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    La sanzioni UE hanno costretto il ministro russo Sergei Lavrov ad annullare la visita in Serbia

    Bruxelles – Se fosse stato necessario un episodio simbolico per confermare l’efficacia delle sanzioni UE contro la Russia, oggi è arrivato. Il viaggio in Serbia del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, è stato annullato a causa della decisione di Bulgaria, Macedonia del Nord e Montenegro di applicare le misure restrittive volute dai Ventisette e condivise da tutti i partner balcanici (fatta eccezione per Serbia e Bosnia ed Erzegovina), chiudendo i rispettivi spazi aerei al velivolo che lo avrebbe dovuto portare a Belgrado.
    È dal 25 febbraio (il giorno successivo all’inizio dell’invasione in Ucraina) che il presidente russo, Vladimir Putin, e il suo braccio destro Lavrov sono stati inseriti nella lista delle sanzioni dell’UE. Nei confronti dei soggetti colpiti dalle misure restrittive – dopo sei pacchetti di sanzioni, 1158 individui e 98 entità – è previsto il congelamento dei beni e il divieto di mettere fondi a loro disposizione, ma anche il divieto di viaggio che impedisce l’ingresso o il transito attraverso il territorio dei Paesi membri e dei partner allineati. È su questa base che nella giornata di ieri (domenica 5 giugno) i governi bulgaro (uno dei Ventisette), macedone e montenegrino hanno preso la decisione di applicare la misura nel caso la rotta del velivolo su cui avrebbe dovuto viaggiare Lavrov fosse passata per il proprio spazio aereo tra oggi e domani.

    La visita programmata in Serbia avrebbe dovuto portare Lavrov a colloquio con il presidente serbo, Aleksandar Vučić, e in un secondo momento con il ministro degli Interni, Aleksandar Vulin. Al centro delle discussioni ci sarebbe dovuta essere l’intesa per il rinnovo di altri tre anni del contratto sulla fornitura di gas naturale russo verso il Paese balcanico a condizioni favorevoli, con la definizione dei dettagli dell’accordo informale preso telefonicamente tra i due presidenti la settimana scorsa. Il viaggio di Lavrov era programmato da giorni e, se si fosse concretizzato, sarebbe stato il primo in un Paese europeo dall’inizio della guerra in Ucraina. A questo punto è probabile che sarà il ministro degli Esteri serbo, Nikola Selaković, a volare prossimamente a Mosca, considerato il fatto che la compagnia di bandiera Air Serbia è l’unico vettore che ancora opera da e verso la Russia.
    Da sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e l’omologo russo, Vladimir Putin
    “Sono profondamente dispiaciuto per l’ostruzione alla visita di un grande e comprovato amico della Serbia“, ha commentato il ministro Vulin in un comunicato: “Chi ha impedito l’arrivo di Lavrov non vuole la pace, sogna di sconfiggere la Russia, e la Serbia è orgogliosa di non far parte dell’isteria anti-russa“. Una nuova porta chiusa in faccia a Bruxelles sulla necessità di allinearsi alle sanzioni internazionali contro Mosca, per riflettere anche nella pratica la condanna dell’aggressione militare ai danni dell’Ucraina e per abbandonare la presunta politica di neutralità. Da parte del presidente serbo è stata invece espressa “insoddisfazione” per gli impedimenti alla visita di Lavrov ed è stata ribadita la volontà di mantenere “l’indipendenza e l’autonomia nel processo decisionale politico”, anche al netto del percorso di avvicinamento all’UE. Lo si legge in un comunicato pubblicato solo in lingua serba (come quello del ministro Vulin, non tradotto nella sezione del sito in inglese), al termine dell’incontro con l’ambasciatore russo in Serbia, Alexander Bocan Kharchenko. Durante l’incontro si è parlato anche di un possibile incontro tra i ministri degli Esteri dei due Paesi.
    Intanto però la questione sta creando tensione nella regione balcanica, in particolare con la Croazia, Paese membro UE. “Non siamo in tempi in cui si può stare seduti su due sedie”, ha commentato nel corso di una conferenza stampa il premier croato, Andrej Plenković, a proposito del viaggio annullato da Lavrov. “La Serbia deve decidere da che parte stare, se ha veramente l’ambizione di continuare sulla strada dell’integrazione nell’Unione Europea“, ha incalzato il leader dell’esecutivo di Zagabria. Immediata e rabbiosa la reazione di Belgrado, per voce del ministro Vulin: “Plenković non capisce che la Serbia è seduta su un unica sedia, quella serba, e che non è un territorio, ma uno Stato [un riferimento tra le righe al contrasto con il Kosovo sulla questione dell’autoproclamata indipendenza, ndr] e sono gli Stati a decidere chi sono i loro amici”. Con un riferimento che porta indietro le lancette della storia di 30 anni, ai tempi delle guerre nell’ex-Jugoslavia: “Se c’è un popolo che ha inequivocabilmente scelto la parte sbagliata della storia, è quello croato, e se c’è un popolo che ha portato i croati dalla parte giusta della storia, è quello serbo”, è stato l’accusa sibillina del ministro degli Interni di Belgrado.

