More stories

  • in

    L’Italia ha aperto alla possibilità di ‘spacchettare’ il dossier macedone-albanese per sbloccare l’adesione UE di Tirana

    Bruxelles – Tra fallimenti, accuse e proposte per sbloccare gli stalli, la due giorni di vertici – dei leader UE e con i Balcani Occidentali – ha lasciato il segno anche per l’Italia. Per la prima volta, il governo italiano ha aperto esplicitamente alla possibilità di ‘spacchettare’ il dossier sull’adesione UE Macedonia del Nord-Albania, per permettere a Tirana di avanzare con il suo processo senza più attendere che si risolva la controversia tra Skopje e la Bulgaria.
    Nel corso della conferenza stampa post-vertice, il premier Mario Draghi ha messo in chiaro che “uno degli effetti della riunione di ieri è stato che non ci saranno più ritardi” per quanto riguarda l’avanzamento dei sei Paesi balcanici (oltre ai due già nominati, anche Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Montenegro e Serbia). “Da un lato significa che i governi di questi Paesi dovranno impegnarsi nelle riforme richieste, dall’altro lato significa che l’Unione e i suoi membri devono aiutarli”. Tuttavia, il primo ministro italiano ha riferito ai 26 colleghi che “se i lavori sulla Macedonia del Nord si dovessero bloccare di nuovo, chiederemo che l’Albania prosegua da sola“. Quanto suggerito dal premier Draghi è il significato pratico del cosiddetto ‘spacchettamento’. Il dossier sull’allargamento UE che al momento vincola l’una all’altra Tirana e Skopje potrebbe essere diviso in due pacchetti – uno macedone e uno albanese – da affrontare ciascuno indipendentemente dai progressi dell’altro.
    La possibilità ventilata oggi è una novità assoluta per l’Italia, che finora difendeva quella che fonti diplomatiche – nel corso del vertice UE-Balcani Occidentali dello scorso anno a Kranj (Slovenia) – definivano “una questione di coerenza“. Tra il 2018 e il 2019 – e fino al Consiglio UE del marzo 2020 – il dossier macedone-albanese si era bloccato in Consiglio per l’opposizione di Francia, Danimarca e Paesi Bassi, con la richiesta di implementare le riforme strutturali in particolare dell’Albania, mentre la Macedonia del Nord era pronta a cominciare. Allora l’Italia aveva deciso che fosse prioritario mandare il messaggio alla regione che nessun Paese sarebbe stato lasciato indietro. Dopo il veto bulgaro nel dicembre 2020 all’avvio dei negoziati con Skopje, la situazione si è ribaltata e l’Italia ha voluto mantenere la posizione “seria” di rinunciare a fare giravolte sulle promesse fatte fino a pochi mesi prima.
    Il possibile passo indietro deriva invece dal persistere di una situazione di stallo tra Bulgaria e Macedonia del Nord che sembra non si riesca a risolvere, a causa della decisione di Sofia di non rinunciare al proprio diritto di veto in seno al Consiglio sull’avvio dei negoziati, per una disputa bilaterale di natura storico-culturale. Le frustrazioni stanno montando non solo a Skopje, ma anche a Tirana, che si sta vedendo negare da anni l’apertura dei capitoli negoziali senza nemmeno essere direttamente coinvolta nella contesa. Lo ha evidenziato con particolare durezza il premier Edi Rama nel corso della conferenza stampa post-vertice UE-Balcani Occidentali: “Sono dispiaciuto per l’UE, incapace di liberare due ostaggi, che sono anche membri NATO, dalla Bulgaria“. Qualche speranza ora è rappresentata dal voto favorevole del Parlamento di Sofia alla revoca del veto all’avvio dei negoziati di adesione della Macedonia del Nord – e di conseguenza anche dell’Albania – ma le condizioni altamente sfavorevoli per Skopje rendono probabili ulteriori rallentamenti nel prossimo futuro. Il premier Draghi, come tutti i leader dell’Unione, ne è consapevole: ecco perché gli anni del temporeggiamento sono finiti e anche lo ‘spacchettamento’ del dossier macedone-albanese non sarà più un tabù per l’Italia.

    Il premier, Mario Draghi, ha annunciato che “se i lavori sulla Macedonia del Nord si dovessero bloccare di nuovo, chiederemo che Tirana prosegua da sola”. Finora il governo italiano si è attenuto a un “principio di coerenza” sul mantenere legati i due cammini verso l’adesione

  • in

    L’irricevibile proposta francese per lo sblocco dei negoziati di adesione della Macedonia del Nord all’Unione Europea

