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    Consulta: inammissibile conflitto su green pass in scuole e universita'

    E’ inammissibile il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dall’avvocato Daniele Granara – in proprio e in qualità di difensore di 27.252 cittadini italiani tutti facenti parte del corpo docente, studentesco e del personale scolastico e universitario – per l’omesso esame della petizione presentata alle Camere e in cui si chiedeva di non convertire in legge il decreto-legge 6 agosto 2021 n. 111, che ha introdotto l’obbligo del cosiddetto green pass nella scuola e nell’Università. Lo ha stabilito la Corte costituzionale.
     In attesa del deposito dell’ordinanza, l’Ufficio Stampa della Corte costituzionale fa sapere che il conflitto è stato dichiarato inammissibile, sia sotto il profilo soggettivo sia sotto quello oggettivo. I firmatari di una petizione non sono titolari di una funzione attribuita dalla Costituzione, bensì di un diritto, che mai potrebbe trovare tutela in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.    

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    Green pass: commissione Contenziosa boccia sospensiva senatori

    La commissione Contenziosa di Palazzo Madama ha respinto l’istanza di sospensiva proposta dai quattro senatori che hanno impugnato la delibera dei senatori questori che introduce l’obbligo di esibire il green pass per l’accesso al Senato e rinvia l’esame di merito alla decisione della Corte costituzionale, che si riunirà in camera di consiglio il 15 dicembre sul ricorso simile presentato da Gianluigi Paragone. Oltre a lui, gli altri tre parlamentari che hanno fatto ricorso sono Bianca Laura Granato, Carlo Martelli e Mario Giarrusso tutti del gruppo Misto. 
    La Contenziosa, che rappresenta il primo grado di giudizio del Senato sui ricorsi presentati contro i provvedimenti adottati all’interno, ha ascoltato oggi l’avvocato Andrea Perillo che rappresenta tre dei 4 senatori. “La commissione non è entrata nel merito del ritardo con cui sono stati presentati i ricorsi – ha spiegato l’avvocato – ma ha deciso di attendere il pronunciamento della Consulta sull’altro ricorso presentato dal senatore Paragone per conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. Noi riteniamo che la procedura adottata con la delibera dei senatori questori sia illegittima perché avrebbe dovuto passare dal vaglio dell’assemblea”. Al momento, quindi e in attesa di ulteriori decisioni, resta in vigore l’obbligo di mostrare il green pass (da certificazione vaccinale o da tampone) per entrare nei vari palazzi del Senato.

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    Manovra: Camera, testo in Aula dal 21 dicembre

    L’Aula della Camera esaminerà dal 21 dicembre la legge di Bilancio. Lo ha deciso la conferenza dei capigruppo di Montecitorio. Ovviamente, questo termine è subordinato alla trasmissione della Manovra dal Senato.
    L’Aula della Camera terrà la discussione generale sul dl fiscale dal 13 dicembre. Lo ha deciso la conferenza dei capigruppo di Montecitorio.    

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    Quirinale 2015: Mattarella al Colle, il capolavoro di Renzi

