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    Alla Nato comincia l’era Rutte: Ucraina e aumento delle spese militari restano le priorità. Sull’Ue: “Partner essenziale”

    Bruxelles – Jens Stoltenberg ha ufficialmente consegnato l’oneroso testimone dell’Alleanza atlantica a Mark Rutte. Da oggi (1 ottobre), l’ex primo ministro olandese è il nuovo segretario generale della Nato. Il nuovo corso comincia nel solco di quanto fatto nel secondo mandato Stoltenberg: le priorità – ha messo in chiaro Rutte dal quartier generale della Nato a Bruxelles – restano l’Ucraina, l’aumento delle spese militari e il rafforzamento delle alleanze nel mondo.Proprio Stoltenberg, in un punto stampa congiunto, ha illustrato le competenze “dell’amico e collega” Rutte: “Conosce bene la Nato ed è ben noto in tutti i Paesi”, ma soprattutto “è stato primo ministro per 14 anni e ha guidato quattro diversi governi di coalizione” nei Paesi Bassi. Ha una certa domestichezza con i compromessi, skill richiesta per stare al timone di un’Alleanza militare che conta 32 Stati.Prima di lasciare, Stoltenberg ha rivendicato i propri meriti: “Me ne vado sapendo che abbiamo ottenuto molto insieme”, ha dichiarato. In particolare – complice il contesto geopolitico internazionale – la Nato conta ora 23 Paesi che hanno raggiunto il target del 2 per cento del Pil in spese per la difesa. “La Nato è cambiata come è cambiata il mondo“, ha affermato ancora l’ormai ex segretario generale.L’Europa si è riscoperta vulnerabile. Prima con Donald Trump alla Casa Bianca, che ha minacciato di richiudere “l’ombrello” a stelle e strisce in protezione del vecchio continente, poi con lo scoppio di un conflitto alle porte dell’Unione europea. L’Ucraina “deve prevalere”, rimane la prima priorità, ha messo in chiaro Rutte. Come sostenuto dal suo predecessore, per combattere la sua guerra di autodifesa Kiev “ha il diritto di colpire obiettivi legittimi in Russia”. Ma “spetta a ogni Stato partner decidere” sulle restrizioni agli armamenti.Per ricacciare indietro la minaccia russa e riportare un certo equilibrio sullo scacchiere internazionale, l’Alleanza atlantica “deve spendere e investire di più e cercare di raggiungere gli obiettivi”. Così, paradossalmente, il “frugale” olandese Rutte, che da premier combatteva per chiudere i rubinetti di Bruxelles all’Italia, dovrà ora insistere perché l’Italia – insieme a Belgio, Croazia, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Spagna – spenda di più per la propria difesa.Mark Rutte al primo giorno da segretario generale della Nato, 01/10/24 [Credit: Nato]Perché questo avvenga, Rutte potrà contare sull’agenda della nuova legislatura Ue, decisa a restituire centralità all’industria della difesa nei 27 Paesi membri. “L’Ue è un partner unico ed essenziale della Nato – ha sottolineato il segretario generale -, ben vengano i suoi sforzi per la difesa“. Ma “nessuno vuole che l’Ue sia un doppione di quello che la Nato sta già facendo”. Il coordinamento militare è prerogativa dell’Alleanza atlantica.A prescindere dalle elezioni americane di novembre e da un eventuale ritorno del tycoon alla Casa Bianca. Anzi, Rutte ha evidenziato i meriti del Trump presidente, che “ci ha spinto a spendere di più” e “ci ha aperto gli occhi” sui rischi del rapporto con la Cina. “Non sono preoccupato, conosco molto bene entrambi i candidati“, ha chiuso l’argomento diplomaticamente Rutte.Cina, Iran e Corea del Nord, che sostengono lo sforzo bellico di Mosca e che in cambio “ricevono supporto per lo sviluppo di programmi nucleari”, per Rutte saranno un problema. Per questo l’ultima priorità individuata dal neo-segretario generale è l’urgenza di “costruire alleanze in tutto il mondo“. Approfondire i partenariati in Medio Oriente, in Africa, nell’Indo-pacifico. Questa la strategia di Rutte in chiave anti-Russia.La prima di Rutte, gli auguri dai leader UeI leader delle istituzioni europee hanno salutato con gioia il nuovo incarico di Rutte, che nei corridoi dei palazzi di Bruxelles ha camminato tante volte nei suoi anni da primo ministro dei Paesi Bassi. “La tua leadership sarà fondamentale per il ruolo dell’Alleanza nella nostra sicurezza euro-atlantica e per il nostro fermo sostegno all’Ucraina”, ha affermato Ursula von der Leyen, lanciando un appello per “rafforzare ulteriormente il partenariato Ue-Nato”.Appello raccolto immediatamente da Charles Michel, secondo cui “la profonda cooperazione Ue-Nato è fondamentale nel nostro ambiente globale in evoluzione”. Anche Roberta Metsola, dopo aver ringraziato Jens Stoltenberg “per un decennio di incrollabile impegno a favore della sicurezza globale”, si è detta convinta che “la leadership e la tenacia di Mark Rutte non faranno che rafforzare l’unità tra Ue e Atlantico”.Secondo Danilo Della Valle, europarlamentare del Movimento 5 Stelle, invece “iI nuovo segretario generale è sicuramente partito col piede sbagliato. La sua agenda prevede un aumento delle spese militari e un antagonismo con la Russia che non promette nulla di buono. La Nato è nata come alleanza difensiva e tale deve rimanere”.

