More stories

  • in

    Meloni: ‘I miei migliori auguri a Re Carlo III e alla Regina’

    “L’antico mosaico cosmatesco nell’Abbazia di Westminster, sul quale oggi è stato posto il trono per l’incoronazione di Re Carlo III, è stato magistralmente realizzato da artigiani italiani circa otto secoli fa. Oggi è ancora lì a meravigliare il mondo, e a raccontare la storica e proficua cooperazione tra Italia e Regno Unito, che siamo certi con Re Carlo III – che ancora ieri ha ricordato di amare l’Italia – si rafforzerà ulteriormente, come già abbiamo cominciato a fare con il Prime minister Rishi Sunak. I miei migliori auguri a Re Carlo III, alla Regina Camilla e all’intero popolo britannico”. Lo dice su Facebook la premier Giorgia Meloni, nel giorno della incoronazione di Re Carlo III.

    L’antico mosaico cosmatesco nell’Abbazia di Westminster, sul quale oggi è stato posto il trono per l’incoronazione di Re Carlo III, è stato magistralmente realizzato da artigiani italiani circa otto secoli fa. Oggi è ancora lì a meravigliare il mondo, e a raccontare la storica… pic.twitter.com/a8EN7XJPWn
    — Giorgia Meloni (@GiorgiaMeloni) May 6, 2023

    “La storica e proficua cooperazione tra Italia e Regno Unito , che siamo certi con Re Carlo III – che ancora ieri ha ricordato di amare l’Italia – si rafforzerà ulteriormente, come già abbiamo cominciato a fare conil PM Rishi Sunak”. Lo ha detto la premier Giorgia Meloni su Facebook, nel giorno della incoronazione di Re Carlo III a Londra.

  • in

    Il Foglio omaggio al Napoli campione d’Italia

    Omaggio del quotidiano ‘Il Foglio’ al Napoli Campione d’Italia. Da oggi per alcuni giorniil giornale in edicola sarà ‘avvolto’  da tre quadri disegnati in esclusiva da tre grandi artisti d’arte contemporanea, tifosi del Napoli. Mimmo Paladino, Francesco Clemente, Stefano Di Stasio.

  • in

    Meloni rilancia sulle riforme e chiama le opposizioni

    Chiudere con l’anomalia di assetti che durano “in media due anni”, per dare all’Italia governi “stabili”. Giorgia Meloni punterà probabilmente su questa leva martedì per cercare di trovare un percorso il più possibile “condiviso” sulle riforme. Con tutte le opposizioni per un round di confronti che vedrà per la prima volta seduta una di fronte all’altra la premier e la leader del Pd, Elly Schlein, che comunque riunirà la sua segreteria per prepararsi all’incontro. Mentre il leader M5s non dovrebbe esserci, impegnato – dicono i suoi – a Brescia chiamato dal Tribunale dei ministri a testimoniare nell’inchiesta Covid. Udienza, però, calendarizzata il 10 maggio. Una eventuale assenza sarebbe interpretata come un segnale politico. E in effetti una certa diffidenza per l’invito di Meloni, a taccuini chiusi, le opposizioni la manifestano. “E’ un diversivo per sviare l’attenzione” dall’azione del governo, duramente contestata dalle minoranze sia sul fronte del lavoro sia, da ultimo, sul blitz su Inps e Inail e per le mosse sulla Rai. L’appuntamento è per l’ora di pranzo alla Camera, nella Biblioteca del presidente: si partirà con +Europa a mezzogiorno e mezzo e a seguire tutti gli altri, le Autonomie, l’Alleanza Verdi e sinistra, il Terzo Polo (che si presenterà unito) per chiudere con M5S e Pd, cui sarà dedicato più tempo. Di “ascolto”, dicono a Palazzo Chigi, sottolineando che la scelta di Montecitorio mostra l’attenzione della premier per il ruolo del Parlamento. Quale che sia la soluzione – su cui martedì si misureranno con ogni probabilità le distanze più che le vicinanze con le opposizioni – si dovrà comunque superare il complesso iter parlamentare previsto per le revisioni della Costituzione. E avere numeri che superino il perimetro della maggioranza metterebbe al riparo dal doversi sottoporre necessariamente, alla fine del percorso, a un referendum dagli esiti sempre incerti, come bene sa Matteo Renzi che nel 2016 ha visto bocciare la sua proposta di riforma della Carta.