    Bruxelles – Con la revoca del veto della Bulgaria all’avvio dei negoziati di adesione UE della Macedonia del Nord approvata oggi (venerdì 24 giugno) dal Parlamento di Sofia, si iniziano già a sentire le fanfare del momento storico per lo sblocco di uno stallo divenuto ormai cronico. Il presidente francese, Emmanuel Macron, artefice della proposta ‘risolutoria’ – a cui Eunews ha avuto accesso – ha già iniziato a esultare per “l’inizio dei lavori sulla formalizzazione di un accordo nei prossimi giorni, la macchina si è avviata” e probabilmente, in tutto questo trionfalismo, si cercherà di aprire presto i negoziati (il commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, già punta alla convocazione delle prime conferenze intergovernative).
    Ma basta spostarsi di un paio di centinaia di chilometri dalla sede del Parlamento bulgaro per capire che per la controparte macedone la proposta francese è semplicemente irricevibile. Fonti qualificate a Skopje, che conoscono a fondo la proposta, in un briefing con Eunews hanno definito così il tentativo di trasferire a livello di negoziati tra UE e Paese candidato una questione bilaterale – con la Bulgaria – di natura puramente identitaria, con pesanti conseguenze sullo stesso processo di allargamento dell’Unione. In tutti gli sforzi passati delle presidenze del Consiglio dell’UE che hanno preceduto quella francese da metà 2020 (tedesca, portoghese e slovena) la linea rossa da non varcare sul futuro negoziato con Skopje era proprio questa, mentre l’Eliseo ha deciso di forzarla. Le stesse fonti hanno riferito che la maggior parte dei governi UE la considerano un “vaso di Pandora”, che solo il commissario ungherese Várhelyi aveva osato socchiudere: se aperto, potrebbe portare alla “morte” del processo di allargamento.
    Ci sono tre elementi che giustificano le rimostranze di Skopje e che fanno parlare di una delocalizzazione del problema, più che di revoca del veto bulgaro. Per prima cosa, l’UE imporrebbe alla Macedonia del Nord di includere la componente bulgara nel preambolo della Costituzione nazionale, non come minoranza ma come popolo costituente, con l’inizio della riforma da programmare prima dell’inizio dei negoziati. Il problema è che il governo non può contare sulla maggioranza dei due terzi in Parlamento per cambiare la Carta fondamentale del Paese (ammesso e non concesso che abbia intenzione di farlo) e che alcuni partiti al governo hanno già annunciato che in caso di via libera sono pronti a farlo cadere. “Significherebbe un’agonia per trovare una maggioranza nei prossimi anni”, hanno spiegato le fonti di Skopje, rilevando la contemporanea intransigenza di Sofia, che “inequivocabilmente” non riconoscerà nel corso dei negoziati di adesione UE la lingua e “qualsiasi menzione” di natura identitaria macedone. Una chiara violazione dell’articolo 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), che prevede il “rispetto della ricchezza della sua diversità culturale e linguistica” del patrimonio culturale europeo.
    Il premier della Macedonia del Nord, Dimitar Kovačevski, con il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, a Bruxelles
    Seconda criticità. Come si legge nella nuova proposta che modificherebbe la posizione del Consiglio del dicembre 2020, durante il rilevamento dei progressi nei negoziati attraverso gli annuali Pacchetti allargamento della Commissione, si assisterebbe a un’inedito screening di DG NEAR (il direttorato generale responsabile delle politiche in materia di allargamento UE) sulle questioni storiche, culturali e di istruzione. Nulla che sia previsto dai criteri di Copenaghen, cioè le basilari condizioni democratiche, economiche e politiche (istituzioni stabili, Stato di diritto, diritti umani, economia di mercato, capacità di mantenere l’impegno) che devono essere rispettate dal Paese candidato.
    A questo si aggiunge il fatto che nel cluster Fundamentals’ sono stati inseriti nuovi paragrafi che non sono mai stati previsti nella storia dell’allargamento: tra questi una serie di elementi – hate speech, storia, istruzione – che vanno al di là della tradizionale definizione di ‘protezione dei diritti delle minoranze’. Questo elemento porta direttamente al terzo e più preoccupante problema: i report della Commissione dovranno passare dall’approvazione degli Stati membri, perché possano mantenere il pieno controllo dei negoziati, ancora sotto la scure dell’unanimità. In altre parole, se la Bulgaria deciderà di mettere il veto alla posizione del Consiglio sui cluster – quello sui principi fondamentali sarà il primo ad aprirsi e l’ultimo a chiudersi – non se ne farà niente. Come nell’ultimo anno e mezzo.
    Per tutte queste ragioni è chiaro che a Skopje non c’è spazio per la proposta francese “e forse è un bene per l’autorità morale dell’UE nella regione”. Le fonti macedoni pongono l’attenzione sul fatto che il primo ministro non ha spazio di manovra politica, ma soprattutto che “sono già stati fatti danni”, avvelenando il processo di allargamento con questioni bilaterali, “che comunque non sarebbero risolte”. Questa decisione del presidente francese Macron è frutto quantomeno della fretta di cercare “qualche successo, anche se è falso” sullo stato di avanzamento dell’allargamento alla regione balcanica, considerate le contemporanee richieste di adesione di Ucraina, Moldova e Georgia. È necessaria però una riflessione su cosa sta diventando il processo di allargamento in ostaggio dell’unanimità: anche se i negoziati con Skopje iniziassero, il diritto di veto della Bulgaria penderebbe ancora sulla testa dei macedoni.
    A quanto si apprende, il clima generale in Consiglio non è positivo, con la maggioranza degli Stati membri consci del problema anche per l’Unione. La linea che prevale sarebbe un ‘no’, a meno che sia a Sofia sia a Skopje si registrasse un voto favorevole sulla questione (già arrivato dalla Bulgaria, difficilmente dalla Macedonia del Nord). L’opinione pubblica macedone è tendenzialmente contraria e il premier Kovačevski ha già messo in chiaro ieri, al termine del vertice UE-Balcani Occidentali, le linee rosse del suo governo. La speranza è di “non essere soli”, dal momento in cui a Skopje è ancora riconosciuto il credito dell’accordo di Prespa nel 2018 (con la Grecia, sul cambio di nome in Macedonia del Nord) come “campione di compromesso”. I Ventisette – meno uno – sono consapevoli delle ragioni di un’eventuale opposizione: “Sanno che sarebbe balcanizzata l’Unione, quando dovrebbero unire i Balcani“, avvertono con molta cautela le fonti macedoni.
    Una posizione che viene messa in luce anche dall’ex-ministro degli Esteri, Nikola Dimitrov, che in un tweet ha spiegato che “nonostante i titoli dei giornali parlino del via libera di Sofia alla Macedonia del Nord e all’Albania, il testo adottato dice in realtà qualcosa di molto diverso”, considerato il fatto che “il Parlamento ha posto 4 nuove precondizioni e se saranno soddisfatte la Bulgaria potrà sostenere i colloqui di adesione con la Macedonia del Nord”. Proprio lo stesso Dimitrov, in un editoriale per European Western Balkans, ha fatto notare che “il diavolo sta nei dettagli”.

    Although the news headlines speak of Sofia’s green light to North Macedonia & 🇦🇱 the adopted text actually says something very different. The Parliament set 4 new preconditions and once/if they are fulfilled 🇧🇬 will be able to support the accession talks with 🇲🇰 Here they are 1/5
    — Nikola Dimitrov (@Dimitrov_Nikola) June 24, 2022

    Il tentativo di mediazione del presidente Macron porta a livello UE le ragioni del veto di Sofia, creando nuovi ostacoli al cammino di Skopje. Fonti macedoni qualificate spiegano come sarebbero minati i principi dell’intero processo di allargamento

  • in

    Il Parlamento della Bulgaria ha approvato la revoca del veto alla richiesta di adesione UE della Macedonia del Nord

    Bruxelles – Con 170 favorevoli, 37 contrari e 21 astensioni, la sessione plenaria del Parlamento della Bulgaria ha approvato la revoca del veto sull’avvio dei negoziati di adesione all’Unione Europea della Macedonia del Nord. La notizia è stata diffusa dall’ambasciata bulgara presso l’Unione Europea, che ha reso noto il via libera alla proposta di portare i negoziati all’interno di un quadro UE, secondo quanto previsto dalla mediazione avanzata all’inizio del mese dal presidente della Francia (e di turno del Consiglio dell’UE), Emmanuel Macron. Il blocco bulgaro va avanti dal dicembre del 2020, quando Sofia aveva esercitato il proprio decisivo diritto di veto in seno al Consiglio, considerata la necessità di raggiungere l’unanimità tra i Ventisette per dare il via ai negoziati di adesione (sia con la Macedonia del Nord, sia con l’Albania, legata dallo stesso dossier).