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    Elezioni in Usa: la presidenza Harris è la più auspicabile per l’Europa, ma senza l’illusione che l’”ombrello statunitense” sia ancora aperto

    Bruxelles – Le elezioni statunitensi sono alle porte e la decisione di Joe Biden di ritirarsi a favore di Kamala Harris ha aperto nuovamente la partita con Trump su chi sarà il 47esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Per l’Europa, la presidenza Harris “segnerebbe la continuità delle relazioni transatlantiche“, ma è chiaro che non ci sarà, con nessuno dei due candidati, un ritorno alla politica pre-Trump.Questo il contenuto chiave dello studio di Ian Bond e Luigi Scazzieri per il Center for European Reform, che spiega quale sarebbe l’impatto della vittoria delle elezioni presidenziali statunitensi il 5 novembre della candidata democratica Kamala Harris.La vicepresidente Usa è un’avversaria temibile per il repubblicano Donald Trump, la cui vittoria contro Biden era stata quasi per scontata. Per l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, “ci sarà sicuramente una gran differenza” in base a chi sarà il prossimo presidente Usa, e Harris attualmente sembra essere la migliore tra le due opzioni per l’Europa.Un’ipotetica vittoria di Donald Trump metterebbe in difficoltà le relazioni Usa-Ue e la sicurezza europea. L’approccio del repubblicano, soprattutto sull’Ucraina e sulla Nato, apre delle prospettive allarmanti per l’Europa.La sua contrarietà all’assistenza all’Ucraina, unita al supporto al presidente russo Vladimir Putin, preoccupano dall’altra parte dell’Atlantico, ma anche la posizione di Harris sul tema non è così netta.La candidata, per quanto fortemente critica nei confronti di Putin, riflette la grande differenza di percezione sull’Ucraina tra europei e Usa: per gli statunitensi non è una minaccia esistenziale l’eventuale vittoria russa. In sostanza, il sostegno dei democratici all’Ucraina è funzionale ad evitare un conflitto diretto con la Russia per la Nato, e quindi per gli Usa. Per altro, “anche se Harris fosse più incline ad essere più lungimirante di Biden”, se i repubblicani controllassero le camere al Congresso, lo spazio di manovra per ulteriore assistenza sarebbe comunque limitato.Il protezionismo trumpiano non piace (con proposte di tariffe del 60 per cento sulle importazioni dalla Cina e 10-20 dal resto del mondo), soprattutto la richiesta agli europei di allinearsi apertamente con l’approccio conflittuale con la Cina. Harris sembra più cauta e in linea con il suo predecessore, con tariffe mirate per competere con Pechino e sussidi ai produttori nazionali. Per l’Europa queste non sono buone notizie: i dazi americani sui prodotti cinesi in entrata obbligherebbero a proteggere il mercato europeo dalle esportazioni cinesi con altri dazi, i sussidi allontanerebbero gli investimenti dal vecchio continente. Stesso discorso sulla fornitura di tecnologia europea avanzata alla Cina, sul cui divieto nemmeno Harris ha intenzione di mollare la presa. I metodi saranno probabilmente meno bellicosi di Trump, ma per gli Usa il primato tecnologico, già vacillante, non può essere minato dalla Cina tramite informazioni acquisite dagli europei.Il più grande punto interrogativo per l’agenda di Harris riguarda il Medio Oriente. Mentre Trump ha una posizione lapalissiana, con sostegno incondizionato alla linea dura del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, quella di Harris ha dei contorni più