    Agenzia ANSA

    Il leader del M5S Giuseppe Conte non dovrebbe andare martedì 9 maggio all’incontro sulle riforme con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni perché quasi certamente sarà a Brescia, dove è stato convocato dal Tribunale dei ministri, insieme all’ex minist… (ANSA)

    Il leader di Iv non ci sarà: il Terzo Polo sarà rappresentato da Carlo Calenda (insieme a Boschi, Paita e Richetti). Ma il passaggio con Azione e Italia viva sarà con ogni probabilità il più indolore. Anche se di fronte a una proposta di presidenzialismo arriverebbe un no (la presidenza della Repubblica, ha detto pubblicamente più volte Calenda, è l’istituzione più amata, e non va “snaturata o politicizzata”). Ma l’apertura ci sarebbe per il modello del Sindaco d’Italia, che introdurrebbe sì l’elezione diretta, ma del presidente del Consiglio. Uno schema che non dovrebbe trovare il favore del Pd, che potrebbe sedersi a discutere di “premierato forte”, ma senza toccare il ruolo del Parlamento. L’elezione diretta del capo del governo sarebbe però proprio la via su cui si sarebbe orientata Elisabetta Casellati, che già a gennaio aveva fatto un primo giro con le opposizioni alla ricerca di possibili convergenze. Del resto, il ragionamento, il modello del premierato è l’ipotesi emersa con più forza durante le consultazioni con le forze di opposizione, anche se con alcuni distinguo. La ministra starebbe già limando una bozza di testo, che comunque non sarebbe presentato martedì come un ‘prendere o lasciare’. Ma l’intenzione anche di Meloni, come conferma il suo consigliere giuridico Francesco Saverio Marini, sarebbe quella di chiudere con questi incontri la fase di ascolto per poi presentare in tempi brevi una proposta al Parlamento. Magari anche prima della fine di giugno. “Si tirerà una riga”, assicura fiduciosa che “si possa trovare un punto di incontro” Casellati, che sarà agli incontri insieme ai due vicepremier, Matteo Salvini e Antonio Tajani, al ministro Luca Ciriani e ai sottosegretari Alfredo Mantovano e Giovanbattista Fazzolari. Di seguito il programma degli incontri:
    Ore 12.30 componente +Europa
    Ore 13 Gruppo per le Autonomie e componente Minoranze linguistiche
    Ore 13.45 Gruppo Alleanza Verdi e Sinistra – Ore 15.30 Gruppo Azione-Italia Viva-Renew Europe
    Ore 17 Gruppo Movimento Cinque Stelle
    Ore 18.30 Gruppo Partito Democratico.

  • in

    L’Italia non intende usare fondi del Pnrr per produrre armi

    “L’Italia non intende usare i fondi del Pnrr per produrre armi”. Lo affermano, interpellate dall’ANSA, fonti di Palazzo Chigi aggiungendo che “l’Italia, in coordinamento con gli alleati, sostiene l’Ucraina sul piano politico e militare. Il Governo è favorevole al rafforzamento della capacità dell’industria della Difesa europea – spiegano – anche nell’ottica di una maggiore autonomia strategica della UE. L’Italia è favorevole ad un uso flessibile dei fondi europei, compresi quelli del PNRR, ma quest’ultimo è uno strumento di investimento strategico e non un veicolo per finanziare la produzione di munizioni o armamenti”.

