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    Quirinale 1992: Capaci scuote palazzo, arriva Scalfaro

    Nell’estate del 1992 la prima Repubblica è a un passo dalla fine, ma i suoi protagonisti ancora non lo sanno. Al governo c’è Giulio Andreotti, a piazza del Gesù Arnaldo Forlani, mentre il Psi è guidato da Bettino Craxi. Entro pochi anni finiranno tutti e tre nella tormenta giudiziaria, ma ora sono il CAF, il potente patto a tre che regge l’Italia affacciata su Tangentopoli. E che ora deve risolvere il rebus del Quirinale. Giulio Andreotti è un democristiano atipico: ha una sua corrente formata da fedelissimi pronti a tutto, quasi un partito nel partito, e anche per questo il resto dei democristiani non lo ama. La sua intelligenza politica, in passato, gli ha suggerito di tenersi alla larga dalla competizione quirinalizia, ma questa volta sa che la partita se la può giocare.
    A Piazza del Gesù si discute se sia meglio candidare Andreotti o Forlani. Quest’ultimo ostenta indifferenza e disinteresse. Giura che preferisce fare il segretario piuttosto che andare nella “prigione dorata” sul colle più alto. Andreotti non si fa irretire e si mostra ancora più disinteressato. Il balletto va avanti qualche giorno. Fino a un caffè a Palazzo Chigi, dove Forlani rassicura Andreotti: “Davvero, Giulio, il candidato giusto sei tu”. Il progetto prevede che Andreotti vada al Quirinale, Craxi prenda il suo posto a Palazzo Chigi, mentre Forlani continuerà a guidare la Dc. Paolo Cirino Pomicino e Nino Cristofori, i due uomini-macchina della corrente andreottiana, sono pronti a mettersi in moto per raggranellare voti. Ma tempo tre quarti d’ora e arriva la doccia gelata: una telefonata del ministro dell’Interno Enzo Scotti, annuncia a Cirino Pomicino il “non possumus” del correntone doroteo alla candidatura di “Giulio”. Il 15 maggio, a scrutinio segreto, i grandi elettori indicano il candidato ufficiale: è Arnaldo Forlani, che ha il pieno appoggio di Craxi.
    Tutto fatto? Nemmeno per sogno. Dopo il rituale delle candidature di bandiera nelle prime tre votazioni, ancora una volta la prova dell’aula taglia le gambe alle candidature più granitiche: Forlani parte male, insiste, ma deve fermarsi a 29 voti dal traguardo. Non è un mistero per nessuno che la pattuglia andreottiana ha deciso di vendicarsi in questo modo del siluramento del grande capo. Forlani, sconsolato, capisce che la partita è chiusa e il 17 annuncia il suo ritiro. Le votazioni procedono tra tensioni e sospetti: per evitare che venga tradita la segretezza del voto viene allestita una cabina chiusa dove riempire la scheda, subito soprannominata “il catafalco”. Forlani tenta di salvare il salvabile stringendo un patto con Craxi in favore del giurista socialista Giuliano Vassalli. E’ una mossa disperata e Forlani lo sa bene: la Dc ormai è una orchestra senza direttore. Il 22 maggio Vassalli cade sotto i colpi dei franchi tiratori e Forlani, sconsolato, in tarda serata si dimette da segretario della Dc.
    Nel pomeriggio del 23 maggio un boato sull’autostrada Palermo-Punta Raisi, a mille chilometri di distanza da Montecitorio, mette fine allo spettacolo di inconcludenza che stanno offrendo i grandi elettori: la bomba che uccide il giudice Giovanni Falcone, la compagna Francesca Morvillo e cinque uomini della scorta innesca una reazione immediata nei corridoi di Montecitorio. Il nome di Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Camera, è stato proposto all’inizio delle votazione da Marco Pannella: da allora solo i radicali e pochi altri l’hanno costantemente votato. Ma già da qualche giorno i leader dei partiti hanno capito che per uscire dal vicolo cieco bisognava puntare su uno dei due presidenti delle Camere: il repubblicano Spadolini o, appunto, il democristiano Scalfaro. La strage di Capaci non lascia tempo per altri bizantinismi. Scartato Spadolini per l’ostilità dei socialisti, la ruota gira presto in favore di Scalfaro. Anche Achille Occhetto, mettendo a tacere qualche mugugno interno, schiera il Pds. Il 25 maggio il nuovo presidente viene eletto con un’ampia maggioranza, che all’inizio delle votazioni nessuno avrebbe potuto prevedere: 672 voti.