    Bulgaria, Macedonia del Nord e Montenegro hanno chiuso il proprio spazio aereo al volo del braccio destro di Vladimir Putin, applicando le misure restrittive condivise tra i partner internazionali. Il viaggio era previsto per definire i dettagli dell’accordo sul gas Mosca-Belrado

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    Le richieste di Bruxelles non scalfiscono Belgrado. La Serbia riceverà per altri tre anni il gas russo a condizioni favorevoli

    Bruxelles – L’UE incalza, la Serbia non cede. Nonostante le incessanti richieste di allineamento alle sanzioni internazionali contro la Russia che arrivano dai Ventisette, e che Belgrado sta rispedendo al mittente, la Serbia sta anche dimostrando di non voler fare nulla per allentare il forte legame con Mosca. Il presidente Aleksandar Vučić ha trovato un’intesa strategica con il collega russo Vladimir Putin, per il rinnovo di altri tre anni del contratto sulla fornitura di gas naturale russo verso il Paese balcanico – in scadenza il 31 maggio – “a condizioni estremamente favorevoli”.
    Come riportano i media statali serbi, l’intesa tra i due leader è stata trovata ieri (domenica 29 maggio) nel corso di una telefonata e la firma potrebbe concretizzarsi nei primissimi giorni di giugno nel corso di una visita a Belgrado da parte del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov (sarebbe la prima in un Paese europeo dall’inizio della guerra in Ucraina). A quanto si apprende, Vučić e Putin hanno anche confermato la propria disponibilità a continuare la partnership rafforzata tra i due Paesi e hanno discusso della guerra in Ucraina e della questione del Kosovo. Per quanto riguarda la fornitura del gas dalla Russia alla Serbia, i dettagli saranno formalizzati all’inizio di questa settimana, ma alcune anticipazioni sono arrivate nel corso di una conferenza stampa del presidente Vučić al termine della telefonata con Putin: “La Serbia ha bisogno di grandi quantità di gas, ma avremo un inverno sicuro, mentre il costo dipenderà da ulteriori colloqui”.
    Da sinistra: il presidente della Serbia, Aleksander Vučić, e della Russia, Vladimir Putin
    Secondo quanto riferito dallo stesso Vučić, la Serbia importa dalla Russia l’81 per cento del suo fabbisogno totale di gas, che si attesta attorno ai tre miliardi di metri cubi all’anno: la metà è destinata alle centrali termiche ed elettriche, mentre il 26 per cento è consumato dall’industria. Attualmente il gas naturale fornito da Gazprom costa alla Serbia 270 dollari per mille metri cubi e, stando alle parole del presidente serbo, durante l’inverno 2022 il prezzo potrebbe scendere a un decimo di quello pagato a Mosca dal resto del continente europeo (tra 310 e 410 dollari per mille metri cubi). L’intesa di massima si dovrebbe applicare per la fornitura di 2,2 miliardi di metri cubi di gas (il 73 per centro del fabbisogno annuale totale), mentre i restanti 800 milioni dovranno essere concordati successivamente.
    Ci sono diversi elementi che mantengono stretto il rapporto energetico tra Mosca e Belgrado. Prima di tutto, sarà necessario attendere la versione definitiva dell’accordo triennale siglata da entrambe le parti, senza dimenticare che nei prossimi mesi potrebbero essere trovate intese minori per integrare le necessità di gas del Paese balcanico. La russa Gazprom è poi proprietaria di maggioranza di Naftna Industrija Srbije (l’industria petrolifera serba), direttamente o attraverso società controllate: è anche l’unico fornitore di gas naturale in Serbia e il proprietario di maggioranza di entrambi i gasdotti che lo trasportano.
    Ciò che preoccupa Bruxelles è anche l’opportunismo del presidente Vučić, che da una parte cerca l’adesione del Paese nell’Unione Europea e dall’altra non appare intenzionato ad allentare l’alleanza storica con Putin. Se è vero che l’accordo per il gas al 2025 non influisce direttamente su nessun pacchetto di sanzioni UE contro la Russia, va sottolineato l’atteggiamento accusatorio del neo-rieletto presidente della Serbia nel presentarlo: “È molto favorevole per noi, anche se non è facile resistere perseguendo una politica indipendente e sovrana. Ma ci siamo riusciti dall’inizio della guerra in Ucraina ed è importante continuare a farlo”. Il riferimento è alle pressioni dei Ventisette per adottare le sanzioni economiche contro Mosca (la Serbia è l’unico Paese europeo a essersi opposta, insieme a Bosnia ed Erzegovina e Bielorussia) e abbandonare la presunta politica di neutralità e di condannare anche nei fatti l’aggressione militare russa.
    A questo si aggiunge un altro fattore sul medio-lungo periodo. Rispondendo alle domande dei giornalisti, Vučić ha ventilato l’ipotesi della costruzione di un nuovo impatto di stoccaggio di gas in Serbia gestito da Gazprom, tema di discussione durante la conversazione telefonica con il leader della Russia. Tutto questo si verificherebbe mentre Polonia e Bulgaria prima e Finlandia poi si sono viste tagliare le forniture di gas da Mosca e soprattutto mentre i 27 Paesi membri dell’UE dovranno cercare una via di uscita dalla dipendenza dalle fonti fossili russe, aumentando i partenariati internazionali e le vie di approvvigionamento (aperte anche alla Serbia). C’è un’ultima questione che, per quanto remota, non può far stare tranquillo il presidente Vučić. Se l’Unione Europea dovesse decidere di interrompere le forniture di gas da Mosca, la Serbia si troverebbe completamente tagliata fuori: il gasdotto BalkanStream (prolungamento del TurkStream che connette Russia e Turchia) passa dalla Bulgaria, mentre il gasdotto serbo-ungherese può essere chiuso da Budapest.