    Agenzia ANSA

    Ancora in corso i lavori per la valutazione della terza rata del Pnrr per l’Italia, fa sapere la portavoce dell’esecutivo Ue. Il ministro Fitto spiega che si stanno valutando i singoli interventi, per proporre delle soluzioni di modifica: ‘Entro agosto la rimodulazione, ma lavoriamo per ridurre il tempo’. Palazzo Chigi: ‘Non intendiamo usare fondi del Pnrr per produrre armi’ (ANSA)

  • in

    Scontro Italia-Francia sui migranti. Tajani: ‘Parigi ha compreso la gravità di Darmanin’

    Attacco da Parigi sul tema dei migranti. Giorgia Meloni è “incapace di risolvere i problemi migratori” dell’Italia, aveva detto ieri il ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin.
    Il portavoce del governo francese, Olivier Véran,ha tentato questa mattina di spegnere il fuoco tra i due Paesi assicurando che nelle parole del ministro dell’Interno francese “non c’era nessuna volontà di ostracizzare l’Italia in alcun modo e voglio rassicurare gli italiani che ci guardano”: Véran ha parlato ai microfoni di CNews, aggiungendo di non volerne fare “una polemica politica”. “Continuiamo a lavorare con gli italiani”, ha detto ancora Véran dopo le polemiche. 
    In serata è intervenuta la premier francese Elisabeth Borne, auspicando ‘un dialogo pacifico’ con l’Italia.
    “Le parole pronunciate dal portavoce del governo francese vanno nella direzione di chi ha compreso di aver commesso un errore grave, di aver offeso il governo italiano”, ha affermato il ministro degli Esteri Antonio Tajani in un’intervista a Rai News 24, commentando le parole di Véran. “Non siamo un governo di estrema destra – sottolinea Tajani -. Alcuni toni si possono risparmiare e mi auguro che siano solo le parole di un ministro in campagna elettorale. Noi non abbiamo nessuna voglia di interrompere le relazioni con la Francia”. “Ci sono atteggiamenti che non possono essere accettati – aggiunge Tajani -. Non posso permettere che la mia nazione venga offesa; mi auguro che si possa concludere presto questa polemica e le parole del portavoce del governo francese vanno nella direzione giusta”.
    Per Tajani “ci saranno degli atti riparatori, io mi auguro che la Francia deciderà chi debba farlo, io mi auguro che prendano le distanze. Ma il comunicato di ieri non è stato sufficiente, è stato molto tiepido”. “Si capisce il disappunto del governo francese ma le offese sono state talmente forti che meritavano una risposta – ha aggiunto -. Darmanin ha fatto male tutto con quell’intervento, perché privo di senso e non rispondeva alla verità. L’Italia sta facendo di tutto per affrontare la questione migratoria ma serve un’azione europea e dell’Onu”.
    “Devo dire che è stata una vera e propria caduta di stile –  ha commentato il ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto -. Ed è anche molto grave e fuori luogo che per coprire tensioni interne si possano utilizzare polemiche esterne. Penso che non aiuti né l’Italia né la Francia, né l’Europa che un ministro possa immaginare un attacco frontale così sguaiato”.
    “Penso che questo incidente sarà molto presto dietro di noi, perché la Francia ha troppo bisogno dell’Italia e l’Italia ha troppo bisogno della Francia su tutti i temi, e singolarmente, sulla questione dell’immigrazione”: così il ministro francese responsabile delle Finanze Pubbliche Gabriel Attal intervistato da radio Rmc.
    Il ministro francese dei Trasporti, Clément Beaune, che rappresenta l’ala più a sinistra della maggioranza centrista di Emmanuel Macron, dà “ragione sul piano politico” al collega dell’Interno Gerald Darmanin: “L’estrema destra in Italia, come altrove, fa molte promesse ma risolve poco i problemi”, ha detto parlando a radio Europe 1.
    La Commissione “non commenta, e non lo fa mai” le dichiarazioni che arrivano da singoli governi ma “invita tutti gli Stati membri a dialogare in maniera costruttiva sulle questioni delle migrazioni che sono questioni che riguardano tutti”, ha affermato il portavoce della Commissione Eric Mamer interpellato, nel briefing quotidiano, sullo scontro tra Parigi e Roma. “La Commissione ha fatto proposte molto concrete” sul dossier, ha aggiunto.
    Già ieri era arrivata immediata la risposta dell’Italia. “Non andrò a Parigi per il previsto incontro con Colonna. Le offese al governo ed all’Italia pronunciate dal ministro Darmanin sono inaccettabili. Non è questo lo spirito con il quale si dovrebbero affrontare sfide europee comuni”, aveva twittato Tajani. E’ dunque saltata la missione del ministro degli Esteri con la collega francese Catherine Colonna: un bilaterale previsto da tempo.
    Parigi ha poi “sperato” in una rapida programmazione della visita del ministro degli Esteri, Antonio Tajani.

