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    La nuova iniziativa di quattro Paesi dei Balcani Occidentali per l’allineamento completo alla politica estera dell’Ue

    Bruxelles – I Balcani Occidentali spingono per l’allineamento alla politica estera dell’Ue, per avvicinarsi ancora di più all’adesione all’Unione. Non tutti, perché la questione è molto delicata per Serbia e Bosnia ed Erzegovina, toccando direttamente il tema delle sanzioni internazionali contro la Russia. Ma gli altri quattro – Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Montenegro – hanno già fatto tutti i compiti a casa da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina e vedono nel rispetto totale delle misure restrittive dell’Ue uno dei punti di forza nel proprio percorso di avvicinamento all’ingresso nell’Unione.
    Ecco perché da ieri (29 marzo) è nata una nuova iniziativa politica, la Western Balkan Quad – 100% compliance with Eu foreign policy, con l’obiettivo di coordinare le politiche e le migliori pratiche dei quattro Paesi dei Balcani Occidentali. “Dopo l’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina, l’allineamento alla Pesc [Politica estera e di sicurezza comune, ndr], ma ancor più in generale alle posizioni e ai valori del mondo democratico, si è trasformato in una delle priorità più importanti dei Paesi che aspirano all’adesione all’Ue, un chiaro messaggio di dove questi Paesi appartengono“, si legge nella dichiarazione congiunta dei ministri degli Esteri di Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Montenegro.
    Un’iniziativa nei Balcani Occidentali che nasce e si svilupperà “alla luce della nuova realtà geopolitica, delle minacce ibride, della crisi energetica e delle conseguenze economiche” causate dalla guerra russa, per cui l’Ue ha già deciso di stanziare un pacchetto complessivo da un miliardo di euro. I Paesi del Western Balkan Quad – un forum informale che affianca le già esistenti Open Balkan (zona economica e politica tra Albania, Macedonia del Nord e Serbia) e il Processo di Berlino (iniziativa diplomatica per l’allargamento Ue nella regione) – baseranno il proprio confronto sul fatto che “individualmente abbiamo dimostrato di essere partner affidabili della Nato e dell’Ue“, non solo con l’allineamento sulle sanzioni, ma anche attraverso “una specifica assistenza umanitaria e di altro tipo all’Ucraina”. Da qui ne scaturirà uno scambio “sugli attuali sviluppi regionali e internazionali, il processo di attuazione e applicazione delle politiche, dei regolamenti e degli standard dell’Ue”.
    Non si può non notare l’assenza di due attori centrali per i rapporti dell’Ue con i Balcani Occidentali: Serbia e Bosnia ed Erzegovina. Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, la Serbia ha sempre cercato di mantenere una – quasi insostenibile – politica di non-allineamento, per non perdere da una parte il più influente partner commerciale e politico (l’Unione Europea, tra cui in particolare l’Italia riveste un ruolo chiave) e dall’altra il punto di riferimento privilegiato per la propria retorica nazionalista (la Russia). Questo riguarda anche le sanzioni internazionali contro la Russia, che Belgrado si è sempre rifiutata di adottare, e una serie di mosse politico-economiche al limite dello scontro diplomatico con Bruxelles. Più complessa la situazione in Bosnia ed Erzegovina, dove lo scenario politico è in costante stallo per le posizione manifestamente filo-russe della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba del Paese: qualsiasi tentativo a Sarajevo di far passare politiche restrittive contro Mosca sono state bloccate dalla componente serba della presidenza tripartita e del Parlamento bicamerale.
    A che punto sono i sei Paesi dei Balcani Occidentali nel percorso verso l’Ue
    Sui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e parallelamente deve essere implementato un delicatissimo accordo di normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo.
    Il processo di allargamento Ue in cui sono impegnati i sei Paesi dei Balcani Occidentali inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).
    Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.

    Si chiama “Western Balkan Quad – 100% compliance with Eu foreign policy” e riunisce Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Montenegro, ovvero i partner più allineati agli standard di Bruxelles per l’adesione all’Unione. In particolare per le sanzioni internazionali contro la Russia

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    Il Montenegro a un passo dalla svolta nella leadership. Un indebolito Đukanović al primo ballottaggio presidenziale