    Il presidente serbo, Aleksandar Vučić, non cede alle pressioni dei Ventisette sull’allineamento alle sanzioni contro Mosca e trova un accordo con Vladimir Putin per la fornitura di 2,2 miliardi di metri cubi di gas a prezzo agevolato rispetto al resto d’Europa

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    L’UE in pressing sulla Serbia: “Si allinei alle sanzioni contro la Russia e si impegni sul rispetto dello Stato di diritto”

    Bruxelles – Si riparte, ancora, da Aleksandar Vučić e dal suo rapporto ambiguo con Vladimir Putin. Dopo il trionfo alle elezioni di domenica (3 aprile) da parte del suo Partito Progressista Serbo, Bruxelles torna a pressare Belgrado per un maggiore allineamento della Serbia a livello di politica estera con l’Unione – in quanto Paese candidato all’adesione – e soprattutto perché cambi la sua posizione sulle sanzioni contro la Russia. La volontà del presidente Vučić di rimanere “neutrale” rispetto al campo occidentale, nel quale comunque sta cercando di entrare, e al Cremlino, tradizionale alleato politico e partner commerciale, nasconde tutta l’ambiguità di una scelta che sta creando non pochi problemi all’UE per il possibile aggiramento delle misure restrittive.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić
    Proprio in virtù dell’aggressione militare russa “non provocata e ingiustificata” contro la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina, “ci aspettiamo che la Serbia, come Paese che sta negoziando la sua adesione all’UE, si allinei progressivamente alle nostre posizioni, comprese le dichiarazioni e le misure restrittive, in linea con il quadro negoziale”, hanno dichiarato in una nota l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. I Ventisette sono “il principale partner politico e, di gran lunga, economico della Serbia” ed è per questo che la condivisione dei pacchetti di sanzioni contro la Russia dovrebbe essere la naturale conseguenza dell’impegno dell’Unione nel Paese: “Continuiamo a sostenere la ripresa economica, l’energia, la sicurezza alimentare”, anche attraverso il Piano economico e di investimento per i Balcani occidentali.
    Oltre all’allineamento sulle sanzioni, c’è bisogno anche di un maggiore impegno della Serbia sul rispetto dello Stato di diritto, a partire dal risultato delle elezioni di domenica. “Il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche è un pilastro centrale del processo di adesione all’UE”, hanno ricordato Borrell e Várhelyi, puntualizzando che “una serie di carenze hanno portato a una competizione ineguale” alla vigilia del voto, come fatto notare dagli eurodeputati dopo la missione di osservazione elettorale in Serbia. “Incoraggiamo il nuovo Parlamento e la leadership politica a continuare a lavorare per un dialogo autentico e costruttivo in tutto lo spettro politico”, con l’obiettivo di arrivare a “un ampio consenso interpartitico sulle riforme“, necessario per il cammino verso l’UE: indipendenza del sistema giudiziario, lotta alla corruzione e al crimine organizzato, libertà di stampa e condanna senza eccezione dei crimini di guerra. Un riferimento particolare anche alla normalizzazione delle relazioni con il Kosovo attraverso il dialogo mediato dall’UE, “che determina il ritmo generale” dei negoziati di adesione all’UE di entrambe le parti.
    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e l’autocrate russo, Vladimir Putin
    Ma nello stesso momento in cui Bruxelles chiede alla Serbia di allinearsi alle sanzioni contro la Russia, proprio da Mosca arrivano le congratulazioni di Putin a Vučić per la sua “convincente vittoria” alle elezioni presidenziali. Come riportato dall’agenzia di stampa russa Tass, in un telegramma l’autocrate russo ha invitato il presidente serbo a “rafforzare la partnership strategica” tra i due Paesi, dimostrando quanto la politica di Vučić sia più vicina al Cremlino di quanto le sue dichiarazioni di “neutralità” vogliano far sembrare.

    Dopo l’esito delle elezioni di domenica 3 aprile, che hanno sancito il triplice trionfo del partito al potere, la Commissione Europea ha chiesto a Belgrado di “avvicinarsi alle posizioni dell’Unione” e prendere le distanze da Putin (che si è congratulato per la vittoria del presidente Vučić)

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    Il vento nazionalista soffia ancora in Ungheria e Serbia: Orbán e Vučić stravincono le elezioni (tra le polemiche)

    Strasburgo, dall’inviato – Dentro e appena fuori i confini dell’UE, là dove l’Unione sta spingendo il processo di allargamento, non si è placato il vento dei populismi di destra, i più vicini alla Russia di Vladimir Putin. L’intensa domenica di elezioni (3 aprile) in Ungheria e Serbia ha sancito il trionfo rispettivamente del premier Viktor Orbán e del presidente Aleksandar Vučić, i due leader che stanno costruendo una forte alleanza nazionalista sull’asse Budapest-Belgrado, non completamente allineata alla politica di Bruxelles nei confronti della Russia. Due tornate elettorali particolarmente intense alla vigilia – per le aspettative di un cambiamento al vertice dei due Paesi – ma anche dopo la chiusura dei seggi, a causa delle grosse polemiche sul processo di voto e delle rivendicazioni di vittoria delle elezioni, sia in Ungheria sia in Serbia.
    Qui Budapest
    Niente da fare per l’opposizione unita guidata da Péter Márki-Zay. Nonostante il testa a testa previsto alla vigilia del voto, il partito Fidesz del premier Orbán ha conquistato il 53,13 per cento dei voti alle elezioni parlamentari, migliorando di quattro punti percentuali il risultato di quattro anni fa e assicurandosi nuovamente la maggioranza dei due terzi dell’Assemblea nazionale (135 seggi su 199). Con il 98,96 per cento delle schede scrutinate, la commissione elettorale ungherese ha confermato il nuovo trionfo dell’uomo forte di Budapest, che ora riceverà il quarto mandato consecutivo per formare l’esecutivo (al potere ininterrottamente dal 29 maggio 2010).
    Alta l’affluenza, al 69,54 per cento – in leggera flessione rispetto alle elezioni del 2018 (70,22) – che però non ha premiato l’opposizione formata dai sei partiti guidati dall’economista conservatore Márki-Zay (socialisti, verdi, liberali, progressisti e conservatori): nel sistema elettorale che assegna 106 seggi ai collegi uninominali, la coalizione ne ha conquistati 56, fermandosi al 35,04 per cento dei voti. A superare la soglia di sbarramento al 5 per cento anche i nazionalisti di estrema destra del Movimento Nostra Patria (6,17 punti percentuali, per 7 deputati), più il seggio garantito alla minoranza tedesca.

