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    Ucraina: Mosca avverte, 'è come la crisi dei missili a Cuba'

    di Luca Mirone
    La Russia si sente “minacciata ai propri confini”, e per far capire all’Occidente quanto sia alta la posta in gioco ha evocato il momento in cui il mondo si trovò si trovò davvero sull’orlo della terza guerra mondiale: la crisi dei missili a Cuba tra Stati Uniti e Urss, nel 1962. L’avvertimento del ministro degli Esteri Serghiei Lavrov è stato lanciato proprio all’indomani del nuovo attacco ucraino sulla Crimea, a cui Mosca ha reagito sospendendo l’intesa sul grano. Uno strappo che ha subito bloccato le navi cariche di cereali, e che ha spinto Turchia e Onu a tentare una nuova mediazione. La cosiddetta operazione militare speciale in Ucraina non sta andando come previsto, ed anzi a Mosca cresce l’allarme per l’efficacia della resistenza di Kiev, che si è spinta più volte fino alla Crimea e persino oltre, come dimostrano gli attacchi a Belgorod.
    Il ministro Lavrov, in un’intervista, ha evocato una “situazione simile al periodo della crisi missilistica cubana”, affermando che “oggi come nel 1962 stiamo parlando di minacce dirette alla sicurezza della Russia proprio ai nostri confini”. In particolare, a causa di una “campagna per spingere l’Ucraina con ogni tipo di armi”, è l’accusa rivolta agli alleati americani ed europei di Kiev. Che tra l’altro starebbero “giocando in maniera irresponsabile” sul tema delle armi nucleari, con la Polonia “candidata” ad ospitare ordigni atomici Usa. I droni lanciati su Sebastopoli, che avrebbero colpito almeno tre navi della flotta russa, secondo Mosca costituiscono un’ulteriore prova delle minacce ai propri confini. 

    I colloqui tra il Presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo Usa Joe Biden potrebbero avere luogo se gli Stati Uniti fossero disposti ad ascoltare le preoccupazioni russe e a tornare a discutere di garanzie di sicurezza: lo ha dichiarato il portavoce..

    Il ministero della Difesa ha fatto sapere di aver recuperato frammenti dei droni subacquei che sarebbero stati utilizzati dagli ucraini nel Mar Nero: armi “dotate di moduli di navigazione prodotti in Canada, lanciate dalla costa vicino a Odessa”, probabilmente da una “nave cargo”, sfruttando i “corridoi per il trasporto dei cereali”. Oltre ai consueti strali contro la Nato, la Russia ha comunque continuato a tenere la mano tesa per un negoziato. Secondo il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, i colloqui tra Vladimir Putin e Joe Biden potrebbero avere luogo se gli Stati Uniti fossero disposti ad “ascoltare le preoccupazioni russe e a tornare a discutere di garanzie di sicurezza”. E lo stesso Lavrov ha assicurato la disponibilità a sedersi al tavolo in caso di “proposte realistiche”. A Kiev, tuttavia, nessuno ci crede. Per il portavoce del ministero degli Esteri Oleg Nikolenko si tratta solo di “un’altra cortina fumogena per guadagnare tempo sullo sfondo delle sconfitte dell’esercito russo”. Spiragli di dialogo, per il momento, si intravedono solo sul dossier grano.
    Oggi nessuna nave è partita dal Mar Nero, dopo la decisione della Russia di sospendere l’intesa sottoscritta a luglio, ma i mediatori turchi e dell’Onu si sono subito messi in moto. Ankara ha spiegato di essere in trattativa con Mosca e Kiev, e nel frattempo ha comunicato che le ispezioni delle navi cargo a Istanbul andranno avanti. Il viceministro degli Esteri russo Andrey Rudenko ha fatto sapere che ci saranno “contatti con Nazioni Unite e Turchia nel prossimo futuro”. Nel frattempo Ue e Stati Uniti hanno lanciato un appello a Mosca perché faccia marcia indietro. Ma neanche in questo caso Kiev si fida. Secondo il ministro Dmytro Kuleba questo strappo era stato “pianificato con largo anticipo”, per tornare a ricattare il mondo con il grano. Con il risultato che “due milioni di tonnellate di grano su 176 navi già in mare, sufficienti per sfamare oltre 7 milioni di persone”, non arriveranno a destinazione.

