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    Benassi: “Adesione UE un processo, non automatismo. Con Ucraina avanti con accordo di associazione”

    Bruxelles – L’Ucraina nell’UE è uno scenario possibile, che l’Italia sostiene, ma che deve avvenire secondo le regole e le modalità previste. Niente scorciatoie, niente corsie preferenziali e non per ragioni di chiusure pre-concettuali, ma per il bene della credibilità di tutti. Pietro Benassi cerca di fare ordine su un tema oggetto di dichiarazioni e ragionamenti forse troppo poco cauti o slegati dall’impianto normativo esistente. Ai deputati delle commissioni Affari esteri e Politiche dell’Unione europea della Camera, il rappresentante permanente d’Italia presso l’UE ricorda che un conto è l‘adesione all’UE, e un altro è il riconoscimento dello status di Paese candidato. Si comincia col chiedere tale status, per poi diventare membro al termine di un processo di riforme.
    “L’aspirazione dell’Ucraina a far parte della famiglia europea è legittima e la sosteniamo, ma si tratta di un processo e non di un automatismo“, dice l’ambasciatore in modo da essere il più chiaro possibile. Non si può parlare di adesione, perché questa è il punto di arrivo di un percorso che richiede anni. “Nel frattempo la piena attuazione dell’accordo di associazione resta lo strumento principale per rafforzare il legame tra Unione europea e Ucraina”.
    Respinge con forza le critiche di chi fa notare che la risposta dell’UE, di fronte al dramma della guerra e alla richiesta di aiuto del popolo ucraino, è stata di chiusura. Alla richiesta di Kiev “hanno fatto seguito quelle di Georgia e Moldova, e c’è stata una rapida risposta politica della presidenza francese all’attivazione della richiesta di adesione, e col consenso di tutti e 27″ gli Stati membri, come vuole la procedura che porta all’allargamento dell’UE.
    Nella Camera dei deputati c’è il timore che questo messaggio possa essere letto nella maniera sbagliata tra i Paesi dei Balcani occidentali. Montenegro, Serbia, Kosovo, Macedonia del nord, Albania, aspettano ancora progressi sostanziali, dopo anni di attesa. Va evitato che si pensi che esistano candidati di serie A e candidati di serie B. Anche per questo, pur volendo, risulta difficile concedere a Kiev cose mai concesse ai balcanici. Ad ogni modo, la linea italiana “è chiara”, spiega Benassi: “Riteniamo che i Balcani occidentali possano e debbano essere assorbiti nell’Unione europea in modo serio”.

    Il rappresentante permanente italiano in audizione alla Camera spiega che ci sono regole e procedure chiare per l’ingresso. “Risposta politica molto rapida”

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    Inizia il cammino: gli ambasciatori UE incaricano la Commissione di formulare un parere sulla domanda di adesione di Ucraina, Georgia e Moldova