sfumati.Fino ad oggi, l’obiettivo primario era quello di mantenere l’unità del partito democratico anche sul tema del conflitto a Gaza, considerando anche le critiche precedentemente ricevute da Biden sulle sue scelte politiche. La linea di Harris è moderata, non cambia il sostegno ad Israele ma si unisce la necessità di impegnarsi per alleviare le sofferenze dei palestinesi. Un impegno non di poco conto, che comporta fare pressioni su Israele e soprattutto sollevare le perplessità dei suoi stessi colleghi di partito.L’Europa, al contrario, sorride alla moderazione, dal momento che ci sarebbe un inedito avvicinamento per questi tempi tra la politica statunitense e quella europea. Nuovamente, i problemi europei non sono priorità statunitensi, per cui il rischio di espansione del conflitto in Libano non è una minaccia primaria per gli Usa e invece ha rischi fortemente impattanti sul vecchio continente, come la radicalizzazione violenta e movimenti di larga scala di rifugiati.Non di poco conto è la poca chiarezza della candidata democratica su come intenda gestire il problema del programma nucleare iraniano. Al contrario, Trump ha una posizione molto definita, avendo deciso per l’uscita  dall’accordo sul nucleare del 2015 durante la sua presidenza. L’espansione del programma nucleare iraniano è pericolosa vista la possibilità che avrebbe il paese mediorientale di produrre un ordigno nucleare in poco tempo, ma Harris non sembra avere le idee chiare (o almeno non aver comunicato nulla) su come cercherà il coinvolgimento dell’Iran sui negoziati riguardanti il programma. Ennesimo punto interrogativo sul Medio Oriente e sul futuro della politica americana.Harris e Trump propongono due visioni differenti della politica statunitense, con delle divergenze sostanziali, ma delle similitudini nella tutela degli interessi americani che in Europa dovrebbero far riflettere.L’elezione di Trump sarebbe deleteria per le relazioni transatlantiche, con qualche eccezione tra i leader europei, come il primo ministro ungherese Orban, che accoglierebbero un Trump-bis con entusiasmo. La vittoria di Harris permetterebbe agli europei di avere continuità con la presidenza Biden, tenendo conto però che gli Stati Uniti non hanno come priorità la questione ucraina e che l’America ha come priorità la protezione della propria produzione e sulla politica industriale.L’Europa con Harris vivrebbe solo un rallentamento al processo (forse irreversibile) di allontanamento dall”ombrello’ statunitense. Chiunque vinca il 5 novembre, sarà necessario per il vecchio continente pensare a come proseguire con gli Usa gradualmente più distanti e una concorrenza economica sempre più agguerrita nel panorama globale.Intanto oggi il Parlamento europeo ha eletto Brando Benifei (Pd/S&D) alla guida della Delegazione dell’Europarlamento per le relazioni con gli Stati Uniti. Secondo il parlamentare “in questo momento di incertezza geopolitica l’incarico comporta un impegno preciso: è fondamentale continuare a lavorare a una relazione transatlantica che sia basata sul rispetto reciproco e sulla cooperazione su temi fondamentali come la tecnologia, l’economia, la sicurezza internazionale e la transizione ambientale”. Secondo Benifei, “chiunque vincerà le elezioni presidenziali americane, questa relazione rimarrà fondamentale per trovare soluzioni adeguate a problemi comuni. L’Europa dovrà trovare una propria voce e maggiore coesione politica, necessari per essere un player globale come gli Usa”.