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    Lula vince in Australia e Nuova Zelanda, Bolsonaro in Giappone

    Lunghe file nei vari consolati brasiliani nel mondo, per il voto al ballottaggio per il palazzo Planalto in Brasile, che vede contrapposti il leader di sinistra Luiz Inacio Lula da Silva (Pt) ed il presidente di destra, Jair Bolsonaro (Pl), per la poltrona di palazzo Planalto.    Secondo il portale di informazione Uol, in Asia e Oceania i primi risultati resi noti confermano la tendenza del primo turno, che avevano visto Lula in vantaggio col 48,43% dei voti (57.259.504) contro il 43,2% del candidato del Pl (51.072.345).    In Corea del Sud Lula vince con 126 voti, contro i 70 di Bolsonaro. In Australia il leader del Pt riporta 2970 suffragi a favore, contro i 1688 di Bolsonaro. In Nuova Zelanda il candidato di sinistra totalizza 353 voti a favore, Bolsonaro 132.    A Nagoya, in Giappone invece, il presidente di destra riporta l’84% a favore, con 3400 preferenze. 

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    Governo a caccia di fondi. Meloni: “Bollette insostenibili, rafforzeremo le misure nazionali”

    Non è ancora noto quando la manovra varcherà la soglia del Parlamento, lasciando presagire un dicembre al cardiopalma per l’ok finale prima dell’eventuale esercizio provvisorio. Il Governo, che lunedì si riunisce in un primo Cdm operativo, cerca intanto le risorse per dar seguito agli impegni assunti in campagna elettorale ma gli spazi, come noto, non consentiranno di accogliere tutti i desiderata. Anche perché l’impatto della manovra, per avviare i primi interventi, far fronte alle urgenze (bollette innanzitutto), finanziare le spese indifferibili, sfiora già una cifra di tutto rispetto: circa 20 miliardi, che salgono a 40 secondo alcuni calcoli tenendo conto di tutti desiderata. Probabile che molte misure siano quindi solo avviate, per proseguire poi con interventi successivi.

    Agenzia ANSA

    Quota più bassa dal 2008, 10 punti meno degli ultimi 2 esecutivi (ANSA)

    Un dato è certo: “I costi delle bollette sono diventati insostenibili”, sottolinea la premier, Giorgia Meloni, “non c’è più tempo da perdere”. E mentre si guarda all’Istat che lunedì metterà nero su bianco il dato sul Pil del terzo trimestre, il governo ragiona sugli spazi di intervento sul deficit, che potrebbe essere fissato per il 2023 al 4,5%. Una ipotesi che il neo ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, sta valutando e che dovrà trovare posto nell’integrazione alla Nadef (in Cdm probabilmente verso la fine della settimana) che dovrà aggiornare il quadro programmatico lasciato in eredità da Mario Draghi. Compito non semplice perché il rientro dal deficit resta sempre all’attenzione di Bruxelles che, tra poco più di un anno, si appresta a modificare e a ‘ripiantare’ i paletti delle regole di bilancio interrotte per la pandemia.
    Ma proprio su questo arriva una doccia fredda da Berlino che, oltre a dire ‘no’ al debito comune per l’emergenza gas, puntualizza attraverso il ministro delle Finanze, Christian Lindner un altro “no” all’ipotesi del rientro del debito da negoziare bilateralmente, prevista dalla riforma del Patto. La credibilità del patto deriva dal fatto che “le regole devono essere applicate da tutti, allo stesso modo”. Il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, cerca intanto di accelerare sui cantieri, a partire dal più discusso in questi anni: il Ponte sullo Stretto. Ne parlerà martedì 8 novembre con i governatori di Calabria e Sicilia, Roberto Occhiuto e Renato Schifani. Ma l’incontro servirà anche a fare il punto sulle “100 opere pubbliche commissariate in tutta Italia” per “accelerare” e partire con “nuovi progetti”. Sullo sfondo, come ricorda l’associazione magistrati della Corte dei Conti, resta la “paura della firma negli appalti” che è “infondata” ma per essere superata ha bisogno “con urgenza” di una “semplificazione delle procedure”. Molte, come in ogni manovra, le ipotesi che circolano, alcune di matrice politica, altre già visitate dall’esecutivo.