    Non andrò a Parigi per il previsto incontro con @MinColonna .Le offese al governo ed all’Italia pronunciate del ministro @GDarmanin sono inaccettabili.Non è questo lo spirito con il quale si dovrebbero affrontare sfide europee comuni.
    — Antonio Tajani (@Antonio_Tajani) May 4, 2023

    Ho parlato col mio collega @Antonio_Tajani al telefono. Gli ho detto che la relazione tra Italia e Francia è basata sul reciproco rispetto, tra i nostri due paesi e tra i loro dirigenti. Spero di poter accoglierlo presto a Parigi.https://t.co/cVEjzyRfmM https://t.co/cuYnf6leSX
    — Catherine Colonna (@MinColonna) May 4, 2023

     

  • in

    Dieci anni senza Andreotti, icona della politica italiana

    Dieci anni senza il “divo”: il 6 maggio del 2013 moriva a 94 anni, una icona della politica italiana, Giulio Andreotti, classe 1919, forse uno degli uomini più potenti e rappresentativi del Paese dal dopoguerra, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio nei governi De Gasperi a soli 27 anni, fino alla fine della prima Repubblica.    Dopo la caduta del muro di Berlino e della cortina di ferro e con l’inizio della drammatica serie di attentati di mafia e i colpi del pool di magistrati di “mani pulite” cominciò una rivoluzione che portò al cambiamento dei consolidati schemi di gestione della politica: regnava la Democrazia Cristiana, il partito-Stato che guidava con i suoi leader dagli anni 60 in poi una coalizione di pentapartito insieme a socialisti, liberali, repubblicani e socialdemocratici. Andreotti, fino all’epilogo del Caf, quello che negli anni 80 era l’acronimo del ristrettissimo gruppo di comando formato dall’esponente democristiano discepolo di De Gasperi, il segretario del Psi Bettino Craxi e l’allora segretario della Balena Bianca Arnaldo Forlani, ne era il personaggio più rappresentativo. Ha partecipato a dieci elezioni politiche nazionali: è stato il candidato con il maggior numero di preferenze in Italia in quattro occasioni. Nel 1991 è stato nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

        Sette volte presidente del Consiglio e per trentaquattro volte Ministro, considerando anche gli incarichi ad interim. In un quadro internazionale caratterizzato dalla divisione del Mondo tra l’ovest a guida Usa e l’est sotto l’egida dell’Unione Sovietica, il leader democristiano, convinto europeista, ha sempre auspicato un equilibrio nei rapporti tra questi due mondi: ottimi i rapporti con gli Stati Uniti ma anche con la nomenklatura di Mosca, una costante attenzione per le problematiche mediorientali, una forte e discreta presenza nella Libia di Gheddafi, un proficuo dialogo con il Vaticano.