    Bruxelles – Si è messo in moto nelle istituzioni europee il processo di adesione all’UE di Ucraina, Georgia e Repubblica di Moldova. Gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio (Coreper) hanno concordato di invitare la Commissione Europea a presentare un parere su ciascuna delle domande di adesione presentate da Ucraina, Georgia e Moldova, che sarà poi trasmesso al Consiglio dell’UE.
    L’avvio della procedura scritta servirà per “convalidare i progetti di lettere che chiedono il parere della Commissione Europea“, spiega la presidenza di turno francese del Consiglio dell’UE. Le tre richieste per ottenere lo status di Paese candidato all’adesione sono arrivate tutte nel corso della scorsa settimana, tra lunedì (28 febbraio) e giovedì (3 marzo): la prima era stata l’Ucraina – che ha ricevuto l’endorsement del Parlamento UE riunito in sessione plenaria – seguita a ruota tre giorni più tardi da Georgia e Moldova. Oltre a Kiev, in cerca di un sostegno anche politico da parte dell’Unione contro l’invasione russa, le domande formali di Tbilisi e Chișinău si possono leggere come una tutela dalle minacce alla propria indipendenza portate dal disegno del “nuovo mondo” di Putin e come una volontà dei Paesi vicini alla Russia di disegnare il futuro assetto geopolitico sempre più legato a Bruxelles.
    La scorsa settimana il portavoce della Commissione Europea, Eric Mamer, aveva già precisato che “la richiesta di adesione dell’Ucraina, della Georgia e della Moldova mostrano che c’è un desiderio genuino e un successo dell’UE come progetto di pace e prosperità“, mentre la portavoce responsabile per la Politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero, aveva ricordato a tutti che “le richieste di unirsi sono sempre ben accette, ma prevedono comunque un lungo processo”. Tutti e tre i Paesi condividono la base di partenza di un Accordo di associazione entrato pienamente in vigore tra il 2016 (Georgia e Moldova) e il 2018 (Ucraina) che sta permettendo di allinearsi alle norme e standard europei in ambito politico, economico e sociale, anche se l’intesa non ha mai avuto come obiettivo o come clausola l’adesione UE dei tre Paesi.
    Ricevuta la proposta formale di candidatura all’adesione e richiesto il parere della Commissione dal Coreper, per diventare un Paese membro dell’UE (Ucraina, Georgia e Moldova, in questo caso), è necessario superare l’esame dei criteri di Copenaghen, ovvero le basilari condizioni democratiche, economiche e politiche (istituzioni stabili, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani, economia di mercato, capacità di mantenere l’impegno). Dopodiché si arriva alla firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione, un accordo bilaterale tra UE e Paese richiedente, e a questo punto si può presentare la vera e propria domanda di adesione all’Unione: se accettata, viene conferito lo status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio UE di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.
    Oltre alle candidature di Moldova, Georgia e Ucraina, il processo di allargamento UE coinvolge già i sei Paesi dei Balcani Occidentali – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – e la Turchia, i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan. Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente dal 2014 e dal 2012, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord è bloccato dal 2018 prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello attuale della Bulgaria contro Skopje (dalla fine del 2020). La Bosnia ed Erzegovina ha fatto domanda di adesione nel 2016, mentre il Kosovo ha solo firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione.

    L’avvio della procedura da parte dell’esecutivo comunitario servirà per convalidare i progetti di lettere che ne richiedono il parere. Sarà poi il Consiglio dell’UE a doversi esprimere sulle richieste di Kiev, Tbilisi e Chișinău

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    Anche la Repubblica di Moldova ha richiesto di ottenere lo status di Paese candidato all’adesione UE

    Bruxelles – Era nell’aria da tempo e l’occupazione militare russa dell’Ucraina ha reso il processo irreversibile. Anche la Repubblica di Moldova ha presentato formalmente richiesta per ottenere lo status di Paese candidato all’adesione UE, dopo le due domande nella stessa settimana di Ucraina (lunedì 28 febbraio) e Georgia (giovedì 3 marzo). “Il momento è arrivato: i cittadini moldavi sono pronti a lavorare sodo per un futuro stabile e prospero nell’Unione Europea e nella famiglia degli Stati europei”, ha rivendicato la presidente della Repubblica di Moldova, Maia Sandu, firmando la lettera di adesione all’UE ieri sera.
    “Vogliamo vivere in pace, prosperità, essere parte del mondo libero”, ha sottolineato la presidente Sandu, spiegando le tempistiche della richiesta: “Mentre alcune decisioni richiedono tempo, altre devono essere prese rapidamente e con decisione, approfittando delle opportunità che arrivano in un mondo che cambia”. È chiaro il riferimento all’aggressione russa dell’Ucraina e al disegno dei nuovi equilibri geopolitici che il presidente russo, Vladimir Putin, vorrebbe mettere in atto, con il rischio che possa cancellare anche l’indipendenza di Chișinău. Come nel caso di Ucraina e Georgia, si tratta di una netta reazione che vede i tre Paesi sempre più distanti da Mosca e sempre più legati a Bruxelles.

    The time is now: #Moldova officially signs the application for membership to join the #European Union. 🇲🇩 citizens are prepared to work hard towards a stable and prosperous future in the 🇪🇺 & the family of European states. pic.twitter.com/35a2q9WCaW
    — Maia Sandu (@sandumaiamd) March 3, 2022

