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    Quirinale 1955: ancora franchi tiratori, passa Giovanni Gronchi

    L’elezione del 1948 era stato solo l’antipasto. Le lotte intestine nella Dc salgono di intensità nel 1955, l’anno in cui arriva al Quirinale Giovanni Gronchi sull’onda di una vera e propria congiura di palazzo. L’elezione di questo toscano di Pontassieve, fondatore del partito popolare ed ex aventiniano, ha del rocambolesco.
    De Gasperi non c’è più, è morto da un anno: la Dc è nelle mani di Amintore Fanfani, cattolico di idee quasi socialiste in economia ma tradizionalista in fatto di religione; contro di lui è schierata la corrente di destra “Concentrazione democratica” di Andreotti e Gonella. Einaudi è stato un ottimo presidente, ma alla scadenza del settennato, nessun partito chiede che venga rieletto. Lui ci rimane un po’ male, ma si adegua. E si prepara a occuparsi a tempo pieno alla sua tenuta agricola di Dogliani, dove produce un ottimo barolo. Fanfani, spalleggiato dal presidente del consiglio Scelba, punta sul presidente del Senato Cesare Merzagora, ex banchiere, ateo dichiarato ma eletto come indipendente nelle liste della Dc. Spera che in virtù di queste caratteristiche Merzagora venga considerato con favore dalle sinistre. Ma si illude: Togliatti e Nenni pensano ad altre mosse per rientrare in gioco. Ma anche la destra Dc non vuole Merzagora. Una mattina, Andreotti va da Merzagora nel suo studio e gli fa il seguente discorso: “Presidente, non si candidi e converga invece su Einaudi. Se Einaudi non ce la dovesse fare sarebbe lei il candidato naturale, e tutti la voterebbero”. Alla fine anche la destra Dc dice sì alla sua candidatura. Ma era un sì falso.
    Andreotti e compagni avevano già deciso di tradire il candidato di Fanfani nel segreto dell’urna. Il 28 aprile, alla prima votazione, Merzagora subisce una cocente sconfitta. Nel pomeriggio le cose peggiorano: Merzagora è stabile ma Gronchi incrementa mentre tutte le opposizioni scelgono la scheda bianca, come per far sapere che sono pronte a entrare nella partita. I presagi della mattina si trasformano in un incubo serale per Fanfani, quando al terzo scrutinio Gronchi scavalca Merzagora (281 contro 245). E’ la fine del suo candidato. Si assiste in quelle ore a una incredibile (con il senno di poi) saldatura tra la destra democristiana di Andreotti e la sinistra di Nenni e Togliatti, che decidono di sostenere Gronchi. Comunisti e socialisti vogliono essere determinanti nella scelta del capo dello Stato, ma danno vita a una alleanza paradossale, visto che qualche anno dopo Gronchi sarà l’ artefice della nascita del governo Tambroni, appoggiato da Dc e missini. Ma allora, in quell’aprile del 1955, il toscano Gronchi era un fautore dell’apertura a sinistra, era amico del presidente dell’Eni Enrico Mattei e aveva posizioni da neutralista anti-Nato. Fanfani prova a giocarsi le ultimissime carte, ma sa che l’impresa è disperata.
    A mezzanotte va da Gronchi con il vertice della Dc e gli chiede di rinunciare. Gronchi si arrabbia: “E allora perchè mi avete fatto eleggere presidente della Camera? Mi ritiro solo se il partito dice ufficialmente che sono totalmente idoneo”. Fanfani va al letto con un brutto presentimento. La mattina dopo la situazione precipita: Gronchi, che doveva farsi sentire in mattinata, è sparito e non risponde al telefono. Si fa vivo solo alle 11 e un quarto e dice che non ha alcuna intenzione di fare il passo indietro che gli è stato chiesto. Ai direttivi dei gruppi Dc Fanfani è costretto a cedere su tutta la linea: e nel pomeriggio del 29 aprile Gronchi viene eletto con la schiacciante maggioranza di 650 voti su 833. Lo votano i parlamentari della maggioranza, socialisti e comunisti, ma non Saragat, per il quale è un pericoloso populista (lo chiama “il Peron di Pontedera”). Nel suo discorso di insediamento Gronchi non fa nulla per smentire al sua fama di quasi marxista. Chiede che “le masse lavoratrici” entrino nella macchina dello Stato e dice che bisogna fermare lo strapotere delle multinazionali. Socialisti e comunisti lo acclamano, l’ambasciatrice americana Claire Luce lascia platealmente la tribuna degli ospiti, Scelba, seduto al banco del governo, non batte le mani, e il comunista Pajetta per sfotterlo gli fa portare da un commesso un bicchiere di Cynar, l’amaro antistress.

