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    L’Ue guarda con preoccupazione agli sviluppi in Senegal e invita Macky Sall a indire elezioni “il prima possibile”

    Bruxelles – L’inizio di “un periodo di incertezza” in Senegal. La decisione del presidente Macky Sall di rinviare a tempo indeterminato le elezioni previste il prossimo 25 febbraio apre un pericoloso scenario in un Paese con una lunga tradizione di stabilità e democrazia. E l’Ue, che a causa di un susseguirsi di colpi di stato militari negli ultimi due anni ha già tagliato i ponti con Mali, Guinea, Burkina Faso e Niger, guarda con ansia agli sviluppi in uno dei pochi Paesi partner rimasti nella regione del Sahel.Da Bruxelles l’invito “a tutte le parti coinvolte a lavorare, in un clima di calma, per lo svolgimento di elezioni trasparenti, inclusive e credibili il prima possibile e nel rispetto dello Stato di diritto”, si legge in una nota diffusa dal Servizio Europeo di Azione Esterna (Seae). L’Ue condivide le preoccupazioni dell’Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, per le “circostanze che hanno portato al rinvio delle elezioni” e esorta Dakar ad “accelerare i vari processi al fine di fissare una nuova data per le elezioni”.Macky Sall, in carica dal 2012 e rieletto presidente del Senegal nel 2019, ha annunciato il rinvio dell’appuntamento elettorale sabato 3 febbraio in un discorso televisivo alla nazione, attribuendo la decisione a una controversia sulle liste dei candidati ammissibili alle elezioni. Sall, che è stato anche leader dell’Unione Africana tra il 2022 e il 2023, ha ribadito nel discorso la scelta di non ricandidarsi per un terzo mandato, senza però fornire indicazioni sulla data per le nuove elezioni. “Avvierò un dialogo aperto per ottenere le condizioni per elezioni libere, trasparenti e inclusive in un Senegal pacifico e riconciliato”, ha dichiarato.

    Una manifestazione per la liberazione di Ousmane Sonko a Parigi (Photo by Kiran RIDLEY / AFP)L’Ecowas si è “congratulato con il Presidente Macky Sall per aver mantenuto il suo impegno di non candidarsi per un altro mandato”. Ma il leader del partito centrista Alleanza per la Repubblica è accusato in patria di governare in modo sempre più autoritario: prima l’arresto e la condanna a due anni di carcere di Ousmane Sonko, leader del principale partito di opposizione (Pastef) poi – solo un mese fa – l’esclusione da parte del Consiglio costituzionale di alcuni importanti membri dell’opposizione dalle liste elettorali.

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    Disunited Kingdom. L’Irlanda del Nord rilancia il referendum per l’addio a Londra (e unirsi a Dublino)

    Bruxelles – A nemmeno 24 ore dal giuramento come neo-premier dell’Irlanda del Nord, il nuovo corso repubblicano di Michelle O’Neill è servito. “Contesto assolutamente ciò che sostiene il governo britannico, la mia elezione dimostra il cambiamento che sta avvenendo sull’isola“, ha messo in chiaro la vicepresidente dei repubblicani di Sinn Féin in un’intervista per Sky dopo la nomina a prima ministra della nazione a oggi ancora appartenente al Regno Unito. Una risposta chiara alla posizione di Londra – secondo cui il referendum per l’unione alla Repubblica d’Irlanda sia distante “decenni” – e una prospettiva sul medio termine per il primo governo a guida repubblicana nella storia dell’Irlanda del Nord: “Credo che siamo nel decennio delle opportunità“.

