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    Quirinale 2006: ci prova D'Alema ma la spunta Napolitano

    Con ventiquattromila voti di scarto e una maggioranza di un pugno di senatori si può anche pensare di governare per qualche anno, ma come si fa a eleggere un presidente della Repubblica? E’ questo il pensiero che ha in testa il segretario dei Ds Piero Fassino il giorno dopo che la coalizione di centrosinistra ha vinto di strettissima misura le elezioni del 10 aprile 2006. L’Unione di Romano Prodi si è imposta per poche migliaia di voti e il professore, con un’alleanza nella quale sono stati imbarcati tutti, da Mastella ai trozkisti eletti nelle liste di Bertinotti, si rende subito conto che Silvio Berlusconi non ha alcuna intenzione di mettersi buono da una parte. In questo clima di guerra incombente l’appuntamento con la scelta del successore di Ciampi è una bella gatta da pelare.
    Dopo una rapida valutazione, a Fassino e compagni sembra che ci siano solo due carte da giocare: o convincere Ciampi a farsi rieleggere, o puntare su Massimo D’Alema, che dai tempi della bicamerale ha ottimi rapporti anche con lo schieramento guidato da Berlusconi. La prima ipotesi dura lo spazio di un mattino. Ciampi fa subito sapere che non ha la minima voglia di un bis. Nel suo diario liquida la faccenda in modo lapidario: “Letta e Berlusconi perorano disponibilità mia rielezione. No”.
    Scatta allora l’operazione D’Alema. Una telefonata dell’ex premier con Gianni Letta getta le basi di un possibile accordo: i due hanno una antica consuetudine, fin da quando Letta fece incontrare D’Alema e Berlusconi a casa sua all’epoca della bicamerale. Ma il 5 maggio, a tre giorni dalla convocazione del Parlamento, arriva la doccia gelata: Berlusconi non è riuscito a convincere il perplesso Gianfranco Fini a mandare in porto l’operazione. E senza i voti di An il Cavaliere non vuole andare avanti. I Ds devono decidere in fretta quale altra carta giocare. Nei giorni precedenti si sono fatti i nomi di Giuliano Amato e Emma Bonino, ma Fassino e D’Alema, d’accordo con Prodi, decidono di puntare sull’ottantunenne Giorgio Napolitano, da qualche anno senatore a vita per volere di Ciampi e padre nobile dei democratici di sinistra: nel Pci è stato il capo dei miglioristi, la corrente di destra che voleva “decomunistizzare” il partito ben prima della caduta del muro di Berlino. Forza Italia non sarà della partita. Napolitano sarà stato anche ben disposto verso il Psi Craxi, ma Berlusconi decide di non mettere in gioco il suo pacchetto di voti.
    Nella prima votazione, dove servono i due terzi dei voti, l’Unione non fa ancora scendere in campo Napolitano: tanto non sarebbe comunque eletto. Berlusconi fa votare per Gianni Letta, in 27 votano per D’Alema. Nella seconda e terza votazione anche il centrodestra vota scheda bianca, D’Alema incrementa i voti e qualche burlone si diverte a scrivere sulla scheda il nome della moglie Linda Giuva. Si arriva così al 10 maggio: Napolitano viene eletto al primo colpo con 543 voti. Per lui votano tutti i grandi elettori dell’Unione, senza nemmeno un franco tiratore (è la prima volta che accade) e in più arrivano due voti extra dai “dissidenti” dell’Udc Marco Follini e Bruno Tabacci. La Lega ha votato per Bossi, mentre Forza Italia ha scelto la scheda bianca: per evitare che qualcuno di loro ignori la consegna viene ordinato che tutti entrino ed escano dalla cabina elettorale a tutta velocità, in modo che non ci sia il tempo di scrivere un nome sulla scheda. “Correvano come bersaglieri”, è il commento di Romano Prodi.