    Bruxelles – Potrebbe essere arrivato alla sua ultima corsa il partito che ha sempre espresso la presidenza della Repubblica del Montenegro dal giorno della nascita della Repubblica Federale di Jugoslavia nel 1992 e dopo l’indipendenza del Paese nel 2006. Il primo turno delle elezioni presidenziali del 19 marzo ha fornito indicazioni rilevanti sulla possibile svolta nella leadership dello Stato balcanico considerato il più avanzato sulla strada di adesione all’Unione Europea. Il candidato del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) e presidente in carica dal 2018, Milo Đukanović, si è confermato in testa nella prima fase della tornata elettorale presidenziale, ma con una perdita di quasi 19 punti percentuali rispetto a quattro anni fa, quando non era nemmeno servito il ballottaggio. E ora si deve guardare le spalle dalla convergenza dei partiti più rappresentati in Parlamento sullo sfidante di Europe Now, Jakov Milatović.
    Chiamati alle urne per scegliere il nuovo presidente della Repubblica, gli elettori montenegrini hanno dato un segnale preciso alla scena politica nazionale. Basta plebisciti a sostegno del partito al potere da oltre 30 anni – anche se ha subito una prima battuta d’arresto alle elezioni parlamentari del 2020 – ma la corsa per la presidenza dovrà andare fino in fondo, in un clima di incertezza per la prima volta nella breve storia del Paese. In attesa della conferma ufficiale da parte della commissione elettorale, le proiezioni di tutti gli istituti di ricerca attivi in Montenegro hanno evidenziato la vittoria al primo turno di Đukanović con il 35,2 per cento dei voti, seguito da Milatović al 29,2. Sconfitti i candidati dei partiti più rappresentati in Parlamento, sia il leader del partito nazionalista filo-serbo Fronte Democratico, Andrija Mandić (19,3), sia quello del partito populista conservatore Montenegro Democratico, Aleksa Bečić (10,9).
    Ed è proprio da questa doppia sconfitta degli sfidanti più controversi del presidente in carica che potrebbe arrivare la svolta per il Montenegro, perché sia Mandić sia Bečić hanno annunciato il proprio appoggio esplicito al candidato del nuovo partito europeista. Se i rispettivi elettori dovessero rispettare le indicazioni dei due leader sconfitti, per Đukanović non ci sarebbe alcuna chance di riconferma al terzo mandato (dopo quello appena terminato e quello del 1998-2003). “Mi sono candidato per sconfiggerlo, perché simboleggia il passato e le politiche divisive che hanno impoverito il nostro Paese”, è stato l’affondo di Milatović nei confronti del presidente in carica. L’economista 37enne è un personaggio relativamente noto a livello nazionale. Dopo aver lavorato per il gruppo bancario e finanziario sloveno Nlb Group a Podgorica e Deutsche Bank a Francoforte, nel 2014 è entrato nel team di analisi economica e politica della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers) e dal 4 dicembre 2020 al 28 aprile 2022 è stato ministro dell’Economia e dello Sviluppo economico nella grande coalizione anti-Đukanović guidata da Zdravko Krivokapić. Durante l’anno e mezzo di governo Milatović ha presentato insieme al ministro delle Finanze, Milojko Spajić, un programma di riforme economiche intitolato proprio ‘Europe Now’, che comprendeva misure come l’aumento del salario minimo a 450 euro e il taglio dei contributi sanitari.
    Il candidato di Europe Now alle elezioni presidenziali in Montenegro del 2023,Jakov Milatović (credits: Savo Prelevic / Afp)
    I due tecnocrati hanno annunciato la volontà di fondare un nuovo partito di centro-destra liberale, anti-corruzione ed europeista dopo la caduta del governo Krivokapić nel febbraio 2022 – poi effettivamente fondato il 26 giugno – anticipando l’intenzione di collaborare con altre formazioni civiche e di centro, come la coalizione moderata di ‘La pace è la nostra nazione’ (guidata da Montenegro Democratico) e la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) del premier dimissionario, Dritan Abazović. Alle amministrative di ottobre nella capitale Podgorica Milatović ha corso come candidato sindaco per Europe Now, piazzandosi al secondo posto. Dopo la squalifica di Spajić da parte della commissione elettorale centrale per il possesso di cittadinanza serba – vietata dalla legge montenegrina per chi vuole correre per la presidenza della Repubblica – si è candidato come sfidante di Đukanović alla prima carica del Paese. Milatović è favorevole all’adesione del Montenegro all’Unione Europea, ma anche a relazioni più strette con la vicina Serbia (nonostante nel 2006 abbia votato a favore dell’indipendenza da Belgrado). È questo uno dei punti più controversi del nuovo partito – il co-fondatore Spajić ha svolto attività di lobbying negli Stati Uniti a favore degli interessi della Chiesa serbo-ortodossa nel Paese – anche se in Montenegro le tendenze filo-serbe non necessariamente sono contrarie alla visione europeista delle relazioni internazionali e non dovrebbero porsi questioni preoccupanti per il processo di adesione all’Ue iniziato nel 2012.

    Montenegro, presidential election (first round) today:
    100% CeMI parallel count:
    Đukanović (DPS-S&D): 35.2% (-18.7)Milatović (Evropa Sad!-*): 29.2% (new)Mandić (NSD-*): 19.3% (new)Bečić (DCG~EPP): 10.9% (new)…
    +/- 2018 election#Montenegro #Izbori2023 #IzboriCG pic.twitter.com/Kn53NmXCgk
    — Europe Elects (@EuropeElects) March 19, 2023

    La situazione politica in Montenegro
    Dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti gli equilibri politici sono iniziati a cambiare già con le elezioni del 30 agosto 2020, vinte dalla larghissima coalizione anti-Đukanović messa in piedi dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ di Krivokapić. Il 4 febbraio 2022 è stata la piattaforma ‘Nero su bianco’ a sfiduciare il governo Krivokapić, appoggiando una mozione dell’opposizione e dando il via a un governo di minoranza guidato da Abazović. Un governo di scopo per preparare le elezioni anticipate nella primavera successiva – che pochi giorni fa sono state annunciate per il prossimo 11 giugno – ma anche il più breve della storia del Paese, dopo il crollo del 19 agosto per la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović. A scatenare la crisi è stato il cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba, un’intesa per regolare i rapporti reciproci e per il riconoscimento della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219. Tutti i partiti filo-serbi l’hanno appoggiato, mentre gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue.
    Da allora Abazović è premier ad interim e nel frattempo si è aggravata anche la crisi istituzionale, con il via libera a una contestatissima legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo. La legge permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrebbe l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi.
    Il vero problema è stata la parallela vacanza di quattro membri (su sette) della Corte Costituzionale, l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge contestata. Senza la sua piena funzionalità non è stato possibile considerare il voto del Parlamento in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei. Dopo mesi di vacanza e di richiami internazionali, lo scorso 27 febbraio l’Assemblea del Montenegro è riuscita a eleggere tre giudici della Corte Costituzionale vacanti (manca ancora il quarto), condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina e per continuare il percorso europeo del Paese. In attesa che si chiarisca il futuro del Montenegro, tra presidente e nuovo Parlamento.