    Le parlement bulgare a approuvé les propositions de la @Europe2022FR pour le cadre des négociations d’adhésion de la République de la Macédoine du Nord dans l’UE. 🇪🇺
    — Bulgaria in the EU (@BGPermRepEU) June 24, 2022

    Dopo un vertice UE-Balcani Occidentali fallimentare sul piano dello sblocco dei negoziati di adesione UE della Macedonia del Nord, ieri pomeriggio (giovedì 23 giugno) la commissione Esteri del Parlamento bulgaro aveva dato il via libera alla proposta di mediazione – francese ed europea – che prevede di inserire buona parte delle richieste bulgare nel quadro dei negoziati a livello UE. Contro la proposta si sono schierati i socialisti di BSP, i nazionalisti filo-russi di Vazrazhdane e il movimento populista fondato dallo showman Slavi Trifonov C’è un popolo come questo (ITN), co-responsabile della caduta del governo guidato da Kiril Petkov e del voto di sfiducia arrivato mercoledì (22 giugno), che ha impedito di arrivare a un tentativo di risoluzione della disputa già al summit di ieri. A favore si sono schierati invece il partito Noi continuiamo il cambiamento del premier sfiduciato Petkov, Il Movimento dei Diritti e delle Libertà (minoranza turca) e i conservatori di GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria) dell’ex-premier Boyko Borissov.
    Dopo il voto favorevole del Parlamento bulgaro, la palla passa a Skopje. Ma è proprio qui che potrebbero arrivare altri problemi e non tutti per colpa della controparte macedone. La proposta di mediazione francese prevede di inserire nel quadro negoziale dell’Unione con Skopje buona parte delle richieste bulgare: in altre parole, significa elevare la disputa bilaterale a livello UE, accogliendo – acriticamente – la posizione di Sofia. Una questione particolarmente spinosa, dal momento in cui si tratta di questioni di natura storico-culturale e identitaria, che spaziano dai padri fondatori delle due nazioni alla lingua in uso.
    Il primo ministro della Macedonia del Nord, Dimitar Kovačevski, e l’omologo della Bulgaria, Kiril Petkov (25 gennaio 2022)
    La questione identitaria è dominante nella disputa tra Bulgaria e Macedonia del Nord. Sofia non riconosce l’esistenza di una nazione macedone distinta da quella bulgara, negando la possibilità di utilizzare l’attributo ‘macedone’ in ogni aspetto socio-culturale. Ne deriva di conseguenza l’opposizione al riconoscimento dell’esistenza di una minoranza macedone sul proprio territorio, o di una bulgara in Macedonia del Nord, dal momento in cui si tratterebbe dello stesso popolo (anche se Sofia esige che venga inserita nel preambolo della Costituzione macedone, tra i popoli costituenti). Questa intransigenza si riflette anche in ambito linguistico: secondo il governo di Sofia la lingua macedone altro non è che un dialetto del bulgaro, artificialmente elevato a lingua sotto il regime di Tito (tra il 1944 e il 1991 la Repubblica Socialista di Macedonia era una delle sei repubbliche della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia).
    Se non esiste un’identità macedone nel presente, non poteva esistere nemmeno nel passato: è così che entrambi i Paesi sostengono di essere eredi esclusivi di alcuni personaggi storici, in particolare Goce Delčev, il patriota che ha dato il via all’insurrezione balcanica anti-ottomana del 1903. Qualche decennio prima, il territorio macedone era stato acquisito dal neonato regno di Bulgaria con il trattato di Santo Stefano, stipulato dopo la guerra russo-turca (1877-78), ma con la seconda guerra balcanica del 1913 era divenuto parte del Regno dei Serbi (poi Regno dei Serbi, Croati e Sloveni al termine della prima guerra mondiale). In virtù di tutte queste considerazioni, Sofia si rifiuta categoricamente di considerare come un’invasione la sua occupazione militare del territorio macedone nel maggio del 1941, quando la Bulgaria monarchica era alleata della Germania nazista. Il motivo è sempre lo stesso: non esiste una nazione macedone distinta da quella bulgara e, al tempo, si trattava di un territorio sottratto alla Bulgaria ingiustamente.

    Con 170 favorevoli, 37 contrari e 21 astensioni, la sessione plenaria ha dato il via libera allo sblocco dello stallo sull’avvio dei negoziati con Skopje. Ora tutta l’attenzione è sul vicino balcanico, che dovrà valutare la proposta di mediazione dell’Unione (presentata dalla presidenza francese)

  • in

    Perché Bulgaria e Macedonia del Nord non riescono a trovare una soluzione alla disputa che blocca l’adesione UE di Skopje