    Si attende nelle prossime ore l’invio della lettera a Bruxelles. “La Repubblica di Moldova ha il diritto di scegliere il suo corso di politica estera“, ha dichiarato l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, nel corso della sua visita di ieri a Chișinău. “Crediamo fortemente che appartenga alla famiglia europea e continueremo a cooperare intensamente sulla base del nostro Accordo di associazione”, ha aggiunto Borrell, facendo riferimento all’accordo politico ed economico UE-Moldova firmato nel 2014 ed entrato pienamente in vigore nel 2016.
    Oltre alle candidature di Moldova, Georgia e Ucraina per l’adesione all’UE, bisogna ricordare che il processo di allargamento coinvolge già i sei Paesi dei Balcani Occidentali, Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia, più la Turchia, i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan. Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente da otto e dieci anni, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord è bloccato dal 2018 prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello attuale della Bulgaria contro Skopje. La Bosnia ed Erzegovina ha fatto domanda di adesione nel 2016, mentre il Kosovo ha solo firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione.
    Per diventare un Paese membro dell’UE, il primo passo è la proposta formale di candidatura all’adesione (Georgia e Ucraina, in questo caso). Dopo il superamento dell’esame dei criteri di Copenaghen – le basilari condizioni democratiche, economiche e politiche – si arriva alla firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione, un accordo bilaterale tra UE e Paese richiedente. A questo punto si può presentare la vera e propria domanda di adesione all’Unione e, una volta accettata, viene conferito lo status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio UE di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.

    Dopo le richieste di Ucraina e Georgia, anche da Chișinău è arrivata la domanda di diventare membro dell’Unione Europea. La presidente, Maia Sandu, ha firmato la lettera e nelle prossime ore sarà inviata a Bruxelles

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    La Georgia ha presentato la richiesta formale per ottenere lo status di Paese candidato all’adesione UE

    Bruxelles – Se c’è un processo che la Russia, scatenando la guerra in Ucraina, ha suo malgrado stimolato è quello dell’allargamento dell’Unione Europea. Intendiamoci, non è un “allargamento a Est” o una provocazione contro Vladimir Putin, come in tanti sarebbero già pronti a bollare. Si tratta piuttosto di una chiara risposta dei Paesi vicini alla Russia rispetto al futuro assetto geopolitico che vedono per il proprio Paese: sempre più distante da Mosca e sempre più legato a Bruxelles. La dimostrazione è arrivata da due richieste formali di adesione all’UE nel giro di quattro giorni: lunedì (28 febbraio) quella dell’Ucraina sotto l’assedio russo, oggi (giovedì 3 marzo) quella di una Georgia che teme che il disegno del “nuovo mondo” di Putin cancelli anche la sua indipendenza. Per la stessa ragione ci si aspetta che anche la Moldavia possa seguire presto l’esempio.
    Il primo ministro della Georgia, Irakli Garibashvili, e il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel