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    Quirinale 1999: Patto Veltroni-D'Alema-Cav, ecco Ciampi

    “Ringrazio tutti coloro che mi hanno dato il voto e prego di non votare più per me perchè non sono più disponibile”: il 13 maggio del 1999, nello studio di via XX Settembre, Carlo Azeglio Ciampi segue lo spoglio della votazione per l’elezione del presidente della Repubblica. Con lui c’è il giovane direttore generale, il quarantenne Mario Draghi. Il nome del ministro su cui D’Alema, Veltroni e Berlusconi si sono messi d’accordo non ha rivali, ma a metà dello spoglio sembra che le cose si mettano male. Ciampi allora prende un biglietto e scrive una nota da consegnare all’ANSA per annunciare il suo ritiro. “La mia candidatura ha senso solo se si appoggia su una maggioranza larga”, spiega a Draghi mentre butta giù l’appunto. In effetti Ciampi cammina sul filo del quorum: sulla carta avrebbe 892 voti, ma non sta facendo il pieno. Alla fine per lui ci sono 707 voti su 1010: la soglia è superata e Ciampi è eletto alla prima votazione, come Cossiga 14 anni prima.
    Al Quirinale arriva così il superministro di Prodi e D’Alema, già governatore della Banca d’Italia e tra il ’93 e ’94 presidente di un governo di emergenza del dopo Tangentopoli. La sua candidatura matura nella primavera del 1999. I due grandi registi dell’operazione sono Walter Veltroni, segretario dei Ds, e il presidente del consiglio Massimo D’Alema: rivali nel partito, ma in questo momento in sintonia sul da farsi. Negli ultimi sette anni, la politica italiana è completamente cambiata: la Dc è scomparsa, il Psi è al lumicino e Berlusconi è sceso in campo.
    Dopo la vittoria del centrodestra nel ’94 e il ribaltone che ha mandato a casa il primo governo Berlusconi, il centrosinistra ha vinto le elezioni del 1996 e ha mandato Prodi a palazzo Chigi: ma la sua permanenza è stata breve. A Palazzo Chigi è così arrivato D’Alema, reduce dal tentativo (finito male) della bicamerale e del “patto della crostata” con Berlusconi sulle riforme. Quando si tratta di scegliere il nuovo capo dello Stato, Berlusconi ha un obiettivo irrinunciabile: evitare in tutti i modi che sul Colle salga un nuovo Scalfaro. Il Cavaliere trova orecchie attente in Massimo D’Alema, che governa con una maggioranza risicata e non vuole che la scelta del nuovo presidente della Repubblica avveleni gli animi. Per una volta D’Alema ha dalla sua parte Walter Veltroni: il segretario dei Ds punta a un candidato da far eleggere al primo scrutinio, e insieme a D’Alema pensa subito a Ciampi. Il 5 maggio Veltroni suona al campanello di casa Ciampi in via Anepo, nell’elegante quartiere Trieste, e gli chiede se sia disponibile a farsi candidare, ma non gli nasconde le difficoltà nella maggioranza. Il centrosinistra, infatti, non è per niente unito. A scalpitare è soprattutto il Ppi, guidato in quel momento da Franco Marini: i popolari vogliono che al Quirinale salga un cattolico (più che altro vogliono uno dei loro) e hanno paura di essere messi all’angolo. Ciampi accetta, ma in cuor suo non crede di potercela fare: “Figurati – dice alla moglie Franca – non è mai successo che abbiano chiamato uno fuori dalla politica come me”. I popolari, in allarme per le manovre di Veltroni e D’Alema, lanciano la candidatura di Rosa Russo Iervolino e poi quella di Nicola Mancino, ma nessuna delle due fa breccia. Marini si arrabbia moltissimo con D’Alema: volano parole grosse, ma i Ds non cedono. Intanto l’offensiva in favore di Ciampi va avanti. Qualche giorno prima della convocazione del Parlamento, due emissari di Fini, Altero Matteoli e Luciano Magnalbò, vanno da Ciampi e gli dicono che c’è il via libera. Il 12 maggio, vigilia della votazione, arriva la telefonata di Gianni Letta: “Forza Italia è pronta a votarla, già domani” gli dice il plenipotenziario di Berlusconi. L’ultimo tassello è andato a posto: per Ciampi voteranno tutti i partiti tranne Lega, Rifondazione comunista e franchi tiratori popolari che disperdono i loro voti tra Nicola Mancino e Rosa Russo Jervolino.