    La neo-prima ministra dell’Irlanda del Nord, Michelle O’Neill (credits: Paul Faith / Afp)Dal maggio 2022 a Belfast non è stata possibile la formazione di un governo dopo la prima vittoria assoluta per il partito indipendentista repubblicano, a causa del boicottaggio del Partito Unionista Democratico (secondo quanto previsto dall’Accordo del Venerdì Santo del 1998 deve essere garantita la condivisione di potere tra i partiti unionisti e repubblicani). Dopo quasi due anni di stallo è stata trovata l’intesa tra le due maggiori forze all’Assemblea dell’Irlanda del Nord e sabato scorso (3 febbraio) O’Neill ha giurato come prima ministra, mentre l’unionista Emma Little-Pengelly come vice-premier. “Possiamo avere una condivisione del potere, renderla stabile e lavorare insieme ogni giorno in termini di servizi pubblici, e perseguire le nostre aspirazioni altrettanto legittime“, sono state le prime parole alla stampa della nuova leader della nazione, che solo il giorno prima aveva rotto con la tradizione repubblicana usando il termine ‘Irlanda del Nord’ nel suo discorso di giuramento. “Sono una repubblicana orgogliosa, ma credo che sia davvero importante guardare alle persone che si identificano come britanniche e unioniste e dire loro che rispetto i loro valori”, ha spiegato O’Neill.Il partito Sinn Féin è stato fondato nel 1905 come espressione delle aspirazioni indipendentiste da Londra e per l’unità sull’isola d’Irlanda e negli anni della guerra civile è stata l’ala politica dell’Esercito Repubblicano Irlandese (Ira). Il sostegno al partito è cresciuto esponenzialmente dopo la firma dell’Accordo del Venerdì Santo che ha messo fine al conflitto, e nel 2022 ha conquistato il maggior numero di seggi in Parlamento (27 su 90). La formazione del governo dell’Irlanda del Nord si è legata strettamente alle conseguenze della Brexit, dal momento in cui la reintroduzione dei controlli doganali tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord su una serie di categorie di prodotti – richiesta dall’Unione Europea dopo l’uscita del Regno Unito proprio per preservare l’unità sull’isola d’Irlanda sancita dall’accordo di pace del 1998 – ha creato scontenti e proteste tra gli unionisti, incluso il boicottaggio politico. La settimana scorsa il governo britannico di Rishi Sunak ha mediato un accordo con il Partito Unionista Democratico che prevede un aumento dei finanziamenti e che – nel delineare i nuovi equilibri della condivisione del potere a Belfast – prevede che non ci sia “alcuna prospettiva realistica di un referendum” sull’indipendenza nel prossimo decennio. Per i repubblicani nordirlandesi l’indipendenza si lega al processo di unione alla Repubblica di Irlanda, che automaticamente li riporterebbe all’interno dell’Unione Europea dopo l’addio nel 2020 per decisione degli elettori del Regno Unito nel suo complesso.Oltre l’Irlanda del Nord, la ScoziaL’Irlanda del Nord non è l’unica delle quattro nazioni che compongono il Regno Unito ad avere aspirazioni indipendentiste e di ritorno nell’Unione Europea. La disputa più celebre di Londra è quella con la Scozia, che a dieci anni dal referendum sull’indipendenza (bocciato) è pronta a rimettere sul tavolo delle trattative un progetto per la scissione politica. La Brexit è stata un vero e proprio spartiacque per il Partito Nazionale Scozzese, dal momento in cui in Scozia il referendum per l’uscita del Regno Unito dall’Ue ha visto prevalere una schiacciante maggioranza del 62 per cento dei ‘no’ contro il 38 dei ‘sì’, in controtendenza con il resto del Paese (il 52 per cento degli elettori britannici si è espresso a favore). A un solo anno dall’ufficialità della Brexit, il trionfo alle elezioni per il rinnovo del Parlamento di Holyrood da parte dell’ex-prima ministra, Nicola Sturgeon, nel 2021 ha sembrato confermare l’irrequietezza scozzese.Nonostante l’uscita di scena di Sturgeon lo scorso anno a causa di uno scandalo sui finanziamenti del Partito Nazionale Scozzese, anche nell’agenda del suo successore – l’ex-braccio destro Humza Yousaf – è rimasta la priorità di un nuovo referendum sull’indipendenza (che al momento vede il ‘sì’ leggermente in vantaggio), con la condanna della Brexit e delle sue conseguenze economiche come fattore trainante. È per questo motivo che bisognerà fare attenzione al risultato delle prossime elezioni nel Regno Unito – ancora non è nota la data, ma sono attese per la seconda metà del 2024 – dal momento in cui il primo ministro Yousaf le vede come un possibile momento di svolta. Il governo di Edimburgo potrebbe avviare immediatamente i negoziati con Londra nel caso in cui il Partito Nazionale Scozzese dovesse conquistare la maggioranza dei seggi garantiti alla Scozia alla Camera dei Comuni, mentre un altro scenario è quello dell’utilizzo delle elezioni per il rinnovo del Parlamento scozzese nel 2026 come voto ‘de facto’ sull’indipendenza dal Regno Unito e una richiesta di (ri)adesione all’Unione Europea.

