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    Borrell in Marocco promette “nessuna impunità” sul Qatargate. Ma per Rabat il partenariato è “sotto attacco continuo”

    Bruxelles – Alla fine del Qatargate se n’è parlato eccome, tra l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, e il capo del governo marocchino, Aziz Akhannouch. Ieri (4 gennaio) fonti interne alla Commissione europea avevano smentito che il presunto scandalo di corruzione al Parlamento europeo, in cui sembrerebbe implicato anche il Marocco, potesse essere nell’agenda della visita ufficiale di Borrell a Rabat, ma così non è stato.
    Josep Borrell e Nasser Bourita in conferenza stampa
    “Con il capo del governo marocchino Aziz Akhannouch e con il ministro degli Esteri Nasser Bourita abbiamo affrontato la questione del Qatargate. È una questione che evidentemente ci preoccupa, le accuse sono gravi. La posizione dell’Ue è chiara, non ci può essere impunità per la corruzione”, ha dichiarato Borrell nel corso della conferenza stampa congiunta con il ministro Bourita. Il capo della diplomazia europea ha poi aggiunto un invito, o forse un monito: “Dobbiamo attendere i risultati delle indagini in corso e ci attendiamo la piena collaborazione di tutti”. Anche del governo marocchino. Il ministro degli Esteri di Rabat ha però puntato il dito contro istituzioni e media europei, responsabili di “attacchi continui” al partenariato Ue-Marocco. “Il partenariato è sotto attacco giuridico e mediatico continuo”, ha affermato Bourita, “anche da parte di alcune istituzioni europee, in primo luogo all’interno del Parlamento, attraverso dibattiti che hanno come oggetto il Marocco e che sono il risultato di calcoli per indebolire questa relazione”.
    L’accusa di Bourita riguarderebbe in particolare uno dei temi più caldi e dibattuti quando si parla di Marocco, la questione del Sahara occidentale, oggetto di una contesa storica tra Rabat e i ribelli del Fronte Polisario. La posizione dell’Ue sulla questione ricalca quella delle Nazioni unite, secondo cui l’obiettivo è raggiungere “una soluzione politica giusta, realista, pragmatica, durevole e mutualmente accettabile”, ma il regno del Marocco ritiene di essere il sovrano legittimo del territorio dei Sahrawi. Tant’è che nel partenariato Ue-Marocco, nell’accordo sulla pesca, Rabat insiste da anni per includere il pesce pescato al largo del territorio conteso, ma il Parlamento europeo prima e la Corte di giustizia poi si sono opposti, sospendendo la questione in attesa di un accordo internazionale tra il Marocco e la Repubblica democratica Araba dei Sahrawi. Sarebbe proprio questo uno degli accordi su cui, secondo gli inquirenti belgi, il Parlamento di Bruxelles avrebbe ricevuto pressioni indebite da Rabat.
    L’incontro tra Borrell e il governo marocchino, pianificato ben prima dello scoppio del Qatargate, era in realtà l’occasione per rafforzare il partenariato tre Ue e Marocco e per rinsaldare la cooperazione su temi regionali e internazionali. “L’Ue continua ad essere un partner strategico del Regno del Marocco. Il partenariato tra Ue e Marocco è un partenariato di vicinanza geografica, di valori condivisi e di interessi convergenti. È su questi tre parametri che il Marocco continuerà a lavorare con l’Ue”, ha concluso il ministro Bourita, sottolineando il lavoro sul partenariato verde firmato lo scorso anno e su quello per la transizione digitale.

    Il capo della diplomazia europea, in visita ufficiale a Rabat, ha discusso con il capo del governo marocchino del caso su cui si indaga in Belgio, sottolineando le preoccupazioni di Bruxelles. Ma per il Marocco il Parlamento europeo vuole indebolire il partenariato, in primo luogo a causa della questione del Sahara occidentale

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    Guerra in Ucraina, Stoltenberg: “Le armi sono la via della pace”

    Bruxelles – Per risolvere la guerra di invasione della Russia in Ucraina la via, in questo momento è quella di fornire armi alle forze di Kiev.
    Lo ha sostenuto il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg parlando oggi (5 gennaio) ad Oslo alla Conferenza annuale della Confederazione delle industrie norvegesi. “Le armi sono – di fatto – la via per la pace”, ha affermato Stoltenberg, aggiungendo che “non ci sarà pace duratura se l’oppressione e la tirannia vinceranno sulla libertà e sulla democrazia”.
    Il Segretario generale ha poi sottolineato la necessità per gli alleati di investire di più nella difesa, di eliminare le dipendenze dai regimi autoritari e stare insieme per sostenere la libertà e la democrazia.