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    Pd deposita ddl che vieta la rielezione del presidente della Repubblica

     Il Pd, a firma dei senatori Dario Parrini, Luigi Zanda e Gianclaudio Bressa, ha depositato un disegno di legge costituzionale che modifica gli articoli 85 e 88 della Costituzione e vieta la rieleggibilità del presidente della Repubblica. Nell’articolo 1 del ddl si chiede di aggiungere al primo comma dell’articolo 85 della Costituzione che il presidente della Repubblica “non è rieleggibile”.    L’articolo 2 del ddl chiede di abrogare il secondo comma dell’articolo 88, ovvero il semestre bianco quando il presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere o una di esse negli ultimi sei mesi del suo mandato. 
    I presentatori del ddl ricordano che già “in sede di assemblea costituente si pose il tema dell’opportunità di introdurre limiti alla rielezione del Presidente della Repubblica” e ripercorrono dichiarazioni di ex presidenti della Repubblica nel senso del divieto di una rielezione e contrari al semestre bianco. Ma, sostengono Parrini, Zanda e Bressa, “il conferimento, nel 2013, di un secondo mandato al presidente Napolitano – che peraltro aveva più volte manifestato una diversa volontà – ha senza dubbio cambiato i termini della questione, che da mera possibilità teorica si è tradotta in precedente, e invita a interrogarsi sull’opportunità di riprendere e tradurre in norma argomentazioni così autorevolmente espresse”. “È infatti evidente – affermano i senatori dem – che, se l’eccezione divenisse regola e quella che è stata la regola cominciasse ad apparire come eccezione, l’equilibrio dei poteri delineato dalla Carta potrebbe risultarne alterato. Non è peraltro un caso se gli Stati Uniti, pur in un contesto di elezione sostanzialmente diretta del Presidente, hanno introdotto il divieto del terzo mandato quadriennale solo nel momento in cui l’eccezione avrebbe potuto divenire prassi”. Fu Antonio Segni il primo a segnalare, nel messaggio alle Camere del 16 settembre 1963, che il periodo di sette anni è “sufficiente a garantire una continuità nell’azione dello Stato”, e quindi l’opportunità di introdurre “la non immediata rieleggibilità del Presidente”, per “eliminare qualunque, sia pure ingiusto, sospetto che qualche atto del Capo dello Stato sia compiuto al fine di favorirne la rielezione”. Il messaggio era controfirmato, come Presidente del Consiglio, da Giovanni Leone, che poco dopo presentava alle Camere un disegno di legge costituzionale di modifica degli articoli 85 e 88 della Costituzione nel senso auspicato dal Capo dello Stato. Analoga iniziativa era partita da un gruppo di deputati guidati dal liberale Aldo Bozzi già prima del messaggio presidenziale. Leone, diventato poi Capo dello Stato, richiamò nuovamente l’opportunità di una riforma in tal senso nel proprio messaggio alle camere del 14 ottobre 1975. Nel testo del ddl si ricorda poi che “il tentativo più avanzato di riforma in questo senso si ebbe però nella IX legislatura, con la ben nota Commissione bicamerale presieduta proprio da Aldo Bozzi, che proponeva l’introduzione della non immediata rieleggibilità e, quanto agli ultimi sei mesi di mandato, la subordinazione del potere di scioglimento al parere conforme dei Presidenti delle Camere”. (

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    Quirinale 1992: Capaci scuote palazzo, arriva Scalfaro