    Hungary, national parliament election:
    With 99% counted, the right-wing Fidesz/KDNP (NI|EPP) alliance of Prime Minister Viktor Orbán wins a 2/3-parliamentary majority for the 3rd time in a row.
    The right-wing extremist Mi Hazánk (~NI) enters parliament for the 1st time. #Ungarn pic.twitter.com/kRkvIvJWyz
    — Europe Elects (@EuropeElects) April 4, 2022

    “Abbiamo ottenuto una vittoria così grande che può essere vista anche dalla luna, e sicuramente da Bruxelles”, ha esultato il premier Orbán, polemizzando contro “la più grande forza che ha provato a schiacciarci” prima del voto: “Contro il globalismo, contro i burocrati di Bruxelles, contro Soros, contro i media mainstream europei e anche contro il presidente ucraino”, Volodymyr Zelensky, in riferimento ai rimproveri rivoltigli durante l’ultimo Consiglio Europeo. La prima dichiarazione populista del premier ungherese è servita e porta con sé una nota sinistra sui rapporti con Kiev e soprattutto con Putin, tradizionale alleato di Orbán. Dopo aver tenuto un profilo basso nell’ultimo mese di campagna elettorale, che è coinciso con l’inizio della campagna militare russa in Ucraina, ora da Budapest potrebbero arrivare picconate all’unanimità sempre raggiunta tra i leader UE sulle sanzioni e sulla lotta senza quartiere a Mosca. “Fidesz rappresenta una forza conservatrice patriottica e cristiana, è il futuro dell’Europa. Prima l’Ungheria!”, ha concluso il suo messaggio post-voto Orbán, facendo capire con quale spirito tornerà ad approcciarsi a Bruxelles.
    Il premier ungherese ha però taciuto la sconfitta personale arrivata dal referendum sulla legge anti-LGBT+, che si è tenuto sempre ieri contemporaneamente alle elezioni parlamentari. Solo il 44,46 per cento degli elettori ha espresso un voto valido, non raggiungendo il quorum richiesto per avallare la proposta legislativa del governo. Un’altra criticità ha riguardato lo svolgimento del processo elettorale, reso opaco dalle modifiche alla legge elettorale, dalle regole di registrazione degli indirizzi, dai problemi di trasparenza dei finanziamenti della campagna e dall’influenza del partito al potere sui media. Riconoscendo la sconfitta “in questo sistema”, il candidato premier dell’opposizione Márki-Zay ha ribadito che “è la propaganda ad aver vinto queste elezioni, non l’onestà, abbiamo fatto tutto quello che potevamo”.

    Hungary: national referendum today:
    “Do you support the teaching of sexual orientation to minors in public education institutions without parental consent?”
    Vote among all eligible voters
    No: 41%Yes: 3%
    Threshold to meet: 50%+ of eligible voters voting either ‘yes’ or ‘no’ pic.twitter.com/7P2F20ABIk
    — Europe Elects (@EuropeElects) April 4, 2022

    Qui Belgrado
    Contemporaneamente alle elezioni in Ungheria, anche per la Serbia il 3 aprile 2022 segna una data-chiave per la riaffermazione delle forze nazionaliste legate alla Russia di Putin. Con il 90 per cento delle schede scrutinate, il presidente Vučić è proiettato alla seconda vittoria consecutiva al primo turno delle presidenziali, con il 59,55 per cento dei voti, mentre il principale candidato dell’opposizione unita, Zdravko Ponoš, si ferma al 17. Per quanto riguarda le elezioni parlamentari, il Partito Progressista Serbo di Vučić si attesta al 43,45 per cento dei voti, assicurandosi 122 deputati sui 250 dell’Assemblea nazionale: lontano il cartello di opposizione Serbia Unita, con 13 punti percentuali e 36 seggi. Sembrano tramontare anche le possibilità per l’opposizione di strappare dalle mani dei nazionalisti la capitale Belgrado: il candidato dell’SNS, Aleksandar Šapić, si sta affermando con quasi il 40 per cento delle preferenze, mentre quelli dell’opposizione Serbia Unita, Vladeta Janković, e del movimento della sinistra ecologista Moramo, Dobrica Veselinović, rispettivamente al 20 e al 10 per cento.
    Nel mezzo di un processo elettorale su cui si attende il giudizio degli osservatori internazionali anche del Parlamento Europeo per le sospette irregolarità di voto e le violenze contro i candidati dell’opposizione al Partito Progressista Serbo fuori da alcuni seggi, l’UE guarda con preoccupazione alle dichiarazioni del presidente Vučić, che ieri sera si è attribuito la vittoria dalla sede dell’SNS. “Quello che è importante per europei, russi e americani è che proseguiremo nella nostra politica di neutralità“, ha affermato, confermando che Belgrado manterrà buoni rapporti con la Russia e, implicitamente, non aderirà alle sanzioni occidentali. “Dobbiamo vedere cosa fare sul petrolio e ci saranno colloqui sul gas” russo, ha aggiunto Vučić, ribadendo con forza che “questa crisi ha scosso economie molto più forti della nostra, ma noi siamo completamente stabili”.