    Per il Segretario generale della Nato “non ci sarà pace duratura se l’oppressione e la tirannia vinceranno sulla libertà e sulla democrazia”

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    Borrell in visita ufficiale in Marocco: in agenda il partenariato con l’Ue, non si parlerà del Qatargate

    Bruxelles – Tempismo non dei migliori, quello scelto dall’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, per compiere una visita ufficiale di due giorni in Marocco, Paese implicato nello scandalo di presunta corruzione che sta sconvolgendo il Parlamento europeo. Domani (5 gennaio) Borrell incontrerà a Rabat il Capo del Governo, Aziz Akhannouch, il Ministro degli Affari Esteri, della Cooperazione Africana e degli Espatriati marocchini, Nasser Bourita, e una delegazione di interlocutori istituzionali della società marocchina e attori economici. Il giorno seguente l’Alto rappresentante terrà un discorso a professori e studenti dell’Università euromediterranea di Fez.
    “La visita in Marocco è stata pianificata da tempo, ci sono temi di cui dobbiamo discutere”, ha dichiarato il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano, cercando di spegnere sul nascere le polemiche per la scelta della Commissione Ue di non attendere le conclusioni delle indagini della magistratura belga prima di incontrare il partner mediterraneo. “Non dimentichiamoci che ci sono accuse, ma non ancora prove e conclusioni”, ha ricordato Stano riportando la posizione della Commissione, secondo cui “non si può giudicare solamente basandosi sulle accuse“.
    Non sussistono ragioni, per l’esecutivo comunitario, per cancellare una visita che sarà l’occasione per un approfondimento sull’attuazione del partenariato UE-Marocco, anche nella prospettiva della nuova Agenda mediterranea. “Il Marocco è un partner molto importante, vogliamo migliorare la cooperazione in settori di interesse reciproco, ma anche sollevare preoccupazioni da parte nostra e loro”, ha confermato ancora Peter Stano. Questioni regionali e internazionali di interesse comune e di particolare importanza nel difficile contesto globale, condizionato dalla guerra russa contro l’Ucraina.
    Josep Borrell e il ministro degli Esteri del Qatar, Al Thani
    Per il momento, il Qatargate può dunque aspettare, nonostante la richiesta del giudice istruttore Michel Claise di revocare l’immunità parlamentare all’eurodeputato Andrea Cozzolino, presidente della delegazione per le relazioni con il Magreb: “Abbiamo totale fiducia nel lavoro della magistratura belga e quando avremo i verdetti e le prove, agiremo di conseguenza“, ha concluso il portavoce dell’Alto rappresentante. Borrell che, a conferma della politica dell’esecutivo comunitario, il 20 dicembre scorso, aveva già incontrato in Giordania il ministro degli Esteri del Qatar.

    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri è in partenza per Rabat e Fez, dove incontrerà il capo del governo marocchino e terrà un discorso all’università di Fez. Sulle accuse al partner mediterraneo in merito al Qatargate, la Commissione “agirà di conseguenza quando avrà le prove e i verdetti”

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    Prove di distensione tra Bruxelles e Washington sul piano di sovvenzioni verdi degli Usa