    Roma, i luoghi di Andreotti

        Andreotti è sempre stato un fautore della tenuta dello status quo tra Ovest ed Est tanto da fargli dire una volta che la Germania la considerava talmente importante da fargliela vedere sempre doppia: una a occidente e una a oriente, la Ddr comunista, come un tassello importante di equilibrio nei rapporti tra i due blocchi. Nella convinzione che solo con questo assetto, e forse la storia gli ha dato in parte ragione, si poteva garantire, tra l’altro, lunga vita al sistema politico che vigeva in Italia dal dopoguerra. Una filosofia politica che il sette volte presidente del Consiglio adottò, con luci e ombre, anche nella politica interna. Sempre attento ai rapporti con il Pci. Qualsiasi decisione importante per l’Italia era in qualche modo elaborata tenendo conto delle aspettative di una fetta importante del paese che non si riconosceva nella Dc e nel suo sistema. Una politica che lui stesso negli anni 60 definì dei due forni. Corroborata da una forte presenza sul territorio: in Ciociaria, nel suo collegio del sud del Lazio, fu campione incontrastato di preferenze. Un risultato raggiunto non solo grazie al suo prestigio personale ma anche con la presenza fisica: quasi ogni fine settimana, libero dagli impegni di governo ed istituzionali, si presentava nel suo collegio partecipando a cerimonie di qualsiasi tipo, anche all’inaugurazione di ristoranti e negozi, raccogliendo alle elezioni una media di 300 mila preferenze. Da premier accusò il colpo del rapimento Moro da parte delle Br, con le successive accuse di aver poi voluto, insieme a Francesco Cossiga, la morte dello statista democristiano. Ma la gestione dei rapporti con il sistema di potere siciliano, dove la corrente andreottiana aveva un peso non indifferente all’interno della Dc, sembra essere stato uno degli elementi che alla fine hanno contribuito ad appannare il personaggio. Nel film di Paolo Sorrentino, intitolato proprio il Divo (da qui l’appellativo) si dipinge un quadro in chiaro-scuro che il vecchio leader Dc ha sempre respinto, anche con rabbia, definendolo una “mascalzonata”. Ma in un quadro di dissolvimento generale del vecchio sistema politico, l’assassinio di stampo mafioso di Salvo Lima, considerato il suo luogotenente per tanti anni in Sicilia, gli attentati a Falcone e Borsellino, sono stati letti nel mondo politico e giornalistico di allora come un segnale che l’aria stava cambiando e che lo schema del “Divo” era arrivato al capolinea. Tant’è che nel 1993, quando la Procura di Palermo chiese al Parlamento l’autorizzazione a procedere nei confronti di Giulio Andreotti un giornale titolò: «Ora tocca a Belzebù» (questa definizione fu coniata da Bettino Craxi). Erano in effetti accuse pesantissime e appunto “diaboliche”, come commentò qualcuno, quelle elencate nel dossier dei magistrati siciliani: al senatore veniva in sostanza contestato di avere stretto un “patto scellerato” con la mafia.

    Figlia Andreotti, io apprendista-archivista tra sue carte

        Nel sistema di relazioni “pericolose” ricostruito dal processo di Palermo un ruolo centrale è assegnato a Salvo Lima, capo di quella che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa definiva nel suo diario la «famiglia politica più inquinata dell’isola». Lima aveva aderito alla corrente andreottiana nel 1968. Secondo i pm palermitani, avrebbe portato in dote un cospicuo pacchetto di tessere facendola diventare da piccola componente laziale a corrente nazionale della Dc. Un dato, quello delle relazioni pericolose, che il leader democristiano ha respinto fino alla fine chiedendo e chiedendosi sempre quali fossero gli elementi oggettivi che confermassero questi suoi rapporti con quel sistema. Fu assolto in primo grado dal Tribunale di Palermo con sentenza del 23 ottobre 1999. La Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 2 maggio 2003, dichiarò commessi ma prescritti i reati anteriori alla primavera del 1980, mentre fu confermata l’assoluzione per tutti gli avvenimenti successivi. La Cassazione, infine, confermò la sentenza di appello. Resta il ricordo di uno dei protagonisti assoluti della politica italiana del ventesimo secolo.

  • in

    Esplosione in fabbrica, cinque feriti nel Cremonese

    (ANSA) – CREMONA, 05 MAG – Cinque lavoratori feriti, tre in
    condizioni gravi: è il bilancio dell’esplosione di oggi
    pomeriggio alla Trade Broker, fonderia di Casalbuttano, in
    provincia di Cremona. Tutto è accaduto poco prima delle 15: a
    quell’ora, stando ai primi accertamenti eseguiti da carabinieri
    e ispettori di Ats Val Padana, è scoppiata una bombola
    utilizzata per portare in pressione il macchinario per la
    presso-fusione dell’alluminio. La deflagrazione ha coinvolto
    anche alcune tubature e l’olio incandescente – insieme a pezzi
    metallici – ha investito i cinque che in quel momento stavano
    lavorando nelle vicinanze dell’impianto. Immediato l’allarme e
    l’arrivo dei soccorsi: con i vigili del fuoco, gli operatori
    del 118 e gli equipaggi di due elisoccorsi, decollati da Milano
    e da Parma. I cinque feriti sono stati trasportati agli ospedali
    di Milano, Parma e Cremona e, secondo quanto riferito, il più
    grave è un 48enne bresciano, ricoverato al Centro ustioni e
    chirurgia plastica ricostruttiva del Niguarda. In condizioni
    serie anche un 67enne cremonese e un 38enne indiano residente in
    provincia, entrambi portati in eliambulanza al Centro grandi
    ustionati dell’ospedale di Parma. Ricoverati invece al Maggiore
    di Cremona, dove sono arrivati in ambulanza, un 39enne e un
    38enne di nazionalità indiana residenti in provincia.   
    L’azienda, su disposizione del magistrato, è stata messa
    temporaneamente sotto sequestro per consentire tutte le indagini
    del caso. Sul posto anche il sindaco, Gian Pietro Garoli.   
    “L’azienda si trova sul territorio da circa dieci anni e fonde
    alluminio per trasformarlo in oggettistica minuta. Non si erano
    mai verificati incidenti prima di oggi”, ha detto. (ANSA).   