    Serbia (Presidential Election), 88.7% parallel count:
    Vučić (SNS+-EPP): 59% (+4)Ponoš (US-S&D): 18% (+2)Jovanović (NADA-*): 6% (+1)…
    Source: CeSID / Ipsos
    +/- vs. 2017 election result
    ➤ https://t.co/eWnraQ39P8#Izbori2022 #Srbija #Serbia #SerbiaElections pic.twitter.com/IXba6uQHet
    — Europe Elects (@EuropeElects) April 3, 2022

    I due più stretti alleati di Putin in Europa, il premier ungherese e il presidente serbo, sono stati riconfermati con un’ampia maggioranza dai rispettivi elettorati. Contestazioni sul processo elettorale e sullo svolgimento del voto, oltre alle provocazioni rivolte all’UE

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    Una delegazione di eurodeputati parteciperà alla missione di osservazione elettorale in Serbia il 3 aprile

    Bruxelles – Sarà una super domenica di elezioni in Serbia e per questo appuntamento fondamentale per il Paese balcanico le istituzioni UE vogliono tenere sotto controllo lo svolgimento, l’affluenza e le modalità di voto. Con questo obiettivo inizia oggi (giovedì 31 marzo) fino a lunedì prossimo (4 aprile) la missione di osservazione elettorale da parte di una delegazione di sette eurodeputati, in occasione delle elezioni parlamentari (anticipate), presidenziali e amministrative in Serbia del 3 aprile.
    “Esamineremo tutti gli aspetti delle elezioni, compreso il quadro giuridico, l’amministrazione elettorale, i reclami e i ricorsi, l’ambiente politico e la campagna elettorale, la performance dei media, la situazione delle minoranze nazionali e la partecipazione delle donne”, ha commentato il capo della delegazione del Parlamento UE, l’eurodeputato olandese Thijs Reuten (S&D). I membri del Parlamento UE si uniranno alla missione internazionale di osservazione delle elezioni in Serbia organizzata dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), che incontrerà in questi giorni candidati, partiti, funzionari, amministratori e cittadini. Al termine della missione saranno presentate le conclusioni sul processo elettorale, in linea con quanto osservato sul territorio serbo.
    Il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić (Belgrado, 8 luglio 2021)
    Il triplice appuntamento elettorale si innesta sullo sfondo di una situazione politica particolarmente tesa nel Paese. Le elezioni parlamentari arrivano a due anni dal boicottaggio dei partiti di opposizione per le accuse al presidente Aleksandar Vučić di politiche illiberali nei confronti della società civile e della libertà di stampa: dal 2020 il suo Partito Progressista Serbo (SNS) governa con una maggioranza di 188 deputati su 250 e il voto anticipato è stato imposto dallo scetticismo dei partner internazionali sul livello di rispetto degli standard democratici del Paese. La convocazione degli elettori per il rinnovo dell’Assemblea nazionale lo stesso giorno dell’elezione del nuovo presidente della Serbia sa di pronunciamento sui cinque anni di presidenza Vučić, che cerca la riconferma per un secondo mandato.
    La campagna elettorale in Serbia, che è ruotata attorno a temi vecchi (adesione UE, Kosovo, NATO) e apparentemente nuovi (aggressione russa dell’Ucraina e rapporto tra Mosca e Belgrado), è stata travolta dalle polemiche sulla partecipazione di alcuni criminali di guerra alle elezioni parlamentari e amministrative. Come il politico ultra-nazionalista Vojislav Šešelj, leader del Partito radicale serbo, condannato a dieci anni di prigione dal Meccanismo per i tribunali penali internazionali dell’Aia nell’aprile 2018 per crimini di guerra contro l’etnia croata nel villaggio di Hrtkovci nel 1992. Secondo la legge serba, se un deputato riceve una pena detentiva superiore a sei mesi, il suo mandato cessa e non può essere rieletto: ma la misura non è mai stata applicata nel caso di Šešelj. “Non c’è spazio per il revisionismo, la glorificazione dei criminali di guerra e la negazione dei genocidi“, ha commentato nel corso del punto quotidiano con la stampa di Bruxelles la portavoce della Commissione Europea Ana Pisonero, anche se non ha risposto esplicitamente alla domanda su una presa di posizione dell’UE sullo scandalo della candidatura dei criminali di guerra.
    A livello internazionale ed europeo, l’esito delle elezioni in Serbia assume ancora più significato se si considera il contemporaneo appuntamento elettorale nella vicina Ungheria, Paese membro UE a cui Belgrado guarda come punto di riferimento nell’Unione e come alleato sull’asse sovranista/nazionalista. Come il presidente serbo Vučić, anche il premier ungherese, Viktor Orbán, punta alla rielezione (la terza consecutiva) in un clima di accuse da parte dell’opposizione e di Bruxelles di violazioni della libertà di stampa e dei diritti delle minorazione, anche considerata la consultazione sul referendum sui diritti LGBT+ che si terrà proprio domenica 3 aprile. Vučić e Orbán sono legati da stima reciproca e da un rapporto particolarmente stretto a livello politico: il presidente serbo ammira le modalità di governo dell’uomo forte di Budapest – “veterano della politica europea” – mentre il premier ungherese punta a stringere con Belgrado un’alleanza strategica nell’ottica del futuro ingresso del Paese balcanico nell’Unione. Ecco perché, con le elezioni in Serbia e in Ungheria di domenica, non sono in gioco solo le prospettive della politica interna dei due Paesi, ma anche l’indirizzo su cui procederà il processo di allargamento UE nella regione balcanica.