    Roma – Prove distensione tra Unione europea e Stati Uniti sul controverso piano contro l’inflazione varato da Washington, che rischia di incrinarne i rapporti. In una nota pubblicata ieri (29 dicembre) in tarda serata, la Commissione europea ha accolto le linee guida adottate dagli Usa in cui viene assicurato che le aziende europee potranno beneficiare del regime di credito solo (per ora) per i veicoli commerciali puliti previsti dell’Inflation Reduction Act statunitense, “senza richiedere modifiche ai modelli di business consolidati o previsti dei produttori dell’Ue”.
    Per Bruxelles si tratta “di un vantaggio per entrambe le parti” e anche un tentativo di ricucire lo strappo, anche se ancora restano elementi da chiarire e il resto del piano di Biden contiene ancora misure “discriminatorie” nei confronti delle aziende europee. L’Inflation Reduction Act (IRA) è il massiccio piano di investimenti da 369 miliardi varato dall’amministrazione Usa di Joe Biden per le tecnologie verdi, che ha fatto preoccupare l’Ue perché potrebbe svantaggiare le imprese europee dal momento che prevede sgravi fiscali per acquistare prodotti Made in Usa tra cui automobili, batterie ed energie rinnovabili.
    L’amministrazione statunitense ha esteso alle aziende dell’Ue la possibilità di beneficiare di uno (quello per gli operatori commerciali) dei due programmi di credito di imposta previsti per i veicoli puliti, l’altro riguarda i consumatori privati. Così – commenta Bruxelles nella nota – “i contribuenti statunitensi potranno trarre vantaggio da veicoli e componenti elettrici altamente efficienti prodotti nell’Ue, mentre le aziende europee che forniscono ai propri clienti tramite leasing veicoli puliti all’avanguardia possono beneficiare degli incentivi previsti dall’IRA”. Restano però molte preoccupazioni da parte di Bruxelles sul piano, che andranno approfondite nel quadro della task force istituita tra Bruxelles e Washington. “Ulteriori lavori sono in corso nell’ambito della task force UE-USA – assicura la nota – sulla riduzione dell’inflazione per trovare soluzioni alle preoccupazioni europee, ad esempio trattando l’UE allo stesso modo di tutti i partner degli accordi di libero scambio degli Stati Uniti”.
    Questo regime “continua a destare preoccupazione per l’UE, in quanto contiene disposizioni discriminatorie che di fatto escludono dal beneficio le imprese dell’UE” e “discriminare i veicoli puliti prodotti nell’UE viola il diritto commerciale internazionale”. Di fronte al piano statunitense di incentivi per la transizione Made in Usa l’Ue non vuole farsi trovare impreparata. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha già delineato al Consiglio europeo del 15 dicembre le 4 linee programmatiche su cui verterà la risposta europea all’Ira statunitense, di cui proposte concrete arriveranno nel 2023. Il piano von der Leyen è quello di lavorare con l’amministrazione Biden sui punti più critici del suo piano contro l’inflazione; adeguare le norme europee per gli aiuti di stato; potenziare gli investimenti europei per accelerare la transizione verde, nel breve periodo attraverso ‘RepowerEu’ e, nel lungo, attraverso un nuovo fondo europeo per la sovranità (ancora da chiarire come dovrà essere finanziato); e accelerare lo sviluppo delle energie rinnovabili.
    Già a gennaio arriverà la revisione del quadro di norme sugli aiuti di stato, per renderli più semplici e veloci. L’equivalente europeo delle agevolazioni fiscali sono gli aiuti di Stato e dunque Bruxelles interverrà lì. Oltre a modificare le regole sui sussidi, von der Leyen punta a potenziare gli investimenti nelle tecnologie verdi: nel breve termine, attraverso il piano ‘RepowerEu’ presentato a maggio scorso per affrancare l’Ue dai combustibili fossili russi, e a medio termine, con la prospettiva di dare vita a un fondo di sovranità per l’industria, da finanziare con risorse comuni europee, e su cui si prevedono scontri tra i governi. Secondo la Commissione europea, l’occasione di presentare una proposta in tal senso sarà la revisione di metà termine del bilancio a lungo termine (il Qfp – 2021-2027) che arriverà in estate. La ‘ricetta’ prevede quindi da una parte il potenziamento dei sussidi statali alle imprese, dall’altra dar vita a un Fondo di sovranità europeo con cui finanziare un politica industriale dell’Ue e affrontare così il problema dell’asimmetria tra Paesi Ue che hanno o non hanno spazio fiscale per approvare aiuti di stato a pioggia (come nel caso italiano).