    Agenzia ANSA

    Martedì 8 novembre incontro a Roma tra il Vicepremier e Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, Matteo Salvini, e i governatori di Calabria e Sicilia, Roberto Occhiuto e Renato Schifani. (ANSA)

    Oltre alla rivisitazione del Reddito di cittadinanza (Salvini spiegava che poteva essere ”interrotto” per alcuni periodi per recuperare risorse per le pensioni) oggi un altro cavallo di battaglia dei 5S finisce nel mirino: il bonus del 110%. Per il sottosegretario alla presidenza, Alfredo Mantovano “merita una riconsiderazione di carattere generale”, soprattutto perché avrebbe prodotto effetti negativi (lo dice riferendosi a Norcia da dove parla) “distogliendo una parte dell’imprenditoria dall’essere attratta a questo tipo di lavoro”.

    Agenzia ANSA

    “Il Governo che si è appena insediato si è trovato al centro di una tempestata perfetta tra la guerra alle porte dell’Europa, la recessione è l’inflazione”: a dirlo è stato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Alfredo Mantovano, n… (ANSA)

     Delicato e ancora aperto il capitolo Legge Fornero. Tra le ipotesi spunta anche quella di un bonus per rimanere al lavoro oltre 63 anni. Oltre a una riproposizione, cambiando i criteri, di quota 102, si parla anche di un bonus per chi invece rimane al lavoro dopo i 63 anni. Tra le mille ipotesi che vanno dai bonus, dalla flat tax agli incentivi verdi, anche un’altra sollecitazione arriva oggi: una super-deduzione per le aziende che assumono (fino al 150% in caso di persone fragili o che meritano tutela) mentre Luca Ciriani, ministro per i rapporti con il Parlamento assicura sui tempi e la presenza in bilancio della pace fiscale (non sarà “un condono”, assicura). Ciriani non fornisce ancora una data precisa per l’approdo in Parlamento della manovra (“dicembre sarà molto impegnativo”) ma ribadisce le priorità: flat tax incrementale e taglio del cuneo fiscale. E il limite al contante? Potrebbe essere, come da mediazione, 5000 euro.

    Agenzia ANSA

    ‘Con Meloni parleremo di quale strada vuole prendere Roma’: ha detto la presidente dell’Europarlamento che affronterà anche il tema dei flussi e dei migranti con il presidente del consiglio italiano (ANSA)

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    Bolsonaro, da ex militare a 'capitano del popolo'

    di Leonardo Cioni
    Da anonimo deputato federale (con pochi progetti di legge approvati in 27 anni di carriera politica condita da moltissime polemiche) a presidente del Brasile. E’ la traiettoria di Jair Messias Bolsonaro, amato e odiato con la stessa intensità, fuori e dentro il Paese, per le sue tesi e parole sempre sopra le righe.    Anti-abortista, contrario all’identità di genere e alla legalizzazione delle droghe, difensore della famiglia ‘tradizionale’ e del possesso di armi da fuoco, l’ex capitano dell’esercito di 67 anni ha condotto la campagna elettorale al motto di ‘Dio, patria e famiglia’.
        Appoggiato dalla chiesa evangelica, dall’agrobusiness e dalla destra conservatrice, il paracadutista congedato delle Agulhas Negras è arrivato a palazzo Planalto il 1 gennaio 2019 dopo aver vinto al ballottaggio con il 55,1% dei voti validi le elezioni di ottobre 2018 come candidato del Partito social-liberale (Psl, di destra) contro il candidato del Partito dei lavoratori (Pt, di sinistra), Fernando Haddad.    Il 6 settembre 2018, durante una tappa della sua campagna elettorale a Juiz de Fora, nello Stato di Minas Gerais, Bolsonaro ha rischiato di morire dopo una coltellata all’addome sferrata da uno squilibrato.
    ù    Nato nel 1955 a Glicério, un piccolo comune nell’entroterra dello Stato di San Paolo, è stato deputato federale tra il 1991 e il 2018. Durante il suo mandato come parlamentare al Congresso di Brasilia si è fatto notare per le sue posizioni ultraconservatrici e per diverse controversie, tra cui l’opposizione al mondo Lgbt e la difesa della dittatura militare (1964-1985).    Considerato un populista, le sue opinioni hanno spaccato i brasiliani, suscitando feroci critiche, soprattutto a sinistra, ma anche lodi sperticate da parte di molti che lo hanno ribattezzato ‘Mito’ e ‘Capitano del popolo’ per la dichiarata posizione anti-sistema e la capacità di radunare folle immense di sostenitori in cortei con i colori della bandiera nazionale.
        Tra le altre sue peculiarità, i raduni in moto che riuniscono migliaia di supporter.    Il suo esecutivo si è caratterizzato, tra gli altri aspetti, per la forte presenza di ministri con un background militare. Le opposizioni lo hanno accusato di portare avanti una politica anti-ambientalista e contro le popolazioni indigene. Anche la sua risposta alla pandemia di coronavirus è stata criticata, tanto da essere additato come “negazionista” per la sua personale contrarietà ai vaccini. 