    “Un giorno storico per la Georgia”, così lo ha definito il primo ministro, Irakli Garibashvili, firmando la domanda di adesione all’UE. “Siamo uno Stato europeo, siamo sempre appartenuti alla cultura e allo spazio civile europeo e la nostra storia di lotte e battaglie per la libertà è una prova che questi valori sono racchiusi nella nostra identità”, ha spiegato il premier georgiano, indicando i motivi che racchiudono la scelta di diventare uno Stato membro dell’UE. Democrazia, Stato di diritto, diritti umani e buon governo “sono già diventati l’essenza della nostra esistenza quotidiana”, in particolare da quando nel 2016 è entrato pienamente in vigore (dopo due anni di provvisorietà) l’Accordo di associazione politica ed economica UE-Georgia: “Da allora ci siamo assunti l’enorme responsabilità di iniziare con successo il nostro viaggio di integrazione europea”, ha sottolineato Garibashvili. Con questa “nuova pietra miliare” sulla strada verso l’UE, “stiamo introducendo norme e standard europei in ogni campo della nostra vita politica, economica e sociale“, ha concluso il premier georgiano. Anche se non passa inosservato il riferimento ai “compatrioti abkhazi e osseti”, ovvero gli abitanti delle due regioni rivendicate da Tbilisi, Abkhazia e Ossezia del Sud.
    Per i Ventisette ora si apre un nuovo file da considerare nel vasto capitolo dell’allargamento dell’Unione, all’interno di una dinamica che però si è completamente rivoluzionata rispetto a solo una settimana fa. “La richiesta di adesione dell’Ucraina e della Georgia, e quella eventuale della Moldavia, mostrano che c’è un desiderio genuino e un successo dell’UE come progetto di pace e prosperità“, ha rivendicato il portavoce della Commissione Europea, Eric Mamer, durante il punto quotidiano con la stampa di Bruxelles. La collega Ana Pisonero, responsabile per la Politica di vicinato e l’allargamento, ha precisato che “le richieste di unirsi sono sempre ben accette, ma prevedono comunque un lungo processo”. Per quanto riguarda la richiesta di Kiev, dopo le vibranti parole del presidente Volodymyr Zelensky e il supporto del Parlamento Europeo, “si è messo in moto il processo con le discussioni del Consiglio“, ha aggiunto la portavoce dell’esecutivo UE.
    A una domanda sul futuro dell’allargamento UE ai Paesi che già hanno iniziato il processo (e la possibile fiducia tradita), Mamer ha voluto precisare che “la richiesta dell’Ucraina e della Georgia è legittima e non è legata alle prospettive del Balcani Occidentali“. Tuttavia, “alla luce di quanto accaduto questa settimana, mi sembra ancora più evidente che il discorso dovrà riprendere in modo deciso e superando le attuali divisioni tra Stati membri”, ha aperto il portavoce della Commissione, sottolineando comunque che l’esecutivo comunitario ha sempre spinto con forza questo processo. Stiamo parlando di Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia (più la Turchia, i cui negoziati sono però cristallizzati dalla politica del presidente Erdoğan). Serbia e Montenegro stanno portando avanti i negoziati di adesione rispettivamente da otto e dieci anni, mentre il pacchetto Albania-Macedonia del Nord è bloccato dal 2018 prima per il veto di Francia-Paesi Bassi-Danimarca ai danni di Tirana e poi per quello attuale della Bulgaria contro Skopje. La Bosnia ed Erzegovina ha fatto domanda di adesione nel 2016, mentre il Kosovo ha solo firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione.
    Per diventare un Paese membro dell’UE, il primo passo è la proposta formale di candidatura all’adesione (Georgia e Ucraina, in questo caso). Dopo il superamento dell’esame dei criteri di Copenaghen – le basilari condizioni democratiche, economiche e politiche – si arriva alla firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione, un accordo bilaterale tra UE e Paese richiedente. A questo punto si può presentare la vera e propria domanda di adesione all’Unione e, una volta accettata, viene conferito lo status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio UE di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Paesi membri si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine di questo processo si arriva alla firma del Trattato di adesione.