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    Quirinale 1985: il “sardomuto” Cossiga, poi “picconatore”

    Nel 1985 non c’è ancora il picconatore: casomai c’è il “sardomuto”, un politico schivo, riservato, che non ama le luci della ribalta. Francesco Cossiga ha appena 57 anni, e viene dal correntone della sinistra democristiana, quella che negli anni del compromesso storico ha voluto l’accordo con i comunisti. Subito dopo il tragico epilogo del sequestro Moro si è dimesso da ministro dell’Interno, prendendosi la responsabilità di non essere riuscito a salvare la vita al presidente della Dc. Per la sinistra extraparlamentare, negli anni ’70, era “KoSSiga” con con le due esse del cognome scritte come quelle delle SS tedesche. E’ a quest’uomo che non brilla per comunicativa, ma che è ben addentro nelle stanze della politica e che può vantare anche un discreto rapporto con il Pci (tra l’altro è cugino di secondo grado di Berlinguer), che la Dc pensa per rimpiazzare Sandro Pertini alla scadenza del suo mandato: l’alternanza impone che nel vecchio palazzo dei papi e dei re questa volta salga un democristiano, e la balena bianca vuole archiviare i fuochi d’artificio del settennato di Pertini. Chi meglio del sardo Cossiga, in quel momento presidente del Senato, per riportare il Quirinale nell’alveo della tradizione che vuole la presidenza della Repubblica come un luogo di potere silenzioso?
    Non potendo immaginare che di lì a qualche anno il freddo Cossiga si sarebbe trasformato in una specie di Savonarola, il segretario della Dc De Mita spende tutta la sua abilità nel preparargli la volata. A palazzo Chigi, da due anni, c’è il capo del Psi Bettino Craxi: anche per questo una riconferma di Sandro Pertini, che pure la desidera, è impensabile. De Mita, leader in crescita della sinistra democristiana orfana di Moro, è soprattutto preoccupato di non vedere la replica delle epiche guerre intestine che in tutte le precedenti elezioni hanno terremotato la Dc. Il suo pallino è di arrivare al giorno della prima seduta del Parlamento con un accordo a prova di bomba siglato da tutti i grandi partiti. Cominciano così gli incontri con gli altri leader. A Botteghe Oscure c’è Alessandro Natta, eletto al vertice del Pci dopo l’improvvisa morte di Berlinguer. A lui De Mita fa i nomi di due big democristiani: Giulio Andreotti, che con il Pci ha governato all’epoca del compromesso storico, e Arnaldo Forlani, espressione della grande area centrale, ben visto da Craxi. Nessuno dei due ottiene il via libera del bottegone. A quel punto De Mita getta la carta di Cossiga. E’ presidente del Senato e la sua appartenenza alla sinistra democristiana lo rende un candidato con un certo appeal anche nel Pci. Per convincere Natta a dare il suo sì, De Mita ricorre a tutta la sua arte dialettica: “Senti, ti propongo di votare il presidente del Senato, che voi avete già votato in quella carica. Sappi che se dici di no possiamo far eleggere Forlani con i voti dei socialisti”. Natta si fa due conti e dà il suo assenso, anche per evitare che Craxi, fresco trionfatore nel referendum sulla scala mobile in cui il Pci è stato sconfitto, possa cantare vittoria. Sul nome di Cossiga Craxi non può dire di no e i sempre riottosi capi corrente Dc hanno dovuto piegare la testa di fronte all’accordo stretto con gli altri partiti. De Mita chiama Cossiga mentre si trova fuori dall’Italia per una visita di Stato e gli dà la notizia: “Vedi di tornare che ti votiamo come presidente della Repubblica”. Unica condizione che viene posta da De Mita a Cossiga è la conferma al Quirinale del segretario generale Antonio Maccanico, irpino come lui.
    Il 24 giugno l’elezione va liscia come l’olio: Cossiga ottiene 752 voti su 977, con 141 schede bianche. Ai franchi tiratori sono state tagliate le unghie: 16 voti per Forlani, cinque per Fanfani, 3 per Andreotti, 12 tifosi di Pertini che volevano la sua rielezione.