    In risposta ai timori di Bruxelles di vedersi svantaggiare l’industria auto, Washington estende alle aziende europee la possibilità di beneficiare del regime di credito per i veicoli commerciali puliti previsti dell’Inflation Reduction Act, il piano contro l’inflazione varato dall’amministrazione Biden che rischia di gelare i rapporti con l’Ue

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    Le transizioni dell’Ue sono una scommessa geopolitica

    Bruxelles – La trasformazione industriale dell’Europa dipende dal resto del mondo, in maniera sempre più rischiosa alla luce di turbolenze geopolitiche che stanno mettendo in discussione i rapporti con le potenze di cui l’Ue avrebbe bisogno. Russia e Cina, la scommessa dell’Unione europea passa per questi Paesi ricchi delle materie prime necessarie per le transizioni verde e sostenibile. Uno studio del Parlamento europeo, richiesto dalla commissione Industria, accende i riflettori su quella che è la parte più delicata dell’agenda di sostenibilità a dodici stelle. “La sfida della decarbonizzazione deve essere vinta in un contesto geopolitico in rapida evoluzione”. In questo scacchiere internazionale in trasformazione, “complessivamente, il principale Paese di dipendenza per le importazioni di gruppi merceologici, materie prime e componenti, necessari per la transizione verde e digitale è la Cina”. Con Pechino l’Ue ha conti che potrebbe pagare.
    Il documento sottolinea in particolare la ‘questione cinese’, e ricorda “le tensioni geopolitiche che circondano Taiwan, uno dei principali produttori di chip per computer, vitali per molte moderne tecnologie digitali e verdi”. In secondo luogo, ci sono “le preoccupazioni per il lavoro forzato nello Xinjiang, la provincia cinese che è il principale fornitore mondiale di pannelli solari e materie prime utilizzate per la loro produzione”. Per gli analisti “le considerazioni sulla resilienza delle catene di approvvigionamento nell’attuale contesto di tensioni geopolitiche sono fondamentali nella strategia dell’Ue per le materie prime essenziali”.
    L’Ue “dipende fortemente” dalla Cina “da tutte le materie prime utilizzate per la produzione di batterie, ad eccezione del litio”. Ha bisogno “sia per la produzione di magneti permanenti che per l’estrazione e la raffinazione di elementi delle terre rare (Ree) utilizzati nella loro produzione”. Ancora alla Cina ci si affida per le importazioni di batterie utilizzate per veicoli elettrici e accumulo di energia”.
    C’è poi la Russia. “Attualmente l‘Ue dipende dalla Russia per una quota significativa delle sue importazioni per tre materie prime critiche: platino, palladio e titanio”. Questi sono materiali “indispensabili per lo sviluppo della tecnologia dell’idrogeno”. Un’altra materia prima che merita attenzione è il titanio, poiché l’UE ha un “forte” deficit commerciale complessivo di questo elemento, necessario per le celle a combustibile. “La Russia è tra i primi tre produttori mondiali di titanio e l’UE importa il 17% del suo titanio da questo paese. Inoltre, l’UE importa dalla Russia il 15% del suo platino, necessario per gli elettrolizzatori”.
    Il conflitto russo-ucraino ha ridisegnato anche le relazioni dell’Ue con Mosca, e ora le materie prime critiche necessarie per tutta la strategia europea vanno ricercate altrove. Il mercato del nichel offre più sbocchi. Nel mondo i principali produttori della materia prima sono Indonesia, Filippine, Russia, Nuova Caledonia (Francia), Australia, Russia, Cina, Canada, Brasile, Cuba, Guatemala, Stati Uniti, Colombia. Mentre le più grandi riserve si trovano in Indonesia, Australia, Brasile, Russia, Filippine, Sudafrica. Mentre per ciò che riguarda il cobalto, i principali produttori sono Repubblica democratica del Congo, Russia, Cuba, Australia, Cina, Filippine, Marocco e Papua Nuova Guinea. Quelli con le maggiori riserve sono Repubblica democratica del Congo, Australia, Filippine, Russia, Canada, Madagascar e Cina.
    L’Ue deve avviare una nuova stagione di relazioni con questi Paesi, sottolinea lo studio di lavoro del Parlamento. Per garantirsi un accesso alle materie prime necessarie alla transizione verde, l’Ue deve sapersi muovere. Il commercio non è la via da seguire, poiché “offre un margine limitato per aumentare la diversità dei fornitori europei, perché le tariffe sulle materie prime critiche sono già basse”, e questo “limita l’efficacia di questi accordi di libero scambio nell’incentivare una diversificazione dell’offerta”. Gli strumenti di politica non commerciale, come l’assistenza allo sviluppo e la cooperazione internazionale, appaiono come opzioni più efficaci”. Ben venga dunque l’accordo con il Giappone per lo sviluppo dell’idrogeno. Ma soprattutto, serve una politica vera, finora mancante, per le materie prime indispensabili.
    “Il passaggio dai veicoli con motore a combustione interna ai veicoli elettrici richiederà grandi quantità di materiali aggiuntivi come cobalto e litio per le batterie, elementi di terre rare per i motori elettrici e alluminio e molibdeno per la scocca”. Questo il preo-memoria contenuto nel documento, a ricordare che prodotti contenenti materie prime critiche sono “necessarie” per le transizioni verde e digitale, ma l’Ue manca di una politica di approvvigionamento. “Lo stoccaggio strategico di prodotti contenenti materie prime critiche è una politica comune negli Stati Uniti, in Giappone, Corea del Sud e Svizzera. Da questi esempi si possono trarre i principi per lo stoccaggio europeo”.
    La Commissione europea si è messa al lavoro producendo una strategia per le materie prime critiche, consapevole della posta in gioco. “Dobbiamo evitare di ridiventare dipendenti, come abbiamo fatto con il petrolio e il gas”, ha ammesso il commissario per l’Industria, Thierry Breton. A oggi l’Ue soffre questa situazione, e con lei anche le sue ambizioni di trasformazione verde e digitale. L’idea di un fondo per la sovranità industriale si colloca in questo solco.

