l’impegno profuso, non è stato possibile arrivare a un’intesa tra i ministri”, ha confermato in conferenza stampa la segretaria di Stato portoghese Zacarias. “Abbiamo preso nota degli ultimi sviluppi e sottolineato l’importanza strategica del processo di allargamento dell’Unione”.
    A bloccare l’avvio delle conferenze intergovernative con Tirana e Skopje, come sei mesi fa, è stato il veto della Bulgaria sul quadro negoziale per l’adesione della Macedonia del Nord. La conferma è arrivata dallo stesso viceministro degli Esteri bulgaro, Rumen Alexandrov, a margine del vertice dei ministri UE di ieri: “Il nostro approccio è costruttivo e in buona fede, ma ci aspettiamo che Skopje inizi a mettere in pratica gli impegni assunti ad alto livello“, compresa “l’esplicita rinuncia alle rivendicazioni territoriali, etniche e storiche nei confronti della Bulgaria e all’istigazione all’odio verso i bulgari”. Tutte motivazioni, più o meno di facciata, che da mesi giustificano la posizione assunta dal governo di Sofia in seno al Consiglio.

    Rilanciato il processo di adesione dei due Paesi dei Balcani occidentali con “forti segnali politici da parte dell’Unione”, ha rivendicato il commissario Várhelyi. Il veto della Bulgaria su Skopje blocca ancora l’avvio degli altri due negoziati

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    Allargamento UE, intesa tra Parlamento e Consiglio su fondi a sostegno dell’adesione di Balcani occidentali e Turchia

    Bruxelles – Era stato chiesto con urgenza durante la sessione plenaria del Parlamento Europeo di maggio dallo stesso commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e dopo due settimane l’accordo sullo strumento di assistenza pre-adesione IPA III è stato raggiunto dai negoziatori di Consiglio e Parlamento UE.
    Un’intesa politica sulle priorità, gli obiettivi e la governance di questo strumento modernizzato, che andrà a disciplinare i finanziamenti 2021-2027 e metterà in campo 14,2 miliardi di euro a sostegno dell’attuazione delle riforme nei sette Paesi candidati all’adesione all’UE: i sei dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia) e la Turchia.
    Attraverso l’accordo raggiunto ieri sera (mercoledì 2 giugno) – che dovrà essere ora convertito in Regolamento e approvato da Parlamento e Consiglio, verosimilmente entro l’inizio del prossimo autunno – i co-legislatori hanno deciso di rafforzare le condizionalità relative alla democrazia, ai diritti umani e allo Stato di diritto. L’assistenza prevista dallo strumento IPA III sarà sospesa in caso di “regresso democratico”, vale a dire di passi indietro dei rispettivi governi su questi settori-chiave nell’ambito delle riforme strutturali per l’accesso all’Unione.
    Il nuovo aggiornamento dello strumento di assistenza pre-adesione (istituito per la prima volta nel 2007 e seguito poi da IPA II nel 2014) si pone anche gli obiettivi di intensificare la lotta alla disinformazione e contribuire alla protezione dell’ambiente, dei diritti umani e della parità di genere, con un maggiore coordinamento con le organizzazioni della società civile e le autorità locali. Rafforzato anche il ruolo del Parlamento Europeo, che attraverso un dialogo geopolitico con la Commissione, sarà in grado di definire i principali orientamenti strategici e di controllare le decisioni prese nell’ambito dello strumento.
    È stato proprio il commissario Várhelyi ad accogliere con ottimismo l’intesa tra Consiglio e Parlamento: “È un segnale benvenuto, positivo e forte per i Balcani occidentali e la Turchia“. Il commissario ha definito l’aggiornamento dello strumento come “un solido investimento nel futuro della regione e dell’allargamento dell’Unione”, il cui punto di forza è proprio sostenere “l’attuazione delle principali riforme politiche, istituzionali, sociali ed economiche” per conformarsi agli standard comunitari. Non solo: “La sua programmazione si basa su priorità tematiche piuttosto che su dotazioni nazionali“, caratteristica fondamentale per “premiare le prestazioni e i progressi” e “dare maggiore flessibilità” alle esigenze in evoluzione.
    In ultima battuta, il commissario per l’Allargamento ha anche sottolineato che lo strumento IPA III “fornirà finanziamenti per il Piano economico e di investimenti per i Balcani occidentali“, presentato il 6 ottobre dello scorso anno dalla Commissione per sostenere la ripresa economica di questa “regione prioritaria” nell’ottica geo-strategica dell’Unione Europea.