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    Quirinale 1978: l'outsider Pertini sorprende tutti

    Il 15 giugno del 1978, su una scena politica già sconvolta dall’assassinio di Aldo Moro per mano delle Br, piomba la notizia delle dimissioni di Giovanni Leone, costretto a lasciare anzitempo il Quirinale in seguito alla scandalo Lockheed. Con sei mesi di anticipo sulla scadenza naturale il Parlamento si trova a dover risolvere il rebus del successore.
    Nel ’78 la maggioranza si è allargata al Pci, che sostiene il governo delle larghe intese di Andreotti nato proprio il giorno del rapimento Moro. Il Psi è guidato da Craxi, che durante il sequestro del presidente della Dc si è dissociato dalla linea della fermezza e ha chiesto l’avvio di una trattativa con i brigatisti. La Dc è nelle mani di Benigno Zaccagnini, fautore del compromesso storico, mentre a Botteghe Oscure regna il carismatico Enrico Berlinguer, che però deve tenere a bada i malumori dei militanti ostili alla collaborazione con la Dc.
    Per il Quirinale si è ormai imposta la regola dell’alternanza: sette anni un laico, nel settennato seguente un cattolico. Dopo il democristiano Leone tocca dunque a un laico. Il segretario del Pri Ugo La Malfa non nasconde le sue mire, ma Craxi vuole che al Quirinale arrivi un socialista. Il 29 giugno, giorno della prima votazione, Montecitorio è sorvegliata da carabinieri armati di mitra, pronti a fronteggiare eventuali blitz terroristici. I primi scrutini vanno via con i partiti che votano i loro candidati di bandiera: il Dc Guido Gonella, il Pci Giorgio Amendola. Le giornate che seguono vedono la Dc rifugiarsi nell’astensione in attesa che emerga una solida candidatura. Craxi non punta su Sandro Pertini: l’ex presidente della Camera, ormai ottantunenne, non è allineato. Troppo indipendente.
    I socialisti puntano su altri due autorevoli personaggi, che Craxi, a torto o ragione, reputa più affidabili: l’ex ministro Antonio Giolitti e il giurista Giuliano Vassalli. Ma Berlinguer non è disposto ad avallare i disegni di Craxi e mette il veto su Vassalli (troppo schierato a favore della trattativa con le Br) e fa per primo il nome di Pertini: dal punto di vista di Botteghe Oscure, l’anziano socialista savonese, con il suo passato glorioso di incorruttibile antifascista, è il candidato ideale per concedere a Craxi una vittoria dimezzata. Per non farsi mettere nell’angolo, il 2 luglio il segretario del Psi fa propria la candidatura di Pertini, in un momento in cui la Dc non ha ancora deciso il da farsi: è probabile che sia una mossa per far naufragare la corsa dell’ “indesiderato”. Pertini scrive una lettera a Craxi in cui dice che è pronto a candidarsi solo a patto di essere appoggiato da tutto l’ “arco costituzionale”.
    Craxi spera di aver archiviato la scomoda pratica, e ricomincia a lavorare per Giolitti. Pertini, in realtà, ha capito che giocando bene le sue carte può farcela davvero. Alla fine anche Craxi deve fare di necessità virtù: preso atto che le candidature di Giolitti e Vassalli non decollano (quest’ultimo alla decima votazione ottiene 429 voti con oltre 100 schede bianche) , deve accettare di far tornare in pista Pertini, che nel frattempo ha avuto anche l’assenso della Dc.
    E’ Zaccagnini a comunicare la notizia al diretto interessato. Pertini la riceve mentre si sta preparando per partire per Nizza dove lo aspetta la moglie Carla Voltolina per le vacanze estive. E sabato otto luglio, e al sedicesimo scrutinio arriva l’elezione con un’ampia maggioranza: 833 voti su 995, praticamente tutti i partiti tranne l’estrema destra.