    Uno studio richiesto dalla commissione Industria del Parlamento europeo ricorda come per agenda verde e digitale l’Europa non abbia le materie prime critiche di cui ha bisogno. Servirà cooperazione a tutto campo

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    Ue e Stati Uniti preoccupati per le tensioni nel nord del Kosovo. L’appello congiunto alla de-escalation

    Bruxelles – Bruxelles e Washington preoccupate dalla crescente tensione in Kosovo. L’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno rilasciato questo pomeriggio (28 dicembre) una dichiarazione congiunta in cui sollevano preoccupazioni “per la persistente situazione di tensione nel nord del Kosovo” e chiedono di “esercitare la massima moderazione” e allentare le tensioni degli ultimi giorni.

    🇪🇺and 🇺🇸 call for maximum restraint and immediate de-escalation in north Kosovo. We are working with Ptd Vučić and PM Kurti to find a political solution in the interest of stability, safety and well-being of all local communities. Full statement 👉 https://t.co/SiknNws9HZ
    — Nabila Massrali (@NabilaEUspox) December 28, 2022

    Dopo lo scontro sulle targhe e l’intesa trovata in extremis a fine novembre, le tensioni tra Kosovo e Serbia si sono intensificate molto negli ultimi mesi ed esplose dopo che un ex poliziotto serbo del Kosovo è stato arrestato lo scorso 10 dicembre per aver aggredito un agente di polizia in servizio. L’arresto ha innescato proteste e manifestazioni da parte della minoranza serba del Kosovo, soprattutto nella parte settentrionale del territorio kosovaro. Pristina ha annunciato oggi la chiusura del più grande valico di frontiera con la Serbia dopo che il governo serbo ha annunciato a inizio settimana l’intenzione di mettere in stato d’allerta il proprio esercito per le crescenti tensioni.
    “Stiamo lavorando con il presidente (serbo Aleksandar) Vučić il primo ministro (kosovaro Albin) Kurti per trovare una soluzione politica al fine di disinnescare le tensioni e concordare la via da seguire nell’interesse della stabilità, della sicurezza e del benessere di tutte le comunità locali”, si legge nella nota congiunta di Bruxelles e Washington, in cui si accoglie “con favore le assicurazioni della leadership del Kosovo che confermano che non esistono elenchi di cittadini serbi del Kosovo da arrestare o perseguire per proteste/barricate pacifiche. Allo stesso tempo, lo stato di diritto deve essere rispettato e qualsiasi forma di violenza è inaccettabile e non sarà tollerata”.La dichiarazione prosegue assicurando che gli Stati Uniti “sosterranno il lavoro dell’Unione europea attraverso la missione sullo Stato di diritto in Kosovo”, EULEX, che “continuerà a monitorare da vicino tutte le indagini e i successivi procedimenti per promuovere il rispetto dei diritti umani. Ci aspettiamo inoltre che il Kosovo e la Serbia tornino a promuovere un ambiente favorevole alla riconciliazione, alla stabilità regionale e alla cooperazione a beneficio dei loro cittadini”.