    Nell’estate del 1992 la prima Repubblica è a un passo dalla fine, ma i suoi protagonisti ancora non lo sanno. Al governo c’è Giulio Andreotti, a piazza del Gesù Arnaldo Forlani, mentre il Psi è guidato da Bettino Craxi. Entro pochi anni finiranno tutti e tre nella tormenta giudiziaria, ma ora sono il CAF, il potente patto a tre che regge l’Italia affacciata su Tangentopoli. E che ora deve risolvere il rebus del Quirinale. Giulio Andreotti è un democristiano atipico: ha una sua corrente formata da fedelissimi pronti a tutto, quasi un partito nel partito, e anche per questo il resto dei democristiani non lo ama. La sua intelligenza politica, in passato, gli ha suggerito di tenersi alla larga dalla competizione quirinalizia, ma questa volta sa che la partita se la può giocare.
    A Piazza del Gesù si discute se sia meglio candidare Andreotti o Forlani. Quest’ultimo ostenta indifferenza e disinteresse. Giura che preferisce fare il segretario piuttosto che andare nella “prigione dorata” sul colle più alto. Andreotti non si fa irretire e si mostra ancora più disinteressato. Il balletto va avanti qualche giorno. Fino a un caffè a Palazzo Chigi, dove Forlani rassicura Andreotti: “Davvero, Giulio, il candidato giusto sei tu”. Il progetto prevede che Andreotti vada al Quirinale, Craxi prenda il suo posto a Palazzo Chigi, mentre Forlani continuerà a guidare la Dc. Paolo Cirino Pomicino e Nino Cristofori, i due uomini-macchina della corrente andreottiana, sono pronti a mettersi in moto per raggranellare voti. Ma tempo tre quarti d’ora e arriva la doccia gelata: una telefonata del ministro dell’Interno Enzo Scotti, annuncia a Cirino Pomicino il “non possumus” del correntone doroteo alla candidatura di “Giulio”. Il 15 maggio, a scrutinio segreto, i grandi elettori indicano il candidato ufficiale: è Arnaldo Forlani, che ha il pieno appoggio di Craxi.
    Tutto fatto? Nemmeno per sogno. Dopo il rituale delle candidature di bandiera nelle prime tre votazioni, ancora una volta la prova dell’aula taglia le gambe alle candidature più granitiche: Forlani parte male, insiste, ma deve fermarsi a 29 voti dal traguardo. Non è un mistero per nessuno che la pattuglia andreottiana ha deciso di vendicarsi in questo modo del siluramento del grande capo. Forlani, sconsolato, capisce che la partita è chiusa e il 17 annuncia il suo ritiro. Le votazioni procedono tra tensioni e sospetti: per evitare che venga tradita la segretezza del voto viene allestita una cabina chiusa dove riempire la scheda, subito soprannominata “il catafalco”. Forlani tenta di salvare il salvabile stringendo un patto con Craxi in favore del giurista socialista Giuliano Vassalli. E’ una mossa disperata e Forlani lo sa bene: la Dc ormai è una orchestra senza direttore. Il 22 maggio Vassalli cade sotto i colpi dei franchi tiratori e Forlani, sconsolato, in tarda serata si dimette da segretario della Dc.
    Nel pomeriggio del 23 maggio un boato sull’autostrada Palermo-Punta Raisi, a mille chilometri di distanza da Montecitorio, mette fine allo spettacolo di inconcludenza che stanno offrendo i grandi elettori: la bomba che uccide il giudice Giovanni Falcone, la compagna Francesca Morvillo e cinque uomini della scorta innesca una reazione immediata nei corridoi di Montecitorio. Il nome di Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Camera, è stato proposto all’inizio delle votazione da Marco Pannella: da allora solo i radicali e pochi altri l’hanno costantemente votato. Ma già da qualche giorno i leader dei partiti hanno capito che per uscire dal vicolo cieco bisognava puntare su uno dei due presidenti delle Camere: il repubblicano Spadolini o, appunto, il democristiano Scalfaro. La strage di Capaci non lascia tempo per altri bizantinismi. Scartato Spadolini per l’ostilità dei socialisti, la ruota gira presto in favore di Scalfaro. Anche Achille Occhetto, mettendo a tacere qualche mugugno interno, schiera il Pds. Il 25 maggio il nuovo presidente viene eletto con un’ampia maggioranza, che all’inizio delle votazioni nessuno avrebbe potuto prevedere: 672 voti.