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    Dl capienze: Camera, ok definitivo al testo

    Ok definitivo dell’Aula della Camera al decreto legge Capienze. Il testo è stato approvato a Montecitorio con 303 voti a favore, 28 contrari (Fdi e A) e un astenuto. 
    Ecco i principali contenuti del provvedimento che è stato definitivamente approvato a Montecitorio.
    – Per gli spettacoli aperti al pubblico in sale teatrali, sale da concerto, cinema, la capienza consentita in zona bianca è del 100 per cento. L’accesso è consentito con green pass. Niente più distanza di un metro tra i visitatori di musei e altri istituti e luoghi della cultura.
    – Per le discoteche al chiuso servono impianti di aerazione, ma senza ricircolo dell’aria oppure sistemi di filtrazione con filtri HEPA o F9.
    – Stop ai biglietti nominali per l’accesso alle manifestazioni carnevalesche, ai corsi mascherati, alle rievocazioni storiche, alle giostre e manifestazioni simili.
    – Ok al riempimento al 100%, con green pass, per gli autobus turistici.
    – Obbligo di rendere al datore di lavoro le comunicazioni riguardo il mancato possesso del green pass “con un periodo di preavviso necessario a soddisfare le esigenze organizzative”.
    – Nuovo assetto del Ministero della salute con rafforzamento delle direzioni generali. Previsto uno stanziamento aggiuntivo per il commissario straordinario all’emergenza sanitaria.
    – Innalzamento del limite anagrafico a 68 anni per l’iscrizione all’elenco nazionale dei soggetti idonei alla nomina di direttore generale delle Asl, delle aziende ospedaliere e degli altri enti del Servizio sanitario nazionale.
    – L’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione potrà avvalersi di un incremento di personale per consentire il tempestivo esame delle richieste di referendum depositate entro il 31 ottobre 2021.
    – Per fronteggiare l’emergenza in Afghanistan e l’accoglienza dei profughi, è stato incrementato di 3000 posti il Sistema di accoglienza e integrazione.
    – Il trattamento dei dati personali da parte di un’amministrazione pubblica diventa “consentito se necessario per l’adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l’esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti”.

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    Manovra: governo valuta nuovo taglio contributi nel 2022