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    Borrell: “I finanziamenti all’UNRWA non vanno tagliati”

    Bruxelles – “Non vanno tagliati i finanziamenti all’Agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi (UNRWA), perché se tagliamo i finanziamenti all’UNRWA colpiamo l’intero popolo palestinese”. Il capo della diplomazia UE, Josep Borrell, invita alla calma e al pragmatismo. L’eventualità che qualcuno, dall’interno dell’organismo delle Nazioni Unite, abbia potuto aiutare Hamas a colpire Israele il 7 ottobre scorso sono gravi e la Commissione non sottovaluta la cosa, ma l’Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza ricorda che cosa c’è in ballo.“Se si eliminano i finanziamenti non si possono aiutare i palestinesi”, aggravando una situazione che, dal punto di vista umanitario, preoccupa sempre più in Europa. “Dobbiamo continuare a lavorare con l’UNRWA“, scandisce Borrell al suo arrivo in Consiglio europeo per il vertice dei capi di Stato e di governo dell’UE. Invita a lasciare che l’inchiesta faccia il suo corso, senza per questo pregiudicare un lavoro che risulta indispensabile. E aggiunge che dal punto di vista europeo non si intende procedere alla linea intransigente. “L’Unione europea non ha deciso di sospendere i finanziamenti all’UNRWA“, mette in chiaro. Ci sono le verifiche del caso, come peraltro annunciato, che è cosa diversa.Borrell sa di poter contare sull’appoggio dei leader dell’UE. Uno di questi è il primo ministro irlandese, Leo Varadkar. “Serve un cessate il fuoco umanitario a Gaza”, scandisce anche lui prima di prendere parte ai lavori del vertice del Consiglio europeo. In questa ottica di cessate il fuoco umanitario l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi ha ancora un ruolo da poter svolgere. Su questo Borrel è categorico. “Non c’è alternativa all’UNRWA, come hanno detto chiaramente le Nazioni Unite, se si vuole mantenere in vita queste persone”.

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    Mar Rosso, l’obiettivo dell’Ue è lanciare la missione Aspides entro il 19 febbraio. Italia, Francia e Grecia candidate alla guida

    Bruxelles – La data cerchiata sul calendario è quella del 19 febbraio, in occasione del prossimo Consiglio Ue Affari Esteri. È il giorno indicato dall’Alto rappresentante per gli Affari Esteri, Josep Borrell, per il lancio della missione navale europea che dovrà proteggere le navi mercantili dagli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso. “Bisogna fare in fretta”, ha avvisato Borrell, per scongiurare l’aggravarsi delle conseguenze sull’economia europea.
    Si chiamerà Aspides, che in greco antico significa scudo. Ed è pensata esattamente per fungere da scudo: sarà una missione “puramente difensiva”, ha sottolineato più volte Borrell a margine del vertice informale di oggi (31 gennaio) con i ministri della Difesa dei Paesi Ue. I 27 hanno trovato la quadra sulla missione: qualcuno non parteciperà, ma nessuno si opporrà al suo dispiego. E hanno trovato “l’intesa politica sui parametri principali dell’operazione“, che “saranno formalizzati” al più tardi il 19 febbraio. Un ulteriore passaggio politico avverrà a livello dei capi di stato e di governo dell’Ue: fonti europee hanno confermato che i 27 leader ne discuteranno al Consiglio europeo straordinario che si terrà domani a Bruxelles.
    Il nodo principale da sciogliere è quale Paese ne assumerà il comando e dove sarà situato il quartier generale. Hanno avanzato la propria candidatura Italia, Francia e Grecia. “Non è una gara, l’importante per noi è che questa missione parta, che sia congiunta, che venga coinvolto il maggior numero possibile di Paesi europei”, ha dichiarato il ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, a margine dei lavori del Consiglio, ai microfoni di RaiNews24. Che in mattinata aveva esortato l’Ue a “prendere una posizione più concreta e meno burocratica, perché i tempi che viviamo richiedono velocità e pragmatismo”.
    Sette Paesi europei, che forniranno gli uomini e le tre navi chieste dal Servizio di Azione Esterna dell’Ue per avere l’impatto necessario nell’area. Anche se Borrell ha dichiarato che “metteremo in mare navi e mezzi proporzionali alla minaccia che affrontiamo”, lasciando aperta la porta a ulteriori modifiche. Il punto che resta ferma è che Aspides “non condurrà nessuna operazione via terra” sul suolo yemenita.
    Come a voler riaffermare l’indipendenza rispetto alla missione Prosperity Guardian, guidata dagli Stati Uniti, a cui partecipano anche alcuni Paesi europei. Ma con cui “chiaramente ci coordineremo”, ha precisato il capo della diplomazia europea.