  • in

    Sulle origini del virus si brancola ancora nel buio

    Per l’Oms tutte le piste sono ancora aperte, la Cina continua ad escludere l’ipotesi della fuga dal laboratorio e gli Stati Uniti non hanno ancora trovato una posizione comune. L’emergenza Covid è ufficialmente finita ma a tre anni dall’esplosione della pandemia più devastante degli ultimi cento anni ancora non c’è una risposta alla domanda più importante: qual è stata l’origine del virus?
    La prima inchiesta sul tema si è svolta a gennaio del 2021 con una missione di esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità inviata sul campo a Wuhan, la città dove tutto ha avuto inizio, che ha lavorato fianco a fianco ai loro colleghi cinesi. Una squadra di super ricercatori, o ‘virus hunters’ come furono ribattezzati, che nella loro carriera avevano affrontato le peggiori epidemie, dall’Aids all’Ebola. Eppure, dopo cinque mesi di analisi meticolose, la conclusione dei dieci virologi è stata che “con tutta probabilità” la fuga dal laboratorio era esclusa ma che non era stata individuata quale fosse l’origine del Covid. La Cina ha esultato definendo la ricerca “autorevole”, l’Oms è stata travolta dalle critiche di parte della comunità scientifica che l’ha accusata di essere “al servizio di Pechino” o quantomeno di non essere stata in grado di imporsi per avere maggiori informazioni. Lo scorso febbraio, a seguito di un articolo su Nature secondo cui l’agenzia dell’Onu aveva rinunciato a proseguire la seconda fase dell’indagine sulle origini a causa della mancanza di collaborazione da parte delle autorità cinesi, il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus ha assicurato che il lavoro proseguirà fino a quando non troverà una risposta su come è iniziata la pandemia.
    Nel frattempo anche gli Stati Uniti, che con la Cina hanno diversi fronti aperti da Taiwan all’Ucraina, hanno portato avanti le loro indagini sull’origine del virus ma le tante agenzie americane impegnate nelle ricerche non sono arrivate ad una conclusione unanime. In un rapporto del dipartimento dell’Energia Usa, rivelato dal Wall Street Journal a fine febbraio, si sostiene che la pandemia sia nata da una fuga in laboratorio. Una tesi formulata soltanto ora grazie a “nuove informazioni di intelligence, studi di ricercatori e consultazioni con esperti non governativi”. Alla stessa conclusione era arrivata tempo fa l’Fbi che, per bocca del suo direttore Christopher Wray, ha ribadito di recente che “la pandemia ha avuto origine molto probabilmente da un incidente nel laboratorio di Wuhan”. Resta il fatto che per una parte dell’intelligence Usa il virus ha avuto invece un’origine naturale, un salto di specie dall’animale all’uomo che potrebbe essersi verificato proprio nel mercato di Wuhan, a 40 chilometri dal laboratorio.ù
    Persino la Casa Bianca non si è voluta sbilanciare e, dopo l’uscita del rapporto del dipartimento dell’Energia, il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale John Kirby è stato costretto a precisare che nell’amministrazione americana non c’è consenso sul tema. In effetti “potremmo non sapere mai” da dove è venuto il virus, ha dichiarato di recente l’ex zar della pandemia Anthony Fauci, invitando a mantenere “una mente aperta” sulle varie possibilità.