    Dichiarazione congiunta di Bruxelles e Washington per invitare Pristina e Belgrado a una rapida de-escalation delle tensioni, che hanno portato il Kosovo alla chiusura del più grande valico di frontiera con la Serbia

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    Dieci ospiti alla porta dell’Ue. L’anno in cui i Ventisette hanno rotto gli indugi sul processo di allargamento dell’Unione

    Bruxelles – Un anno di stravolgimenti nella politica internazionale scatenati dall’invasione russa dell’Ucraina hanno lasciato un segno a diversi livelli sul continente europeo e sull’Unione a 27. Ma dopo quasi due decenni di stagnazione e di progressi a rilento, il rischio di destabilizzazione del Cremlino nei Paesi partner più stretti dell’Unione Europea ha segnato una svolta positiva nel processo di allargamento Ue, in un 2022 che ha visto un’ondata di novità tra nuovi Paesi candidati all’adesione – o in attesa di risposta – e altri nuovi avviati sulla strada dei negoziati. In totale 10 capitali che guardano all’Unione come la propria futura casa.
    Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio dal presidente Volodymyr Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada, su iniziativa rispettivamente del primo ministro georgiano Irakli Garibashvili e della presidente moldava Maia Sandu. In soli quattro giorni (7 marzo) gli ambasciatori dei 27 Stati membri riuniti nel Comitato dei rappresentanti permanenti del Consiglio (Coreper) hanno concordato di invitare la Commissione a presentare un parere su ciascuna delle domande di adesione presentate dai tre Paesi richiedenti, da trasmettere poi al Consiglio per la decisione finale sul primo step del processo di allargamento Ue.
    Prima di dare il via libera formale, un mese più tardi (8 aprile) a Kiev la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, ha consegnato al presidente Zelensky il questionario necessario per il processo di elaborazione del parere della Commissione, promettendo che sarebbe stata “non come al solito una questione di anni, ma di settimane”. Lo stesso ha fatto il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, a margine del Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo l’11 aprile. Meno di settanta giorni dopo, il 17 giugno il gabinetto von der Leyen ha dato la luce verde a tutti e tre i Paesi, specificando che Ucraina e Moldova meritavano subito lo status di Paesi candidati, mentre la Georgia avrebbe dovuto lavorare su una serie di priorità. La decisione ufficiale è arrivata al Consiglio Europeo del 23 giugno, che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue.
    L’avvio dei negoziati di Albania e Macedonia del Nord
    Ma il 2022 non è stato memorabile a proposito dell’allargamento Ue solo per l’attenzione rivolta da Bruxelles verso Est. Dal 2004 (anno in cui l’Unione è passata da 15 a 25 membri) si è messa in moto la politica di avvicinamento dei Balcani Occidentali, ma senza nessun nuovo ingresso – fatta eccezione per la Slovenia nel 2004 e la Croazia nel 2013 – da allora. La situazione più delicata negli ultimi anni si è registrata con Albania e Macedonia del Nord, pronte ad avviare i negoziati di adesione all’Unione già nel 2019 e che solo dopo le aspre tensioni dell’ultimo anno sono state ammesse ai tavoli negoziali. Tirana e Skopje sono candidate rispettivamente dal 2014 e 2005 (con un’attesa per la risposta di cinque anni e mezzo per la prima e di quasi due anni per la seconda) e sono legate dallo stesso dossier, ovvero possono avanzare solo insieme.
    Da sinistra: il primo ministro della Repubblica Ceca e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Petr Fiala, della Macedonia del Nord, Dimitar Kovačevski, dell’Albania, Edi Rama, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (19 luglio 2022)
    Il processo di allargamento Ue a Skopje è stato ostacolato fino al 2018 dalla Grecia, per la contesa identitaria e sul cambio del nome del Paese balcanico: solo con gli Accordi di Prespa la Repubblica di Macedonia è diventata Repubblica della Macedonia del Nord. A quel punto la Commissione Ue ha stimolato due volte il Consiglio Ue ad aprire i negoziati di adesione con i due Paesi, ma il 19 ottobre 2019 Francia, Danimarca e Paesi Bassi hanno chiuso la porta a Tirana, chiedendo di implementare le riforme strutturali prima di sedersi ai tavoli negoziali. Dopo cinque mesi, al Consiglio del 25-26 marzo 2020, è arrivato il via libera dei Ventisette, prima di un nuovo stop determinato dal veto della Bulgaria all’avvio dei negoziati di adesione di Skopje il 9 dicembre 2020. A nulla sono serviti due vertici Ue-Balcani Occidentali – il primo a Kranji (Slovenia) nel 2021 e il secondo il 23 giugno a Bruxelles – per trovare una via d’uscita.