    Saranno valutati gli standard democratici delle elezioni presidenziali, parlamentari e amministrative nel Paese. L’appuntamento alle urne sullo sfondo delle polemiche sui criminali di guerra e del contemporaneo voto nell’Ungheria di Orbán, alleato del presidente serbo Vučić

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    L’UE è al centro della “battaglia delle targhe” tra Serbia e Kosovo

    Bruxelles – Ci risiamo, si è riacceso lo scontro diplomatico tra Pristina e Belgrado. Ma questa volta, al centro della “battaglia delle targhe” dei veicoli serbi in Kosovo, c’è anche l’Unione Europea e la sua strategia di equidistanza tra le due parti. Mentre Bruxelles sta tentando la ripresa di un dialogo decennale sempre più in salita, la nuova crisi sul confine settentrionale del Kosovo sta rischiando di minare definitivamente la credibilità delle istituzioni europee nel riuscire a portare a termine questo processo di mediazione.
    A far scoppiare le tensioni nella regione è stata la decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. Ieri mattina (lunedì 20 settembre) i reparti speciali di polizia sono affluiti ai valichi di confine di Jarinje, Brnjak e Merdare, dove hanno fermato automobili, ciclomotori e camion e imposto l’applicazione di targhe di prova kosovare, il pagamento di una tassa di cinque euro e la stipulazione di contratti di assicurazione. La minoranza serba in Kosovo – concentrata proprio nel nord del Paese – ha protestato con forza, anche se dai suoi rappresentanti politici è arrivato l’appello a non esasperare la tensione e attendere l’intervento delle organizzazioni internazionali presenti sul territorio.
    Il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti
    Stando a quanto dichiarato dal premier kosovaro, Albin Kurti, a imporre il cambio di targhe automobilistiche è stato il principio di reciprocità: da tempo vige l’obbligo per gli automobilisti del Kosovo di coprire la propria targa con una temporanea rilasciata dalle autorità serbe e di pagare una tassa di due euro, una volta superato il confine. Inoltre, lo scorso 15 settembre è scaduta l’intesa sulle targhe che era stata raggiunta tra i due Paesi nell’ambito dell’accordo di Bruxelles del 2013. Ecco perché, secondo il governo di Pristina, le nuove misure non sono dirette contro la popolazione serba né mirano a destabilizzare la situazione, ma sono un semplice adeguamento alla situazione creata proprio da Belgrado. Ma il rimpallo di accuse tra le due capitali sta mettendo l’Unione Europea al centro della battaglia delle targhe.
    La posizione ‘scomoda’ dell’UE
    Proprio l’Unione Europea è impegnata in questi giorni in una missione nella regione. Il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, si è recato prima nella capitale kosovara e poi in quella serba, dove ieri pomeriggio si è confrontato con il presidente Aleksandar Vučić. “Sono preoccupato e chiedo una de-escalation immediata“, è stato il commento del rappresentante UE. “È importante ridurre le tensioni, ripristinare un’atmosfera pacifica e consentire la libertà di movimento”, ha aggiunto, sottolineando che le istituzioni europee sono “pronte a facilitare i colloqui su tutte le questioni aperte nel dialogo”.
    Prima dell’incontro, il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano, aveva invitato “entrambe le parti” a utilizzare lo strumento del dialogo mediato dall’UE per risolvere le questioni aperte, “compresa la libertà di circolazione”. Nel caso specifico della battaglia delle targhe tra Serbia e Kosovo, “ci aspettiamo che entrambi i governi promuovano un clima che conduca a una riconciliazione“, aveva precisato Stano.
    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, a Bruxelles con la presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen
    Tuttavia, da ventiquattro ore Bruxelles sta ricevendo dure critiche per il suo atteggiamento attendista. Il presidente serbo Vučić si è detto “stufo di questi appelli alle due parti”, dal momento in cui il governo di Belgrado non avrebbe fatto “nulla di male”. La parte serba inizia a scalpitare sul rispetto delle condizioni stabilite dall’accordo del 2013 che non sarebbe mai stato rispettato da Pristina: “Qualcuno in Europa deve dirci una volta per tutte se esiste ancora, la nostra pazienza non è illimitata”, ha aggiunto Vučić. Al termine di una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale, questa mattina il presidente serbo ha aggiunto che “la risposta da Bruxelles dovrà arrivare entro un mese”.
    La cosiddetta battaglia delle targhe è solo la punta di un iceberg sullo status giuridico della minoranza serba in Kosovo. Tutto nasce dal rifiuto di Pristina di realizzare una misura che ritiene contraria alla sua Costituzione, vale a dire la Comunità delle municipalità serbe in Kosovo. L’associazione delle enclave serbe è prevista proprio dall’accordo dell’aprile 2013, che da allora è rimasta però solo sulla carta: per il governo kosovaro si tratterebbe di una “fase preliminare” della creazione di una nuova Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina). Belgrado insiste invece sul rispetto dei trattati: “Un silenzio europeo significherà che l’accordo di Bruxelles non esiste più e che non vogliono la creazione della Comunità delle municipalità serbe”, ha attaccato il presidente Vučić.
    La questione ha evidenti conseguenze sull’intero processo di mediazione facilitato dall’UE, che sarebbe dovuto riprendere a settembre a Bruxelles con un nuovo incontro tra Kurti e Vučić. “La condizione per continuare il dialogo è il ritiro di tutte le formazioni armate dal nord del Kosovo“, ha dichiarato il presidente serbo. “Solo dopo il ritorno allo status quo ci recheremo a Bruxelles”, è stata la precisazione da Belgrado. Se l’Unione Europea non cambierà atteggiamento, dimostrando che esistono ancora margini per rispettare le promesse fatte in questi anni, sarà sempre più difficile superare gli ostacoli sulla strada della normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo.