    Il presidente in carica vince il primo turno, ma crollando rispetto alle elezioni del 2018. Il 2 aprile sfiderà il candidato di Europe Now, Jakov Milatović, che potrebbe sfruttare l’endorsement degli altri partiti sconfitti per mettere fine al potere trentennale del Partito Democratico dei Socialisti

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    A pochi giorni dalle elezioni presidenziali, il Parlamento del Montenegro è stato sciolto. Ritorno alle urne anticipato

    Bruxelles – Dopo le elezioni presidenziali, quelle parlamentari, per tentare di rimettere il Montenegro su una strada più stabile nel suo cammino verso l’adesione all’Unione Europea. Con un decreto presidenziale il leader del Paese balcanico, Milo Đukanović, ha sciolto ieri (16 marzo) il Parlamento nazionale a soli tre giorni dal primo turno di voto per eleggere il nuovo presidente della Repubblica – in cui proprio Đukanović cerca la riconferma – e oggi ha fissato le elezioni anticipate per l’11 giugno.
    “L’Assemblea è sciolta con decreto del Presidente del Montenegro, il decreto diventa effettivo il giorno in cui viene dichiarato”, si legge in un comunicato dell’ufficio di presidenza diffuso alla stampa. La decisione di emanare il decreto sulla base dell’articolo 92 della Costituzione nazionale è stata presa dopo il fallimento del primo ministro incaricato di formare un governo, Miodrag Lekić (leader dell’Alleanza Democratica Demos), che nei 90 giorni di tempo a sua disposizione non è riuscito a mettere insieme una maggioranza parlamentare (di 41 deputati su 81).
    Il tentativo di mettere fine alla crisi politica e istituzionale – invocato da mesi dal presidente Đukanović e in linea con il mandato iniziale del poi sfiduciato governo di Dritan Abazović – nel Paese considerato il più avanzato sulla strada di adesione all’Ue arriva a ridosso delle presidenziali programmate per domenica (19 marzo). Il leader del Partito Democratico dei Socialisti (Dps), eletto numero uno del Montenegro cinque anni fa, tenterà di sfruttare il proprio credito europeista per conquistare un secondo mandato, ma dovrà fronteggiare non solo i candidati dei partiti più rappresentati in Parlamento – il leader del partito populista conservatore Montenegro Democratico, Aleksa Bečić, e quello del partito nazionalista filo-serbo Fronte Democratico, Andrija Mandić – ma anche Jakov Milatović, il candidato del nuovo movimento europeista Europe Now, al primo vero banco di prova nazionale dopo il secondo posto alle amministrative dell’ottobre 2022 nella capitale Podgorica. Il sistema elettorale è a doppio turno: se nessun candidato otterrà la maggioranza dei voti domenica, si terrà il ballottaggio tra i due più votati il 2 aprile.
    In occasione delle elezioni presidenziali in Montenegro, anche una delegazione di sei eurodeputati guidata dal croato Tonino Picula (S&D) sarà presente nel Paese balcanico da oggi a lunedì (20 marzo). La delegazione di osservazione elettorale del Parlamento Europeo sarà inquadrata nella missione internazionale dell’Ufficio per le istituzioni democratiche per i diritti umani (Odihr) dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Come reso noto dai servizi dell’Eurocamera, i sei eurodeputati incontreranno i candidati dei partiti politici, i rappresentanti delle autorità nazionali, della società civile e dei media nazionali, mentre domenica osserveranno le elezioni dall’apertura dei seggi fino alla chiusura, e successivamente seguiranno lo spoglio.
    I due anni e mezzo di crisi in Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (guidata da Montenegro Democratico) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’ dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Dritan Abazović. Il 4 febbraio dello scorso anno era stata proprio ‘Nero su bianco’ a sfiduciare il governo Krivokapić, appoggiando una mozione dell’opposizione e dando il via a un governo di minoranza guidato da Abazović.
    Da sinistra: il primo ministro ad interim del Montenegro, Dritan Abazović, e il il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stata appoggiata dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettata, perché considerata un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue.
    Mentre da allora Abazović è premier ad interim, a partire dal settembre dello scorso anno si è aggravata anche la crisi istituzionale. A sparigliare le carte è stato il via libera a una contestatissima legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo, che permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrebbe l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi.
    Il vero problema si è però innestato con la parallela vacanza di quattro membri (su sette) della Corte Costituzionale, l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge contestata. Senza la sua piena funzionalità non è stato possibile considerare il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei. Dopo mesi di vacanza e di richiami internazionali, lo scorso 27 febbraio l’Assemblea del Montenegro è riuscita a eleggere tre giudici della Corte Costituzionale vacanti (si rimane ancora in attesa del quarto), condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina e per continuare il percorso europeo del Paese.

    La legislatura si chiude con un anno e mezzo di anticipo, dopo che il leader del Paese alla ricerca di riconferma, Milo Đukanović, ha sciolto per decreto l’Assemblea nazionale, per mettere fine alla crisi politica. La tornata elettorale sarà organizzata per l’11 giugno

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    L’Ue accoglie la nomina di 3 giudici della Corte Costituzionale del Montenegro: “Riforme per avanzare sul percorso europeo”