    Un nuovo intervento di decontribuzione, una tantum, nel 2022. E’ una delle ipotesi al vaglio di governo e maggioranza nel pacchetto di modifiche alla manovra per sfruttare il “tesoretto” generato dal minor costo del taglio delle tasse nel 2022. Resta la volontà di rafforzare l’intervento contro il caro bollette ma le risorse potrebbero andare anche a ridurre il cuneo contributivo. Le principali opzioni sono un taglio dei contributi ai lavoratori con i redditi più bassi (come gli incapienti), o un intervento lato imprese sul Cuaf, il contributo che pagano i datori di lavoro per gli assegni familiari. Possibile un mix di misure.
    Governo e maggioranza al lavoro sui ritocchi al Superbonus: tra le ipotesi di mediazione che si stanno valutando ci sarebbe anche quella di alzare, senza eliminare, il tetto Isee per l’accesso all’incentivo al 110% su case unifamiliari e villette. Il limite potrebbe essere alzato dagli attuali 25mila euro a 40mila euro di Isee. Il nodo rimane quello delle risorse: la misura costerebbe diverse centiania di milioni e andrà valutata la sua compatibilità con l’intero pacchetto di modifiche alla manovra.
    Il premier Mario Draghi dovrebbe tenere domani una riunione con i sindacati alle 17.30 a Palazzo Chigi per discutere della legge di bilancio. E’ quanto apprende l’ANSA da fonti governative.
    Il presidente del Consiglio ha ricevuto a Palazzo Chigi i rappresentanti del gruppo parlamentare delle Autonomie, i senatori Julia Unterberger, Albert Laniece, Dieter Steger, per discutere della legge di bilancio. Con il premier ci sono i ministri dell’Economia Daniele Franco e ai Rapporti col Parlamento Federico D’Incà. Draghi chiude gli incontri con i gruppi di maggioranza sulla manovra. 
    “Gli abbiamo chiesto di rimanere fino al termine della legislatura per non mettere in pericolo tutto il buono che è iniziato e che deve rimanere fino alla fine, fino al 2023. Lui si è messo a ridere, ha sorriso, ma non ha detto niente”. Lo dice Julia Unterberger, presidente del gruppo delle Autonomie, all’uscita da Palazzo Chigi dopo l’incontro sulla manovra con il premier Mario Draghi. “Il presidente Draghi come sempre ci ascolta e ascolta quello che per i nostri territori è importante, l’abbiamo ringraziato per le vaccinazioni che sono andate bene in Italia, per aver chiesto il Green pass sui posti di lavoro e non aver fatto i test gratuiti che fanno la differenza con Austria e Germania”, afferma Unterberger. “Noi leggiamo i giornali in lingua tedesca e da quando c’è Draghi e ha fatto la sua campagna vaccinale l’immagine dell’Italia è molto migliorata, quei giornali parlano di modello italiano e questa cosa a noi fa piacere: gli abbiamo fatto i complimenti e poiché lui è molto simpatico ha subito minimizzato e ha detto grazie”.
    “Noi abbiamo il nostro Casini nel gruppo, è un membro importante: tifiamo per lui”, dice la presidente del gruppo delle Autonomie, all’uscita da Palazzo Chigi dopo l’incontro sulla manovra con il premier Mario Draghi, rispondendo a una domanda sul Quirinale. “Se non avessimo Casini, io personalmente tiferei per una donna”, aggiunge la senatrice.
    Avete chiesto a Draghi di restare al governo fino a fine legislatura? “Non ne abbiamo parlato ma riteniamo che il presidente Draghi stia facendo molto bene nella gestione di partite molto importanti come la legge bilancio ma anche il Pnrr su cui Draghi ha dato un contributo fondamentale”. Così Marco Marin, deputato di Coraggio Italia, risponde a una domanda dopo il colloquio a Palazzo Chigi con Draghi sulla manovra. “C’è la pandemia e la campagna di vaccinazione su cui l’Italia sta andando meglio degli altri Paesi europei: riteniamo che Draghi sia una garanzia fino al 2023 per gli italiani”, sottolinea.
    “Un incontro proficuo e molto franco, in cui abbiamo ribadito al presidente Draghi il nostro pieno sostegno”. Così la ministra Elena Bonetti commenta l’incontro a Palazzo Chigi fra la delegazione di Italia Viva e il presidente del Consiglio, Mario Draghi, cui ha preso parte con Davide Faraone e Maria Elena Boschi. “Non lo nascondiamo, siamo soddisfatti del lavoro che il governo sta portando avanti”, aggiunge. “Abbiamo confermato un sostegno fattivo e concreto e abbiamo aperto ad alcune tematiche strategiche e urgenti”. La manovra pone “temi giusti per la ripartenza e lo sviluppo del Paese”. “Un anno fa – sottolinea Boschi – uscivamo da Palazzo Chigi più preoccupati per il Paese, oggi usciamo molto rassicurati perchè abbiamo un governo autorevole che va nella giusta direzione e ha il nostro appoggio”.
    La delegazione di Liberi e uguali, composta dal ministro della Salute Roberto Speranza, i capigruppo di Camera e Senato Federico Fornaro e Loredana De Petris, e Vasco Errani, relatore al Senato della manovra, è a palazzo Chigi per l’incontro con il presidente del Consiglio Mario Draghi sulla manovra.
    Intanto, per il ministro del Turismo, la variante Omicron del coronavirus “scombina un po”” i piani del settore turistico e obbliga a dover “ancora aspettare” per l’apertura di molti corridoi per i viaggi organizzati all’estero e un aumento delle visite internazionali, per cui, “a questo punto”, in legge di bilancio “di sicuro” un intervento “più corposo verrà previsto”, ha detto a margine dell’assemblea generale dell’Organizzazione Mondiale del Turismo (Omt) a Madrid.