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    Quirinale 1985: il “sardomuto” Cossiga, poi “picconatore”

    Nel 1985 non c’è ancora il picconatore: casomai c’è il “sardomuto”, un politico schivo, riservato, che non ama le luci della ribalta. Francesco Cossiga ha appena 57 anni, e viene dal correntone della sinistra democristiana, quella che negli anni del compromesso storico ha voluto l’accordo con i comunisti. Subito dopo il tragico epilogo del sequestro Moro si è dimesso da ministro dell’Interno, prendendosi la responsabilità di non essere riuscito a salvare la vita al presidente della Dc. Per la sinistra extraparlamentare, negli anni ’70, era “KoSSiga” con con le due esse del cognome scritte come quelle delle SS tedesche. E’ a quest’uomo che non brilla per comunicativa, ma che è ben addentro nelle stanze della politica e che può vantare anche un discreto rapporto con il Pci (tra l’altro è cugino di secondo grado di Berlinguer), che la Dc pensa per rimpiazzare Sandro Pertini alla scadenza del suo mandato: l’alternanza impone che nel vecchio palazzo dei papi e dei re questa volta salga un democristiano, e la balena bianca vuole archiviare i fuochi d’artificio del settennato di Pertini. Chi meglio del sardo Cossiga, in quel momento presidente del Senato, per riportare il Quirinale nell’alveo della tradizione che vuole la presidenza della Repubblica come un luogo di potere silenzioso?
    Non potendo immaginare che di lì a qualche anno il freddo Cossiga si sarebbe trasformato in una specie di Savonarola, il segretario della Dc De Mita spende tutta la sua abilità nel preparargli la volata. A palazzo Chigi, da due anni, c’è il capo del Psi Bettino Craxi: anche per questo una riconferma di Sandro Pertini, che pure la desidera, è impensabile. De Mita, leader in crescita della sinistra democristiana orfana di Moro, è soprattutto preoccupato di non vedere la replica delle epiche guerre intestine che in tutte le precedenti elezioni hanno terremotato la Dc. Il suo pallino è di arrivare al giorno della prima seduta del Parlamento con un accordo a prova di bomba siglato da tutti i grandi partiti. Cominciano così gli incontri con gli altri leader. A Botteghe Oscure c’è Alessandro Natta, eletto al vertice del Pci dopo l’improvvisa morte di Berlinguer. A lui De Mita fa i nomi di due big democristiani: Giulio Andreotti, che con il Pci ha governato all’epoca del compromesso storico, e Arnaldo Forlani, espressione della grande area centrale, ben visto da Craxi. Nessuno dei due ottiene il via libera del bottegone. A quel punto De Mita getta la carta di Cossiga. E’ presidente del Senato e la sua appartenenza alla sinistra democristiana lo rende un candidato con un certo appeal anche nel Pci. Per convincere Natta a dare il suo sì, De Mita ricorre a tutta la sua arte dialettica: “Senti, ti propongo di votare il presidente del Senato, che voi avete già votato in quella carica. Sappi che se dici di no possiamo far eleggere Forlani con i voti dei socialisti”. Natta si fa due conti e dà il suo assenso, anche per evitare che Craxi, fresco trionfatore nel referendum sulla scala mobile in cui il Pci è stato sconfitto, possa cantare vittoria. Sul nome di Cossiga Craxi non può dire di no e i sempre riottosi capi corrente Dc hanno dovuto piegare la testa di fronte all’accordo stretto con gli altri partiti. De Mita chiama Cossiga mentre si trova fuori dall’Italia per una visita di Stato e gli dà la notizia: “Vedi di tornare che ti votiamo come presidente della Repubblica”. Unica condizione che viene posta da De Mita a Cossiga è la conferma al Quirinale del segretario generale Antonio Maccanico, irpino come lui.
    Il 24 giugno l’elezione va liscia come l’olio: Cossiga ottiene 752 voti su 977, con 141 schede bianche. Ai franchi tiratori sono state tagliate le unghie: 16 voti per Forlani, cinque per Fanfani, 3 per Andreotti, 12 tifosi di Pertini che volevano la sua rielezione.