    Sull’onda dell’invasione russa dell’Ucraina, il premier del Paese caucasico, Irakli Garibashvili, ha firmato la lettera per chiedere a Bruxelles di diventare membro dell’Unione Europea. La stessa richiesta è arrivata da Kiev il 28 febbraio

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    La strada dell’allargamento UE all’Ucraina e l’impossibile obiettivo dell’adesione entro il 2030

    Bruxelles – Quasi come reazione uguale e contraria (ma senza la violenza delle armi) all’invasione dell’Ucraina da parte delle forze militari russe, sul tavolo dei leader UE si pone un nuovo tema in agenda: la possibilità di allargare l’Unione Europea e accogliere Kiev come 28esimo Paese membro. Siamo ai limiti della fantapolitica, ma due dei Ventisette (Slovenia e Polonia) hanno proposto al Consiglio UE l’adesione dell’Ucraina e hanno indicato anche una data precisa entro cui questo processo dovrebbe completarsi: “Non parliamo di decenni, ma entro il 2030“, ha dichiarato il primo ministro sloveno, Janez Janša, entrando al Consiglio Europeo straordinario di questa sera (giovedì 24 febbraio) a Bruxelles.
    La richiesta è stata presentata al presidente del Consiglio UE, Charles Michel, attraverso una lettera inviata ieri sera (mercoledì 23 febbraio), che faceva riferimento alla necessità di “valutare strategicamente la questione e prendere decisioni politiche coraggiose”. Questa sera, però, il premier sloveno ha offerto più dettagli: “Dobbiamo dare all’Ucraina una reale prospettiva di adesione UE e lo stesso approccio deve essere utilizzato con Moldavia, Georgia e Balcani Occidentali“. La motivazione è legata al futuro sviluppo di queste regioni e della sicurezza dell’Unione stessa, dal momento in cui “la storia recente ci dimostra che se lo spazio di libertà, democrazia e Stato diritto non si allarga, qualcuno lo occupa”. Lo stesso approccio “è condiviso da molti colleghi, nei Paesi baltici e in quelli dell’Est”, ha assicurato Janša. In altre parole, soprattutto tra chi teme le minacce russe alle proprie frontiere.
    Nelle conclusioni dei Ventisette alla fine è comparso solo un generico “sostegno alla scelta e alle aspirazioni europee di Kiev”, ma può essere utile fare un punto sui margini di fattibilità della proposta. Il primo passo per l’inizio di un ipotetico processo di adesione UE di Kiev deve passare da una proposta formale del Paese extra-UE che aspira alla candidatura (l’Ucraina, in questo caso). Si articolano poi una serie di passaggi. Dopo il superamento dell’esame dei criteri di Copenaghen, ovvero le basilari condizioni democratiche, economiche e politiche (istituzioni stabili, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani, economia di mercato, capacità di mantenere l’impegno), si arriva alla firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione, un accordo bilaterale tra UE e Paese richiedente. A quel punto si può presentare la vera e propria domanda di adesione all’Unione e, una volta accettata, viene conferito lo status di Paese candidato. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio UE di avviare i negoziati: solo quando viene dato il via libera all’unanimità dai Ventisette si possono aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile). Alla fine, si arriva alla firma del Trattato di adesione.
    Il processo è particolarmente lungo e impegnativo, a prescindere dal Paese che presenta la proposta di adesione. Giusto per capire di quali tempistiche si parla, basta solo ricordare a che punto sono le trattative dei sei Paesi che sono attualmente in lizza per aderire all’UE: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia. Tutti hanno firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione: l’ultimo è stato il Kosovo sei anni fa (2016), ma si va indietro fino al 2001 per la Macedonia del Nord, passando da Serbia e Bosnia (2008), Montenegro (2007) e Albania (2006). Anche se si considera solo la situazione una volta ottenuto lo status di Paese candidato, non va molto meglio: Tirana è bloccata dal 2014, Skopje dal 2005, mentre Serbia e Montenegro stanno portando avanti i successivi negoziati di adesione rispettivamente da otto e dieci anni. Insomma, la prospettiva del 2030 per l’Ucraina – un Paese che non ha nemmeno avanzato una proposta formale all’UE – sembra quantomeno improbabile.
    Aldilà delle tempistiche, c’è anche una questione di contesto. Per scelte politiche di Bruxelles, l’Ucraina finora non è mai entrata nel novero dei Paesi potenzialmente candidati all’adesione UE. È vero che i legami tra Kiev e Bruxelles sono stretti: insieme a Moldavia, Georgia, Armenia, Azerbaijan e Bielorussia (anche se nel giugno del 2021 quest’ultima ha sospeso l’adesione), l’Ucraina è inclusa dal 2009 nel Partenariato orientale, il programma di integrazione tra Bruxelles e i Paesi di quest’area geopolitica, e dal 2018 è in vigore un Accordo di associazione politica ed economica con l’Unione Europea. Tuttavia, nessuna delle due intese ha come obiettivo o come clausola l’adesione dell’Ucraina all’UE.
    C’è comunque da riconoscere che uno dei fattori che ha scatenato la crisi quasi decennale tra Russia e Ucraina è proprio la prospettiva UE di Kiev. Nella notte tra il 21 e il 22 novembre 2013 si verificarono nella capitale ucraina una serie di proteste violente a causa della decisione del governo di sospendere il processo di ratifica dell’Accordo di associazione. Quelle proteste portarono alla sollevazione di Piazza Maidan l’anno seguente, con la messa in stato di accusa e la destituzione dell’ex-presidente Viktor Janukovyč. A seguito di quegli eventi scoppiò la crisi in Crimea, con il primo intervento armato di Mosca su territorio ucraino a sostegno dei separatisti filo-russi. Era il febbraio 2014 e di lì a poco sarebbe scoppiata anche la guerra civile in Donbass che, dopo otto anni, vive il suo momento più acuto. Ora è tutta l’Ucraina sotto l’attacco di una potenza straniera e la strada dell’adesione all’UE è tutta in salita.

    Slovenia e Polonia hanno proposto al Consiglio Europeo di offrire a Kiev la prospettiva di adesione all’Unione entro la fine del decennio, insieme a Moldavia, Georgia e Balcani Occidentali. Ma tempistiche e contesto frenano le ambizioni

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    Nel 2021 la Serbia ha migliorato il proprio allineamento agli standard di adesione all’UE