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    Quirinale 1971: Natale amaro per Fanfani, arriva Giovanni Leone

    Se la vendetta è un piatto che va consumato freddo, quella di Leone su Fanfani fu freddissima: sette anni per prendersi la rivincita sul politico aretino che con le sue manovre gli aveva sbarrato la strada per il Colle nel 1971. La rivincita è quasi un bis dello spettacolo di manovre andato in scena sette anni prima: identico il periodo, quello di Natale, quasi identico il gran numero di votazioni necessarie per arrivare all’elezione (23, due in piu’ del 1971, record ancora insuperato). In quel dicembre di 43 anni fa bisogna scegliere il successore di Giuseppe Saragat.
    A Piazza del Gesù, il segretario Arnaldo Forlani e i maggiorenti della Dc concordano tutti su un punto: dopo il laico Saragat a salire sul colle più alto deve essere un politico democristiano. Ma la rivendicazione, invece di favorire un clima di concordia, ha l’effetto opposto. Fanfani e Moro, i due “cavalli di razza” del partito, si sono incontrati più volte per stringere un accordo: Fanfani offre a Moro la segretaria del partito in cambio del via libera al Quirinale, ma il suo rivale non è del tutto convinto. L’assemblea dei grandi elettori Dc viene convocata l’8 dicembre, a sole 16 ore dall’inizio delle votazioni in aula. Ha la meglio, a scrutinio segreto, Fanfani. Ma la corsa dell’aretino parte subito con qualche handicap: nella prima gli mancano 40 voti dei grandi elettori Dc, che diventano 55 nel pomeriggio. I franchi tiratori fanno restare Fanfani dietro al candidato unitario delle sinistre, il socialista Francesco De Martino, votato anche dal Pci. La Dc non riesce a unire il fronte dei piccoli partiti di centro. E così Fanfani sperimenta la triste sorte subita da Leone sette anni prima, infilato dai dissidenti Dc che non lo vogliono al Quirinale e dagli alleati che puntano su altre soluzioni. Dalla VII votazione la Dc, sfibrata dagli insuccessi, sceglie di astenersi: un trucco per neutralizzare i franchi tiratori. All’XI votazione la Dc torna a riproporre Fanfani, convinto di aver strappato il consenso dei partitini laici.
    Ma è un nuovo “bagno”: i suoi voti arrivano al punto più alto (393), ma resta dietro De Martino. A Fanfani non resta che annunciare il ritiro. Per altre 12 votazioni la Dc si rifugia in un’umiliante astensione. Il Natale si avvicina e come sette anni prima si rischia il nulla di fatto. Il 22 dicembre, alla XXII votazione, le sinistre abbandonano la candidatura di De Martino e fanno scendere in pista Pietro Nenni: confidano che la Dc prenda atto che senza i voti dei socialisti non si va da nessuna parte.
    Ma la Dc, se vuole mantenere il punto, deve correre ai ripari. Matura in quelle ore la candidatura di Giovanni Leone: Pri e Psdi inseriscono il suo nome in una terna con Paolo Emilio Taviani e Mariano Rumor che però si defilano subito. L’assemblea dei grandi elettori Dc, a scrutinio segreto, deve scegliere tra Leone e Moro. La vittoria, di misura, va a Leone, che riceve la notizia a casa, costretto al letto da una bronchite. Il numero esatto dei voti non si saprà mai perchè gli scrutatori bruciarono subito le schede. Il 23 dicembre, Leone manca il quorum per un solo voto, fermandosi a quota 503. Il giorno dopo, vigilia di Natale, viene eletto con 511 voti: lo votano democristiani, socialdemocratici, repubblicani, liberali e missini. Una maggioranza anomala rispetto a quella che governa il Paese. Tra i suoi primi atti lo scioglimento delle Camere, due mesi dopo la sua elezione. I suoi sette anni al Colle finirono più burrascosamente di quanto non siano cominciati: accusato dalla giornalista Camilla Cederna e dai radicali di essere coinvolto nello scandalo Lockheed (accuse mai provate, anzi la Cederna fu condannata per diffamazione e Pannella gli chiese pubblicamente scusa), fu scaricato dalla Dc e costretto alle dimissioni il 15 giugno 1978, sei mesi prima della scadenza del suo mandato.