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    Lunedì la squadra di governo completa, per ora solo 25% ministre

     Dal Consiglio dei ministri di lunedì, in cui si dovrebbe chiudere la squadra di governo con la nomina di viceministri e sottosegretari, emergerà la quota definitiva di donne presenti nel primo esecutivo italiano guidato proprio da una donna.    Il governo di Giorgia Meloni, il 65° in 19 legislature di storia repubblicana, ha però nel frattempo “solo” il 25% di presenza femminile a capo dei ministeri. Era dal 2008 che la percentuale non si assottigliava tanto: quell’anno Monti aveva schierate accanto a sé soltanto 3 donne su 18 ministri.    Dalla nascita della Repubblica è stato necessario aspettare 30 governi monogenere – e quasi 30 anni – per avere la prima ministra: Tina Anselmi, titolare del Lavoro del governo Andreotti III dal ’76 al ’78, poi per due mandati alla Salute. Dal 1994 a oggi la percentuale di esponenti femminili nei governi è aumentata, con andamenti alterni. Il primo governo Berlusconi, nel 1994 appunto, aveva una quota femminile pari al 4% con una sola ministra: la leccese Adriana Poli Bortone all’Agricoltura. La prima volta alla Farnesina per una donna è nel 1995 con il governo Dini: è Susanna Agnelli, già a lungo sottosegretaria sempre agli Esteri, sola titolare donna di un dicastero in quell’esecutivo. Consideriamo nel computo anche gli avvicendamenti ai ministeri ma non gli interim ai premier. Il primo governo Prodi, nel ’96, ha tre ministre (13,6%). Due anni dopo, con Massimo D’Alema, si supera per la prima volta il 20% (21,4%), che diventa 24% nel D’Alema II. Il “declino” ricomincia nel 2000 con il secondo governo guidato da Giuliano Amato: 26 ministri in tutto, di cui 4 donne (15,3%). Con il ritorno di Berlusconi a palazzo Chigi, su 30 componenti di governo, le donne sono solo 2, ovvero il 6,6%. Il Berlusconi III vede la percentuale di ministre aumentare: in realtà sono sempre due, ancora una volta Stefania Prestigiacomo e Letizia Moratti, ma il numero totale di ministri scende a 23. Quando invece è Romano Prodi a tornare a palazzo Chigi nel 2006 la percentuale di ministre sale al 25%. Il successivo Berlusconi IV (ovvero l’unica altra esperienza di governo di Giorgia Meloni, allora ministra della Gioventù) conta 6 donne (21,4%). Battuta d’arresto con Mario Monti: il suo governo ha solo 3 ministre su 18 componenti: il 16,6%. Il governo Letta, dal 15 marzo 2013, vanta 7 ministre su 21 componenti (33,3%) ma il record relativo, mai più ripetuto, lo raggiunge l’esecutivo di Matteo Renzi nel 2014: sono sempre 7 le donne, ma su 20 componenti dell’esecutivo per una percentuale del 35%. Il suo successore, Paolo Gentiloni, frena: le ministre sono 5 e la percentuale scende al 27,7%, mentre il primo governo di Giuseppe Conte nel 2018 rialza la percentuale al 30% con 6 donne su 20 ministri. Fa ancora meglio il Conte II con 8 donne su 23 componenti del governo (34,7%), stessa percentuale e stessi numeri registrati nell’esecutivo appena terminato, guidato da Mario Draghi. Il neonato governo Meloni, pur avendo il primato della prima presidente del Consiglio donna, conta solo 6 donne su 24 componenti, per una percentuale che scende al 24%. Domani vedremo se questa quota si allargherà con l’arrivo significativo di viceministre e sottosegretarie.   