    Bruxelles – Ora è arrivata anche la conferma dalla istituzioni dell’Unione Europea: nel 2021 la Serbia ha fatto progressi sul livello di allineamento agli standard di adesione all’UE e con i recenti progressi sullo Stato di diritto sta dimostrando di voler continuare su questa strada. È quanto emerge dalle conclusioni del Consiglio di stabilizzazione e associazione UE-Serbia, riunitosi oggi (martedì 25 gennaio) a Bruxelles.
    A presiedere il vertice sono stati per l’UE il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, l’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il commissario per il vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e per la parte serba la premier, Ana Brnabić, e la ministra per l’integrazione europea, Jadranka Joksimović.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la premier serba, Ana Brnabić, al Consiglio di stabilizzazione e associazione UE-Serbia (martedì 25 gennaio)
    Partendo dai risultati del referendum sulla riforma giudiziaria, i partecipanti hanno accolto “con favore” il completamento di questo “importante passo” sul fronte delle riforme costituzionali richieste dall’Unione e hanno auspicato che il Paese “continui e approfondisca l’impegno sullo Stato di diritto” nei settori del sistema giudiziario, della lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata, della libertà dei media e del trattamento interno dei crimini di guerra. Rimangono ancora sotto la lente di Bruxelles il “corretto funzionamento delle istituzioni democratiche” e il “rafforzamento della fiducia nei processi elettorali”.
    Ma, in vista del prossimo incontro di alto vertice tra UE e Serbia, le conclusioni mettono in evidenza la necessità per Belgrado di “intensificare ulteriormente gli sforzi per allinearsi alla politica estera e di sicurezza comune dell’UE“. In questo senso vengono considerati apprezzabili sia la “partecipazione attiva” della Serbia alle missioni e alle operazioni militari, sia i preparativi per contribuire alle missioni civili. Per Bruxelles questo è un punto-chiave per allontanare il Paese balcanico dalle sirene russe e nazionaliste, in un momento particolarmente delicato nella regione per le tensioni etniche nella vicina Republika Srpska (l’entità serba della Bosnia ed Erzegovina). “Sono necessari ulteriori sforzi per superare le eredità del passato e per promuovere in modo costruttivo la fiducia reciproca, il dialogo e la tolleranza nella regione”, in particolare “evitando azioni e dichiarazioni che vanno contro questo obiettivo”.
    A proposito della cooperazione regionale, l’avanzamento dei negoziati di adesione della Serbia all’UE (che con la nuova metodologia ha portato all’apertura del gruppo tematico di capitoli negoziali sull’agenda verde e la connettività sostenibile) può passare solo dalla normalizzazione delle relazioni con il Kosovo, attraverso il dialogo mediato da Bruxelles. “È necessario un impegno costruttivo in buona fede e in uno spirito di compromesso per raggiungere un accordo globale giuridicamente vincolante in conformità al diritto internazionale”, sottolineano le conclusioni del Consiglio di stabilizzazione e associazione, ribadendo la “forte aspettativa che tutti gli accordi passati siano pienamente rispettati e attuati“.

    È quanto emerge dall’ultimo Consiglio di stabilizzazione e associazione UE-Serbia svoltosi oggi a Bruxelles: “Ora Belgrado deve intensificare ulteriormente i suoi sforzi sulla politica estera e di sicurezza comune”

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    Serbia, adesione UE più vicina: approvate alcune delle riforme costituzionali richieste dall’Unione

    Bruxelles – La Serbia prosegue lungo il cammino di adesione all’UE e con un referendum sulle riforme costituzionali in materia di nomine del sistema giudiziario cerca di allinearsi agli standard richiesti dall’Unione. Gli elettori serbi hanno approvato ieri (domenica 16 gennaio) i 29 emendamenti della Costituzione nazionale sulle nomine di giudici e procuratori, che non saranno più decise dall’Assemblea nazionale ma da un Consiglio superiore della magistratura.
    Secondo i risultati annunciati nella tarda serata di domenica, si è espresso a favore della riforma giudiziaria il 61,84 per cento degli elettori che si sono recati alle urne. L’affluenza si a fermata al 30,6 per cento, ma da novembre dello scorso è stato abolito il quorum del 50 per cento degli aventi diritto al voto. Oltre alla questione delle nomine dei componenti del sistema giudiziario, le riforme costituzionali prevedono anche  l’istituzione di organi di controllo sugli istituti giudiziari e una riduzione dei tempi dello svolgimento dei processi.
    La riforma giudiziaria è stata voluta dal governo presieduto da Ana Brnabić per avvicinare la Serbia agli standard UE sullo Stato di diritto. Da anni Bruxelles chiede a Belgrado che le nomine di giudici e procuratori siano sottratte dall’influenza politica e questo tema è al centro delle conferenze intergovernative che si sono aperte il 23 giugno 2021. In una nota pubblicata venerdì scorso (14 gennaio), le ambasciate di Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Europea avevano definito il referendum “un passo fondamentale” sia per rafforzare l’indipendenza e la trasparenza del potere giudiziario, sia per “l’allineamento della Serbia agli standard europei”, che andranno a “sostenere il processo di adesione all’UE”.
    “Accolgo con favore questo importante passo e l’impegno nel percorso verso l’UE”, ha commentato su Twitter il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. Il membro della Commissione Europea al centro delle polemiche a Bruxelles per il suo presunto coinvolgimento nella crisi istituzionale in Bosnia ed Erzegovina ha aggiunto che “continueremo a lavorare con le autorità serbe sull’ambizioso programma” di riforme costituzionali, “facendo progredire l’integrazione della Serbia nell’Unione Europea”.