    L’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica nel 2015 è stato unanimemente definita il “capolavoro” politico di Matteo Renzi. L’allora segretario del Pd tirò fuori il nome del giudice della Corte costituzionale a ridosso dell’elezione superando anche le resistenze della minoranza interna che, secondo indiscrezioni mai smentite, avrebbe preferito un accordo con Silvio Berlusconi sul nome di Giuliano Amato. Dopo aver dato indicazioni di votare scheda bianca nelle prime tre votazioni, quelle dove è necessaria la maggioranza dei due terzi del Grandi elettori, Renzi tirò dritto su Mattarella che venne eletto alla quarta “chiama”, cioè la prima nella quale era sufficiente la maggioranza assoluta. E Sergio Mattarella passò agevolmente anche se non con una maggioranza ampia: ricevette 665 sì, 160 in più rispetto alla maggioranza assoluta del plenum, allora pari a 505.
    Dai primi calcoli sarebbero stati almeno una cinquantina i “franchi sostenitori” azzurri, ovvero tutti quelli che hanno ignorato le direttive di Berlusconi e si sono schierati a sostegno di Mattarella. Le schede bianche nella votazione decisiva sono state 105.
    Comprensibile l’ira del Cavaliere che in quel periodo era uno dei protagonisti del patto del Nazareno. Pur nella difficoltà di analizzare un voto segreto, i resoconti dell’epoca indicarono come “traditori” interni i fedelissimi di Denis Verdini ed i “fittiani”. Mattarella passò anche senza l’appoggio del Movimento 5 stelle che rimase bloccato sul nome dell’ex giudice Ferdinando Imposimato che si fermò a quota 127.
    L’elezione di Sergio Mattarella avvenne dopo le dimissioni di Giorgio Napolitano che rinunciò a concludere il suo secondo mandato dopo solo due anni a causa dell’età. Quando lo lanciò, Matteo Renzi lo presentò con queste parole: “Mattarella è un uomo della legalità dal grande profilo istituzionale, con lui possiamo cancellare lo smacco del 2013”, disse parlando ai grandi elettori del Pd riuniti prima dell’inizio delle operazioni di voto.
    La sua elezioni provocò grande interesse all’estero dove la figura politica di Mattarella era stata dimenticata ed era perlopiù descritto come un autorevole giurista. I grandi quotidiani si soffermarono infatti molto di più sulle mosse di Renzi: “Mattarella presidente della Repubblica, trionfo di Matteo Renzi”, titolò ad esempio Le Monde sottolineando che “Berlusconi e Beppe Grillo sono i grandi perdenti” delle elezioni presidenziali italiane.

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    Quirinale 2013: 101 ragioni per votare ancora re Giorgio

    Esattamente come sette anni prima. Anzi peggio. Nel 2013 le urne tradiscono le speranze del centrosinistra: ma se almeno Prodi nel 2006 era riuscito a strappare una risicata vittoria che gli aveva consentito di andare a Palazzo Chigi e di far eleggere Napolitano al Quirinale con i soli voti della maggioranza, nelle elezioni del febbraio 2013, Bersani fa peggio e non ha i numeri per poter dare le carte.
    Nessuno ha previsto il boom dei 5Stelle che portano in Parlamento 163 eletti che non vogliono scendere a patti con nessuno. Ma l’elezione del nuovo capo dello Stato è una grana da risolvere in fretta. Il primo tentativo fatto da Bersani, è di trovare un accordo con Forza Italia. Bersani e Berlusconi, accompagnati dai vice Enrico Letta e Angelino Alfano, si incontrano a Montecitorio il pomeriggio del 9 aprile. Il segretario del Pd presenta al Cavaliere una rosa di nomi, tutti ad alto coefficiente di digeribilità per il centrodestra: Massimo D’Alema, Giuliano Amato e Franco Marini. Nel frattempo i cinque stelle indicono le loro “quirinarie”: il loro candidato sarà Stefano Rodotà, giurista di sinistra ed ex parlamentare del Pds. Ma i vertici del Pd non si fanno tentare. Sommando i voti Pd e M5s si riuscirebbe anche a far eleggere Rodotà, ma poi che succederebbe? Si chiedono a via del Nazareno. Bersani e Berlusconi si incontrano nuovamente, questa volta a casa di Enrico Letta a Testaccio: decidono che l’uomo giusto da votare è Franco Marini. Tra i parlamentari Pd c’è nervosismo e nella riunione dei grandi elettori quasi un terzo si dissocia. Ma l’anziano politico abruzzese (ha 80 anni) è convinto di farcela lo stesso: sulla carta i voti ci sono (i partiti che lo sostengono ne hanno 739, ne bastano 672), e lui, accompagnato dalla moglie, va a ordinare tre vestiti blu da Cenci, il negozio di abbigliamento nei pressi della Camera dove si servono parlamentari e ministri.
    Si arriva così al 18 aprile, data in cui ricorre la strepitosa vittoria della Dc nelle elezioni del 1948. Ma il vecchio democristiano convinto di essere già presidente prende uno schiaffo che nessuno immaginava: gli mancano 218 voti, si ferma a quota 521. Altro che elezione con i due terzi. Meglio soprassedere. Nella seconda votazione, per evitare figuracce, il Pd sceglie la scheda bianca. Il giorno dopo, la mattina del 19 aprile, Bersani, compie un’inversione a U e propone di votare Romano Prodi dal quarto scrutinio. E’ un azzardo sul filo dei numeri, ma l’assemblea esulta, tutti applaudono, e nemmeno si fa la votazione per ratificare la sua candidatura. Il professore, che si trova nel Mali, in missione per conto delle Nazioni Unite, ringrazia. Tra le telefonate ricevute anche quella di D’Alema, che però gli fa uno strano discorso: “La tua candidatura va benissimo ma forse decisioni del genere andrebbero prese coinvolgendo i massimi dirigenti del partito”. Prodi mangia la foglia e telefona alla moglie: “Flavia, non ti preoccupare, presidente della Repubblica non ci divento”. Prodi scende in pista al quarto scrutinio: sulla carta ci sono 496 voti, ne servono altri otto per raggiungere il quorum. Bersani è convinto di ottenerli da qualche grillino dissidente e da qualche seguace di Monti (che ha dato indicazione di non votare Prodi). Ma è un bagno di sangue: Prodi prende solo 395 voti. In 101 hanno tradito. Il Pd è nel caos più totale. Bersani annuncia che si dimetterà subito dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato. A questo punto tutti gli sguardi si voltano verso il Quirinale. Sabato 20 Bersani sale al Colle per chiedere al presidente in carica, che aveva già preparato il trasloco, di ripensarci. La stessa richiesta viene fatta a Napolitano da Berlusconi, da Monti, persino dai leghisti di Maroni. Nel Pd miracolosamente scompaiono i franchi tiratori. Il 20 pomeriggio Napolitano viene rieletto: 738 voti. E può cominciare il secondo mandato di “re Giorgio”.