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    Quirinale 1978: l'outsider Pertini sorprende tutti

    Il 15 giugno del 1978, su una scena politica già sconvolta dall’assassinio di Aldo Moro per mano delle Br, piomba la notizia delle dimissioni di Giovanni Leone, costretto a lasciare anzitempo il Quirinale in seguito alla scandalo Lockheed. Con sei mesi di anticipo sulla scadenza naturale il Parlamento si trova a dover risolvere il rebus del successore.
    Nel ’78 la maggioranza si è allargata al Pci, che sostiene il governo delle larghe intese di Andreotti nato proprio il giorno del rapimento Moro. Il Psi è guidato da Craxi, che durante il sequestro del presidente della Dc si è dissociato dalla linea della fermezza e ha chiesto l’avvio di una trattativa con i brigatisti. La Dc è nelle mani di Benigno Zaccagnini, fautore del compromesso storico, mentre a Botteghe Oscure regna il carismatico Enrico Berlinguer, che però deve tenere a bada i malumori dei militanti ostili alla collaborazione con la Dc.
    Per il Quirinale si è ormai imposta la regola dell’alternanza: sette anni un laico, nel settennato seguente un cattolico. Dopo il democristiano Leone tocca dunque a un laico. Il segretario del Pri Ugo La Malfa non nasconde le sue mire, ma Craxi vuole che al Quirinale arrivi un socialista. Il 29 giugno, giorno della prima votazione, Montecitorio è sorvegliata da carabinieri armati di mitra, pronti a fronteggiare eventuali blitz terroristici. I primi scrutini vanno via con i partiti che votano i loro candidati di bandiera: il Dc Guido Gonella, il Pci Giorgio Amendola. Le giornate che seguono vedono la Dc rifugiarsi nell’astensione in attesa che emerga una solida candidatura. Craxi non punta su Sandro Pertini: l’ex presidente della Camera, ormai ottantunenne, non è allineato. Troppo indipendente.
    I socialisti puntano su altri due autorevoli personaggi, che Craxi, a torto o ragione, reputa più affidabili: l’ex ministro Antonio Giolitti e il giurista Giuliano Vassalli. Ma Berlinguer non è disposto ad avallare i disegni di Craxi e mette il veto su Vassalli (troppo schierato a favore della trattativa con le Br) e fa per primo il nome di Pertini: dal punto di vista di Botteghe Oscure, l’anziano socialista savonese, con il suo passato glorioso di incorruttibile antifascista, è il candidato ideale per concedere a Craxi una vittoria dimezzata. Per non farsi mettere nell’angolo, il 2 luglio il segretario del Psi fa propria la candidatura di Pertini, in un momento in cui la Dc non ha ancora deciso il da farsi: è probabile che sia una mossa per far naufragare la corsa dell’ “indesiderato”. Pertini scrive una lettera a Craxi in cui dice che è pronto a candidarsi solo a patto di essere appoggiato da tutto l’ “arco costituzionale”.
    Craxi spera di aver archiviato la scomoda pratica, e ricomincia a lavorare per Giolitti. Pertini, in realtà, ha capito che giocando bene le sue carte può farcela davvero. Alla fine anche Craxi deve fare di necessità virtù: preso atto che le candidature di Giolitti e Vassalli non decollano (quest’ultimo alla decima votazione ottiene 429 voti con oltre 100 schede bianche) , deve accettare di far tornare in pista Pertini, che nel frattempo ha avuto anche l’assenso della Dc.
    E’ Zaccagnini a comunicare la notizia al diretto interessato. Pertini la riceve mentre si sta preparando per partire per Nizza dove lo aspetta la moglie Carla Voltolina per le vacanze estive. E sabato otto luglio, e al sedicesimo scrutinio arriva l’elezione con un’ampia maggioranza: 833 voti su 995, praticamente tutti i partiti tranne l’estrema destra.