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    L’Ue rivede gli impegni sulla consegna di un milione di munizioni all’Ucraina. Entro marzo saranno al massimo 530 mila

    Bruxelles – L’Ue rivede al ribasso gli impegni sulla consegna di un milione di munizioni all’Ucraina entro marzo 2024. L’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri, Josep Borrell, dopo il confronto con i ministri della Difesa dei 27, alza bandiera bianca e annuncia che entro la scadenza stabilita arriverà a Kiev solo il 52 per cento dell’artiglieria promessa.
    Nell’agenda del vertice informale di oggi (31 gennaio) a Bruxelles, il primo punto era fare il punto della situazione sul supporto all’Ucraina, che visti i tentennamenti dell’alleato americano – 6 miliardi ancora bloccati dal Congresso – è più importante che mai. Un supporto che finora non è mai mancato: dall’inizio dell’invasione russa, il 24 febbraio 2022, l’Ue e gli Stati membri hanno fornito 28 miliardi di assistenza militare alla resistenza di Kiev. Oggi il capo della diplomazia europea ha chiesto ai ministri Ue quanto riusciranno a impegnarsi per il 2024: “Posso dire che avremo un budget di almeno 21 miliardi per il sostegno militare all’Ucraina”, ha annunciato Borrell. Che si aspetta comunque che questa cifra cresca, perché alcuni Paesi non hanno ancora dichiarato le proprie stime.

    L’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell
    Come sottolineato da Borrell, si tratterebbe di un aumento notevole rispetto ai 28 miliardi nei due anni precedenti. Ma la nota dolente riguarda la consegna di quell’artiglieria che avrebbe dovuto sostenere la controffensiva ucraina nei territori occupati dall’esercito di Mosca. Ad oggi a Kiev sono arrivati 330 mila pezzi, tra proiettili d’artiglieria, munizioni da 155 mm e missili. Si procede a rilento, basti pensare che a inizio novembre l’Ue aveva già raggiunto quota 300 mila. In un’interrogazione parlamentare del 22 dicembre, Borrell sosteneva ancora di poter raggiungere l’asticella di un milione di munizioni entro marzo 2024. Ma, dopo l’aggiornamento odierno e numeri alla mano, ha tirato i remi in barca: “Entro marzo prevedo che questa cifra (330 mila, ndr) aumenterà di 200 mila unità”, ha dichiarato a margine del Consiglio informale.
    Dunque il tetto è abbassato a 530 mila, il 52 per cento dell’obiettivo. Che dovrà essere raggiunto facendo affidamento quasi solo sulle scorte già esistenti nei Paesi membri. Perché il problema principale per realizzare l’Asap (Act in support of ammunition production) resta la capacità industriale europea. Da un lato le difficoltà dell’industria bellica europea nell’aumentare il ritmo di produzioni di proiettili, dall’altro il rincaro dei prezzi delle munizioni. Ma Borrell vede il bicchiere mezzo pieno: “La capacità produttiva è aumentata del 40 per cento dall’inizio della guerra“, arrivando al ritmo di “quasi un milione di munizioni all’anno, ma entro la fine del 2024 saranno 1,4 milioni”.

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    Il 28esimo membro entro il 2028. L’obiettivo del Montenegro per l’adesione all’Unione Europea

    Bruxelles – L’obiettivo è fissato e, dopo anni di instabilità politico-istituzionale e stagnazione sulla strada verso l’Unione Europea, per il Montenegro si è invertita di nuovo la barra per portare a casa un risultato auspicato da oltre 15 anni. “Il nostro storico e le nostre azioni nei prossimi mesi e anni metteranno sul tavolo delle decisioni se il Montenegro è pronto per diventare il 28esimo Paese membro entro il 2028, o se saremo parte di un processo più largo che arriverà più tardi”, ha messo in chiaro il neo-primo ministro montenegrino, Milojko Spajić, parlando con i giornalisti al termine della 15esima riunione della Conferenza di adesione Ue-Montenegro a Bruxelles ieri sera (29 gennaio).