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    Quirinale 2006: ci prova D'Alema ma la spunta Napolitano

    Con ventiquattromila voti di scarto e una maggioranza di un pugno di senatori si può anche pensare di governare per qualche anno, ma come si fa a eleggere un presidente della Repubblica? E’ questo il pensiero che ha in testa il segretario dei Ds Piero Fassino il giorno dopo che la coalizione di centrosinistra ha vinto di strettissima misura le elezioni del 10 aprile 2006. L’Unione di Romano Prodi si è imposta per poche migliaia di voti e il professore, con un’alleanza nella quale sono stati imbarcati tutti, da Mastella ai trozkisti eletti nelle liste di Bertinotti, si rende subito conto che Silvio Berlusconi non ha alcuna intenzione di mettersi buono da una parte. In questo clima di guerra incombente l’appuntamento con la scelta del successore di Ciampi è una bella gatta da pelare.
    Dopo una rapida valutazione, a Fassino e compagni sembra che ci siano solo due carte da giocare: o convincere Ciampi a farsi rieleggere, o puntare su Massimo D’Alema, che dai tempi della bicamerale ha ottimi rapporti anche con lo schieramento guidato da Berlusconi. La prima ipotesi dura lo spazio di un mattino. Ciampi fa subito sapere che non ha la minima voglia di un bis. Nel suo diario liquida la faccenda in modo lapidario: “Letta e Berlusconi perorano disponibilità mia rielezione. No”.
    Scatta allora l’operazione D’Alema. Una telefonata dell’ex premier con Gianni Letta getta le basi di un possibile accordo: i due hanno una antica consuetudine, fin da quando Letta fece incontrare D’Alema e Berlusconi a casa sua all’epoca della bicamerale. Ma il 5 maggio, a tre giorni dalla convocazione del Parlamento, arriva la doccia gelata: Berlusconi non è riuscito a convincere il perplesso Gianfranco Fini a mandare in porto l’operazione. E senza i voti di An il Cavaliere non vuole andare avanti. I Ds devono decidere in fretta quale altra carta giocare. Nei giorni precedenti si sono fatti i nomi di Giuliano Amato e Emma Bonino, ma Fassino e D’Alema, d’accordo con Prodi, decidono di puntare sull’ottantunenne Giorgio Napolitano, da qualche anno senatore a vita per volere di Ciampi e padre nobile dei democratici di sinistra: nel Pci è stato il capo dei miglioristi, la corrente di destra che voleva “decomunistizzare” il partito ben prima della caduta del muro di Berlino. Forza Italia non sarà della partita. Napolitano sarà stato anche ben disposto verso il Psi Craxi, ma Berlusconi decide di non mettere in gioco il suo pacchetto di voti.
    Nella prima votazione, dove servono i due terzi dei voti, l’Unione non fa ancora scendere in campo Napolitano: tanto non sarebbe comunque eletto. Berlusconi fa votare per Gianni Letta, in 27 votano per D’Alema. Nella seconda e terza votazione anche il centrodestra vota scheda bianca, D’Alema incrementa i voti e qualche burlone si diverte a scrivere sulla scheda il nome della moglie Linda Giuva. Si arriva così al 10 maggio: Napolitano viene eletto al primo colpo con 543 voti. Per lui votano tutti i grandi elettori dell’Unione, senza nemmeno un franco tiratore (è la prima volta che accade) e in più arrivano due voti extra dai “dissidenti” dell’Udc Marco Follini e Bruno Tabacci. La Lega ha votato per Bossi, mentre Forza Italia ha scelto la scheda bianca: per evitare che qualcuno di loro ignori la consegna viene ordinato che tutti entrino ed escano dalla cabina elettorale a tutta velocità, in modo che non ci sia il tempo di scrivere un nome sulla scheda. “Correvano come bersaglieri”, è il commento di Romano Prodi.