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    Dl capienze: Camera, ok definitivo al testo

    Ok definitivo dell’Aula della Camera al decreto legge Capienze. Il testo è stato approvato a Montecitorio con 303 voti a favore, 28 contrari (Fdi e A) e un astenuto. 
    Ecco i principali contenuti del provvedimento che è stato definitivamente approvato a Montecitorio.
    – Per gli spettacoli aperti al pubblico in sale teatrali, sale da concerto, cinema, la capienza consentita in zona bianca è del 100 per cento. L’accesso è consentito con green pass. Niente più distanza di un metro tra i visitatori di musei e altri istituti e luoghi della cultura.
    – Per le discoteche al chiuso servono impianti di aerazione, ma senza ricircolo dell’aria oppure sistemi di filtrazione con filtri HEPA o F9.
    – Stop ai biglietti nominali per l’accesso alle manifestazioni carnevalesche, ai corsi mascherati, alle rievocazioni storiche, alle giostre e manifestazioni simili.
    – Ok al riempimento al 100%, con green pass, per gli autobus turistici.
    – Obbligo di rendere al datore di lavoro le comunicazioni riguardo il mancato possesso del green pass “con un periodo di preavviso necessario a soddisfare le esigenze organizzative”.
    – Nuovo assetto del Ministero della salute con rafforzamento delle direzioni generali. Previsto uno stanziamento aggiuntivo per il commissario straordinario all’emergenza sanitaria.
    – Innalzamento del limite anagrafico a 68 anni per l’iscrizione all’elenco nazionale dei soggetti idonei alla nomina di direttore generale delle Asl, delle aziende ospedaliere e degli altri enti del Servizio sanitario nazionale.
    – L’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione potrà avvalersi di un incremento di personale per consentire il tempestivo esame delle richieste di referendum depositate entro il 31 ottobre 2021.
    – Per fronteggiare l’emergenza in Afghanistan e l’accoglienza dei profughi, è stato incrementato di 3000 posti il Sistema di accoglienza e integrazione.
    – Il trattamento dei dati personali da parte di un’amministrazione pubblica diventa “consentito se necessario per l’adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l’esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti”.

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    Manovra: governo valuta nuovo taglio contributi nel 2022