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    Fini: Non ho ispirato Meloni ma ho indicato la strada

    Fini torna in Tv,mea culpa su Pdl e promuove Giorgia Non le servono consigli.Ma su diritti e Covid avverte la premier ROMA (ANSA) – ROMA, 30 OTT – Dieci anni dall’ultima volta in tv. Nove dall’addio alle scene che contano della politica italiana. Colpa, anche e soprattutto, della pesantissima debacle elettorale di Futuro e Libertà, sua creatura politica post-Pdl che alle urne del 2013 lo relegarono ad un umiliante 0,47% di consensi. Ma Gianfranco Fini, oggi ospite di Lucia Annunziata, non appare un pensionato della politica, anche se di politica – scandisce – non tornerà più ad essere parte attiva. E dispensa consigli, suggerimenti. Anche se, tiene a precisare, la neo premier Giorgia Meloni “non ha bisogno di essere ispirata” . L’ha votata, conferma. In caso, rivendica con una punta di orgoglio, “posso dire che c’è stato chi ha aperto una rotta” – come quella della svolta di Fiuggi – “e poi è toccato ad altri, ai più giovani, percorrerla”. Una strada che Meloni, con Fratelli d’Italia, ha fatto tutta in salita, dall’1,9% del 2013 fino a sfiorare il 30% di questi giorni. Meloni e Ignazio La Russa? “Avevano ragione loro e avevo torto io”, ammette Fini ricordando che l’attuale premier e il presidente del Senato “non mi seguirono quando venni estromesso dal Pdl dando vita alla casa della destra: io non ci credevo. Dicevo: ma dove vanno?”. Non è nemmeno tenero con se stesso per la scelta di entrare nel Popolo della Libertà: “un errore imperdonabile. Un errore enorme che non perdono a me stesso” confida all’Annunziata. Fini è un fiume in piena. E gli aneddoti si intrecciano: dall’incontro dell’ultimo segretario post-comunista (D’Alema) con lui, ultimo post-fascista, ai tempi della Bicamerale; dalle parole distensive di Violante presidente della Camera nel ’96 che volle fare della Liberazione un momento unitario; fino all’intesa, riservatissima, con cui con Veltroni nel ’99 si accordarono per far salire Ciampi al Quirinale. Ma Fini non rifiuta di commentare anche la cronaca del giorno. E che proprio su fascismo e antifascismo ha creato una polemica per le parole di Ignazio La Russa sul 25 aprile: “Il titolo (della Stampa, ndr) è forzato”, spiega subito l’ex leader di An. “La Russa non ha detto ‘non festeggio questo 25 aprile’ ma risponde ‘dipende, certo non andrò ai cortei’ perché, l’ho sentito anche stamattina, rischierebbe di trovarsi in compagnia di quei giovanotti che in nome dell’antifascismo lo hanno minacciato di morte”. Non solo. “La sinistra italiana – avverte – non può accendere l’interruttore dell’antifascismo in modo strumentale” perché se ci chiedono “il riconoscimento dell’antifascismo come un valore, la risposta non può essere che sì, l’abbiamo fatto, a Fiuggi”. E Meloni non si è dissociata, ricorda. Poi poche, ma chiare, pillole di consigli: il primo alla sinistra. “E’ sempre tendenzialmente grigia, spero Enrico Letta non si offenda. Gli servirebbe un po’ di verve, un po’ di anima, una bandiera da alzare che non sia la democrazia che è bandiera di tutti. Torni ad infiammare i cuori”. Il secondo a Berlusconi che ha pure “ha perso lo scettro”, che “non è più il dominus”, ma che lo ha fatto a vantaggio di “una donna che da quando era ragazzina ha masticato pane e politica”. E lui, assicura, “non è un irresponsabile” e i suoi ministri “danno ampia garanzia di continuità nell’azione di governo”. Infine alla Meloni, che ha scelto tra l’altro, Eugenia Roccella come ministro, dice che bisogna “andare piano” perché “i diritti civili sono una materia importante e delicata. Lasci che sia il Parlamento ad occuparsene”. E sulle mascherine anti-Covid la neo premier segua la scienza “e le lasci obbligatorie negli ospedali”.