    Il primo ministro del Montenegro, Milojko Spajić (29 gennaio 2024)Rispondendo alle domande sulla necessità di riforme a Podgorica e contestualmente di riforme interne all’Unione, Spajić ha voluto ricordare che “in teoria l’Ue è già pronta per 28 membri, non c’è bisogno di cambiare i Trattati“, con implicito riferimento all’addio del Regno Unito dopo la Brexit nel 2020. Ma per il Paese partner più avanzato sul cammino verso l’Ue tra tutti i 10 in corsa non c’è alcun rimpallo di responsabilità con Bruxelles: “Siamo noi che dobbiamo rispettare le promesse ed essere un partner affidabile, se lo faremo, sono ottimista”. Con il nuovo governo europeista insediatosi il 31 ottobre dello scorso anno anche a Bruxelles si respira ottimismo per i progressi che Podgorica può mettere in campo nel breve periodo, anche considerata la fine del lungo iter di nomina dei giudici della Corte Costituzionale che ha reso tesissimi i rapporti tra le forze politiche nel Paese balcanico tra fine 2022 e metà 2023. A proposito dell’obiettivo al 2028, la ministra degli Affari esteri del Belgio e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Hadja Lahbib, ha spiegato che “è molto ambizioso e lo supportiamo“, anche se l’allargamento Ue “rimane un processo basato sui criteri di Copenaghen e sul merito, vedo che c’è una forte volontà e sono sicura conquisterete altri progressi nel futuro prossimo”.

    Alla Conferenza di adesione Ue-Montenegro di ieri è stato fatto il punto sull’iter di avvicinamento del Paese verso l’adesione, i cui negoziati vedono tutti i 33 capitoli aperti e solo 3 chiusi provvisoriamente: il 25 su scienza e ricerca, il 26 su istruzione e cultura e il 30 su rilevazioni esterne. Come si legge nell’ultimo report specifico sul Montenegro contenuto nel Pacchetto Allargamento 2023, i progressi sui parametri intermedi fissati nei capitoli 23 e 24 sullo Stato di diritto (‘giudiziario e diritti fondamentali’ e ‘giustizia, libertà e sicurezza’) “saranno fondamentali per ottenere ulteriori progressi” nei negoziati in generale. In altre parole, “non saranno chiusi provvisoriamente altri capitoli prima del raggiungimento di questa pietra miliare“. Anche il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, ha ricordato che “i prossimi passi sono chiari, Podgorica sa cosa bisogna fare”, in particolare nell’area dei media con il “rafforzamento del Consiglio nazionale dei media”, dell’indipendenza dei giudici e della lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata “non solo con la legislazione, ma anche con uno storico su casi di alto livello”, ha sottolineato il membro del gabinetto von der Leyen. Lo stesso premier Spajić ha voluto mettere in chiaro che “abbiamo molto da lavorare sulla legislazione pendente, ma sono sicuro che questo approccio darà risultati”.

    La ricerca di nuova stabilità in Montenegro

    Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Montenegro, Jakov Milatović, a Podgorica (31 ottobre 2023)Il 2023 è stato l’anno in cui si è chiusa in Montenegro una crisi non solo istituzionale ma anche politica. Dal febbraio dello scorso anno è stato un succedersi di trionfi per il nuovo movimento europeista Europe Now, fondato e guidato da quelli che ora sono il primo ministro e il presidente del Montenegro – rispettivamente Spajić e Jakov Milatović – vincitori dalla doppia tornata elettorale in poco più di due mesi: il ballottaggio delle presidenziali del 2 aprile e le elezioni per il rinnovo del Parlamento dell’11 giugno. Il neo-premier Spajić – eletto nel giorno della visita a Podgorica della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen – e il neo-presidente Milatović erano rispettivamente ministro delle Finanze e dell’Economia e dello Sviluppo economico nella grande coalizione anti-Đukanović (padre-padrone del Paese balcanico per 32 anni) guidata dal 4 dicembre 2020 al 28 aprile 2022 da Krivokapić. Durante l’anno e mezzo di governo i due hanno presentato un programma di riforme economiche intitolato proprio ‘Europe Now’, che comprendeva misure come il taglio dei contributi sanitari e l’aumento del salario minimo a 450 euro. I due tecnocrati hanno annunciato la volontà di fondare un nuovo partito di centro-destra liberale, anti-corruzione ed europeista dopo la caduta del governo Krivokapić nel febbraio 2022 – poi effettivamente fondato il 26 giugno – anticipando l’intenzione di collaborare con altre formazioni civiche e di centro in vista delle elezioni del 2023.

    Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro del Montenegro, Milojko Spajić, a Podgorica (31 ottobre 2023)La nomina di Spajić e Milatović (i più giovani mai eletti alle due cariche istituzionali del Paese, entrambi all’età di 36 anni) ha messo fine a una fase di turbolenza per il Montenegro iniziata con le elezioni del 30 agosto 2020. In quell’occasione sono cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni ininterrotti al potere per il Dps di Đukanović (sempre al governo o alla presidenza del Paese dal 1991). A guidare l’esecutivo per poco più di un anno è stata una coalizione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (guidata da Montenegro Democratico) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’ dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Dritan Abazović. Il 4 febbraio 2022 era stata proprio ‘Nero su bianco’ a sfiduciare il governo Krivokapić, appoggiando una mozione dell’opposizione e dando il via all’esecutivo di minoranza di Abazović.Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stata appoggiata dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettata, perché considerata un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue. Nel pieno della crisi istituzionale emersa dalla seconda metà dell’anno e dopo il rifiuto a nominare un nuovo primo ministro, lo scorso 16 marzo l’ex-presidente Đukanović ha sciolto il Parlamento e ha indetto nuove elezioni anticipate per l’11 giugno, non sapendo che di lì a poche settimane avrebbe perso le elezioni presidenziali prima, e le nazionali poi.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Presentato a Roma il Piano Mattei. Meloni: Futuro Europa-Africa interconnesso