    #Serbia: In today’s referendum voters supported the change of the Constitution to reinforce judicial independence. I welcome this important step & commitment to #EU path. We will continue to work with Serbian authorities on ambitious reform agenda, advancing EU integration.
    — Oliver Varhelyi (@OliverVarhelyi) January 16, 2022

    Ma oltre confine, in Kosovo, è stato un fine settimana di grandi tensioni politiche, proprio a causa del referendum sulle riforme costituzionali della Serbia. L’Assemblea di Pristina ha approvato venerdì una risoluzione in otto punti contro la possibilità che i cittadini kosovari di etnia serba potessero recarsi alle urne sul territorio del Kosovo, dal momento in cui sarebbe stata “incostituzionale” e avrebbe violato la sovranità del Paese. La richiesta di aprire centri elettorali in Kosovo era arrivata dal governo serbo ed era stata avallata dall’UE: “L’UE si rammarica che non sia stato possibile trovare un accordo con il governo del Kosovo che permetta all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) di raccogliere le schede elettorali in Kosovo, secondo la prassi passata”, si legge in una nota del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE).
    Da Pristina non era arrivata nessuna concessione e il governo guidato da Albin Kurti aveva ribadito che gli elettori con doppia cittadinanza fossero liberi di votare per posta o sul suolo serbo. I serbi del Kosovo hanno protestato nel nord del Paese – dove sono in maggioranza – ma non sono stati segnalati incidenti. La disputa sul voto in Kosovo per il referendum sulle riforme costituzionali della Serbia è un nuovo tassello nella tensione crescente tra Pristina e Belgrado, che l’Unione Europea sta cercando di risolvere attraverso una mediazione che dura da più di 10 anni. “Chiediamo ai governi del Kosovo e della Serbia di astenersi da azioni e retoriche che aumentano le tensioni e di impegnarsi in modo costruttivo nel dialogo facilitato dall’UE“, avevano aggiunto gli ambasciatori occidentali, ricordando che “è importante che entrambi i governi compiano progressi verso un accordo globale che sblocchi la prospettiva dell’UE e aumenti la stabilità regionale”.

    Serbia: Joint Statement by 🇪🇺🇫🇷🇩🇪🇮🇹🇺🇸🇬🇧 on the upcoming referendum, also recalling the rights of Serbs in Kosovo in this context. https://t.co/mxqIvEZey7
    — Peter Stano (@ExtSpoxEU) January 14, 2022

    Via libera dal referendum sulla riforma giudiziaria, che prevede 29 emendamenti alla Costituzione in materia di nomine del sistema giudiziario. Il Kosovo ha negato l’apertura di centri di voto per i cittadini di etnia serba sul territorio nazionale

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    Il sostegno UE alle riforme sullo Stato di diritto nei Balcani Occidentali è stato “largamente insufficiente”