    Bruxelles – Un passo in avanti per scongiurare una crisi istituzionale cronica che porterebbe a un pericoloso stop del Montenegro nella sua strada verso l’adesione all’Unione Europea. Dopo mesi di stallo, l’Assemblea del Montenegro è riuscita oggi (27 febbraio) a eleggere tre dei quattro giudici della Corte Costituzionale vacanti, condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina e per continuare il percorso europeo del Paese. Un accordo arrivato al termine di un “dialogo politico duro, lungo ma fruttuoso, che ha prodotto oggi dei risultati”, ha sottolineato con forza la presidente dell’Assemblea nazionale, Danijela Đurović, esultando per la “ripartenza del nostro viaggio nell’Ue, perché il Montenegro vi appartiene”.
    Da sinistra: il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e il presidente del Montenegro, Milo Đukanović
    “Accolgo con grande favore la nomina dei giudici della Corte Costituzionale mancanti da parte dell’Assemblea del Montenegro, è un passo davvero importante verso un sistema giudiziario pienamente funzionante“, è il commento del presidente del Consiglio Ue, Charles Michel: “Garantire istituzioni adeguate e stabili è fondamentale, così come lo sono riforme credibili dell’Ue, in modo che il Montenegro possa avanzare sul percorso europeo”. Analisi simile quella presentata dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, che ha voluto anche ricordare che “ora ci sono tutte le condizioni per organizzare le elezioni presidenziali e generali“. Proprio a questo proposito è utile ricordare che il prossimo 19 marzo gli elettori montenegrini si recheranno alle urne per scegliere il prossimo presidente della Repubblica, carica ricoperta dal 2018 da Milo Đukanović (e precedentemente dal 1998 al 2022).
    “Questo è il primo passo per risolvere la crisi costituzionale del Paese, invitiamo tutti gli attori politici a lavorare insieme per il futuro europeo del Montenegro”, è l’esortazione del relatore del Parlamento Europeo per il Montenegro, Tonino Picula (S&D), a cui ha fatto eco il presidente della delegazione alla commissione parlamentare di stabilizzazione e associazione Ue-Montenegro, Vladimír Bilčík (Ppe): “La cultura del dialogo e del compromesso al di là delle linee di partito è l’unica strada da percorrere per progredire sulla via dell’Ue”. L’obiettivo ora deve essere “l’elezione rapida del quarto giudice” mancante, ha precisato l’eurodeputato slovacco.
    La crisi istituzionale in Montenegro
    Da sinistra: il primo ministro del Montenegro, Dritan Abazović, e il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    La nomina dei giudici è di cruciale importanza se si considera lo scenario istituzionale particolarmente critico nel Paese che a Bruxelles è considerato il più avanzato sulla strada di adesione all’Ue tra i 10 che sono coinvolti nel processo di allargamento dell’Unione. La vacanza dei membri della Corte Costituzionale si accompagna da mesi a una contestatissima legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo. Considerato il fatto che la Corte Costituzionale è l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge, senza la sua piena funzionalità non è possibile considerare il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei.
    Eppure l’iter di approvazione della legge è proseguito lo stesso a Podgorica. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi. La legge permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato: in caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrà l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese Đukanović ha proposto di tornare alle urne, dopo essersi rifiutato di confermare come nuovo primo ministro il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno.
    La crisi politica a Podgorica
    Tutto questo mentre dal 2020 il Paese vive in una costante crisi politica. Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Dritan Abazović. Il 4 febbraio dello scorso anno era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni per la primavera del 2023, esattamente ciò che continuano ad augurarsi le istituzioni comunitarie.
    Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue. Da allora Abazović è premier ad interim, mentre si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare la maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne. Alle prossime elezioni presidenziali ci sarà da fare attenzione al nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento, Europe Now, al primo vero banco di prova nazionale dopo il secondo posto alle amministrative di ottobre 2022 a Podgorica (21,7 per cento dei voti e 13 seggi su 58 in Assemblea cittadina).

    Dopo mesi di stallo e crisi istituzionale, è arrivato il via libera del Parlamento nazionale: ora manca l’intesa per il quarto (e ultimo) posto vacante per rendere “pienamente funzionante” l’organo costituzionale. E il 19 marzo si terranno le cruciali elezioni presidenziali

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    Dieci ospiti alla porta dell’Ue. L’anno in cui i Ventisette hanno rotto gli indugi sul processo di allargamento dell’Unione