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    Quirinale 1964: via crucis per Giovanni Leone, ce la fa Giuseppe Saragat

    Con Antonio Segni fuori dai giochi per l’emorragia celebrale che lo aveva colpito nell’agosto del ’64, le funzioni di capo dello Stato – pur davanti all’evidenza dell’impedimento permanente che prevede il decadimento del presidente e una nuova elezione – passano al “supplente” Cesare Merzagora che esercita il suo ruolo per ben quattro mesi. Solo il 6 dicembre, infatti, dalla famiglia Segni arriva una lettera di dimissioni aprendo la partita per l’elezione del successore. La prima seduta del Parlamento viene fissata per il 16 dicembre. Il partito di maggioranza relativa, guidato dal doroteo Mariano Rumor (a palazzo Chigi c’è Aldo Moro), è sempre pronto a dividersi quando si tratta di scegliere l’uomo da mandare al Quirinale. E così fa anche questa volta.
    In pista ci sono Amintore Fanfani, Mario Scelba e Giulio Pastore, ma alla fine, il giorno prima dell’inizio delle votazioni, i gruppi scelgono a scrutinio segreto di puntare sul presidente della Camera Giovanni Leone. Lo sfidante è il socialdemocratico Giuseppe Saragat, che ancora una volta punta sulle crepe nello scudocrociato per raggiungere il traguardo. Sulla carta Leone ha la possibilità di farcela dal quarto scrutinio. Ma i franchi tiratori non gli lasciano spazio: Leone è costretto a una lunga via crucis nella quale i suoi voti fluttuano senza mai avvicinarsi al quorum. Vista la mala parata Leone sarebbe dell’avviso di ritirarsi, ma la Dc non vuole cedere. “Questa è la mortificazione di una Dc stracciata” dice il segretario della Dc Mariano Rumor, sperando in un pentimento dei frondisti . Le votazioni si susseguono inutilmente, mentre si avvicina il Natale. Al ministro calabrese Gennaro Calviani, arrivato a Montecitorio ingessato per un incidente automobilistico, qualcuno dice: “Farai prima a toglierti i gessi che noi ad eleggere il presidente”.
    D’altra parte, anche la candidatura di Saragat non decolla. Dopo le prime votazioni i socialisti passano a votare per il loro segretario Piero Nenni. Anche i comunisti, dopo dodici scrutini in cui votano in blocco per il loro candidato di bandiera Umberto Terracini, spostano i loro voti su Nenni. Se franchi tiratori Dc e seguaci di Saragat si coalizzano Nenni può anche farcela. Leone prende 406 voti al quattordicesimo scrutinio, ma al quindicesimo ridiscende a 386. E’ il momento di gettare la spugna. Ormai siamo arrivati alla vigilia di Natale. Il 25, nonostante il giorno di festa, tutti convocati ma la Dc, per neutralizzare i franchi tiratori, decide di astenersi. Nenni si ferma a quota 349. Piazza del Gesù usa il pugno duro contro due franchi tiratori rei confessi: l’ex sindacalista Carlo Donat-Cattin e il giovane Ciriaco De Mita vengono sospesi per un anno per aver disobbedito alle direttive del partito.
    Piazza del Gesù è in un vicolo cieco: se vuole salvare la faccia la grande balena bianca deve accettare di sostenere Saragat, che dopotutto è un fedele alleato di governo. Decisione sofferta, che prende tutto il giorno di Santo Stefano. Si ricomincia a votare: la Dc prima si astiene, poi comincia a votare per Saragat, ma i socialisti continuano a mettere nell’urna la scheda con il nome di Nenni. Il segretario del Psi incontra Saragat e acconsente a dargli i suoi voti. In quelle stesse ore i socialdemocratici vanno a chiedere i voti anche al segretario del Pci Luigi Longo. La risposta è che Saragat, se vuole averli, deve chiederli pubblicamente. Il fondatore del Psdi se la cava con una dichiarazione in cui auspica la convergenza sul suo nome di “democratici e antifascisti”. Per il Pci è sufficiente. Finalmente, il 28 dicembre, al ventesimo scrutinio, Saragat viene eletto presidente della Repubblica con 646 voti.