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    Il Consiglio dell’Ue spacchetta il percorso di adesione di Albania e Macedonia del Nord. Per Tirana si apre il capitolo negoziale

    Bruxelles – Tirana avanza, Skopje, per il momento, no. Gli ambasciatori dei Paesi Ue hanno spacchettato il percorso di adesione all’Ue di Albania e Macedonia del Nord. I due Paesi dei Balcani occidentali finora avevano sempre camminato a braccetto, ma da troppo tempo erano fermi a causa degli attriti tra il nuovo governo macedone e la Bulgaria. Con questa decisione, l’Ue forza l’impasse e prepara il campo per la Conferenza intergovernativa con l’Albania, che potrebbe tenersi già nelle prossime settimane.Nella giornata di ieri (25 settembre), i rappresentanti diplomatici dei 27 hanno approvato la lettera con cui la Presidenza del Consiglio dell’Ue comunicherà alle autorità albanesi la valutazione positiva del Consiglio sul raggiungimento degli obiettivi previsti dal ‘cluster 1‘. Quelli ritenuti fondamentali, che danno l’accesso al processo negoziale. I cinque ‘benchmark’ riguardavano Magistratura e diritti fondamentali, Giustizia, libertà e sicurezza, Appalti pubblici, Statistiche, Controllo finanziario.Tirana si scrolla così di dosso l’ingombrante compagno nel processo di adesione, che la tiene in stallo dall’estate del 2022. La Commissione europea, che ha sempre sostenuto di voler tenere legate le due capitali, ha alzato le mani di fronte allo spacchettamento: “Auspichiamo che i negoziati per il cluster fondamentale inizino al più presto con l’Albania e, una volta soddisfatti i criteri concordati dal Consiglio, anche per la Macedonia del Nord“, ha dichiarato la portavoce Ana Pisonero. Il passo necessario per Skopje, che continua a mancare, riguarda alcune modifiche costituzionali promesse a Bruxelles. E soprattutto a Sofia.Nel luglio del 2022, con la mediazione della presidenza francese del Consiglio dell’Ue, Bulgaria e Macedonia del Nord avevano trovato un accordo per risolvere la questione della minoranza bulgara sul territorio macedone. In sostanza, Skopje aveva promesso di includere nella propria Carta fondamentale la comunità bulgara insieme a quelle già tutelate. Così Sofia avrebbe revocato il veto sull’avanzamento del processo di adesione all’Ue. Ma l’accordo non è ancora stato implementato, e il nuovo governo, espressione del partito nazionalista VMRO-DPMNE che ha vinto le elezioni lo scorso maggio, ha già annunciato di voler rinegoziare il cosiddetto “compromesso francese”. Bloccando di fatto non solo Skopje, ma anche Tirana.Per spingere avanti l’Albania, paese candidato all’Ue dal 2014, si è fatta da parte invece la Grecia, con cui si erano accese alcune tensioni relative alla detenzione in Albania di Fredis Beleri, sindaco di etnia greca del comune albanese di Himarë, condannato a due anni di carcere per compravendita di voti alle elezioni comunali del maggio 2023. Ma eletto come eurodeputato in Grecia alle elezioni europee del 9 giugno scorso. A quanto si apprende, diversi Stati membri hanno espresso soddisfazione per l’avanzamento concesso all’Albania, auspicando inoltre che altri Paesi dei Balcani Occidentali – tra cui appunto la Macedonia del Nord – possano presto fare passi in avanti.Ora Albania e Ue dovranno definire le rispettive posizioni negoziali in vista della Conferenza intergovernativa. Che potrebbe tenersi già nel mese di ottobre.

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    La Thailandia approva i matrimoni tra coppie dello stesso sesso. La Commissione europea se ne compiace