    Bruxelles – Un anno di stravolgimenti nella politica internazionale scatenati dall’invasione russa dell’Ucraina hanno lasciato un segno a diversi livelli sul continente europeo e sull’Unione a 27. Ma dopo quasi due decenni di stagnazione e di progressi a rilento, il rischio di destabilizzazione del Cremlino nei Paesi partner più stretti dell’Unione Europea ha segnato una svolta positiva nel processo di allargamento Ue, in un 2022 che ha visto un’ondata di novità tra nuovi Paesi candidati all’adesione – o in attesa di risposta – e altri nuovi avviati sulla strada dei negoziati. In totale 10 capitali che guardano all’Unione come la propria futura casa.
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio dal presidente Volodymyr Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano Irakli Garibashvili e della presidente moldava Maia Sandu. In soli quattro giorni (7 marzo) gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio (Coreper) hanno concordato di invitare la Commissione a presentare un parere su ciascuna delle domande di adesione presentate dai tre Paesi richiedenti, da trasmettere poi al Consiglio per la decisione finale sul primo step del processo di allargamento Ue.
    Prima di dare il via libera formale, un mese più tardi (8 aprile) a Kiev la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, ha consegnato al presidente Zelensky il questionario necessario per il processo di elaborazione del parere della Commissione, promettendo che sarebbe stata “non come al solito una questione di anni, ma di settimane”. Lo stesso ha fatto il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a margine del Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo l’11 aprile. Meno di settanta giorni dopo, il 17 giugno il gabinetto von der Leyen ha dato la luce verde a tutti e tre i Paesi, specificando che Ucraina e Moldova meritavano subito lo status di Paesi candidati, mentre la Georgia avrebbe dovuto lavorare su una serie di priorità. La decisione ufficiale è arrivata al Consiglio Europeo del 23 giugno, che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue.
    L’avvio dei negoziati di Albania e Macedonia del Nord
    Ma il 2022 non è stato memorabile a proposito dell’allargamento Ue solo per l’attenzione rivolta da Bruxelles verso Est. Dal 2004 (anno in cui l’Unione è passata da 15 a 25 membri) si è messa in moto la politica di avvicinamento dei Balcani Occidentali, ma senza nessun nuovo ingresso – fatta eccezione per la Slovenia nel 2004 e la Croazia nel 2013 – da allora. La situazione più delicata negli ultimi anni si è registrata con Albania e Macedonia del Nord, pronte ad avviare i negoziati di adesione all’Unione già nel 2019 e che solo dopo le aspre tensioni dell’ultimo anno sono state ammesse ai tavoli negoziali. Tirana e Skopje sono candidate rispettivamente dal 2014 e 2005 (con un’attesa per la risposta di cinque anni e mezzo per la prima e di quasi due anni per la seconda) e sono legate dallo stesso dossier, ovvero possono avanzare solo insieme.
    Da sinistra: il primo ministro della Repubblica Ceca e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Petr Fiala, della Macedonia del Nord, Dimitar Kovačevski, dell’Albania, Edi Rama, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (19 luglio 2022)
    Il processo di allargamento Ue a Skopje è stato ostacolato fino al 2018 dalla Grecia, per la contesa identitaria e sul cambio del nome del Paese balcanico: solo con gli Accordi di Prespa la Repubblica di Macedonia è diventata Repubblica della Macedonia del Nord. A quel punto la Commissione Ue ha stimolato due volte il Consiglio Ue ad aprire i negoziati di adesione con i due Paesi, ma il 19 ottobre 2019 Francia, Danimarca e Paesi Bassi hanno chiuso la porta a Tirana, chiedendo di implementare le riforme strutturali prima di sedersi ai tavoli negoziali. Dopo cinque mesi, al Consiglio del 25-26 marzo 2020, è arrivato il via libera dei Ventisette, prima di un nuovo stop determinato dal veto della Bulgaria all’avvio dei negoziati di adesione di Skopje il 9 dicembre 2020. A nulla sono serviti due vertici Ue-Balcani Occidentali – il primo a Kranji (Slovenia) nel 2021 e il secondo il 23 giugno a Bruxelles – per trovare una via d’uscita.
    La svolta si è concretizzata solo grazie alla spinta decisiva della presidenza di turno francese del Consiglio dell’Ue, con la proposta di mediazione tra Sofia e Skopje per risolvere una disputa storico-culturale che ha provocato la frustrazione di tutti i leader balcanici. Grazie a questa iniziativa il Parlamento bulgaro ha revocato il veto il 24 giugno e sono iniziate le trattative con Skopje, che considerava “irricevibile” la prima versione del testo. Dopo il discorso della presidente von der Leyen al Parlamento nazionale il 14 luglio per placare le tensioni e divisioni che si sono registrate nel Paese proprio in merito della proposta francese, anche i deputati macedoni hanno dato il via libera al compromesso e il 17 luglio è stato firmato il protocollo bilaterale tra Bulgaria e Macedonia del Nord. Solo due giorni più tardi il momento atteso da tre anni, con l’avvio dei negoziati di adesione Ue di Tirana e Skopje e le prime conferenze intergovernative svoltesi a Bruxelles. Albania e Macedonia del Nord sono diventate il quarto e quinto Paese candidato ad aprire i capitoli di negoziazione nell’ambito del processo di allargamento Ue.
    Il cammino degli altri balcanici
    A completare il quadro dei successi dell’allargamento Ue nel 2022 ci sono Bosnia ed Erzegovina e Kosovo, che hanno fatto progressi nel loro cammino di avvicinamento all’Unione. Per quanto riguarda Sarajevo (che ha fatto domanda di adesione nel 2016) il primo momento di svolta è arrivato nel corso del vertice dei leader Ue del 23 giugno, quando le tre ‘colombe’ in Consiglio – Slovenia-Croazia-Austria – avevano bloccato le discussioni su Ucraina e Moldova fino a quando non si fosse trovata almeno una parziale risposta alla questione bosniaca. Il breve stallo ha portato alla decisione di conferire anche alla Bosnia ed Erzegovina la prospettiva europea (come alla Georgia), con l’obiettivo di “tornare a decidere nel merito” quanto prima, a condizione che la Commissione riferisse “senza indugio” sull’attuazione delle 14 priorità-chiave.
    Il ponte di Mostar (Bosnia ed Erzegovina) illuminato con la bandiera dell’Unione Europea
    La leader dell’esecutivo comunitario von der Leyen ha continuato a inviare segnali incoraggianti alla Bosnia ed Erzegovina sul suo coinvolgimento nell’allargamento Ue, sia con la raccomandazione al Consiglio di concedere lo status di candidato all’adesione arrivata il 12 ottobre, sia con un discorso particolarmente appassionato a Sarajevo nel corso del suo viaggio nelle capitali balcaniche per annunciare il supporto energetico dell’Unione alla regione (28 ottobre). Dopo aver valutato il parere della Commissione, l’ultimo vertice dei leader Ue del 15 dicembre ha dato il via libera alla concessione alla Bosnia ed Erzegovina dello status di Paese candidato all’adesione Ue, sottolineando allo stesso tempo la necessità di implementare le riforme fondamentali nei settori dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali, del rafforzamento delle istituzioni democratiche e della pubblica amministrazione. Nel processo di allargamento Ue Sarajevo è diventato l’ottavo candidato all’adesione.
    Per quanto riguarda il Kosovo, la situazione è resa complicata da due fattori: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza dalla Serbia nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e allo stesso tempo con Belgrado è in atto un dialogo più che decennale mediato da Bruxelles sulla normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi che ancora non ha portato a un accordo definitivo. Mentre si sono riaccese aspre tensioni a partire da fine luglio con la Serbia per il controllo politico del nord del Kosovo, Pristina ha comunque deciso di puntare tutto sul processo di allargamento Ue e ha iniziato a fine agosto i lavori per presentare la domanda di adesione all’Unione. Mentre l’opinione pubblica internazionale era concentrata sulla cosiddetta ‘battaglia delle targhe‘ e a carpire i dettagli della proposta franco-tedesca sulla mediazione finale nel 2023, il 6 dicembre al vertice Ue-Balcani Occidentali di Tirana la presidente Vjosa Osmani ha confermato che la lettera era pressoché ultimata. Otto giorni più tardi è stata firmata a Pristina la richiesta formale per ottenere lo status di Paese candidato e consegnata dal premier Albin Kurti alla presidenza di turno ceca del Consiglio dell’Ue il 15 dicembre a Praga.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e il ministro ceco per gli Affari europei e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Mikuláš Bek (15 dicembre 2022)
    Meno positivo è invece il quadro degli altri tre Paesi coinvolti nel processo di allargamento Ue (che dal 22 giugno 2021 è stato riformato con una nuova metodologia). Il Montenegro sta portando avanti i negoziati di adesione dal 2012 e al momento è il Paese allo stadio più avanzato. Tuttavia la crisi istituzionale che ha paralizzato Podgorica negli ultimi due anni e mezzo ha determinato uno stallo prolungato sui capitoli negoziali relativi allo Stato di diritto, in particolare il 23 (potere giudiziario e diritti fondamentali) e il 24 (giustizia e affari interni). La Serbia ha avviato i negoziati di adesione nel 2014 e quest’anno ha conosciuto una forte battuta d’arresto a causa della guerra russa in Ucraina: nel tentativo di seguire una politica di non-allineamento tra Bruxelles e Mosca, Belgrado non si è allineata alle sanzioni internazionali contro la Russia, ma per l’Ue non è concepibile che un partner candidato all’adesione non si allinei Politica estera e di sicurezza comune (Pesc). Infine, nel processo di allargamento Ue sarebbe coinvolta dal 1987 anche la Turchia: il Paese ha ottenuto lo status di candidato nel 1999 e ha avviato i negoziati di adesione nel 2005. Tuttavia, a causa delle continue provocazioni nel Mediterraneo orientale e delle violazioni dello Stato di diritto da parte del presidente Recep Tayyip Erdoğan, non c’è all’orizzonte nessun tipo di avanzamento.
    Come funziona il processo di allargamento Ue
    Il processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).
    Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.
    Per i Balcani Occidentali è previsto un processo parallelo – e separato – ai negoziati di adesione all’Unione, che ha comunque un impatto sull’allargamento Ue. Il processo di stabilizzazione e associazione è finalizzato ad aiutare i partner balcanici per un’eventuale adesione, attraverso obiettivi politici ed economici che stabilizzino la regione e creino un’area di libero scambio. Dopo la definizione di un quadro generale delle relazioni bilaterali tra l’Unione Europea e il Paese partner, la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione offre la prospettiva futura di adesione.