    I briefed EU HoMs on the situation in the north of Kosovo. I’m concerned & call for immediate deescalation. It’s important to reduce tensions, restore a peaceful atmosphere & allow for freedom of movement. We stand ready to facilitate talks on all open issues in the Dialogue. pic.twitter.com/2HvqC0ldmS
    — Miroslav Lajčák (@MiroslavLajcak) September 21, 2021

    Bruxelles ha invitato “entrambe le parti” alla moderazione e al ripristino della libertà di circolazione alla frontiera. Ma il governo di Belgrado protesta e chiede entro un mese una risposta sul rispetto degli accordi del 2013

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    Dialogo Serbia-Kosovo, ennesima fumata nera. Ora per l’UE diventa difficile gestire le tensioni tra Vučić e Kurti

    Bruxelles – Così non va. Dopo un anno dalla ripresa del dialogo tra Serbia e Kosovo mediato dall’UE, è difficile continuare a illudersi alla vigilia di ogni incontro che possa essere arrivato il momento dello sblocco delle trattative e ritrovarsi l’indomani a tracciare l’ennesimo bilancio negativo. Parlare di “approcci molto diversi delle due parti“, come ha fatto il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, al termine della riunione ad alto vertice di ieri (lunedì 19 luglio), la quinta dal 12 luglio del 2020, sembra ormai un eufemismo.
    Il confronto tra Pristina e Belgrado, che si era interrotto per nove mesi tra settembre 2020 e giugno 2021, sembrava essere pronto per approdare in un porto sicuro, sotto le pressioni dell’Unione di risolvere le questioni regionali come prerequisito per l’adesione UE. E invece a Bruxelles si sta arenando nelle secche delle accuse reciproche e della mancanza di volontà di cercare un compromesso. Le grandi speranze dell’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ogni volta vengono spente dagli scontri tra i rappresentanti serbi e kosovari. Era successo al vertice di giugno, è riaccaduto ieri: “Abbiamo ottenuto pochissimi progressi“, ha confessato Lajčák in conferenza stampa.
    Il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák
    Il confronto tra Serbia e Kosovo facilitato dall’UE inizia ad assumere i tratti di un processo autoreferenziale: l’importante è che non si fermi, nella speranza che prima o poi qualcosa si sblocchi. “L’unico risultato che posso riferire è che il dialogo continuerà“, ha rivendicato il rappresentante speciale, tentando di far passare per promettente un risultato che non può essere all’altezza delle ambizioni che si è fissata la Commissione Europea. In particolare, continuano a pesare le parole di Borrell dell’ottobre dello scorso anno, quando prometteva che un accordo “è questione di mesi, non di anni”.
    Di mensile c’è invece solo la continuazione delle riunioni tecniche dei negoziatori, con la prospettiva di un sesto incontro di alto livello a settembre. Sarà il terzo per il premier kosovaro, Albin Kurti, ma con le premesse dell’incontro di ieri si fatica a capire come in soli due mesi si potranno ricucire i rapporti lacerati con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić.
    Fuoco incrociato
    All’apertura del quinto incontro del dialogo Serbia-Kosovo l’alto rappresentante Borrell aveva richiamato le parti a un “approccio costruttivo e pragmatico”, per “chiudere una volta per tutte i capitoli del loro doloroso passato con un accordo definitivo e giuridicamente vincolante”. Auspici che sono stati vanificati dall’atteggiamento di Kurti e Vučić nei confronti della rispettiva controparte.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić
    Il presidente serbo ha definito l’incontro “molto negativo in tutti i sensi” e si è scagliato contro la delegazione kosovara per aver respinto una proposta in tre punti avanzata dai mediatori europei. Oltre agli incontri mensili tra i capi-delegazione, la proposta UE “si riferiva all’intensificazione degli sforzi comuni per l’identificazione dei resti delle persone scomparse e all’impegno ad astenersi da azioni destabilizzanti”. Stando alle parole di Vučic, Kurti avrebbe risposto solo accusando Belgrado di essere responsabile di tre genocidi: nel 1878 dopo l’indipendenza ottenuta al congresso di Berlino, durante le guerre balcaniche e la prima guerra mondiale, e infine durante la guerra in Kosovo nel 1998-1999. “Non hanno fatto altro che chiedere alla Serbia di rispondere del suo passato“.
    Il presidente serbo ha detto di aver insistito sul “rispetto degli accordi raggiunti nell’aprile 2013 a Bruxelles”, a partire dalla creazione della Comunità delle municipalità serbe in Kosovo. Un tema su cui Pristina sembra essere sorda. “Non ci sarà molto da aspettarsi” da un nuovo round di negoziati tecnici a fine agosto, si è sbilanciato Vučic. A suo avviso, la parte kosovara “non ha alcun interesse a negoziare”, perché il suo unico obiettivo sarebbe “ottenere il sì della Serbia all’indipendenza del Kosovo e imporci di riconoscere presunti crimini e genocidi ai danni del popolo kosovaro albanese”.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti
    Dal canto suo, il premier Kurti ha denunciato che la proposta di un accordo di pace in sei punti presentata dalla sua delegazione “è stata respinta senza essere neanche letta” dal presidente serbo. Questo dimostrerebbe “la loro riluttanza a raggiungere un’intesa”. Il primo ministro kosovaro non ha negato di aver insistito sul passato tra Pristina e Belgrado: “Non capisco perché dovremmo avere paura di affrontarlo, quando sappiamo di avere problemi”. Secondo lui la Serbia “non vuole riconoscere il suo passato criminale, né l’indipendenza del Kosovo“, due fattori del dialogo “strettamente collegati l’uno all’altro”.
    Da quando Kurti è stato nominato nuovo premier del Kosovo, i rapporti con Belgrado sono diventati sempre più tesi, alimentando una spirale di nazionalismo nei rispettivi territori. Con un atto palesemente provocatorio Kurti ieri ha regalato a Borrell e soprattutto a Vučić tre libri sui crimini serbi in Kosovo: una confessione di donne violentate durante la guerra, il lavoro dell’attivista serba per i diritti umani, Nataša Kandić, sull’uccisione di 1.133 bambini e la scomparsa di altri 109 nel conflitto del 1998-1999, e un’opera sullo sterminio degli albanesi fra il 1878 e il 1884 nel Sangiaccato di Niš. “La Serbia è arrivata in Kosovo con un genocidio ed è andata via con un altro genocidio“, ha attaccato il premier kosovaro. Le premesse in vista dell’incontro di settembre, tutt’altro che incoraggianti, sono tutte qui.