    Bruxelles – Raccolte le macerie del fallimento del vertice UE-Balcani Occidentali, per tutti i convenuti a Bruxelles è tempo di guardare oltre e capire quali sono le prospettive per mettere in salvo i resti del processo di allargamento dell’Unione nella regione. Senza entrare nel merito delle aspettative tradite su Kosovo e Bosnia ed Erzegovina (a cui solo in serata i leader UE hanno cercato di mettere una pezza), può essere utile capire in quale direzione può andare la questione del veto della Bulgaria all’apertura dei negoziati di adesione della Macedonia del Nord, ma anche dell’Albania, che è legata a Skopje dallo stesso dossier. “Niente è mai facile per i Balcani Occidentali, ma penso che ci potrebbe essere una probabilità del 50, forse 60 per cento di una svolta entro la prossima settimana”, ha fatto sapere alla stampa il premier dei Paesi Bassi, Mark Rutte, a margine del vertice.
    Il primo ministro (sfiduciato) della Bulgaria, Kiril Petkov (23 giugno 2022)
    Ciò a cui si riferisce Rutte è il voto del Parlamento bulgaro sulla proposta francese per risolvere la disputa sull’avvio dei negoziati: questo pomeriggio la commissione Esteri ha dato il via libera e domani (venerdì 24 giugno) si svolgerà la decisiva votazione della sessione plenaria. Contro la proposta del presidente francese, Emmanuel Macron – che prevede di inserire buona parte delle richieste bulgare nel quadro dei negoziati a livello UE – si sono schierati i socialisti di BSP, i nazionalisti filo-russi di Vazrazhdane e il movimento populista fondato dallo showman Slavi Trifonov C’è un popolo come questo (ITN), co-responsabile della caduta del governo guidato da Kiril Petkov e del voto di sfiducia arrivato ieri (mercoledì 22 giugno). Proprio la sfiducia all’esecutivo da parte del Parlamento di Sofia ha impedito di arrivare a una rimozione immediata del veto bulgaro già al vertice UE-Balcani Occidentali di questa mattina. A favore della scelta di affidare in extremis allo stesso primo ministro sfiduciato il mandato di negoziare a Bruxelles lo sblocco dei negoziati sull’adesione della Macedonia del Nord sono il partito Noi continuiamo il cambiamento di Petkov, Il Movimento dei Diritti e delle Libertà (minoranza turca) e i conservatori di GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria) dell’ex-premier Boyko Borissov.
    “Abbiamo messo pressione sulla Bulgaria, con la proposta di integrare richieste compatibili con ciò che la Macedonia del Nord può rispettare“, ha spiegato in conferenza stampa il presidente francese Macron. “Nelle prossime ore dobbiamo aspettarci che il Parlamento bulgaro voti sulla strada europea comune che abbiamo concordato” e, se questo avverrà, “possiamo ritornare al Coreper [gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio, ndr] e sbloccare i negoziati”, ha precisato Macron. Il problema a Sofia è che quasi nessun partito vuole assumersi una responsabilità storica di fronte all’elettorato, in vista di probabili elezioni anticipate. Nonostante il gabinetto Petkov si sia speso per trovare una soluzione alla disputa storico-culturale con Skopje, è compito del Parlamento prendere posizione sulla revoca del veto. Secondo l’ormai ex-premier bulgaro, l’opposizione ha utilizzato la questione macedone per ricattare l’esecutivo ogni volta che si poneva il rischio di mettere in luce i casi di corruzione del precedente gabinetto Borissov, definito da Petkov alla stampa europea “la persona più disonesta che conosca”.
    Il primo ministro della Macedonia del Nord, Dimitar Kovačevski (23 giugno 2022)
    Dall’altra parte della barricata, sponda macedone, il premier Dimitar Kovačevski ha messo in chiaro quali sono le linee rosse di Skopje sulla proposta francese, che “deve garantire alcuni elementi-chiave imprescindibili”. Nel corso della conferenza stampa congiunta con il premier albanese, Edi Rama, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, Kovačevski ha sottolineato che ci deve essere un “chiaro riconoscimento della lingua e dell’identità macedone nel quadro negoziale” a livello UE e che “le questioni storiche non possono essere criteri vincolanti”. Con particolare enfasi, il primo ministro macedone ha messo in chiaro che “i negoziati tra Skopje e l’Unione devono essere avviati prima dell’inizio della procedura per i cambiamenti costituzionali” per l’inclusione nel preambolo della Costituzione macedone di “bulgari, croati e montenegrini come minoranze tutelate al pari delle altre”. Dovranno essere fornite “forti garanzie dalla Bulgaria e dall’UE che Sofia non farà nuove richieste vincolanti su quanto dovrà essere concordato sul quadro negoziale e sul protocollo bilaterale” e che “qualsiasi soluzione dovrà passare dalla consultazione e dall’accordo con le istituzioni macedoni”.
    La cause della disputa
    È dalla fine del 2020 che la Bulgaria ha posto il veto all’adesione UE della Macedonia del Nord per questioni di natura storico-culturale e identitaria, che spaziano dai padri fondatori delle due nazioni alla lingua in uso. Tre anni prima, il primo agosto 2017, era stato firmato il Trattato di amicizia tra i due Paesi, che aveva istituito una commissione accademica congiunta per valutare eventi storici comuni e questioni identitarie controverse. Coincidenza ha voluto che la firma arrivasse a un giorno dell’anniversario della rivolta di Ilinden del 1903, l’insurrezione anti-ottomana che è il caposaldo dell’identità nazionale di entrambi i Paesi (anche se per Skopje sarebbe più corretto riferirsi agli slavo-macedoni, la componente maggioritaria di una società multietnica composta anche di minoranze consistenti di albanesi, serbi, turchi e rom).
    La questione identitaria è dominante nella disputa tra Bulgaria e Macedonia del Nord. Sofia non riconosce l’esistenza di una nazione macedone distinta da quella bulgara, negando la possibilità di utilizzare l’attributo ‘macedone’ in ogni aspetto socio-culturale. Ne deriva di conseguenza l’opposizione al riconoscimento dell’esistenza di una minoranza macedone sul proprio territorio, o di una bulgara in Macedonia del Nord, dal momento in cui si tratterebbe dello stesso popolo (anche se Sofia esige che venga inserita nel preambolo della Costituzione macedone, tra i popoli costituenti). Questa intransigenza si riflette anche in ambito linguistico: secondo il governo di Sofia la lingua macedone altro non è che un dialetto del bulgaro, artificialmente elevato a lingua sotto il regime di Tito (tra il 1944 e il 1991 la Repubblica Socialista di Macedonia era una delle sei repubbliche della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia).
    La storia – come spesso accade – è fonte delle divisioni più dure tra Sofia e Skopje. Se non esiste un’identità macedone nel presente, non poteva esistere nemmeno nel passato: è così che entrambi i Paesi sostengono di essere eredi esclusivi di alcuni personaggi storici, in particolare Goce Delčev, il patriota che ha dato il via all’insurrezione balcanica anti-ottomana del 1903. Qualche decennio prima, il territorio macedone era stato acquisito dal neonato regno di Bulgaria con il trattato di Santo Stefano, stipulato dopo la guerra russo-turca (1877-78), ma con la seconda guerra balcanica del 1913 era divenuto parte del Regno dei Serbi (poi Regno dei Serbi, Croati e Sloveni al termine della prima guerra mondiale). In virtù di tutte queste considerazioni, Sofia si rifiuta categoricamente di considerare come un’invasione la sua occupazione militare del territorio macedone nel maggio del 1941, quando la Bulgaria monarchica era alleata della Germania nazista. Il motivo è sempre lo stesso: non esiste una nazione macedone distinta da quella bulgara e, al tempo, si trattava di un territorio sottratto alla Bulgaria ingiustamente.

    Quali sono le cause della disputa storico-culturale tra Sofia e Skopje che dal 2020 sono alla base del veto bulgaro sull’apertura dei negoziati di adesione macedone (e albanese) all’UE. Si guarda ai prossimi giorni per una svolta, le cui possibilità di riuscita vengono date al 50/60 per cento

  • in

    Questa volta è un fallimento su tutta la linea. L’UE non riesce a rispettare nessuna promessa ai Balcani Occidentali