    Dai nuovi candidati Bosnia ed Erzegovina, Moldova e Ucraina all’apertura dei negoziati con Albania e Macedonia del Nord dopo 3 anni di stallo, fino alla candidatura di Georgia e Kosovo. Il rischio di destabilizzazione russa ha dato uno scossone ai tentennamenti dei Ventisette

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    I ministri degli Esteri di Slovenia e Austria sono in Montenegro su mandato Ue per affrontare la crisi istituzionale

    Bruxelles – In missione per conto dei Ventisette. I ministri degli Esteri di Slovenia, Tanja Fajon, e Austria, Alexander Schallenberg, sono oggi (mercoledì 21 dicembre) in Montenegro per una missione voluta dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, per affrontare una situazione sempre più instabile nel Paese balcanico che finora si è potuto fregiare del titolo di ‘più avanzato sulla strada di adesione all’Ue’ tra i 10 che sono coinvolti nel processo di allargamento dell’Unione.
    Il primo ministro ad interim del Montenegro, Dritan Abazović, e il il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    “Il Montenegro è uno dei partner più stretti dell’Unione Europea, a buon punto nei negoziati di adesione e con il più lungo record di pieno allineamento con la politica estera e di sicurezza comune dell’Ue”, è quanto specifica il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), senza nascondere che “la visita giunge in un momento in cui i recenti sviluppi politici hanno provocato una grave crisi istituzionale, minando le istituzioni democratiche e rallentando i progressi del Paese nel suo percorso di adesione”. La questione più urgente per Bruxelles riguarda “il sostegno da parte di tutti gli attori politici alla piena funzionalità delle istituzioni, in particolare della Corte Costituzionale“, che rappresenta una delle condizioni prioritarie per “avanzare verso l’adesione all’Ue, auspicata dalla stragrande maggioranza dei cittadini montenegrini”. Lo dimostrerebbero le bandiere dell’Unione Europea sventolate dai manifestanti che stanno protestando a Podgorica contro la nuova legge sui poteri presidenziali.
    Il messaggio (e la missione stessa) dei due ministri al presidente montenegrino, Milo Đukanović, alla leader dell’Assemblea nazionale, Danijela Đurović, e al primo ministro ad interim, Dritan Abazović, dimostra quanto per i Ventisette e per le istituzioni comunitarie sia diventata preoccupante la situazione nel Paese balcanico. Mentre lunedì scorso (12 dicembre) una maggioranza risicata di forze filo-serbe all’Assemblea nazionale ha approvato una contestata legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo, a Podgorica non sono ancora stati nominati tutti i membri della Corte Costituzionale (unico organismo che può valutare la legge stessa). Ecco perché Bruxelles non considera il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei. “La nomina dei membri della Corte Costituzionale è necessaria per salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini”, ha già messo in chiaro il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi.