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    Quirinale 1948: Luigi Einaudi, battesimo dei franchi tiratori

    “Che cosa? Io presidente della Repubblica? Ma non dite sciocchezze!”. Luigi Einaudi, dopo le elezioni del 18 aprile 1948, quelle stravinte dalla Dc e perse dal Fronte Popolare socialcomunista, sa bene che il suo nome circola come possibile candidato alla presidenza della Repubblica. Ma se qualcuno prova domandargli qualcosa diventa sgarbato e lo liquida in poche battute.
    La scelta del nuovo capo dello Stato è il primo atto che deve compiere il nuovo Parlamento, dove la Dc e i suoi alleati hanno una maggioranza a prova di bomba. E’ tempo di eleggere il primo vero presidente della Repubblica. Democristiani e comunisti ormai sono ai ferri corti: inimmaginabile pensare a un accordo dopo che per tutta la campagna elettorale la Dc ha spiegato agli italiani che se avessero vinto i comunisti sarebbero arrivati i cosacchi a piazza San Pietro e i comunisti dicevano che avrebbero cacciato De Gasperi a calci nel sedere. De Gasperi da’ quindi ordine di votare Sforza. Pensa di poterlo eleggere se non subito almeno alla quarta votazione. Le cose però si mettono subito male.
    La mattina del 10 maggio, quando termina la prima votazione, De Gasperi capisce che le elezioni del 18 aprile hanno sì sconfitto il Pci, ma hanno anche sancito la divisione della Dc in gruppi contrapposti: Sforza riceve solo 353 voti, mentre De Nicola, che pure ha rinunciato a candidarsi per la riconferma, lo supera con 396 voti. Chi ha tradito? Tutti i sospetti vanno in direzione della sinistra democristiana di Dossetti e La Pira, che non amano Sforza soprattutto per la sua fama di anticlericale e libertino: al ministro i seguaci di Dossetti avevano rimproverato di avere l’abitudine di girare nudo per casa turbando le monache che abitavano di fronte. Quel 10 maggio del 1948 segna la data di nascita dei franchi tiratori, che influenzeranno negli anni a venire quasi tutte le elezioni presidenziali. Il segretario Dc, però, non molla. Al secondo scrutinio Sforza avanza fino a 405 voti. De Nicola arretra a 336. Ma la fronda non è debellata. Tanto vale lasciar perdere.
    De Gasperi invia Giulio Andreotti, Attilio Piccioni e Guido Gonella a dare a Sforza la ferale notizia. Il ministro accoglie la delegazione in vestaglia e monocolo mentre prepara il suo discorso di insediamento: sulla scrivania c’è un foglio sul quale c’è scritto “Signori senatori, signori deputati…”. “Eccellenza, non so come dirlo, ma la Dc non può più sostenere la sua candidatura”, balbetta Andreotti. Sforza corruga la fronte, ma dissimula la delusione con grande eleganza: “Per carità, capisco benissimo, meglio così..”. Ma il tempo stringe e bisogna trovare rapidamente un’alternativa. All’una di notte si riunisce la direzione Dc. Molti discorsi, ma poca sostanza: la riunione si scioglie senza che si sia arrivati a decidere niente.
    Restato da solo con Andreotti, De Gasperi decide di rompere gli indugi: “A questo punto non ci resta che Einaudi”. La candidatura del vecchio e autorevole senatore liberale sembra a De Gasperi l’unica in grado di ricompattare la Dc e la maggioranza. Alle quattro di notte sarà proprio Andreotti a comunicare a Einaudi che sarà il nuovo candidato al Colle. “Per me va bene. Però c’è un grave inconveniente. Sono zoppo: come farò a passare in rassegna le truppe durante le parate?” chiede il senatore. “Non si preoccupi , potrà farlo in automobile”, è la risposta del giovane politico romano. E cosi’ l’11 maggio, dopo un terzo scrutinio andato a vuoto, con 518 voti su 883, lo stimatissimo economista piemontese, antifascista storico ma monarchico convinto (almeno fino al referendum costituzionale), diventa il primo presidente eletto della neonata Repubblica Italiana.