    Bruxelles – La Thailandia diventa il terzo paese asiatico, dopo Taiwan e Nepal, ad autorizzare legalmente matrimoni tra coppie dello stesso sesso.La legge è stata pubblicata sulla Gazzetta Reale dopo l’approvazione del re Maha Vajiralongkorn ed entrerà in vigore tra 120 giorni. A gennaio, le coppie dello stesso sesso avranno finalmente la possibilità di registrare la propria unione in Thailandia. Il procedimento va avanti dalla primavera, con i due passaggi alla Camera dei Rappresentanti e al Senato rispettivamente in aprile e giugno che permettono il pieno riconoscimento dei diritti legali, finanziari e medici ai partner matrimoniali di qualsiasi sesso.Grande successo a favore della comunità Lgbtq+, che ha visto riconosciuti i propri diritti di fronte ad un governo e una società storicamente conservatori. Importante anche il cambiamento di linguaggio sul Codice civile per sostituire le parole specifiche di genere, come “uomo o donna”, con parole neutre, come “individuo”.L’Unione europea si congratula con la Thailandia per questo risultato, che la rende “il primo Paese del Sud-est asiatico a riconoscere le unioni tra persone dello stesso sesso”. Questo costituisce un esempio positivo per la regione, come modello di diffusione dell’inclusività e della promozione dell’uguaglianza. L’Ue ha poi rilanciato l’incoraggiamento verso il paese asiatico nel sostegno alla promozione del diritto alla libertà di espressione senza alcuna discriminazione.Nell’ambito dell’accordo di partenariato e cooperazione firmato da Ue e Thailandia, Bruxelles auspica un ulteriore rafforzamento delle relazioni riguardo a tutti gli aspetti che rendono le società più inclusive, considerando il condiviso impegno per la non discriminazione, l’uguaglianza di genere e il rispetto dei diritti umani.

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    L’Ue, il G7 e le monarchie del Golfo chiedono un cessate il fuoco di 21 giorni tra Israele e Hezbollah

    Bruxelles – Tre settimane di tregua per “dare spazio alla diplomazia”. Unione Europea, Stati Uniti, Australia, Canada, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Giappone, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti lanciano un disperato appello a Israele e Hezbollah per fermare l’escalation in corso in Libano.Circa 700 vittime in 72 ore e lo spauracchio di un’operazione di terra in Libano. Israele sta mettendo in campo la stessa forza distruttrice mostrata a Gaza. Nelle ultime 24 ore, i raid delle Idf hanno ucciso 81 persone e ne hanno ferite 403. Dall’altra parte della linea blu, Hezbollah continua a lanciare razzi in direzione di Israele. Una situazione “intollerabile”, che “presenta un rischio inaccettabile di una più ampia escalation regionale”, si legge nella dichiarazione congiunta dei Paesi del G7, le tre monarchie del Golfo, l’Ue e l’Australia. Una crisi che “non è nell’interesse di nessuno, né del popolo di Israele né del popolo libanese”.L’imperativo è la conclusione di un accordo “che permetta ai civili di entrambi i lati del confine di tornare alle loro case in sicurezza”. Un accordo coerente con l’implementazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sul Libano e su Gaza. Ma, come ampiamente dimostrato nei mesi scorsi dai fallimentari negoziati tra Hamas e Tel Aviv, la diplomazia “non può avere successo in un’escalation”.La richiesta di “dare una reale possibilità a una soluzione diplomatica” è rivolta a “tutte le parti” coinvolte, “compresi i governi di Israele e del Libano”. I firmatari della dichiarazione congiunta si dicono “pronti a sostenere pienamente tutti gli sforzi diplomatici per concludere un accordo entro questo periodo”.Le prime reazioni arrivate da Israele non sono incoraggianti. Il ministro delle finanze, l’estremista religioso Bezalel Smotrich, ha affermato che “non bisogna dare al nemico il tempo di riprendersi e riorganizzarsi per continuare la guerra dopo 21 giorni”. Per Smotrich, l’unico modo per riportare i cittadini israeliani sfollati nelle loro case al confine libanese è “la resa di Hezbollah o la guerra”. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il leader dell’opposizione, Yair Lapid, starebbe cercando di convincere il governo di Netanyahu a accettare la tregua, “ma solo per 7 giorni, per non permettere a Hezbollah di ricostruire i suoi sistemi di comando e controllo”.Charles Michel al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, 25/09/24L’ufficio di Netanyahu ha smentito qualsiasi apertura verso un cessate il fuoco. Anzi, il primo ministro avrebbe autorizzato l’esercito a continuare a “colpire con tutta la sua forza” in Libano e a Gaza fino a quando tutti gli obiettivi della guerra non saranno raggiunti. Ieri sera, in un discorso di fronte al Consiglio di sicurezza dell’Onu, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, ha invitato il massimo organo delle Nazioni Unite ad alzare la voce. Perché quando i crimini “restano impuniti, diventano normali, diventano la legge”.A Gaza, così come a Kiev o in Sudan. E nella “più che irresponsabile” escalation in Libano. I conflitti di oggi mettono in dubbio l’autorità delle istituzioni multilaterali, e per Michel la ragione è da ricercare anche in seno al Consiglio di sicurezza, dove “alcuni membri non sono all’altezza delle loro responsabilità“. C’è bisogno di una riforma “per renderlo più inclusivo, più legittimo e più efficace”. Per il leader Ue, “è tempo che tutti i membri permanenti di questo Consiglio siano all’altezza della loro responsabilità storica”.