    📢At their joint press conference today Foreign Affairs Ministers of 🇦🇹Austria @a_schallenberg & 🇸🇮Slovenia @tfajon sent important messages for 🇲🇪 Montenegro’s 🇪🇺 European future. Watch here 👇 https://t.co/5o3F02STaY
    — Oana Cristina Popa 🇪🇺 (@EUAmbME) December 21, 2022

    La crisi istituzionale in Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Abazović. Lo scorso 4 febbraio era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni per la primavera del 2023.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Montenegro, Milo Đukanović
    Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Unione Europea. Da allora Abazović è premier ad interim, mentre si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare la maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne.
    Dopo il primo via libera di inizio novembre alla legge contestata da parte dell’Assemblea nazionale, la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo del 12 dicembre con un solo deputato in più rispetto alla soglia-limite della maggioranza. La legge permetterà ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato: in caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrà l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese Đukanović ha proposto di tornare alle urne – a due anni dalle ultime elezioni parlamentari – dopo essersi rifiutato di confermare come nuovo primo ministro il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno.
    Rimane evidente che né la maggioranza né l’opposizione sembrano in grado di formare un governo stabile e il voto sembrerebbe la soluzione più efficace, per permettere agli elettori di esprimersi su quale indirizzo dovrà prendere il Paese. In questo contesto in Montenegro sta emergendo un nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento, Europe Now, che si è fatto conoscere con il secondo posto (21,7 per cento dei voti e 13 seggi su 58 in Assemblea cittadina) alle amministrative di ottobre nella capitale montenegrina.

    Tanja Fajon e Alexander Schallenberg sono stati incaricati dall’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, di ribadire a Podgorica che l’adesione all’Unione passa dalla piena funzionalità della Corte Costituzionale. Proseguono le proteste contro l’adozione della legge sui poteri presidenziali

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    L’Ue rischia di avere un problema con il Montenegro nel processo di allargamento nei Balcani Occidentali

    Bruxelles – L’appellativo di ‘Paese più avanzato sulla strada di adesione all’Ue’ rischia di diventare un lontano ricordo per il Montenegro, considerati gli sviluppi politici dell’ultimo mese. Violente proteste sono scoppiate nella capitale Podgorica lunedì (12 dicembre) davanti alla sede dell’Assemblea nazionale, mentre una maggioranza risicatissima di forze filo-serbe ha dato il via libera a una contestata legge sui poteri presidenziali, che ha diversi tratti di potenziale incostituzionalità.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Montenegro, Milo Đukanović
    La gravità della crisi politico-istituzionale nel Paese balcanico ha raggiunto livelli allarmanti, anche considerato il fatto che manca ancora la nomina di tutti i membri della Corte Costituzionale. Senza la piena operatività dell’unico organismo che può valutare la legge sui poteri di nomina dell’esecutivo, lo stesso voto dell’Assemblea nazionale viene considerato dalle istituzioni internazionali non in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia (organo consultivo del Consiglio d’Europa, che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei). “La nomina dei membri della Corte Costituzionale è necessaria per salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini”, ha messo in chiaro il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. Per Bruxelles “tutte le parti politiche interessate devono agire con urgenza per garantire la funzionalità operativa” della Corte, ha aggiunto il commissario, ribandendo che “per proseguire il percorso europeo, è necessario anche rispettare la decisione della Commissione di Venezia“.
    A scatenare le dure reazioni dei manifestanti montenegrini e le critiche internazionali è il via libera con una maggioranza risicatissima di 41 deputati (su 81) agli emendamenti alla legge sui poteri presidenziali da parte dell’Assemblea nazionale. Già lo scorso primo novembre, con la stessa maggioranza, era arrivata la prima approvazione al disegno di legge che permetterà agli stessi parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrà l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato.
    Il premier dimissionario del Montenegro, Dritan Abazović
    Secondo la Costituzione del Montenegro il presidente deve organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro 30 giorni. Tuttavia, lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese, Milo Đukanović, ha proposto di tornare alle urne – a due anni dalle ultime elezioni parlamentari – dopo essersi rifiutato di confermare il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, come nuovo primo ministro, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno. Il premier dimissionario, Dritan Abazović, ha scaricato le responsabilità della fragilità istituzionale sui presunti abusi dei diritti costituzionali da parte di Đukanović, mentre il Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del leader montenegrino ha definito l’approvazione della legge un “colpo di stato costituzionale”.
    “Tutti gli attori politici in Montenegro devono agire con urgenza per garantire la funzionalità operativa della Corte Costituzionale e revocare gli emendamenti alla legge sui poteri del presidente, è fondamentale che tutti esercitino la massima moderazione e si astengano da ulteriori atti provocatori”, ha attaccato la portavoce della Commissione Ue per la Politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero. Il Montenegro “ha perso un’altra occasione per porre fine alla lunga crisi istituzionale”, dal momento in cui una Corte Costituzionale “pienamente funzionante e composta da membri competenti è fondamentale per salvaguardare i diritti fondamentali dei cittadini e progredire nel suo percorso europeo“, ha aggiunto la portavoce, chiedendo a Podgorica di “portare avanti senza indugio un processo di selezione adeguato e inclusivo”.
    L’instabilità del Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici, dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Abazović. Lo scorso 4 febbraio era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni nella primavera 2023.
    Il premier dimissionario del Montenegro, Dritan Abazović, e il il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Lo stesso governo Abazović è crollato però il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Unione Europea. Da allora a Podgorica si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare l’iniziale maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne.
    Dopo gli sviluppi del primo novembre all’Assemblea nazionale la tensione è aumentata esponenzialmente, fino al voto risicatissimo del 12 dicembre. Rimane evidente che né la maggioranza né l’opposizione sembrano in grado di formare un governo stabile e il voto sembrerebbe la soluzione più efficace, per permettere agli elettori di esprimersi su quale indirizzo dovrà prendere il Paese. In questo scenario va fatta attenzione a Europe Now, nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento, che ha fatto registrare un notevole exploit alle amministrative di ottobre nella capitale montenegrina. La priorità rimane però la nomina di tutti i membri della Corte Costituzionale, mentre quello che fino a oggi poteva fregiarsi del titolo di ‘Paese più avanzato sulla strada di adesione all’Ue’ sta rischiando di scivolare verso il caos istituzionale.