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    Quirinale 1946: il 'tentennante' Enrico De Nicola

    Il primo capo dello Stato è non solo “provvisorio” ma anche parecchio tentennante. All’alba della Repubblica, nel 1946, quando la Costituzione ancora non c’è ma il popolo italiano ha già scelto la Repubblica, bisogna mettere in cima alle istituzioni una figura che le guidi e rappresenti l’Italia fino al termine dei lavori della costituente. Al governo ci sono Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, ancora alleati. Dopo il referendum del 2 giugno che ha fatto vincere la Repubblica, le funzioni di capo provvisorio dello Stato sono andate a De Gasperi, nella sua qualità di presidente del consiglio. Ma bisogna presto eleggere un presidente “vero” che affianchi De Gasperi e diriga l’attività dello Stato postfascista. Il clima di collaborazione tra democristiani, comunisti e socialisti dà al governo una maggioranza solida, ma al momento di scegliere il capo dello Stato le strade si dividono. Sulle prime la Dc punta sul vecchio liberale Vittorio Emanuele Orlando, già presidente del consiglio in epoca prefascista, mentre Togliatti pensa al filosofo Benedetto Croce, che però risponde picche con una lettera in cui dice di sentirsi “inadeguato”.
    Andare allo scontro in aula non è possibile: l’Italia non può permettersi una divisione già agli albori della Repubblica. Togliatti lo sa bene e acconsente a incontrare De Gasperi insieme ai socialisti Pietro Nenni e Giuseppe Saragat. I quattro entrano in una stanza di Montecitorio e ne escono un’ora dopo con l’accordo in tasca su De Nicola: è un galantuomo, è liberale (quindi non fa ombra a nessuno dei partiti maggiori) è meridionale (così si riequilibra la geografia dei vertici dello Stato, dove sono quasi tutti del Nord) ed è monarchico (così i dieci milioni di italiani che hanno votato per il re al referendum del 2 giugno si sentiranno rappresentati). Non c’è che da comunicare la notizia al diretto interessato, che è a casa sua a Torre del Greco. Ma c’è un piccolo problema: De Nicola è noto per la sua indecisione nell’accettare gli incarichi. Passa da un sì a un no nello spazio di poche ore. Il prefetto che va a comunicargli la notizia riceve come risposta un “no grazie”. Poi comincia il tira e molla. De Nicola ci pensa e ci ripensa, pone come condizione che la maggioranza che lo eleggerà sia praticamente unanime. Lo stallo si protrae per qualche giorno e induce il Giornale d’Italia a lanciare un accorato appello: “Onorevole De Nicola decida di decidere se accetta di accettare!”.
    Il 28 giugno del 1946 arriva la sospirata elezione: l’assemblea costituente lo elegge capo provvisorio dello Stato con 396 voti su 501. Oltre a De Nicola hanno raccolto voti la candidata dell’Uomo qualunque, la baronessa Ottavia Penna di Buscemi, e il candidato dei repubblicani Cipriano Facchinetti. E’ stato deciso che il presidente dovrà risiedere al Quirinale: ma lui, dopo la cerimonia iniziale (alla quale arriva con un’ora e mezzo di ritardo viaggiando da solo su una millecento nera e portandosi dietro una valigia di cuoio) non ci pensa minimamente: da buon monarchico rifiuta di sistemarsi “nel palazzo dei papi e dei re” e prende alloggio a Palazzo Giustiniani. La sua indole di eterno dubbioso lo porta a dimettersi dall’incarico il 25 giugno 1947. Nella notte De Gasperi lo convince a non insistere: il giorno dopo l’assemblea costituente lo rielegge nuovamente, questa volta con una votazione quasi unanime, 405 voti su 431 votanti.
    Appena insediatosi rinuncia immediatamente all’assegno di 12 milioni di lire al quale aveva diritto e, anche nelle occasioni solenni, continua a usare un vecchio cappotto rivoltato. Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il primo gennaio 1948, il suo titolo ufficiale si trasforma in quello di presidente della Repubblica: sempre da palazzo Giustiniani e sempre con il suo cappotto continua a esercitare il mandato fino al maggio di quell’anno. Poi toccherà a Luigi Einaudi.