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    I raid israeliani in Libano hanno già ucciso più di 550 persone. Borrell chiede l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu

    Bruxelles – La comunità internazionale, a New York per la 79esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, guarda con preoccupazione verso il Medio Oriente. Lo scenario peggiore si sta materializzando, dopo un anno il conflitto tra Israele e Hamas è diventato guerra regionale. “Il Consiglio di sicurezza deve svolgere il suo ruolo”, è l’appello lanciato dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, di fronte al “bilancio allarmante” delle vittime degli attacchi israeliani in Libano.Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero della Salute di Beirut, i raid dell’aviazione israeliana hanno già ucciso 558 persone, di cui 50 bambini e 94 donne. E ne hanno ferite 1.835. Tra le vittime, anche due operatori dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). “Abbiamo urgente bisogno di fermare il cammino verso la guerra. Entrambe le parti devono attuare un cessate il fuoco immediato”, ha supplicato il capo della diplomazia europea.Josep Borrell a New York per la 79esima sessione dell’Assemblea Generale dell’Onu (Photo by ANGELA WEISS / AFP)Borrell si appella al massimo organo dell’Onu perché le risoluzioni del Consiglio di sicurezza – a differenza di quelle dell’Assemblea generale – sono le uniche ad essere vincolanti per i 193 Paesi che fanno parte delle Nazioni Unite. Almeno sulla carta: il 25 marzo scorso, dopo mesi di veti incrociati tra Stati Uniti e Russia, il Consiglio di Sicurezza aveva adottato una risoluzione con cui chiedeva un immediato cessate il fuoco su Gaza durante il mese di Ramadan e il rilascio incondizionato di tutti gli ostaggi. Una richiesta rimasta tuttora inascoltata.Il governo di Netanyahu non esclude tra l’altro, “se necessario”, un intervento via terra nel sud del Libano per sgominare le cellule di Hezbollah e permettere il rientro in sicurezza degli sfollati israeliani nel Nord del Paese. Nello spaventoso racconto in numeri che si sussegue dal 7 ottobre scorso a Gaza, e che ora è cominciato anche nel Paese dei Cedri, Tel Aviv elenca “i circa 400 lanciarazzi a medio raggio, 70 depositi di armi e circa 80 droni e missili da crociera di Hezbollah” distrutti dagli oltre 250 aerei di combattimento che in due giorni “hanno sganciato circa 2.000 munizioni”.The death toll of Israeli strikes in Lebanon is alarming. The latest figures say over 500 casualties, with 50 children among the victims.The Security Council has to play its role. We urgently need to halt the path to war. Both sides need to implement an immediate ceasefire.— Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) September 24, 2024

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    Bruxelles respinge le accuse sui finanziamenti alla Guardia nazionale tunisina: “Tutti i fondi a Ong partner”