    Diventano sempre più violente le proteste a Podgorica contro l’adozione della legge sui poteri presidenziali da parte dell’Assemblea nazionale, che violerebbe la Costituzione. L’Ue denuncia anche la mancata nomina dei membri della Corte Costituzionale, perché abbia pieni poteri

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    L’Ue è sempre più preoccupata per l’aggravamento della crisi in Montenegro

    Bruxelles – Poco meno di due settimane fa aveva fatto rumore il mancato arrivo a Podgorica della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, l’ultima delle sei tappe del viaggio nei Balcani Occidentali rinviata “per maltempo”. Ma più del ritardo nell’annuncio dell’importo per il sostegno diretto di Bruxelles al bilancio nazionale contro la crisi energetica, il rinvio della visita in Montenegro ha privato la numero uno della Commissione della possibilità di rendersi conto di persona del livello di gravità della crisi politico-istituzionale nel Paese balcanico.
    Da giorni si stanno svolgendo regolarmente nella capitale del Montenegro manifestazioni contro l’adozione di una nuova legge sui poteri presidenziali e per la presunta violazione della Costituzionale da parte dell’Assemblea nazionale. Con una maggioranza risicatissima di 41 deputati (su 81), lo scorso primo novembre il Parlamento montenegrino ha dato il via libera a una legge che permette agli stessi parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente ha l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato.
    Il presidente del Montenegro, Milo Đukanović, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (29 settembre 2021)
    Secondo la Costituzione del Montenegro il presidente deve organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro 30 giorni. Tuttavia, lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese, Milo Đukanović, ha proposto di tornare alle urne dopo due anni dalle ultime elezioni parlamentari, dopo essersi rifiutato di confermare il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, come nuovo primo ministro, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno. “Il presidente sta spingendo il Montenegro verso la destabilizzazione istituzionale e quindi verso il vuoto“, ha attaccato il premier dimissionario, Dritan Abazović, scaricando la responsabilità della fragilità istituzionale sui presunti abusi dei diritti costituzionali da parte di Đukanović.
    “L’Ue è profondamente preoccupata per il voto del primo novembre nel Parlamento del Montenegro”, si legge in una nota del portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano: “Tutti gli atti legislativi dovrebbero essere in linea con la Costituzione, tutte le parti politiche interessate dovrebbero astenersi da qualsiasi azione che potrebbe aggravare ulteriormente la crisi istituzionale e minare le istituzioni democratiche del Paese”. Anche il relatore del Parlamento Ue per il Montenegro, Tonino Picula, si è detto “seriamente preoccupato” per gli ultimi eventi nel Paese balcanico, dal momento in cui “la crisi politica in corso influisce negativamente sull’agenda europea” di Podgorica.
    Da parte di Bruxelles una soluzione praticabile per “porre fine all’attuale situazione di stallo” risiede nel “dare priorità alla costruzione del consenso e alla nomina urgente dei membri della Corte Costituzionale” – in occasione del voto parlamentare del 22 novembre – perché “la piena funzionalità della Corte è fondamentale per garantire la legittimità delle elezioni democratiche“. Tutto questo si inserisce nel quadro dell’adesione del Montenegro all’Unione Europea, definita da Stano una “scelta strategica della stragrande maggioranza dei cittadini” e “l’obiettivo pubblicamente dichiarato dalla maggior parte degli attori politici”, che deve inevitabilmente passare dalla “funzionalità delle istituzioni democratiche” e dal “rafforzamento dello Stato di diritto”.

    I am seriously concerned about the latest events in #Montenegro and the ongoing political crisis that negatively affects the country’s EU agenda.
    The constitution is the foundation of the rule of law, and all legislative decisions must align with it.
    — Tonino Picula (@TPicula) November 3, 2022

    L’instabilità del Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici, dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Abazović. Lo scorso 4 febbraio era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni nella primavera 2023.
    Il premier dimissionario del Montenegro, Dritan Abazović
    Lo stesso governo Abazović è crollato però il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Unione Europea. Da allora a Podgorica si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare l’iniziale maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne.
    Dopo il voto del primo novembre la tensione ha raggiunto il culmine, con reciproche accuse dai banchi dell’Assemblea nazionale di “violare la sovranità del Montenegro” stabilita con il referendum del 2006 e di voler “impedire il corso parlamentare naturale”. Sta di fatto che né la maggioranza né l’opposizione sembrano in grado di formare un governo stabile e il voto sembrerebbe la soluzione più efficace, per permettere agli elettori di esprimersi su quale indirizzo dovrà prendere il Paese (anche considerato l’exploit alle amministrative di ottobre a Podgorica di Europe Now, nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento). Da giorni le strade della capitale sono piene di migliaia di cittadini, che manifestano contro possibili violazioni della Costituzione sventolando bandiere del Montenegro e dell’Unione Europea. Già questa è una prima indicazione di quale sia considerata la destinazione naturale del Paese per una parte consistente della popolazione, stanca dell’instabilità politico-istituzionale ormai cronica.

    New protests in Montenegro. https://t.co/OOjoI9wirP
    — Ivana Stradner 🇺🇸🇺🇦 (@ivanastradner) November 8, 2022

    Da una settimana sono in corso nella capitale Podgorica proteste contro l’adozione di una nuova legge sui poteri presidenziali da parte dell’Assemblea nazionale che violerebbe la Costituzione. Da Bruxelles arrivano esortazioni sulla “nomina urgente dei membri della Corte Costituzionale”