    Bruxelles – C’è un limite anche all’ottimismo esibito. E al vertice UE-Balcani Occidentali del 23 giugno 2022 è stato superato abbondantemente. Sia chiaro, non è una questione nuova, né inedita, ma a forza di fare promesse e di non rispettarle, prima o poi ci si deve aspettare che la frustrazione si trasformi in disillusione. Dopo anni di negoziati, incontri bilaterali, vertici di alto livello in cui è stata portata avanti la “prospettiva europea” e l’inevitabile “prospettiva dell’adesione” all’Unione per i sei Paesi balcanici (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), il summit di Bruxelles che avrebbe dovuto imprimere una svolta all’inerzia nel processo di allargamento UE nella regione si è dimostrato un nuovo fiasco. Come quello dello scorso anno in Slovenia, ma più grave, perché è passato un altro anno e perché intanto è scoppiata una guerra sul continente europeo.
    Il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, con il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, e della Commissione, Ursula von der Leyen (23 giugno 2022)
    Il fallimento dei Ventisette nei confronti dei Balcani Occidentali si è concretizzato nell’assenza: di progressi su tutti i dossier in agenda, di una dichiarazione conclusiva, di una conferenza stampa al termine del vertice (giustificata dai portavoce del Consiglio con i ritardi della riunione e con l’inizio a stretto giro del vertice dei leader UE). “Sono stati politicamente intelligenti a non presentarsi alla stampa, si sentivano male per quello che è successo dopo essersi spesi tanto, ma c’è qualcosa di guasto nel processo”, ha attaccato il premier albanese, Edi Rama, nel corso di una conferenza stampa congiunta con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier della Macedonia del Nord, Dimitar Kovačevski (che sarebbe dovuta essere parallela a quella dei vertici delle istituzioni comunitarie).
    Oggi si parla di fallimento e non più di fiasco perché gli intensi sforzi degli ultimi mesi per risolvere lo stallo del veto bulgaro all’avvio dei negoziati di adesione all’UE della Macedonia del Nord (e dell’Albania, legata dallo stesso dossier) non hanno prodotto, ancora, nessun risultato concreto. Le speranze di una revoca immediata al veto – che a causa della regola dell’unanimità in Consiglio sta bloccando tutto il processo di adesione – durante il vertice era iniziata a tramontare già ieri, con il voto di sfiducia al governo bulgaro guidato da Kiril Petkov, ma ancora rimanevano delle speranze sul voto favorevole del Parlamento per consegnare in extremis allo stesso primo ministro sfiduciato il mandato di negoziare a Bruxelles lo sblocco dei negoziati sull’adesione di Skopje. Niente di tutto questo è successo e nei confronti di Sofia sono arrivati duri attacchi dai leader balcanici. “Sono passati quasi 18 anni dalla nostra candidatura, ma siamo ancora qui fermi, è un serio problema per la credibilità dell’Unione“, è stato il commento secco del premier macedone, mentre l’omologo albanese ha sottolineato che “anche cambiare nome per la Macedonia non è stato abbastanza [in riferimento all’accordo del 2018 con la Grecia sul cambio di nome in Macedonia del Nord, ndr], pensate se dovessero farlo Francia o Italia per entrare nell’UE”. Secondo Rama, “bisogna dire la verità, la Bulgaria è una disgrazia, ma è solo l’espressione più evidente di un processo di allargamento ormai guasto“.
    Se il biasimo è indirizzato contro Sofia, il “dispiacere” è tutto per l’Unione Europea, “incapace di liberare due ostaggi, che sono anche membri NATO, dalla Bulgaria, proprio nel giorno che chiamano storico”, ha continuato nel suo affondo il premier albanese. “Mentre nel cortile d’Europa c’è la guerra, dentro ci sono 26 Paesi impotenti“, con riferimento alla guerra russa in Ucraina che “ha dimostrato che le minacce non sono teoriche, ma reali”. L’invasione dell’Ucraina ha invece portato “molti problemi” alla Serbia, come ha sottolineato il presidente Vučić: “Non nascondo che c’è stata molta pressione sulla questione del nostro rapporto con la Russia“, in particolare per il non-allineamento alle sanzioni internazionali. Facendo un riferimento implicito alla questione energetica – per cui il Paese si vedrà quasi sicuramente tagliare i rifornimenti di petrolio russo in transito via oleodotto dalla Croazia – il leader serbo ha avvertito che “speriamo di rivederci a dicembre con uno spirito più positivo, ma dovremo superare l’inverno“. Uno strappo sulla questione delle sanzioni è arrivato invece da Tirana: “Non capisco perché Bruxelles voglia spingere così tanto con un Paese che al momento non potrebbe impegnarsi fino a questo punto, senza avere contraccolpi pesanti a livello sociale”, ha dichiarato un po’ a sorpresa Rama, facendo notare che “in Serbia la popolarità di Putin è all’80 per cento, ma Belgrado ha comunque condannato l’aggressione”.
    Un altro fallimento del vertice UE-Balcani Occidentali è stato sul fronte del Kosovo. Per l’ennesima volta non è stato trovato un accordo tra i Paesi membri sulla liberalizzazione dei visti per i cittadini kosovari, nonostante la Commissione abbia già riconosciuto da tempo che Pristina ha soddisfatto tutte le richieste: “Sono ancora in ostaggio, sono l’unico popolo sul suolo europeo che non può muoversi liberamente“, ha riassunto il problema il premier albanese, molto vicino alle posizioni di Pristina: “Ai tempi della Jugoslavia potevano viaggiare anche a Berlino, oggi invece no. È assurdo e impensabile”. Intanto si levano anche malumori sullo stato della Bosnia ed Erzegovina, ferma alla domanda di adesione del 2016, e che proprio oggi senza troppe sorprese sarà sorpassata da destra da Ucraina e Moldova (i leader UE dovrebbero raggiungere l’unanimità sulla concessione dello status di Paesi candidati). Nessun passo avanti sulla proposta di Slovenia, Croazia e Austria di concedere anche a Sarajevo lo status di candidato all’adesione. Per i tre leader balcanici la soluzione al momento è l’iniziativa Open Balkan, “la nostra idea per prenderci cura della nostra regione, senza essere frenati dall’esterno”, come ha rivendicato Vučić. “Ho chiesto il supporto inequivocabile, ma qui a Bruxelles sono divisi anche su quello che facciamo tra di noi“, ha continuato il suo affondo ai Ventisette Rama.
    L’unica prospettiva positiva per la regione al momento rimane la proposta del presidente francese, Emmanuel Macron, di creare una comunità politica europea per rendere più flessibile la cooperazione nel continente europeo e superare la visione binaria dentro/fuori dell’attuale processo di allargamento. “Può essere una piattaforma per il dialogo, ma non può sostituire l’adesione all’UE“, ha precisato il premier Kovačevski, mentre il presidente Vučić ha messo in chiaro che “questa proposta potrebbe essere l’unico modo per noi di essere ascoltati dai nostri colleghi UE”. A riassumere gli umori generali ci ha pensato, di nuovo, il premier Rama: “Dobbiamo supportare l’idea di Macron sugli obiettivi strategici comuni, intanto accettiamo la comunità politica europea per essere insieme nella stessa famiglia, magari nel prossimo secolo saremo anche membri dell’Unione Europea”.