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    Dl Fisco in Aula al Senato. Arriva un fondo per i genitori separati

    Si è conclusa la discussione generale sul dl fisco in Aula al Senato. La presidenza di Palazzo Madama ha informato che, come concordato in conferenza dei capigruppo, il seguito dell’esame del provvedimento rinviato a domani. Il governo sul dl fisco sta preparando un maxiemendamento su cui dovrebbe porre la questione di fiducia Il Senato è convocato alle 9.30, con all’ordine del giorno la discussione dei documenti pervenuti dalla giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, sulle elezioni contestate in Campania, Puglia, nella circoscrizione estero e sulla questione del seggio vacante in Veneto, a cui seguirà proprio l’esame del dl fisco.
    nella notte il via libera nella delle Commissioni Finanze e Lavoro del Senato al decreto fiscale. Tra le modifiche approvate la mini-proroga per le cartelle e la possibilità di cumulo tra assegno di validità e reddito da lavoro. Il provvedimento è ora in discussione in Aula. Il testo passerà quindi alla Camera per la seconda lettura e l’ok definitivo.
    L’emendamento della Lega a prima firma Matteo Salvini per l’istituzione di un fondo per genitori separati entra nel dl fiscale approvato nella notte dalle commissioni Finanze e Lavoro. “È stato, finalmente e definitivamente, approvato in Commissione il mio emendamento per aiutare i genitori separati messi in crisi dalle conseguenze del Covid: riceveranno un aiuto economico fino a 800 euro al mese per pagare l’assegno di mantenimento a figli o ex coniugi, in caso di difficoltà economiche. Dalle parole ai fatti”, afferma il leader della Lega Matteo Salvini.
    LA MISURA – I genitori lavoratori, separati o divorziati, che hanno smesso di ricevere l’assegno di mantenimento perché l’altro genitore è stato condizionato dalla crisi legata al Covid, otterranno un contributo fino a un massimo di 800 euro mensili. È quanto prevede il dl fisco con un emendamento della Lega, a prima firma di Matteo Salvini, che istituisce un fondo da 10 milioni di euro per il 2021. Secondo quanto previsto dal provvedimento, il beneficio vale nel caso in cui il genitore inadempiente, a causa della pandemia, abbia smesso di lavorare o abbia ridotto la propria attività dall’8 marzo 2020 per almeno 90 giorni o con una contrazione di almeno il 30% del reddito rispetto a quello percepito nel 2019. Il fondo, che viene istituito presso il Ministero dell’economia e delle finanze per essere successivamente trasferito al bilancio autonomo della Presidenza del Consiglio, garantirà assegni fino a 800 euro al mese, per un massimo di mensilità stabilite con un decreto del presidente del Consiglio da approvare entro 60 giorni dall’entrata in vigore del dl fisco. Il decreto definirà anche i criteri e le modalità per la verifica dei presupposti e l’erogazione dei contributi.
    Bene l’approvazione dell’emendamento alla delega fiscale che ripristina l’assegno di invalidità per gli invalidi parziali che lavorano: è “una buona notizia”, afferma il ministro del Lavoro, Andrea Orlando. “Correggiamo un’ingiustizia. Manteniamo la promessa fatta a famiglie e associazioni che lottano per l’inclusione”, scrive su Fb.
    Stretta sull’Imu per le prime case: un emendamento al dl fisco approvato nelle commissioni Finanze e Lavoro al Senato stabilisce che l’esenzione vale solo per un’abitazione a famiglia anche qualora una delle due case si trovi in un altro comune. Contrariamente a quanto attualmente previsto i due coniugi non potranno più scegliere di risiedere in due case in comuni differenti e non pagare così l’Imu. Si tratta – viene spiegato – di una norma che risponde a una sentenza della Cassazione ancora più restrittiva che stabiliva il pagamento dell’Imu per entrambe le abitazioni qualora i coniugi fossero residenti in due immobili diversi.