    Agenzia ANSA

    Il Pd: “E’ una festa che ci deve vedere uniti”. La replica: “Ho celebrato la ricorrenza da ministro della Difesa. La mia contrarietà è semmai solo al modo in cui finora si svolgono molte manifestazioni, appannaggio della sinistra”. Giannini : “Prendo atto della retromarcia del Presidente La Russa” (ANSA)

       

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    Calderoli, ricovero in Istituto oncologico per controlli

     Il Ministro degli affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli è ricoverato per alcuni controlli all’Istituto Oncologico Veneto di Padova. Lo ha reso noto lui stesso sottolineando che “dopo tanti, anche troppi, rinvii, prima per il deposito del simbolo, poi per quello delle liste, poi per la campagna elettorale, poi per l’insediamento delle Camere, poi per la formazione e giuramento del Governo, alla fine sono riuscito a fare il mio ricovero ospedaliero di un paio di giorni”. In ospedale Calderoli ha incontrato il presidente del Veneto Luca Zaia con il quale, ha detto, “abbiamo lavorato sull’autonomia”. 
    “Oggi pomeriggio – prosegue la nota di Calderoli – ho ricevuto la graditissima visita in ospedale del governatore del Veneto, Luca Zaia, cui mi lega una storica amicizia, e come sempre non abbiamo perso l’occasione per lavorare un paio un paio d’ore, per studiare e progettare quello che è nel cuore di entrambi ovvero l’autonomia: io e Luca sull’argomento abbiamo le idee chiarissime e la pensiamo allo stesso modo sulla strada da seguire e sull’obiettivo da raggiungere e siamo entusiasti di questo nostro progetto. Ho colto anche l’occasione per ringraziarlo di una bella frase che ha pronunciato oggi in un’intervista su un quotidiano nazionale ovvero ‘Calderoli conosce molto bene la materia, se falliamo con lui non c’è più speranza’. Una frase che mi ha riempito di orgoglio e mi ha motivato ulteriormente – aggiunge – per il mio lavoro e per gli obiettivi da realizzare”. Calderoli rientrerà a Roma “incontrando prima la delegazione del Trentino Alto Adige – preannuncia – quindi le tre Regioni che hanno scritto le pre-intese, e poi dal pomeriggio tutte le Regioni che hanno attivato il percorso per richiedere ulteriori forme di autonomia differenziata. E giovedì, in base alla loro disponibilità, spero di incontrare il presidente della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga, quello dell’Anci, Antonio Decaro, e quello dell’Upi, Michele De Pascale, a cui lunedì invierò un invito ufficiale per incontrarli”.    

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    Ucraina, Berlusconi: 'Senza armi e aiuti Zelensky tratterebbe”

     Si può arrivare a una trattativa di pace nel conflitto ucraino? “Forse: solo se a un certo punto l’Ucraina capisse di non poter più contare sulle armi e sugli aiuti e se, invece, l’Occidente promettesse di fornirle centinaia di miliardi di dollari per la ricostruzione delle sue città devastate dalla guerra. In questo caso Zelensky, forse, potrebbe accettare di sedersi al tavolo per una trattativa”. Lo ha detto intervistato da Vespa per il suo ultimo libro, il leader di Fi, Silvio Berlusconi. 
    “In questa situazione – spiega Berlusconi a Vespa nel libro “La grande tempesta” – noi non possiamo che essere con l’Occidente nella difesa dei diritti di un Paese libero e democratico come l’Ucraina”. Sullo stop alle armi, preferendo l’invio di massicci aiuti economici per la ricostruzione, Vespa obietta che Putin dovrebbe almeno lasciare le due regioni (Kherson e Zaporizhzhia) occupate e annesse dopo le altre due del Donbass (Donetsk e Luhansk). Berlusconi sembra d’accordo, pensa però che non si dovrebbe discutere l’appartenenza alla Federazione Russa della Crimea e fare un nuovo referendum nel Donbass con il controllo dell’Occidente. E’ convinto che Putin sia ‘un uomo di pace’, confessa a Vespa che ha provato a chiamarlo due volte senza esito all’inizio della guerra e dopo non ha più insistito. Sulle venti bottiglie di vodka e di lambrusco, ricorda che dopo aver raccontato ai suoi deputati delle lettere di auguri, uno di loro gli chiese: “E vi siete fatti anche dei regali?” E lui sorridendo rispose divertito: “Si certo, venti bottiglie di vodka e venti di lambrusco”. Ma tutti , dice, avevano capito che scherzava” Alla domanda, infine, di Vespa se si senta più vicino all’America o alla Russia, Berlusconi ricorda che una delle cinque standing ovation riservategli dal Congresso degli Stati Uniti il 19 giugno 2011 fu quando raccontò del giuramento di fedeltà agli USA chiestogli dal padre quando dopo la maturità classica lo portò a visitare il cimitero militare americano di Anzio.