    Roma – Roma apre le porte del Sentato al vertice Italia-Africa, il primo appuntamento internazionale che l’Italia ospita da quando ha assunto la Presidenza del G7. Qui, la premier Giorgia Meloni presenta ai capi di stato e di governo africani il Piano Mattei. L’obiettivo, di medio e lungo periodo, spiega, è quello di dimostrare che “siamo consapevoli di quanto il destino dei nostri due continenti, Europa e Africa, sia interconnesso. E che possiamo crescere insieme”.In emiciclo, a sostenere il progetto, siedono i vertici delle Istituzioni europee, Ursula von der Leyen, Charles Michel, Roberta Metsola.“Vogliamo costruire una cooperazione da pari a pari, nella quale l’Europa deve rifiutare l’approccio paternalistico che ha spesso dimostrato, lontana da qualsiasi tentazione predatoria, ma anche da quell’impostazione ‘caritatevole’ che mal si concilia con le sue straordinarie potenzialità di sviluppo del Continente”, ribadisce Meloni.La premier incassa il plauso del presidente del Consiglio Europeo, Michel: “Il piano si inserisce nel paradigma delle relazioni che vogliamo tessere con l’Africa, con il principio di una partnership tra pari, con rispetto e fiducia”, afferma.Si dice grata a Meloni anche la presidente della Commissione europea, von der Leyen, per aver posto la cooperazione con l’Africa “al centro della sua politica estera e della sua presidenza del G7”.  Considera il nuovo Piano “un importante contributo a questa nuova fase del nostro partenariato, complementare al Global Gateway europeo”. Il Global Gateway è la strategia di investimento da 300 miliardi di euro nei Paesi terzi, di cui circa la metà destinati all’Africa. von der Leyen insiste sul fatto che si tratta di “un momento di intensa e rinnovata cooperazione tra Africa ed Europa. Perché i nostri interessi sono più che mai allineati. Dobbiamo tutti passare all’energia pulita e adattarci al cambiamento climatico. Abbiamo tutti bisogno di formare la nostra forza lavoro per i lavori di domani”, ha aggiunto.La presidente italiana del consiglio vuole ripartire dall’intuizione di Enrico Mattei, che amava dire che “l’ingegno è vedere possibilità dove gli altri non ne vedono”, per, scandisce, “scrivere una pagina nuova nelle nostre relazioni”.Il Piano può contare su 5,5 miliardi tra crediti, operazioni a dono e garanzie: tre arrivano dal Fondo italiano per il clima e due miliardi e mezzo dalle risorse della cooperazione allo sviluppo. A questi, si aggiungeranno quelli che (auspicabilmente) arriveranno dalle Istituzioni finanziarie internazionali, dalle Banche Multilaterali di Sviluppo, dall’Unione Europea e da altri Stati donatori, che già si sarebbero fatti avanti per sostenere progetti comuni. Ma ci sarà anche, entro l’anno, un nuovo strumento finanziario, assieme a Cassa Depositi e Prestiti, per agevolare gli investimenti del settore privato.I pilastri sono cinque: istruzione e formazione, salute, agricoltura, acqua ed energia. “È un piano ambizioso ma estremamente concreto, che partirà da progetti pilota in alcune Nazioni africane per poi estendersi al resto del Continente. Un Piano di interventi con il quale vogliamo dare il nostro contributo a liberare le energie africane, anche per garantire alle giovani generazioni africane un diritto che finora è stato negato: il diritto a non dover essere costretto a emigrare e a recidere le proprie radici”, scandisce Meloni.L’Unione Africana, però, chiede più concretezza e meno chiacchiere. “Non ci accontentiamo di semplici promesse che poi non sono mantenute”, tuona Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione, che lamenta di non essere stato interpellato nella stesura: “Avremmo auspicato di essere consultati, adesso siamo pronti a discutere le modalità”. Il Piano non è una “scatola chiusa, da imporre e calare dall’alto”, ribatte Meloni: è pensato, spiega, come una “piattaforma programmatica aperta alla condivisione e alla collaborazione con le nazioni africane, sia nella fase di definizione sia in quella di attuazione dei singoli progetti”. Dei cinque miliardi e mezzo, Per la prima volta, la Conferenza Italia-Africa (in passato tenuta a livello ministeriale) viene elevata a Vertice e apre alla partecipazione dei Capi di Stato e di Governo. “E’ una scelta che ribadisce la centralità e la rilevanza che l’Italia attribuisce al rapporto con le Nazioni africane”, rivendica la premier.Quello di oggi “non è un punto di arrivo, ma un fondamentale momento di confronto con tutti i vertici del continente africano, per fare sempre di più”, precisa il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Perché, ricorda, “le sfide globali sono tante e sempre più complesse”. Tre guerre e la situazione nel Mar Rosso hanno ricadute non indifferenti “strategiche ed economiche” sui Paesi africani.Uno dei miti che vuole sfatare il programma è che l’Africa sia povera. Nient’altro che una “narrazione distorta”, per Meloni, che ricorda che il continente detiene il 30 per cento delle risorse minerarie del mondo, il 60 per cento delle terre coltivabili. Il 60 per cento della sua popolazione ha un’età inferiore ai 25 anni, questo lo rende anche una terra dalle “enormi potenzialità di capitale umano”, sottolinea. Ma si tratta anche di un continente immenso, che racchiude necessità molto diverse tra loro.Nel settore energetico l’Africa “è un continente che non ha rivali”, conferma la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola. “L’Europa ha un problema di approvvigionamento energetico -ricorda – e l’Africa ha il potenziale per essere un fornitore massiccio di energia rinnovabile e verde”. Un discorso che vale anche per le materie prime e le terre rare: “Possiamo crescere insieme, in modo sostenibile, non a spese l’uno dell’altro”.

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    L’Ue avvia una revisione dei fondi all’Unrwa, diversi Stati membri li hanno già sospesi. A rischio l’assistenza a Gaza

    Bruxelles – È cominciata la reazione a catena dopo le accuse mosse da Israele sul presunto coinvolgimento di 12 dipendenti dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) nell’attacco terroristico di Hamas dello scorso 7 ottobre. Uno dopo l’altro, diversi governi hanno già annunciato la sospensione dei finanziamenti. L’Ue attende l’esito dell’indagine annunciata dall’Onu. E l’Unrwa fa sapere che così non sarà più in grado di garantire l’assistenza a Gaza oltre il mese di febbraio.Finora sono 13 i Paesi che si sono sfilati dagli impegni con l’Unrwa: Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito, Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Svizzera, Norvegia, Finlandia, Romania e Giappone. Più cauta invece l’Unione europea, la cui cooperazione con l’Agenzia dell’Onu per la Palestina risale addirittura al 1971. La Commissione europea – che nel 2023 ha mobilitato 92 milioni di euro per l’Unrwa – ha fatto sapere che “attualmente non sono previsti ulteriori finanziamenti fino alla fine di febbraio” e che riesaminerà la questione “alla luce dell’esito dell’indagine annunciata dall’Onu e delle azioni che intraprenderà”.Nel frattempo, Bruxelles ha richiesto all’Unrwa di “effettuare un audit dell’agenzia che sarà condotto da esperti esterni indipendenti nominati dall’Ue”. In sostanza – ha spiegato il portavoce capo dell’escutivo Ue, Eric Mamer -, quando la Commissione “lavora intensamente come fa con l’Unrwa”, esistono diversi meccanismi di controllo e la possibilità di chiedere un audit “in qualsiasi momento”. Non si tratta di un’indagine sull’accaduto, ma riguarda la “rivalutazione dei pilastri concentrandosi in particolare sui sistemi di controllo con cui l’Unrwa previene il possibile coinvolgimento del suo personale in attività terroristiche”.