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    Quirinale 1999: Patto Veltroni-D'Alema-Cav, ecco Ciampi

    “Ringrazio tutti coloro che mi hanno dato il voto e prego di non votare più per me perchè non sono più disponibile”: il 13 maggio del 1999, nello studio di via XX Settembre, Carlo Azeglio Ciampi segue lo spoglio della votazione per l’elezione del presidente della Repubblica. Con lui c’è il giovane direttore generale, il quarantenne Mario Draghi. Il nome del ministro su cui D’Alema, Veltroni e Berlusconi si sono messi d’accordo non ha rivali, ma a metà dello spoglio sembra che le cose si mettano male. Ciampi allora prende un biglietto e scrive una nota da consegnare all’ANSA per annunciare il suo ritiro. “La mia candidatura ha senso solo se si appoggia su una maggioranza larga”, spiega a Draghi mentre butta giù l’appunto. In effetti Ciampi cammina sul filo del quorum: sulla carta avrebbe 892 voti, ma non sta facendo il pieno. Alla fine per lui ci sono 707 voti su 1010: la soglia è superata e Ciampi è eletto alla prima votazione, come Cossiga 14 anni prima.
    Al Quirinale arriva così il superministro di Prodi e D’Alema, già governatore della Banca d’Italia e tra il ’93 e ’94 presidente di un governo di emergenza del dopo Tangentopoli. La sua candidatura matura nella primavera del 1999. I due grandi registi dell’operazione sono Walter Veltroni, segretario dei Ds, e il presidente del consiglio Massimo D’Alema: rivali nel partito, ma in questo momento in sintonia sul da farsi. Negli ultimi sette anni, la politica italiana è completamente cambiata: la Dc è scomparsa, il Psi è al lumicino e Berlusconi è sceso in campo.
    Dopo la vittoria del centrodestra nel ’94 e il ribaltone che ha mandato a casa il primo governo Berlusconi, il centrosinistra ha vinto le elezioni del 1996 e ha mandato Prodi a palazzo Chigi: ma la sua permanenza è stata breve. A Palazzo Chigi è così arrivato D’Alema, reduce dal tentativo (finito male) della bicamerale e del “patto della crostata” con Berlusconi sulle riforme. Quando si tratta di scegliere il nuovo capo dello Stato, Berlusconi ha un obiettivo irrinunciabile: evitare in tutti i modi che sul Colle salga un nuovo Scalfaro. Il Cavaliere trova orecchie attente in Massimo D’Alema, che governa con una maggioranza risicata e non vuole che la scelta del nuovo presidente della Repubblica avveleni gli animi. Per una volta D’Alema ha dalla sua parte Walter Veltroni: il segretario dei Ds punta a un candidato da far eleggere al primo scrutinio, e insieme a D’Alema pensa subito a Ciampi. Il 5 maggio Veltroni suona al campanello di casa Ciampi in via Anepo, nell’elegante quartiere Trieste, e gli chiede se sia disponibile a farsi candidare, ma non gli nasconde le difficoltà nella maggioranza. Il centrosinistra, infatti, non è per niente unito. A scalpitare è soprattutto il Ppi, guidato in quel momento da Franco Marini: i popolari vogliono che al Quirinale salga un cattolico (più che altro vogliono uno dei loro) e hanno paura di essere messi all’angolo. Ciampi accetta, ma in cuor suo non crede di potercela fare: “Figurati – dice alla moglie Franca – non è mai successo che abbiano chiamato uno fuori dalla politica come me”. I popolari, in allarme per le manovre di Veltroni e D’Alema, lanciano la candidatura di Rosa Russo Iervolino e poi quella di Nicola Mancino, ma nessuna delle due fa breccia. Marini si arrabbia moltissimo con D’Alema: volano parole grosse, ma i Ds non cedono. Intanto l’offensiva in favore di Ciampi va avanti. Qualche giorno prima della convocazione del Parlamento, due emissari di Fini, Altero Matteoli e Luciano Magnalbò, vanno da Ciampi e gli dicono che c’è il via libera. Il 12 maggio, vigilia della votazione, arriva la telefonata di Gianni Letta: “Forza Italia è pronta a votarla, già domani” gli dice il plenipotenziario di Berlusconi. L’ultimo tassello è andato a posto: per Ciampi voteranno tutti i partiti tranne Lega, Rifondazione comunista e franchi tiratori popolari che disperdono i loro voti tra Nicola Mancino e Rosa Russo Jervolino.