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    Quirinale 1962: Antonio Segni batte Saragat e la fronda Dc

    “Hai visto che è successo sette anni fa? Questa volta dobbiamo essere prudenti, molto prudenti”. Scottato dall’esperienza del 1955, quando il suo candidato Merzagora era stato silurato in favore di Gronchi, Amintore Fanfani non vuole più commettere errori. Adesso lui è a palazzo Chigi, con un governo che ha il sostegno esterno dei socialisti e Aldo Moro, l’altro cavallo di razza della Dc, ha preso la guida del partito. I due si ritrovano uno di fronte all’altro nello studio di Fanfani a Palazzo Chigi e studiano il da farsi. Qualche mese prima Fanfani, alla guida del governo con un’alleanza che per la prima volta vedeva i socialisti dare il loro appoggio esterno, ha stretto un patto con la corrente moderata dei dorotei: a lui la certezza di continuare a guidare il governo, alla destra Dc la candidatura del loro esponente più autorevole, Antonio Segni, un sardo di famiglia aristocratica, vecchio esponente dei popolari di Sturzo, tra i fondatori della Dc e autore dell’importante riforma agraria approvata dai governi De Gasperi.
    Ma a ridosso dell’inizio delle votazioni, i giochi si riaprono. Moro nello studio di Fanfani, spiega come la vede: la Dc candida Segni, Pri e socialdemocratici candidano Saragat, che avrà anche i voti di socialisti e comunisti; nessuno ottiene la maggioranza e entro pochi giorni si arriverà al candidato vero. Quale? Nei suoi diari Fanfani resta nel vago (“non si e’ parlato di me”) ma il suo nome circola su tutti i giornali. Tanto è insistente il tam tam che Gronchi chiama Fanfani e gli chiede di smentire ufficialmente tutte le voci.
    Il politico aretino non ci casca: “Ma io non posso smentire quello che non esiste”, gli risponde serafico. La partita è doppiamente complicata perchè, facendo conto sulle divisioni della Dc, il capo dei socialdemocratici Giuseppe Saragat si è candidato con non poche possibilità di successo. Si arriva così all’assemblea dei gruppi della Dc del 30 aprile: Segni vince ma non stravince. Alla prima votazione del 2 maggio il candidato della Dc prende 333 voti (una settantina in meno rispetto al totale dei parlamentari dc) ma è comunque in testa. I primi tre scrutini non riservano sorprese. Dal quarto in poi Saragat viene votato da comunisti e socialisti e si avvicina pericolosamente: 354 per il candidato Dc 321 per il socialdemocratico. I socialisti di Nenni provano a sparigliare proponendo di far ritirare tanto Segni quanto Saragat e di puntare su un terzo uomo a scelta tra Leone e Merzagora. Ma Moro non vuole mandare all’aria la fragile unità del partito e Fanfani intima ai franchi tiratori di rientrare nei ranghi. Il 6 maggio incontra Segni a casa del figlio Mariotto.
    Patto siglato e strada (quasi) spianata per Segni: il settimo scrutinio termina con il candidato Dc a solo 4 voti da raggiungimento del quorum. L’ottavo registra un incidente: Sandro Pertini, vedendo il deputato della Dc Azara che non avendo ancora ritirato la scheda prende quella del suo vicino dove c’è già scritto il nome di Segni, grida all’imbroglio e fa lasciare l’aula a tutti i deputati del Psi. Votazione annullata. Subito viene indetto il nono scrutinio. Ultime frenetiche ore: i comunisti “tentano” il presidente della Camera Leone promettendogli tutti i loro voti, ma lui rifiuta di prestarsi al gioco. Segni viene eletto con 443 voti, superando di poco il quorum. Determinanti risultano i 46 voti del movimento sociale e dei monarchici. Ma quella di Segni al Colle sarà una permanenza breve: dopo soli due anni, il 7 agosto del 1964, il presidente dovette drammaticamente lasciare il Quirinale, colpito da un’emorragia cerebrale che lo lascerà muto e immobilizzato fino alla morte, sopravvenuta nel 1972. Il malore di Segni arrivò durante un tesissimo incontro con Saragat e Moro. Qualcuno, anni dopo, ipotizzò che Segni fosse stato accusato da Saragat di avere tentazioni golpiste e che avesse perso i sensi durante il diverbio. Ricostruzione che non ha però mai avuto conferme.