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    Sergio Mattarella, presidente mite che mostrò muscoli per l'Europa

    L’arbitro delle contese politiche, parlamentarista convinto, uomo della “ripartenza” post-pandemica, cattolico progressista, amatissimo per i suoi toni garbati dagli italiani che ne hanno apprezzato l’autorevolezza di “pater familias” e il profilo basso tenuto nella guida della sua altissima carica. Sergio Mattarella chiude il settennato che, a dispetto della sua immagine di uomo restio ai conflitti, è stato tra i più duri della storia repubblicana.
    Ben cinque governi in sette anni, succedutesi nel manifestarsi di una crisi profonda della politica che ha investito un’Europa squassata dal prepotente ritorno dei nazionalismi.
    Il presidente mite, appunto, che ha mostrato i muscoli – lui europeista di ferro – per contrastare la deriva italiana del populismo, spingendosi fino a rischiare la nascita del primo esecutivo giallo-verde di Giuseppe Conte pur di non mettere al ministero dell’Economia una figura che a suo avviso avrebbe turbato i mercati e messo in discussione l’esistenza stessa dell’Unione. Si trattava di Paolo Savona, un economista sponsorizzato dalla Lega, ma gradito al Movimento Cinque stelle, che non aveva mai nascosto le sue opinioni critiche sull’integrazione comunitaria. Fece uso dei suoi poteri costituzionali sulla formazione del governo e disse un “no” clamoroso che spinse i Cinque stelle addirittura ad ipotizzare un impeachment nei suoi confronti.
    Mattarella vinse la battaglia, Savona finì agli Affari Europei e all’Economia si sedette Giovanni Tria. Era il giugno 2018 e il presidente salvò la legislatura con una diarchia Lega-M5s inimmaginabile fino a poche settimane prima. Durò poco, però. Mattarella dovette affrontare una nuova crisi circa un anno dopo. Nell’agosto del 2019 la Lega di Salvini uscì dal governo e Conte si dimise per riottenere da Mattarella un secondo mandato attraverso uno spericolato cambio di maggioranza: via la Lega, dentro il Pd.
    Non ci fu neanche il tempo di riflettere sulla bontà dell’operazione che l’Italia venne sconvolta dal Covid. La pandemia costrinse il capo dello Stato ad assumere un delicatissimo ruolo di guida politica di un Paese annichilito dal virus e stordito dalle sirene delle ambulanze.
    Mattarella non ebbe dubbi su quale fosse la via da intraprendere e, ben prima della politica, scelse la strada del rigore, della scienza e dell’assunzione di responsabilità. Suggerì ed assecondò la linea della responsabilità collettiva, spiegando agli italiani il perchè di quelle scelte durissime che chiusero il Paese in una bolla surreale. Scelte dapprima osservate con sospetto all’estero e poi seguite con ammirazione da quasi tutta Europa. Fu tra i primi a vaccinarsi e perse ancora la sua mitezza dopo l’assalto no-vax alla sede della Cgil a Roma.