    Anche nel 2022 il summit tra i leader dell’Unione e dei sei Paesi balcanici si chiude con un nulla di fatto. Ma questa volta i malumori nella regione per lo stallo sono espliciti: “La Bulgaria è una disgrazia, ma è solo l’espressione più evidente di un processo di allargamento ormai guasto”

  • in

    Il Bulgaria il governo Petkov è stato sfiduciato. Appese a un filo le speranze di revoca immediata al veto su Skopje nell’UE

    Bruxelles – Non è ancora un naufragio, ma poco ci manca. Con il voto di sfiducia da parte del Parlamento della Bulgaria al governo guidato da Kiril Petkov, si allontanano le speranze per una revoca immediata del veto di Sofia all’avvio dei negoziati per l’adesione UE della Macedonia del Nord (e dell’Albania), possibilmente già durante il vertice UE-Balcani Occidentali di oggi a Bruxelles.
    Il primo ministro della Bulgaria, Kiril Petkov
    Il voto di sfiducia al governo è arrivato nel tardo pomeriggio di ieri (mercoledì 22 giugno) ed è stata una prima volta nella storia politica della Bulgaria: mai nessun esecutivo era caduto in questo modo. A mettere fine a un’esperienza di governo di soli sei mesi sono stati 123 deputati contro 116, complici le divergenze sul bilancio, la linea dura contro la Russia di Putin e anche la disputa sulla proposta francese di far decadere il veto all’avvio dei negoziati di adesione UE per Skopje, inserendo le richieste bulgare nel quadro degli stessi negoziati. A Bruxelles si temeva che fosse l’esecutivo macedone a rischio (ancora molto probabile) e invece a cadere per primo è stato il governo Petkov, che in questi mesi si è speso per trovare una soluzione alla disputa storico-culturale tra Sofia e Skopje con più decisione rispetto al precedente governo di Boyko Borissov, responsabile del veto nel dicembre 2020.
    A proposito dell’ex-premier Borissov, il suo partito conservatore GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria) prima del voto di sfiducia ha voluto precisare che se tornerà al governo sosterrà la revoca del veto ai negoziati con Macedonia del Nord e Albania, rinfocolando l’ultima fiammella di speranza che il processo di allargamento UE non sia davvero arrivato al capolinea. Ma per i due Paesi che attendono rispettivamente da 17 e 8 anni di ottenere la luce verde all’apertura dei capitoli negoziali con l’Unione, credere ancora solo alle promesse per il futuro non è più sufficiente. Ecco perché la destituzione del governo Petkov in Bulgaria rischia di essere un colpo durissimo non solo per la regione balcanica, ma anche per gli altri 26 Paesi membri dell’UE che puntavano al vertice di oggi per dare uno scossone al processo di allargamento.
    La svolta dei Ventisette rispetto all’attendismo generale è arrivata dopo l’invasione russa dell’Ucraina, con la dimostrazione di cosa potrebbe implicare una destabilizzazione su scala maggiore nella penisola balcanica. Oltre alle decisioni che i leader UE dovranno prendere sulle richieste di adesione di Ucraina, Moldova e Georgia, le speranze della vigilia per il vertice UE-Balcani Occidentali – programmato nella stessa giornata del Consiglio – erano rappresentate da qualche risultato concreto che dimostrasse il nuovo approccio dell’Unione alla politica nella regione.
    L’accordo che Petkov era pronto a trovare con il governo macedone di Dimitar Kovačevski poteva essere la punta di diamante di questa strategia, che potrà ancora realizzarsi solo se il Parlamento bulgaro dovesse dare in extremis allo stesso primo ministro sfiduciato il mandato di negoziare a Bruxelles lo sblocco dei negoziati sull’adesione della Macedonia del Nord. “Esortiamo il Parlamento della Bulgaria e tutti i partiti a rispettare il loro impegno e a mettere la proposta sulla Macedonia del Nord e l’Albania all’ordine del giorno, per approvarla oggi come proposto“, ha esortato in un tweet il commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi: “L’opposizione di GERB di Boyko Borissov ha già dato prova di leadership presentando la proposta sul tavolo”, ha aggiunto il commissario, sottolineando che “abbiamo bisogno che tutti facciano lo stesso, l’UE deve muoversi“.

    We urge 🇧🇬 Parl & all parties to fulfill their engagement & to put the proposal on 🇲🇰 & 🇦🇱 on agenda of Parl for approval today as proposed. Opposition #GERB @BoykoBorissov already showed leadership by putting the proposal on table. We need everybody to do same. EU needs to move.
    — Oliver Varhelyi (@OliverVarhelyi) June 23, 2022

    La mozione di sfiducia all’esecutivo bulgaro è stata presentata da GERB, dopo che il movimento populista fondato dallo showman Slavi Trifonov C’è un popolo come questo (ITN) era passato all’opposizione, accusando Petkov di non aver tenuto conto degli interessi della Bulgaria durante i colloqui con Skopje, sotto la pressione degli alleati dell’UE e della NATO. Oltre a GERB e ITN – fatta eccezione per alcuni fuoriusciti – hanno votato a favore della sfiducia anche i centristi di Movimento per i Diritti e le Libertà (MRF) e i nazionalisti filo-russi di Vazrazhdane. A questo punto, se le consultazioni per la formazione di un nuovo governo non daranno risultati positivi, il presidente della Repubblica, Rumen Radev, dovrà indire nuove elezioni entro due mesi. Nel frattempo, fino a quando non verrà nominato un esecutivo provvisorio o non si troverà una nuova intesa di governo, Petkov rimarrà in carica per svolgere l’ordinaria amministrazione e per tentare di trovare i sei deputati che servono per formare una nuova maggioranza. Tutte opzioni al momento improbabili, per cui ci si aspetta che la Bulgaria si appresti ad affrontare la quarta tornata elettorale dall’aprile dello scorso anno.