    Un nuovo intervento di decontribuzione, una tantum, nel 2022. E’ una delle ipotesi al vaglio di governo e maggioranza nel pacchetto di modifiche alla manovra per sfruttare il “tesoretto” generato dal minor costo del taglio delle tasse nel 2022. Resta la volontà di rafforzare l’intervento contro il caro bollette ma le risorse potrebbero andare anche a ridurre il cuneo contributivo. Le principali opzioni sono un taglio dei contributi ai lavoratori con i redditi più bassi (come gli incapienti), o un intervento lato imprese sul Cuaf, il contributo che pagano i datori di lavoro per gli assegni familiari. Possibile un mix di misure.
    Governo e maggioranza al lavoro sui ritocchi al Superbonus: tra le ipotesi di mediazione che si stanno valutando ci sarebbe anche quella di alzare, senza eliminare, il tetto Isee per l’accesso all’incentivo al 110% su case unifamiliari e villette. Il limite potrebbe essere alzato dagli attuali 25mila euro a 40mila euro di Isee. Il nodo rimane quello delle risorse: la misura costerebbe diverse centiania di milioni e andrà valutata la sua compatibilità con l’intero pacchetto di modifiche alla manovra.
    Il premier Mario Draghi dovrebbe tenere domani una riunione con i sindacati alle 17.30 a Palazzo Chigi per discutere della legge di bilancio. E’ quanto apprende l’ANSA da fonti governative.
    Il presidente del Consiglio ha ricevuto a Palazzo Chigi i rappresentanti del gruppo parlamentare delle Autonomie, i senatori Julia Unterberger, Albert Laniece, Dieter Steger, per discutere della legge di bilancio. Con il premier ci sono i ministri dell’Economia Daniele Franco e ai Rapporti col Parlamento Federico D’Incà. Draghi chiude gli incontri con i gruppi di maggioranza sulla manovra. 
    “Gli abbiamo chiesto di rimanere fino al termine della legislatura per non mettere in pericolo tutto il buono che è iniziato e che deve rimanere fino alla fine, fino al 2023. Lui si è messo a ridere, ha sorriso, ma non ha detto niente”. Lo dice Julia Unterberger, presidente del gruppo delle Autonomie, all’uscita da Palazzo Chigi dopo l’incontro sulla manovra con il premier Mario Draghi. “Il presidente Draghi come sempre ci ascolta e ascolta quello che per i nostri territori è importante, l’abbiamo ringraziato per le vaccinazioni che sono andate bene in Italia, per aver chiesto il Green pass sui posti di lavoro e non aver fatto i test gratuiti che fanno la differenza con Austria e Germania”, afferma Unterberger. “Noi leggiamo i giornali in lingua tedesca e da quando c’è Draghi e ha fatto la sua campagna vaccinale l’immagine dell’Italia è molto migliorata, quei giornali parlano di modello italiano e questa cosa a noi fa piacere: gli abbiamo fatto i complimenti e poiché lui è molto simpatico ha subito minimizzato e ha detto grazie”.
    “Noi abbiamo il nostro Casini nel gruppo, è un membro importante: tifiamo per lui”, dice la presidente del gruppo delle Autonomie, all’uscita da Palazzo Chigi dopo l’incontro sulla manovra con il premier Mario Draghi, rispondendo a una domanda sul Quirinale. “Se non avessimo Casini, io personalmente tiferei per una donna”, aggiunge la senatrice.
    Avete chiesto a Draghi di restare al governo fino a fine legislatura? “Non ne abbiamo parlato ma riteniamo che il presidente Draghi stia facendo molto bene nella gestione di partite molto importanti come la legge bilancio ma anche il Pnrr su cui Draghi ha dato un contributo fondamentale”. Così Marco Marin, deputato di Coraggio Italia, risponde a una domanda dopo il colloquio a Palazzo Chigi con Draghi sulla manovra. “C’è la pandemia e la campagna di vaccinazione su cui l’Italia sta andando meglio degli altri Paesi europei: riteniamo che Draghi sia una garanzia fino al 2023 per gli italiani”, sottolinea.
    “Un incontro proficuo e molto franco, in cui abbiamo ribadito al presidente Draghi il nostro pieno sostegno”. Così la ministra Elena Bonetti commenta l’incontro a Palazzo Chigi fra la delegazione di Italia Viva e il presidente del Consiglio, Mario Draghi, cui ha preso parte con Davide Faraone e Maria Elena Boschi. “Non lo nascondiamo, siamo soddisfatti del lavoro che il governo sta portando avanti”, aggiunge. “Abbiamo confermato un sostegno fattivo e concreto e abbiamo aperto ad alcune tematiche strategiche e urgenti”. La manovra pone “temi giusti per la ripartenza e lo sviluppo del Paese”. “Un anno fa – sottolinea Boschi – uscivamo da Palazzo Chigi più preoccupati per il Paese, oggi usciamo molto rassicurati perchè abbiamo un governo autorevole che va nella giusta direzione e ha il nostro appoggio”.
    La delegazione di Liberi e uguali, composta dal ministro della Salute Roberto Speranza, i capigruppo di Camera e Senato Federico Fornaro e Loredana De Petris, e Vasco Errani, relatore al Senato della manovra, è a palazzo Chigi per l’incontro con il presidente del Consiglio Mario Draghi sulla manovra.
    Intanto, per il ministro del Turismo, la variante Omicron del coronavirus “scombina un po”” i piani del settore turistico e obbliga a dover “ancora aspettare” per l’apertura di molti corridoi per i viaggi organizzati all’estero e un aumento delle visite internazionali, per cui, “a questo punto”, in legge di bilancio “di sicuro” un intervento “più corposo verrà previsto”, ha detto a margine dell’assemblea generale dell’Organizzazione Mondiale del Turismo (Omt) a Madrid.