    Da allora le sue reprimende verso “l’irresponsabilità” dei no-vax furono sempre più frequenti. La pandemia non impedì l’apertura di una nuova crisi, riportando grande preoccupazione al Quirinale da dove si osservava un’Italia sfibrata e messa alle corde dalla crisi economica. Il collasso del Conte due fu innescato da Italia Viva e i tentativi dello stesso premier di racimolare una minoranza risicata pur di andare avanti furono osservati silenziosamente dal presidente che però aveva ben altri piani. Messo di fronte al rischio di far tornare il Paese alle urne in piena emergenza sanitaria Mattarella tirò fuori l’asso dalla manica: chiamò, a sorpresa, Mario Draghi al Quirinale con l’obiettivo di formare un governo di emergenza nazionale. Proprio questa mossa fece riavvolgere il nastro della storia, dimostrando come l’ancoraggio ostinato del presidente all’Europa fosse frutto di un disegno razionale e non una mera scelta di principio. Proprio in quei giorni l’Unione europea stava concretizzando quella che lo stesso Mattarella aveva definito “una svolta epocale”, abbandonando il rigorismo di Bilancio Bruxelles aveva aperto i cordoni della borsa con il Recovery fund, l’immenso piano di salvataggio del quale l’Italia sarebbe stato il primo fruitore. E chi meglio dell’ex Governatore della Bce avrebbe avuto il peso politico per reimpostare il piano vaccinale e gestire gli oltre 200 miliardi del Piano? Su questa duplice missione nacque il governo di Mario Draghi e solo il partito di Giorgia Meloni decise di starne fuori.
    Un settennato quindi positivo rispetto alle difficoltà incontrate. Lo dimostra il gradimento altissimo che i cittadini gli hanno riconosciuto. A Mattarella si può rimproverare poco. Forse si può registrare sul taccuino una eccessiva prudenza, alcuni mancati interventi rispetto a decreti scritti male, il realismo del possibile tipico della scuola democristiana e l’aurea di inaccessibilità mostrata con l’uso esclusivo di discorsi istituzionali. Insomma, niente di più lontano dalla presidenza sanguigna di Sandro Pertini o da quella del suo predecessore “re Giorgio”. Di certo è stata una presidenza di successo, come dimostra l’inarrestabile accerchiamento della sua figura in queste ultime settimane. Per una, due, tre volte Mattarella ha fatto capire di essere contrario ad un secondo mandato. Ma non basta. In tanti, tantissimi vogliono ancora “il presidente mite” al Quirinale.

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    Quirinale: Papi, re, presidenti: da 5 secoli palazzo del potere