    L’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell (R) con il commissario generale dell’Unrwa, Philippe Lazzarini (Photo by Kenzo TRIBOUILLARD / AFP)Non si è fatta attendere nemmeno la risposta del Palazzo di vetro. L’Onu ha immediatamente lanciato un’indagine da parte dell’Office of Internal Oversight Services (OIOS), il massimo organo investigativo delle Nazioni Unite, anche se il commissario generale dell’Unrwa, Philippe Lazzarini, aveva già annunciato l’avvio di un’indagine interna. Delle 12 persone implicate, nove sono state immediatamente identificate e licenziate, uno è stato confermato morto e le identità dei restanti due sono “in fase di chiarimento”.“Qualsiasi dipendente delle Nazioni Unite coinvolto in atti di terrorismo sarà ritenuto responsabile, anche attraverso procedimenti penali”, ha affermato il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. Riconoscendo le preoccupazioni dei paesi che hanno sospeso i fondi ed esprimendo il proprio orrore per le accuse, Guterres ha tuttavia lanciato un forte appello per garantire almeno la continuità delle operazioni dell’Unrwa. “I presunti atti ripugnanti di questi membri dello staff devono avere delle conseguenze. Ma le decine di migliaia di uomini e donne che lavorano per l’Unrwa, molti dei quali si trovano in alcune delle situazioni più pericolose per gli operatori umanitari, non dovrebbero essere penalizzate”, ha affermato. E con loro naturalmente la popolazione civile di Gaza, i cui “disperati bisogni devono essere soddisfatti”.Secondo i dati dell’Unrwa aggiornati al 27 gennaio, circa 1,7 milioni di sfollati interni stanno trovando riparo nei rifugi di emergenza dell’Agenzia. Delle 21.881 tonnellate metriche di farine distribuite dal 21 ottobre alla popolazione, più della metà (12.987) provenivano dall’Unrwa. Che nello stesso periodo ha consegnato a Gaza medicinali e forniture mediche per un valore totale di oltre 6,2 milioni di dollari, quasi 19 milioni di litri d’acqua, 2,7 milioni di unità di biscotti e biscotti ad alto contenuto energetico, quasi 4,7 milioni di scatole di cibo a base di proteine, oltre 6,5 milioni di unità di prodotti caseari e altri alimenti, tra cui datteri, dolci e succhi di frutta. E quasi 100.000 materassi, 80.000 kit per l’igiene familiare, oltre 3,1 milioni di pannolini, circa 144.000 coperte e oltre 1,9 milioni di articoli per la pulizia.

    Membri dell’Unrwa distribuiscono farina a Gaza (Photo by SAID KHATIB / AFP)Ma l’Agenzia ha dichiarato che non sarà in grado di continuare le operazioni a Gaza e in tutta la regione oltre la fine di febbraio, se non riprenderanno i finanziamenti a suo favore. Anche se l’Ue ha già affermato che “gli aiuti umanitari ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania continueranno senza sosta attraverso altre organizzazioni partner”, è difficile immaginare di poter rimpiazzare il lavoro degli oltre 13 mila dipendenti dell’Unrwa residenti a Gaza, in gran parte essi stessi profughi palestinesi.Tutto questo a pochi giorni dal pronunciamento della Corte di giustizia internazionale, che ha chiesto a Israele che vengano consentite “senza indugi” la fornitura di servizi di base e di assistenza umanitaria “urgentemente necessari per alleviare le difficili condizioni di vita a cui sono sottoposti i palestinesi della Striscia di Gaza”. E che, per le accuse mosse allo 0,09 per cento dell’Unrwa, rischia ora tragicamente di interrompersi.