    Bruxelles – La Commissione europea nega di aver messo fondi a disposizione delle forze di sicurezza tunisine nell’ambito dell’accordo Ue-Tunisia per ridurre le partenze di persone migranti verso l’Europa. E respinge così le accuse di coinvolgimento nelle documentate violazioni dei diritti umani perpetrate dalla Guardia Nazionale tunisina. La portavoce Ana Pisonero ha affermato che “i fondi europei per la migrazione in Tunisia sono incanalati attraverso le organizzazioni internazionali, gli Stati membri e le ong presenti sul territorio”.L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), la Croce rossa tunisina. Se è vero che sono loro i principali partner di Bruxelles sul campo, è altrettanto indubbio che non possano essere loro a svolgere il lavoro ‘preventivo’ richiesto dall’Unione europea. Quello di bloccare i migranti sulle coste del Paese nordafricano e impedire loro la traversata del Mediterraneo. Perché la Tunisia sia in grado di farlo, l’Ue ha già sborsato 42 milioni di euro per il refitting di navi, veicoli e altre attrezzature per la guardia costiera tunisina, oltre che per la fornitura di nuove imbarcazioni, termocamere e altra assistenza operativa.Come rendicontato con precisione da un documento presentato agli ambasciatori degli Stati membri il 20 dicembre 2023, l’Ue ha inoltre previsto di finanziare “la costruzione e l’equipaggiamento di un centro di comando e controllo per la guardia nazionale tunisina” nel deserto al confine con la Libia. Questo non significa automaticamente che l’Ue abdichi al ruolo di difensore dei diritti umani sull’altare dell’esternalizzazione delle proprie frontiere. La gestione delle migrazioni deve essere in linea con gli standard Ue sui diritti delle persone migranti e dei richiedenti asilo, e la Commissione europea “monitora i suoi programmi attraverso diversi strumenti, tra cui i rapporti regolari dei partner esecutivi, le missioni di verifica in loco, gli esercizi di monitoraggio orientati ai risultati e le valutazioni esterne”, ha elencato Pisonero.Salvo poi ammettere che “il monitoraggio da parte di terzi sarà istituito entro la fine del 2024”. Per quanto riguarda le missioni di verifica, già nel corso del 2023, due delegazioni del Parlamento europeo si sono viste rifiutare l’ingresso in Tunisia. Non proprio un segnale incoraggiante. Le violenze, gli stupri e i pushback messi in atto dalle forze di sicurezza tunisine, in un regime di completa impunità instaurato dal presidente Kais Saied, è “molto importante che vengano debitamente indagate dalle autorità competenti“, ha intimato quindi la portavoce della Commissione europea.Difficile che l’input sia raccolto dalla Tunisia, il cui governo ha già definito le accuse pubblicate la scorsa settimana dal The Guardian come “false e infondate”. Nemmeno dopo le elezioni presidenziali del 6 ottobre, nelle quali la rielezione di Saied è data praticamente per certa. La richiesta di avviare un’indagine è però arrivata proprio oggi all’Aia: gli avvocati e le famiglie dei leader dell’opposizione tunisina incarcerati hanno chiesto alla Corte penale internazionale di indagare sulla repressione politica e sugli abusi nei confronti dei migranti sub-sahariani.

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    Bruxelles promette a Kiev fino a 35 miliardi di euro, che dovrebbero arrivare dagli extraprofitti sugli asset russi congelati