    Il palazzo simbolo della Repubblica e’ stato per secoli una residenza dei Papi e per oltre settant’anni la casa dei Re. Il Quirinale ha cambiato piu’ volte pelle, ma e’ sempre restato il cuore del potere romano: guardie svizzere o corazzieri, cardinali o ministri repubblicani, da piu’ di cinquecento anni i suoi frequentatori sono gli attori e i comprimari dello stesso grande gioco, che ha come posta la salute dello Stato.
    Nella seconda meta’ del ‘500 era un ameno luogo di campagna, dove sorgevano ville e giardini di nobili e prelati. Ai nostri giorni è una piccola citta’ con le sue 1200 stanze e i quasi mille dipendenti che oltre a lavorare per le attivita’ del presidente della Repubblica devono gestire un patrimonio inestimabile composto da arazzi di grande pregio (ben 261 pezzi), mobili e dipinti, sculture e carrozza storiche. Un tesoro racchiuso in un gigantesco palazzo della fine del ‘500 che ha ospitato una trentina di papi (l’ultimo fu Pio IX) rimanendo per secoli la sede dei pontefici che li’ svolgevano le loro attivita’ piu’ “politiche”.
    Il primo papa a mettere gli occhi sulla proprieta’ fu Gregorio XIII: a sue spese fece trasformare la palazzina che sorgeva nella tenuta in una grande villa il cui pezzo forte era la spettacolare scala elicoidale progettata dall’architetto Ottaviano Mascarino. Nel 1587 il successore di papa Gregorio, Sisto V, decise di comprare villa e giardino e ne fece la residenza estiva della corte pontificia.Di ampliamento in ampliamento (il Quirinale cosi’ come lo conosciamo e’ frutto dell’intervento di famosi architetti come Domenico Fontana e Carlo Maderno) il palazzo divenne il cuore del potere della Chiesa, una vera e propria cittadella del Papa e della corte. Nell’800, la rivoluzione.
    Per tre volte i Papi furono sfrattati dal palazzo: da Napoleone nel 1809, da Mazzini nel 1848, da Vittorio Emanuele II nel 1870, quando Pio IX dovette lasciare la sua residenza e riparare in Vaticano. Non prima, secondo la leggenda, di aver lanciato una terribile maledizione sul re usurpatore. Dopo l’addio del “Papa re”, il consiglio dei ministri del regno d’Italia stabili’ che il Quirinale dovesse “appartenere allo Stato ed essere destinato alla residenza del Re”. Ma fu solo con l’arrivo al trono di Umberto, figlio di Vittorio Emanuele, che il Quirinale divento’ una vera reggia. Durante la prima guerra mondiale, conobbe una temporanea mutazione: da suntuosa reggia si trasformo’ in ospedale militare. Con l’avvento al potere di Mussolini, perse parte della sua centralita’ politica.
    Dopo l’armistizio dell’8 settembre conobbe nuove tribolazioni. Lasciato in fretta e furia da Vittorio Emanuele III e famiglia, in fuga verso Brindisi, il palazzo accolse nuovamente i Savoia due giorni dopo l’ingresso degli alleati a Roma.Nei due anni che seguirono, il Quirinale torno’ a essere parte del gioco politico, ma il potere si stava trasferendo altrove. Diventato re il 9 maggio del 1946, Umberto II abbandono’ il Quirinale e l’Italia poche settimane piu’ tardi, il 13 giugno, dopo la vittoria della repubblica nel referendum. Ma per fare del palazzo sul colle piu’ alto di Roma il simbolo della Repubblica, fu necessario aspettare ancora due anni,perche’ dal 1946 al 1948 il capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, non volle salire al Quirinale per esercitare il suo mandato: a lui monarchico convinto, sarebbe sembrato di profanare un simbolo. Fu Luigi Einaudi, nel 1948, il primo presidente ad insediarsi al nel Palazzo.

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    Quirinale: si lavora per la garantire sicurezza delle votazioni