    Il nuovo strumento di assistenza pre-adesione IPA III che regola i finanziamenti 2021-2027 avrà un valore di 14,2 miliardi di euro. Agevolerà l’attuazione delle riforme nei sette Paesi candidati, ma sarà sospeso in caso di “regresso democratico”

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    Montenegro, sulla strada europea è il Paese balcanico più avanzato. Ma c’è l’allarme per debito da 809 milioni con Cina

    Bruxelles – Adelante, con juicio. Si potrebbe prendere in prestito la celebre citazione dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni per commentare la posizione del Parlamento Europeo sullo stato di avanzamento del Montenegro lungo il cammino europeo. In plenaria, la relazione sul rapporto 2019/2020 della Commissione UE, presentata da Tonino Picula (S&D), è stata approvata con 595 voti a favore, 66 contrari e 34 astenuti, ma ciò che è emerso con chiarezza è un duplice sentimento nei confronti di Podgorica. Da una parte, la soddisfazione per i progressi sulle riforme e lo Stato di diritto, che ha portato il Paese a essere quello “più avanzato sulla strada dell’accesso all’Unione”. Dall’altra, le preoccupazioni per la situazione finanziaria e l’indebitamento con la Cina. Tutte questioni di cui Bruxelles deve tenere conto, se vuole che il Montenegro diventi nel prossimo futuro il ventottesimo Paese membro UE.
    Il relatore per il Montenegro, Tonino Picula (S&D)
    “Questo dibattito arriva nel contesto della prima transizione di potere negli ultimi 30 anni”, ha introdotto la discussione il relatore, spiegando gli effetti del risultato delle elezioni parlamentari del 30 agosto dello scorso anno. Quasi nove mesi complessi per il Paese, senza un dialogo interno, dal momento in cui “il massimo partito di opposizione [il Partito Democratico dei Socialisti, ndr] non vuole partecipare ai lavori in Parlamento” e perché “la coabitazione tra il presidente, Milo Đukanović, e il premier, Zdravko Krivokapić, non è costruttiva né in linea con la Costituzione”. In più, “da sei mesi si attende il voto sulla legge di bilancio per l’anno in corso e questo crea ulteriori pressioni politiche”, ha commentato Picula.
    Se ci sono punti su cui deve essere implementato lo sforzo del Paese per superare i blocchi politici, è altrettanto vero che non mancano gli aspettavi positivi. Il relatore del gruppo S&D ha ricordato che “il Montenegro ha aperto tutti capitoli negoziali per l’accesso all’Unione e ne chiusi tre” e che ora la “massima sfida” è portarli tutti a compimento, anche grazie alla nuova metodologia di adesione di Serbia e Montenegro approvata la scorsa settimana. “I progressi sui sei cluster tematici dipenderanno dai progressi sullo Stato di diritto e sul sistema giudiziario, ovvero i capitoli 23 e 24“, accompagnati da un forte impegno per “difendere chi lotta contro la criminalità organizzata”, “proteggere l’indipendenza dei media” e “risolvere il problema delle minoranze non rappresentate nell’attuale Parlamento”.
    È stato lo stesso relatore a lanciare però l’allarme sulle “importanti conseguenze politiche” degli investimenti della Cina nel Paese: “Dobbiamo aiutare il nostro partner nel dialogo con le istituzioni finanziarie internazionali”. Le preoccupazioni per l’Unione Europea non sono di poco conto e, quantificate, ammontano a 809 milioni di euro di debito che Podgorica deve ripagare a Pechino. Il finanziamento era stato richiesto nel 2014 per la costruzione di un’autostrada che dovrebbe attraversare il Paese, dal porto montenegrino di Antivari (Bar) alla località di Boljare, e che al momento non è ancora stata completata. Secondo quanto riporta il Financial Times, se il debito non dovesse essere ripagato entro luglio, la Cina avrebbe il diritto di acquisire il controllo di parte del territorio montenegrino, verosimilmente uno sbocco sul Mediterraneo. Ed è su questo punto che si è concentrato il dibattito in plenaria.
    Il confronto tra gli eurodeputati
    L’eurodeputato del Movimento 5 Stelle e vicepresidente del Parlamento Europeo, Fabio Massimo Castaldo