    Nessun progresso dal quinto vertice di alto livello a Bruxelles, che evidenzia l’incapacità di cercare un compromesso tra Pristina e Belgrado. Le parti si accusano reciprocamente di voler affossare il confronto, con la ripresa programmata a settembre

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    Allargamento UE, la Serbia e quella pericolosa alleanza con Orbán: “Belgrado può contare sul sostegno dell’Ungheria”

    Bruxelles – Viktor Orbán non sta godendo di un momento di grande popolarità nell’Unione Europea, per usare un eufemismo. La legge anti-LGBT+ del premier ultra-conservatore ungherese è da settimane al centro di una bufera tra le istituzioni europee che coinvolge direttamente il rispetto dello Stato di diritto nel Paese. Ma, proprio nel giorno in cui è entrata in vigore quella legge “vergognosa” – come l’ha definita la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen – c’è un Paese che ha deciso di riceverlo con tutti gli onori del caso: la Serbia. In maniera quasi beffarda, proprio quella Serbia che sta negoziando con Bruxelles l’adesione all’Unione Europea e che è al centro della politica di allargamento dell’Unione nei Balcani occidentali.
    Questa mattina (giovedì 8 luglio) Orbán è arrivato a Belgrado con il ministro degli Esteri, Peter Szijjarto (che ha ricevuto l’Ordine della bandiera serba, un’onorificenza statale), e a altri componenti del governo ungherese. Dopo essere stato accolto all’aeroporto della capitale da Nikola Selaković, ministro degli Esteri serbo, il premier magiaro si è incontrato con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. I due leader politici sono legati da stima reciproca e da un rapporto che ormai si è trasformato in amicizia e non sono rare le visite nei rispettivi Paesi. In particolare Vučić non ha mai nascosto la sua ammirazione per Orbán, preso a modello come uomo forte all’interno dell’UE: “È un veterano della politica europea”.
    Allo stesso tempo, il primo ministro ungherese guarda con interesse all’allargamento dell’Unione nei Balcani occidentali, come potenziale bacino di influenza e di possibili partner futuri a Bruxelles. Vanno in questa direzione le parole di supporto all’adesione della Serbia, pronunciate nel corso della conferenza stampa congiunta post-vertice: “La Serbia è un Paese chiave per la stabilità della regione balcanica, allo stesso modo della Polonia nell’Europa centrale“. Il riferimento all’Est Europa non è casuale. Polonia e Ungheria fanno entrambe parte del Gruppo di Visegrád (con Repubblica Ceca e Slovacchia) e stanno dando grossi grattacapi a Bruxelles: dalla minaccia prolungata di veto per il vincolo sullo Stato di diritto sull’approvazione del bilancio pluriennale UE 2021-2027 e del Recovery Fund, alla violazione dell’indipendenza del sistema giudiziario, fino alla questione del mancato rispetto dei diritti LGBT+.
    “Fino a quando non sarà integrata la Serbia nell’Unione Europea, i Balcani occidentali non lo saranno“, ha sottolineato con forza Orbán, che poi ha utilizzato i suoi consueti toni aggressivi nei confronti delle istituzioni europee: “La Serbia è un Paese chiave e questo l’UE lo deve capire“. Tanto che, secondo lui, “è più nel suo interesse avere con sé la Serbia, piuttosto che di Belgrado entrare nell’Unione”. Per questo motivo “Belgrado può contare sul nostro sostegno, come Budapest conta su di voi“, ha concluso a effetto l’ospite ungherese.

    Мађарска влада и премијер Виктор Орбан су прави пријатељи Србије. Мађарска ће увек моћи да рачуна на српско пријатељство.https://t.co/JuMfYiRKnP pic.twitter.com/oxPljPQBkl
    — Александар Вучић (@avucic) July 8, 2021

    Lusinghe che non hanno lasciato indifferente il presidente serbo: “Molti dicono di appoggiare il percorso della Serbia verso l’integrazione nell’Unione, ma sono pochi quelli che lo fanno apertamente e con coraggio, disposti anche a incassare critiche, come lo fate voi”. È così che si rinsalda “l’amicizia” tra ungheresi e serbi, almeno di alto vertice. Senza dimenticare l’aspetto commerciale, con l’Ungheria al quinto posto tra i partner commerciali della Serbia, delle infrastrutture (è in cantiere un progetto di linea ferroviaria veloce tra le due capitali) e la comunione di visioni: “Le nostre minoranze godono di pieni diritti senza alcun problema di convivenza interetnica”, ha rivendicato Vučić.
    Curiosamente, è passato invece sotto silenzio il tema dei diritti LGBT+. In Serbia si attende ancora l’approvazione della legge sull’istituto del partenariato, vale a dire il riconoscimento delle coppie dello stesso sesso. Non è equiparabile al matrimonio – riservato solo alle coppie eterosessuali – ma garantirà diritti sul fronte dell’eredità, delle assicurazioni e dell’acquisto di immobili. Come in Italia, invece, non permetterà le adozioni. Mentre in Ungheria ieri è stata punita con una multa di 700 euro la pubblicazione di un libro di fiabe della Rainbow Families Foundation che raffigurava al suo interno anche alcune famiglie arcobaleno. Sarebbe interessante conoscere l’opinione della premier serba, Ana Brnabić, omosessuale dichiarata che ogni anno sfila al Pride di Belgrado, sull’amicizia tra Serbia e Ungheria e sui rischi che il Paese corre nel seguire questo alleato sulla strada del mancato rispetto dei diritti dei cittadini.

    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    Proprio nel giorno dell’entrata in vigore della legge anti-LGBT+ al centro delle polemiche a Bruxelles, il premier ungherese è stato ospitato dal presidente Vučić: “Sono pochi quelli che ci appoggiano come fate voi”