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    Pd deposita ddl che vieta la rielezione del presidente della Repubblica

     Il Pd, a firma dei senatori Dario Parrini, Luigi Zanda e Gianclaudio Bressa, ha depositato un disegno di legge costituzionale che modifica gli articoli 85 e 88 della Costituzione e vieta la rieleggibilità del presidente della Repubblica. Nell’articolo 1 del ddl si chiede di aggiungere al primo comma dell’articolo 85 della Costituzione che il presidente della Repubblica “non è rieleggibile”.    L’articolo 2 del ddl chiede di abrogare il secondo comma dell’articolo 88, ovvero il semestre bianco quando il presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere o una di esse negli ultimi sei mesi del suo mandato. 
    I presentatori del ddl ricordano che già “in sede di assemblea costituente si pose il tema dell’opportunità di introdurre limiti alla rielezione del Presidente della Repubblica” e ripercorrono dichiarazioni di ex presidenti della Repubblica nel senso del divieto di una rielezione e contrari al semestre bianco. Ma, sostengono Parrini, Zanda e Bressa, “il conferimento, nel 2013, di un secondo mandato al presidente Napolitano – che peraltro aveva più volte manifestato una diversa volontà – ha senza dubbio cambiato i termini della questione, che da mera possibilità teorica si è tradotta in precedente, e invita a interrogarsi sull’opportunità di riprendere e tradurre in norma argomentazioni così autorevolmente espresse”. “È infatti evidente – affermano i senatori dem – che, se l’eccezione divenisse regola e quella che è stata la regola cominciasse ad apparire come eccezione, l’equilibrio dei poteri delineato dalla Carta potrebbe risultarne alterato. Non è peraltro un caso se gli Stati Uniti, pur in un contesto di elezione sostanzialmente diretta del Presidente, hanno introdotto il divieto del terzo mandato quadriennale solo nel momento in cui l’eccezione avrebbe potuto divenire prassi”. Fu Antonio Segni il primo a segnalare, nel messaggio alle Camere del 16 settembre 1963, che il periodo di sette anni è “sufficiente a garantire una continuità nell’azione dello Stato”, e quindi l’opportunità di introdurre “la non immediata rieleggibilità del Presidente”, per “eliminare qualunque, sia pure ingiusto, sospetto che qualche atto del Capo dello Stato sia compiuto al fine di favorirne la rielezione”. Il messaggio era controfirmato, come Presidente del Consiglio, da Giovanni Leone, che poco dopo presentava alle Camere un disegno di legge costituzionale di modifica degli articoli 85 e 88 della Costituzione nel senso auspicato dal Capo dello Stato. Analoga iniziativa era partita da un gruppo di deputati guidati dal liberale Aldo Bozzi già prima del messaggio presidenziale. Leone, diventato poi Capo dello Stato, richiamò nuovamente l’opportunità di una riforma in tal senso nel proprio messaggio alle camere del 14 ottobre 1975. Nel testo del ddl si ricorda poi che “il tentativo più avanzato di riforma in questo senso si ebbe però nella IX legislatura, con la ben nota Commissione bicamerale presieduta proprio da Aldo Bozzi, che proponeva l’introduzione della non immediata rieleggibilità e, quanto agli ultimi sei mesi di mandato, la subordinazione del potere di scioglimento al parere conforme dei Presidenti delle Camere”. (