    A sollevare la questione del debito del Montenegro è stato Thomas Waitz (Verdi/ALE), che ha esortato la Commissione e il Consiglio a “trovare una soluzione, perché il Paese non sia venduto alla Cina“, proprio nel momento in cui “la  sua strada europeista è stata tracciata”. L’europarlamentare del Movimento 5 Stelle e vicepresidente del Parlamento UE, Fabio Massimo Castaldo, ha rincarato la dose, impostando tutto il suo intervento sulla questione: “Questo caso è il sintomo di come il processo di adesione possa avvitarsi su sé stesso”, dal momento in cui “la classe politica montenegrina precedente aveva deciso di inoltrarsi in questo sentiero pericoloso e azzardato, nonostante i moniti della BEI”. Tuttavia, secondo l’europarlamentare italiano, il Montenegro non deve essere lasciato solo, perché “oggi una leva politica ci chiede aiuto per superare le scelte prese da chi aveva tornaconti personali” e “non possiamo permettere che un possibile futuro Stato membro diventi un avamposto di una potenza terza nel cuore dell’Europa”.
    Preoccupate anche le destre europee, sia sulle diramazioni cinesi in Montenegro, sia sulla credibilità del Paese. “La questione degli investimenti e del debito pone dubbi sulla sua trasparenza“, ha sottolineato Dominique Bilde (ID), che ha calcato la mano sulle “ambiguità delle autorità montenegrine verso la comunità internazionale riguardo all’adesione alla Belt and Road Initiative” e sul fatto che “quando si trovano in difficoltà chiedono aiuto all’Unione”. Secondo Zdzisław Krasnodębski (ECR), l’UE sta correndo il “rischio di alzare l’asticella troppo in alto, dobbiamo essere realistici sulle vere possibilità di adesione”.
    L’eurodeputata del PPE, Željana Zovko
    Più cauti gli altri gruppi politici, a partire dal PPE: “Da questa relazione, vediamo che è il Paese balcanico in stato più avanzato, anche se deve rafforzarsi sulla riconciliazione con gli Stati vicini e migliorare l’inclusione delle minoranze etniche”, ha affermato Željana Zovko. Sul fronte S&D, Petra Kammerevert ha posto l’accento sul fatto che “si possono constatare miglioramenti continui, anche se dobbiamo rimanere vigili”. Anche per Klemen Grošelj (Renew Europe) “la sfida dei prestiti cinesi dimostra che non ci sono soluzioni facili sulla questione del debito“, ma “focalizzarsi sulla strada dei finanziamenti europei può essere la soluzione per allineare il Paese agli obiettivi del Green Deal e della digitalizzazione”.
    La posizione di Commissione e Consiglio
    Da parte della Commissione Europea è arrivato un messaggio di supporto al Montenegro, in atto e da ricevere. A livello finanziario, il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, non prende nemmeno in considerazione la possibilità che Bruxelles vada a ripagare di tasca propria il debito che Podgorica ha con Pechino (nonostante le richieste di aiuto ricevute il mese scorso). Ma allo stesso tempo ha voluto ribadire con forza che “l’Unione Europea è il massimo fornitore di assistenza economica, il principale investitore e partner commerciale“.
    Il commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Lo dimostra il fatto che sia stato già approvato uno schema di aiuti macro-finanziari da 60 milioni di euro, “di cui entro fine maggio arriverà la seconda tranche da 30 milioni”. In più, il 6 ottobre dello scorso anno è stato messo in campo il Piano economico e di investimenti da 29 miliardi di euro, che “ha il potenziale per rendere i Balcani più attraenti per gli investimenti, rafforzare le infrastrutture e creare posti di lavoro in ogni Stato balcanico”. Per fornire questo sostegno, il commissario ha chiesto il sostegno del Parlamento: “Deve arrivare il prima possibile un accordo sullo strumento di assistenza pre-adesione IPA III, spero già nel trilogo a giugno”.
    Ma il commissario Varhelyi ha anche rivendicato i primi successi europei nei Balcani sul fronte dei vaccini anti-COVID: “Durante il dibattito di marzo avevo anticipato che stavamo lavorando sul supporto alla regione, ora vi aggiorno sul fatto che sono iniziate le spedizioni delle 651 mila dosi Pfizer/BioNTech“. Gli eurodeputati sono stati informati sui progressi nella campagna di vaccinazione nei sei Paesi balcanici grazie all’iniziativa europea (con tranche settimanali da maggio ad agosto) e al meccanismo COVAX, oltre agli aiuti di emergenza e ai fondi per mitigare la crisi socio-economica: “Vogliamo fare in modo che tutti gli operatori sanitari e i gruppi vulnerabili siano vaccinati quanto prima”, ha concluso il commissario. Complessivamente, in Montenegro arriveranno circa 126 mila dosi (42 mila dall’UE e 84 mila da COVAX), su oltre un milione e 500 mila in tutta la regione (651 mila dall’UE e 951 mila da COVAX).

    Approvata dagli eurodeputati in plenaria la relazione sui progressi del Montenegro verso l’adesione all’UE. Riconosciuti gli sforzi sullo Stato di diritto, ma ci si interroga su come aiutare il Paese ed evitare il controllo di Pechino di parti del territorio