    Bruxelles – Per l’ottava volta dall’inizio dell’invasione russa, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha incontrato a Kiev il leader ucraino Volodymyr Zelensky. Al quale ha annunciato che presto l’Ue staccherà per il Paese aggredito un maxi assegno che, come da accordi presi la scorsa estate in ambito G7, sarà finanziato dagli extraprofitti generati dagli asset russi immobilizzati. L’importo esatto non è ancora definito, ma potrebbe arrivare fino a 35 miliardi di euro. Ma rimane il rischio che l’Ungheria possa mettere a repentaglio l’intero piano.Durante una conferenza stampa congiunta con Volodymyr Zelensky al termine del loro incontro bilaterale, il capo dell’esecutivo comunitario ha annunciato venerdì (20 settembre) che “la Commissione ha adottato delle proposte che permetteranno all’Ue di prestare 35 miliardi di euro” come parte dell’impegno assunto dai partner del G7 la scorsa estate di fornire all’Ucraina 50 miliardi di dollari (circa 45 miliardi di euro) per sostenere le casse dello Stato, finanziando l’esborso con i proventi generati dagli asset russi immobilizzati in Occidente.Parlando al fianco del presidente ucraino, von der Leyen è tornata sul “piano per l’inverno” in tre punti (del valore di 160 milioni di euro) che aveva articolato giovedì (19 settembre): la priorità per l’Ue è sostenere il sistema energetico di Kiev riparando i danni provocati dagli attacchi russi, connettendo la griglia ucraina a quella europea e stabilizzando la produzione energetica del Paese. E in più ha aggiunto il carico da novanta, cioè appunto questi 35 miliardi che dovrebbero arrivare il più velocemente possibile nelle casse ucraine.In realtà, quello dei 35 miliardi è il limite massimo che l’Ue può fornire all’Ucraina nel quadro del piano del G7, ma non è detto che l’esborso effettivo ammonti davvero a quella cifra. La decisione sull’importo preciso verrà presa in un secondo momento, probabilmente entro la fine di ottobre, quando anche gli altri partner occidentali avranno definito l’entità della propria contribuzione. Insomma, i 45 miliardi totali potrebbero essere forniti anche in proporzioni diverse – non necessariamente 35 da parte di Bruxelles e i restanti 10 dagli altri membri dell’organizzazione.Gli accordi presi la scorsa estate a livello di G7 prevedevano originariamente un contributo paritario di Unione europea e Stati Uniti, pari a 20 miliardi di dollari ciascuno (poco meno di 18 miliardi di euro), mentre Canada, Giappone e Regno Unito avrebbero messo il resto. Ma Washington aveva poi rallentato l’intero processo adducendo dubbi circa la disponibilità degli Stati membri dell’Ue a rinnovare periodicamente le sanzioni che, nel concreto, mantengono effettivamente immobilizzati gli asset della Banca centrale russa – e che costituiscono dunque le fondamenta legali su cui si basa tutto il piano. Nello specifico, il timore si concentra sull’Ungheria di Viktor Orbán: dato che i Ventisette devono raggiungere l’unanimità al Consiglio per rinnovare il regime sanzionatorio contro Mosca, esiste il rischio che Budapest faccia saltare il banco.L’idea della Commissione Ue è di istituire un meccanismo speciale, che dovrebbe chiamarsi Ukraine loan cooperation mechanism, per incanalare annualmente verso le casse di Kiev un gettito compreso tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro (gli asset congelati nelle giurisdizioni europee sono stimati in circa 200 miliardi). Questo meccanismo andrebbe così a complementare lo Strumento europeo per la pace (Epf nell’acronimo inglese), che al momento finanzia la maggior parte degli esborsi sostenuti dagli Stati membri, e anzi dovrebbe finire per coprire (almeno nelle intenzioni) il 95 per cento dei prestiti erogati all’Ucraina, sulla base del principio per cui “la Russia deve pagare per la distruzione che provoca”, come più volte ribadito dalla stessa von der Leyen.Tecnicamente, questi soldi non sono destinati a nessun ambito di spesa specifico ma saranno nella completa disponibilità del governo ucraino. Un modo con cui Bruxelles cerca cioè di aumentare lo spazio di bilancio di agibilità per Kiev, le cui spese per fronteggiare l’aggressione russa continuano a salire. La creazione di questo fondo speciale – che sarà garantito in ultima istanza dal bilancio comunitario e diventerà operativo a partire dal 2025 – dovrà essere approvata entro la fine dell’anno fiscale in corso con procedura legislativa ordinaria dall’Eurocamera e dal Consiglio, che su questo punto delibera a maggioranza qualificata e può quindi bypassare un eventuale veto ungherese.Il “no” di Budapest può invece bloccare, come si diceva, il regime sanzionatorio imposto dai Ventisette contro la Federazione russa, che attualmente viene rinnovato a cadenza semestrale. Ora, per limitare il rischio che un singolo Stato membro possa minare l’intero meccanismo di prestito, la Commissione ha proposto di estendere a 36 mesi la periodicità con cui il Consiglio decide sul rinnovo del congelamento degli asset russi immobilizzati. Con questa mossa (che non va intesa come un “disaccoppiamento” del congelamento dal resto delle sanzioni, come precisato dai funzionari dell’esecutivo Ue), dunque, le misure restrittive continuerebbero ad essere rinnovate ogni sei mesi mentre l’immobilizzazione dei fondi della Banca centrale di Mosca verrebbe di fatto blindata di tre anni in tre anni. Perché questa proposta venga accolta, tuttavia, serve che i governi dei Ventisette l’accettino all’unanimità. Il che potrebbe non essere poi così scontato.