    L’esecutivo in carica da soli sei mesi è stato destituito dopo il voto di sfiducia. Il maggiore partito di opposizione GERB promette di sostenere lo sblocco dei negoziati di adesione con Macedonia del Nord (e Albania), mentre si attende il voto del Parlamento sulla proposta

  • in

    Il presidente del Consiglio UE Michel chiude il suo viaggio nei Balcani. Ora la partita dell’allargamento si sposta a Bruxelles

    Bruxelles – Lo scorso autunno era stato il momento della presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, che aveva viaggiato nella regione balcanica promettendo che entro la fine del 2021 si sarebbero sbloccati i negoziati di adesione con Albania e Macedonia del Nord. Il vertice UE-Balcani Occidentali di Kranj (Slovenia) non aveva portato a nessun progresso significativo e dopo otto mesi è stato il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, a recarsi in visita nelle sei capitali della regione alla vigilia di un Consiglio in cui sarà centrale il tema dell’allargamento dell’Unione e di un nuovo summit con i leader balcanici (a Bruxelles), dove si discuteranno le difficoltà di un processo che stenta e che ora deve anche affrontare la minaccia della destabilizzazione russa.
    Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel
    Dopo il primo round di incontri a Belgrado, Tirana e Sarajevo a fine maggio, Michel è tornato nella regione per concludere i colloqui con i leader dei Balcani Occidentali, in particolare per sondare gli umori dei partner e per confrontarsi direttamente sulla proposta della comunità geopolitica europea e su quella dell’eventuale riforma del processo di adesione all’UE. Due ipotesi che possono viaggiare in parallelo, dal momento in cui “un’immediata integrazione politica con la possibilità di avere incontri regolari a livello di leader ci aiuterà a fare progressi nel campo dell’integrazione e dell’adesione all’UE”, ha specificato lo stesso numero uno del Consiglio a Podgorica. Come confermato dal presidente del Montenegro, Milo Đukanović, in questa prospettiva – che comunque non tradisca il processo di adesione – è necessario combattere il sentimento euroscettico, “lo strumento che la Russia usa per distruggere l’Europa e rafforzare la sua influenza”.
    Un sentimento che rischia però di essere aggravato dallo stesso atteggiamento dell’Unione Europea nei confronti dei Paesi balcanici. Lo è il caso della Macedonia del Nord (e dell’Albania), ancora bloccata dal veto bulgaro per l’avvio dei negoziati di adesione all’UE in seno al Consiglio: “Non solo può compromettere la politica di allargamento dell’Unione nei Balcani, ma rischia di essere un precedente pericoloso, in grado di annullarlo“, ha avvertito il presidente macedone, Stevo Pendarovski, ospitando Michel a Ohrid. E proprio per il leader dell’istituzione comunitaria l’avvio dei negoziati con Skopje e Tirana è “una priorità assoluta”, per cui si sta impegnando “personalmente insieme ad altri colleghi in tutta l’UE“: tutti sforzi che rendono “fiducioso” Michel su “sviluppi positivi molto presto”. Parallelamente, anche la Macedonia del Nord ha aperto alla comunità politica europea – di cui è stata riconosciuta la paternità francese – a condizione che questa collaborazione non sostituisca la “piena adesione dei Paesi della regione all’Unione Europea”.
    Una discussione a parte meriterà la situazione del Kosovo. Nel suo incontro a Pristina con la presidente kosovara, Vjosa Osmani, Michel ha riconosciuto che gli Stati membri UE dovranno procedere in maniera più decisa sulla questione della liberalizzazione dei visti per l’unico tra i Paesi dei Balcani Occidentali a cui ancora non è garantita. Il governo kosovaro è stato esortato a “partecipare ai forum regionali” – come Open Balkan – “che portano benefici reali alla popolazione e alle imprese”, ma su cui si registrano rimostranze in Kosovo, Montenegro e Bosnia ed Erzegovina per un possibile tentativo della Serbia di estendere l’egemonia sulla regione. Ecco perché per Pristina e Belgrado è necessario impegnarsi nel dialogo agevolato da Bruxelles: “Entrambe le parti devono compiere rapidi progressi nell’attuazione degli accordi precedenti, è tempo di guardare avanti per avanzare sulla strada dell’UE”, è l’esortazione del presidente Michel. Dopo un anno di stallo e di tensioni tra le due capitali, un nuovo round di negoziati a livello tecnico si terrà a Bruxelles martedì prossimo (21 giugno). La speranza è che, a due giorni dal vertice UE-Balcani Occidentali, si possa già segnare un evento nella sezione delle notizie positive per la regione e per l’Unione.

    Dopo la visita in due round che l’ha portato in tutti i sei Paesi balcanici, il numero uno del Consiglio si prepara a ospitare il vertice tra i Ventisette e i leader della regione. Si discuterà delle difficoltà del processo di adesione e della proposta della comunità geopolitica europea

  • in

    Il Parlamento UE non demorde sull’integrazione dei Balcani. Ma avverte Serbia e Bosnia di allinearsi alle sanzioni contro la Russia