    Bruxelles – La rotta è giusta, ma quanto fatto finora non è abbastanza. Si può riassumere così la valutazione della Corte dei Conti Europea sul sostegno UE alle riforme per lo Stato di diritto nei Balcani Occidentali. Secondo la relazione speciale pubblicato oggi (lunedì 10 gennaio) gli interventi dell’Unione Europea hanno avuto un impatto “largamente insufficiente” su questo aspetto fondamentale del cammino dei sei Paesi balcanici (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia) verso l’adesione all’UE.
    La verifica della Corte dei Conti Europea era iniziata nel gennaio dello scorso anno, con l’obiettivo di analizzare se il supporto europeo fosse stato progettato in modo appropriato, se fosse stato utilizzato “coerentemente per affrontare le questioni-chiave” e se avesse portato a miglioramenti “concreti e sostenibili”.
    Nonostante sia stato riconosciuto lo sforzo di Bruxelles nell’accelerare le riforme fondamentali per il rafforzamento dello Stato di diritto nei Balcani (separazione dei poteri, procedure legislative trasparenti e democratiche, certezza giuridica, controllo giurisdizionale efficace, indipendenza e imparzialità dei giudici, uguaglianza davanti alla legge), hanno pesato in questo contesto “l’insufficiente volontà politica e lo scarso impegno” delle istituzioni nazionali nell’affrontare “problemi persistenti” come la concentrazione del potere, le ingerenze politiche e la corruzione.
    Il contributo dell’UE ai Paesi balcanici è prima di tutto finanziario, rappresentando il principale donatore a livello globale per lo sviluppo economico della regione. Oltre al Piano economico e di investimenti da 29 miliardi di euro presentato dalla Commissione UE nell’ottobre del 2020, l’assistenza finanziaria dell’UE viene garantita grazie allo strumento di assistenza pre-adesione (IPA). Nel periodo 2014-2020 sono stati stanziati circa 12,8 miliardi di euro attraverso IPA II – di cui 700 milioni per sostenere lo Stato di diritto e i diritti fondamentali nei Balcani Occidentali – mentre a partire dallo scorso anno (fino al 2027) è attivo IPA III con una dotazione di 14,2 miliardi. Tuttavia, tra sovvenzioni, sostegno al bilancio, assistenza tecnica e scambio di informazioni, questo sostegno non è stato considerato sufficiente dalla Corte dei Conti UE e soprattutto “il suo impatto non è stato rigorosamente monitorato“.
    Dotazione finanziaria bilaterale IPA II per lo Stato di diritto e i diritti fondamentali (2014-2020)
    La cartina tornasole è l’aggravamento delle forme di autoritarismo nei sei Paesi balcanici negli ultimi dieci anni, proprio in corrispondenza dell’erogazione dei fondi attraverso gli strumenti IPA e nonostante i “progressi formali compiuti verso l’adesione all’UE” (i negoziati sono stati aperti solo con Serbia e Montenegro, mentre Macedonia del Nord e Albania sono bloccate dal veto della Bulgaria in seno al Consiglio dell’UE). Citando il rapporto 2021 dell’ONG Freedom House, la Corte dei Conti Europea ha sottolineato che “i governi dei Balcani Occidentali sono riusciti a combinare un impegno formale per la democrazia e l’integrazione europea con pratiche autoritarie informali” e che, fatta eccezione per la Macedonia del Nord, sul rispetto dello Stato di diritto “tutti questi Paesi presentano una tendenza stabile o addirittura in regresso”.
    Preoccupano le forme di corruzione che impediscono ai sistemi giudiziari di indagare, perseguire e sanzionare in modo efficace, che creano monopoli in settori strategici e che mettono a repentaglio la libertà di espressione: non a caso quest’ultimo è l’ambito in cui sono stati registrati meno progressi in tutti e sei i Paesi balcanici. Oltre alla mancanza di volontà politica interna, un altro fattore del giudizio della Corte con sede in Lussemburgo è legato al fatto che “l’UE si è avvalsa troppo di rado della possibilità di sospendere l’assistenza nel caso in cui un beneficiario non osservi i princìpi fondamentali della democrazia, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani”. La Corte dei Conti Europea ha avvertito che “se l’azione dell’Unione sembra aver contribuito alle riforme, è perché le comunicazioni a riguardo tendono a concentrarsi sui dati quantitativi relativi alle realizzazioni e non abbastanza su quello che le riforme hanno effettivamente conseguito“.
    “I modesti progressi compiuti negli ultimi 20 anni mettono a rischio la sostenibilità complessiva del sostegno fornito dall’UE nell’ambito del processo di adesione”, ha commentato Juhan Parts, membro della Corte dei Conti Europea e responsabile della relazione speciale. “Le riforme costanti perdono di credibilità se non conducono a risultati tangibili“, ha aggiunto. Per questo motivo è stato raccomandato alla Commissione UE e al Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) di rafforzare il meccanismo per promuovere le riforme fondamentali, di intensificare il sostegno alle organizzazioni della società civile e ai media indipendenti nei singoli Paesi dei Balcani Occidentali e, nell’ambito dello strumento IPA III, di rafforzare sia il ricorso alla condizionalità sullo Stato di diritto sia la rendicontazione e il monitoraggio dei progetti finanziati da Bruxelles.

    Lo evidenzia una relazione della Corte dei Conti UE, che sottolinea sia la mancanza di volontà politica dei governi nazionali, sia il fatto che l’UE non abbia quasi mai sospeso l’assistenza finanziaria in caso di palesi violazioni