    La prossima elezione del prossimo Capo dello Stato, la prima (e si spera unica) in tempo di pandemia, avrà non pochi risvolti dal punto di vista sanitario. Per questo momento cruciale della vita politico-istituzionale del Paese la Camera dei deputati svolge il ruolo di “padrone di casa”: sia le votazioni sia il giuramento del presidente della Repubblica si tengono nella sua Aula legislativa.
    Per questo sarà chiamata a far fronte a tutta una serie di problematiche legate all’afflusso contemporaneo a Montecitorio non solo di poco più di mille grandi elettori (i deputati, i senatori ed i rappresentanti delle Regioni), ma anche di centinaia di giornalisti che dovranno raccontare passo passo l’evento al Paese.
    L’orientamento è di assumere le decisioni valutando la situazione epidemiololgica a ridosso dell’inizio delle votazioni, in modo da poter optare per soluzioni più o meno restrittive. L’unica cosa già decisa è lo stop a convegni ed iniziative con la presenza di pubblico esterno disposto dai Questori da metà gennaio a metà febbraio, in modo da ridurre al minimo le presenze nel Palazzo. Resta, quindi fermo, l’obbligo del green pass e di indossare sempre la mascherina. Chiare, invece, sono tutte le altre problematiche, per le quali la Camera sentirà i consulenti sanitari che la assistono per tutte le decisioni relative al contenimento del Covid nei suoi palazzi.
    DISTANZIAMENTO SOCIALE, DENTRO E FUORI AULA. Per l’elezione del Capo dello Stato il Parlamento in seduta comune integrato dai delegati regionali, che si riunisce a Montecitorio ed è presieduto dal presidente della Camera con il proprio ufficio di presidenza, funziona come seggio elettorale. A Montecitorio si pensa di proporre ai gruppi parlamentari di esercitare una moral suasion sui grandi elettori per lasciare solo un minimo di elettori nell’Emiciclo per seguire lo spoglio. Tutti gli altri sarebbero invitati a stare nel Transatlantico, nel corridoio della Corea e nel cortile, che anche questa volta dovrebbe essere parzialmente utilizzato per ospitare le dirette televisive.

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    Quirinale: Il voto dei Grandi Elettori, segreto ma non troppo

    Il voto per eleggere il presidente della Repubblica è segreto ed avviene “per schede”. Ma chi garantisce che il voto del “grande elettore” rimanga effettivamente segreto? Nel passato la politica ha studiato tanti stratagemmi tanto “artigianali” quando efficaci per rendere in qualche maniera riconoscibile durante lo spoglio, che è pubblico ed avviene in Aula a cura del presidente della Camera, il proprio voto, in modo da far capire che gli accordi presi tra i partiti siano stati effettivamente rispettati.
    Tra questi, c’è la scelta di scrivere, ad esempio, il nome ed il cognome del candidato, in diverso ordine, o di limitarsi al solo cognome, eventualmente preceduto o seguito dall’iniziale del nome: uno stratagemma che consente di distinguere, e contare, almeno cinque “megagruppi” di elettori.
    Ma nell’era dei social e dei cellulari equipaggiati con fotocamera chi garantisce che il “grande elettore”, dopo aver scritto sulla scheda il nome del proprio candidato nella corsa al Quirinale non la fotografi con il proprio smartphone, eventualmente per esibirla come “prova di fedeltà”? La domanda non trova risposta.
    Anche perchè nessuno impedisce al parlamentare o al delegato regionale di portarsi il cellulare nel “catafalco”, una delle cabine per la votazione allestite tra il banco della presidenza e quelli del governo dove in teoria egli dovrebbe poter avere a disposizione soltanto la scheda e la matita messi a disposizione dall’amministrazione della Camera. Peraltro, in linea generale, deputati e senatori (e i grandi elettori per l’elezione del Capo dello Stato) possono avere addosso nelle sedi del Parlamento qualsiasi cosa tranne che le armi, unici oggetti assolutamente proibiti a tutti negli ‘Onorevoli Palazzi’. Per tutte le elezioni “normali”, al cittadino elettore è esplicitamente proibito dalla legge portare in cabina qualsiasi strumento atto a riprendere la scheda votata, compreso il cellulare che deve essere lasciato in consegna agli scrutatori del seggio prima di ricevere la scheda ed infilare la porta della cabina. Ma un divieto del genere non è attualmente previsto per le votazioni segrete per schede che si tengono nell’Aula di Montecitorio; a partire, appunto, da quella del presidente della Repubblica. Il tema non è stato segnalato ancora da nessuno: al fattore ‘hi-tech’ ancora nessuno ha ancora pensato.