    Bruxelles – Nonostante le difficoltà, i ritardi e gli stalli, il Parlamento Europeo non si stanca di ribadire la necessità per tutta l’UE di accelerare il processo di adesione dei Balcani Occidentali. Lo confermano tutte le relazioni sullo stato di avanzamento dell’integrazione europea nei sei Paesi della regione ancora esclusi dall’Unione, comprese le ultime tre votate oggi (martedì 14 giugno) in commissione Affari esteri (AFET). Relazioni che partono dal Pacchetto Allargamento 2021 presentato dalla Commissione Europea nell’ottobre dello scorso anno, analizzando la situazione specifica sia sul piano della tendenza generale sia delle ultime novità politiche e sociali.
    In attesa del voto in sessione plenaria previsto per l’inizio di luglio, la commissione AFET ha completato il suo lavoro, dando il via libera alle relazioni su Bosnia ed Erzegovina, Kosovo e Serbia. Per quanto riguarda la situazione in Bosnia ed Erzegovina, è stata sottolineata la necessità di mettere fine allo stallo politico fatto di retorica d’odio e di ritiro dalle istituzioni statali da parte delle autorità della Republika Srpska. Così come è emerso domenica (12 giugno) dall’accordo di Bruxelles, è necessaria una svolta rispetto alla “mancanza di volontà politica nei negoziati sulle riforme costituzionali ed elettorali” prima delle elezioni generali del prossimo autunno, ha sottolineato il relatore Paulo Rangel (PPE). Ma per la tenuta democratica del Paese e per il percorso sulla strada dell’Unione è cruciale anche che Sarajevo “attui le sanzioni dell’UE contro la Russia a cui si è allineato”, considerato soprattutto il “continuo interesse” di Mosca nella destabilizzazione del più fragile tra tutti i Paesi dei Balcani Occidentali.
    E a proposito di sanzioni contro la Russia, è la Serbia a essere richiamata all’impegno di sposare la politica estera dell’Unione. Gli eurodeputati si sono detti “rammaricati” della resistenza di Belgrado ad allinearsi alle misure contro il Cremlino, in particolare il relatore Vladimír Bilčík (PPE): “Dopo le elezioni dell’aprile 2022 e la guerra di aggressione della Russia, è mio sincero desiderio che i nostri partner comprendano il senso di urgenza nell’andare avanti nel loro percorso europeo”. La relazione riconosce che per la Serbia l’adesione all’UE continua a essere l’obiettivo strategico, tuttavia non può essere nascosto il fatto che sia l’unico dei sei Paesi dei Balcani Occidentali ad aver fatto “passi indietro” sulle tappe fondamentali di avvicinamento all’Unione. Serve un cambio di passo nella lotta contro la disinformazione e la propaganda russa – agevolata da un rapporto particolarmente stretto tra Mosca e Belgrado – ma anche progressi in materia di Stato di diritto, diritti fondamentali, libertà di espressione, rafforzamento del pluralismo dei media e normalizzazione delle relazioni con il Kosovo.
    È quest’ultimo, da più di dieci anni, uno dei temi più urgenti di tutta la regione. La relazione a firma Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/ALE) riconferma il sostegno “inequivocabile” al dialogo Belgrado-Pristina facilitato dall’UE, ribadendo l’importanza di raggiungere un accordo di normalizzazione “completo e giuridicamente vincolante”, in cui comunque l’indipendenza di Pristina è considerata “irreversibile”. Gli eurodeputati mostrano particolare apprezzamento per la “maggiore stabilità politica” e il forte impegno del Kosovo per diventare “un partner molto affidabile, profondamente ancorato all’alleanza europea e transatlantica“, anche per l’allineamento sulle sanzioni contro la Russia e la solidarietà espressa nei confronti dell’Ucraina. Le critiche sono invece tutte per il Consiglio e per sette Paesi membri. Non solo i cinque che non ne riconoscono l’indipendenza (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) – che sono stati invitati a farlo “immediatamente” – ma anche Francia e Paesi Bassi, a cui la relatrice si è rivolta direttamente: “Spero davvero che questo sia l’ultimo rapporto che menziona il fallimento di non aver mantenuto la promessa di fornire ai cittadini del Kosovo l’esenzione dal visto, attesa da tempo”.
    Montenegro, Albania e Macedonia del Nord
    Oltre alle tre relazioni approvate oggi, la commissione AFET si è già espressa il mese scorso sullo stato di avanzamento del percorso verso l’UE degli altri tre Paesi dei Balcani Occidentali. La relazione sul Montenegro sarà votata alla mini-sessione plenaria del Parlamento Europeo della settimana prossima (22-23 giugno) e metterà l’accento sulla priorità per Podgorica di portare avanti le riforme elettorali e giudiziarie e la lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione. Se è vero che il Montenegro rimane impegnato verso l’integrazione europea, nessuno dei 33 capitoli negoziali è stato chiuso e questo rallenta il bilancio positivo del Paese balcanico allo stadio più avanzato nel processo di adesione all’UE. “Ci auguriamo che il nuovo governo non si trovi ad affrontare i problemi del precedente”, ha sottolineato il relatore Tonino Picula (S&D), facendo riferimento al “clima polarizzato” nella politica nazionale, che potrà essere affrontato dai partiti pro-europei che formano l’esecutivo di minoranza guidato da Dritan Abazović. Alla luce della “continua influenza dei partiti e delle narrative politiche filo-russe” e del crescente volume di campagne di disinformazione di Russia e Cina – “anche attraverso la strumentalizzazione degli istituti religiosi” – la relazione incoraggia la Commissione UE a valutare un’assistenza economica e finanziaria per i Paesi dei Balcani Occidentali che hanno aderito alle sanzioni dell’Unione, come ha fatto il Montenegro.
    Per quanto riguarda Albania e Macedonia del Nord, le relazioni del Parlamento UE sono già state votate alla mini-sessione plenaria del 18-19 maggio ed entrambe hanno posto l’accento sull’urgenza di avviare i negoziati di adesione all’UE in seno al Consiglio UE, sbloccando lo stallo del veto bulgaro. “Il mancato intervento potrebbe avere implicazioni di sicurezza storicamente importanti per la stabilità dell’Europa“, è l’allarme lanciato dagli eurodeputati. Entrambi i Paesi hanno soddisfatto tutte le condizioni richieste da Bruxelles, ma il temporeggiare dei Ventisette “ha minato l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti dell’Unione”. È per questo che Bulgaria e Macedonia del Nord devono risolvere “rapidamente” le questioni bilaterali in sospeso – o quantomeno affrontare la disputa storico-culturale “separatamente dal processo di adesione” – sfruttando il rinnovato impegno della Francia di Emmanuel Macron. Sbloccare i negoziati è un dovere dell’UE nei confronti della Macedonia del Nord, considerato il fatto che Skopje “detiene il miglior record di transizione democratica nella regione dei Balcani Occidentali”, sottolinea la relazione a firma del deputato bulgaro Ilhan Kyuchyuk (Renew Europe). Questo risultato è il frutto del lavoro sullo Stato di diritto, ma anche dell’allineamento alla politica estera di Bruxelles, come ha dimostrato la chiusura dello spazio aereo (con Montenegro e Bulgaria) al ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, una settimana fa. Tuttavia, esistono rischi di una “crescente dipendenza economica ed energetica dalla Russia e dalla Cina”, a partire dalla dipendenza dai prestiti di Pechino.
    Lo stallo sui negoziati di adesione sembra ancora più paradossale se si considera la situazione dell’Albania, vincolata dallo stesso pacchetto della Macedonia del Nord. Già tra il 2018 e il 2019 il dossier macedone-albanese si era bloccato in Consiglio per l’opposizione di Francia, Danimarca e Paesi Bassi – con la richiesta di implementare le riforme strutturali dei due Paesi – ma dopo il via libera della primavera del 2020 sembrava che tutto fosse pronto per il cammino di adesione di Tirana (e di Skopje) nell’Unione. Come sottolineato dalla relazione del Parlamento Europeo, l’Albania ha continuato a mostrare un “impegno incrollabile verso l’integrazione europea” e a intensificare gli sforzi su Stato di diritto, economia e democrazia, nonostante il veto del Consiglio non la riguardi direttamente. Il Paese “rimane un partner strategico pienamente affidabile e impegnato”, ha ribadito con forza la relatrice Isabel Santos (S&D), che ha esortato i Ventisette a compiere un passo che non hanno avuto il coraggio di fare per quattro anni. Nel frattempo il governo guidato da Edi Rama dovrà impegnarsi per “rafforzare la società civile, contrastare la corruzione e la criminalità organizzata”, ma anche “assicurare la libertà dei media e garantire la tutela dei diritti delle minoranze, compresa la comunità LGBTQ+”, è l’ultimo richiamo della relazione votata dagli eurodeputati.

    Adottate in commissione Affari esteri (AFET) le relazioni 2021 sullo stato di avanzamento dei 6 Paesi balcanici. Gli eurodeputati continuano a chiedere al Consiglio lo sblocco dei negoziati con Albania e Macedonia del Nord e la liberalizzazione dei visti per i cittadini del Kosovo