    La svolta si è concretizzata solo grazie alla spinta decisiva della presidenza di turno francese del Consiglio dell’Ue, con la proposta di mediazione tra Sofia e Skopje per risolvere una disputa storico-culturale che ha provocato la frustrazione di tutti i leader balcanici. Grazie a questa iniziativa il Parlamento bulgaro ha revocato il veto il 24 giugno e sono iniziate le trattative con Skopje, che considerava “irricevibile” la prima versione del testo. Dopo il discorso della presidente von der Leyen al Parlamento nazionale il 14 luglio per placare le tensioni e divisioni che si sono registrate nel Paese proprio in merito della proposta francese, anche i deputati macedoni hanno dato il via libera al compromesso e il 17 luglio è stato firmato il protocollo bilaterale tra Bulgaria e Macedonia del Nord. Solo due giorni più tardi il momento atteso da tre anni, con l’avvio dei negoziati di adesione Ue di Tirana e Skopje e le prime conferenze intergovernative svoltesi a Bruxelles. Albania e Macedonia del Nord sono diventate il quarto e quinto Paese candidato ad aprire i capitoli di negoziazione nell’ambito del processo di allargamento Ue.
    Il cammino degli altri balcanici
    A completare il quadro dei successi dell’allargamento Ue nel 2022 ci sono Bosnia ed Erzegovina e Kosovo, che hanno fatto progressi nel loro cammino di avvicinamento all’Unione. Per quanto riguarda Sarajevo (che ha fatto domanda di adesione nel 2016) il primo momento di svolta è arrivato nel corso del vertice dei leader Ue del 23 giugno, quando le tre ‘colombe’ in Consiglio – Slovenia-Croazia-Austria – avevano bloccato le discussioni su Ucraina e Moldova fino a quando non si fosse trovata almeno una parziale risposta alla questione bosniaca. Il breve stallo ha portato alla decisione di conferire anche alla Bosnia ed Erzegovina la prospettiva europea (come alla Georgia), con l’obiettivo di “tornare a decidere nel merito” quanto prima, a condizione che la Commissione riferisse “senza indugio” sull’attuazione delle 14 priorità-chiave.
    Il ponte di Mostar (Bosnia ed Erzegovina) illuminato con la bandiera dell’Unione Europea
    La leader dell’esecutivo comunitario von der Leyen ha continuato a inviare segnali incoraggianti alla Bosnia ed Erzegovina sul suo coinvolgimento nell’allargamento Ue, sia con la raccomandazione al Consiglio di concedere lo status di candidato all’adesione arrivata il 12 ottobre, sia con un discorso particolarmente appassionato a Sarajevo nel corso del suo viaggio nelle capitali balcaniche per annunciare il supporto energetico dell’Unione alla regione (28 ottobre). Dopo aver valutato il parere della Commissione, l’ultimo vertice dei leader Ue del 15 dicembre ha dato il via libera alla concessione alla Bosnia ed Erzegovina dello status di Paese candidato all’adesione Ue, sottolineando allo stesso tempo la necessità di implementare le riforme fondamentali nei settori dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali, del rafforzamento delle istituzioni democratiche e della pubblica amministrazione. Nel processo di allargamento Ue Sarajevo è diventato l’ottavo candidato all’adesione.
    Per quanto riguarda il Kosovo, la situazione è resa complicata da due fattori: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza dalla Serbia nel 2008 cinque Stati membri Ue non lo riconoscono come Stato sovrano (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia) e allo stesso tempo con Belgrado è in atto un dialogo più che decennale mediato da Bruxelles sulla normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi che ancora non ha portato a un accordo definitivo. Mentre si sono riaccese aspre tensioni a partire da fine luglio con la Serbia per il controllo politico del nord del Kosovo, Pristina ha comunque deciso di puntare tutto sul processo di allargamento Ue e ha iniziato a fine agosto i lavori per presentare la domanda di adesione all’Unione. Mentre l’opinione pubblica internazionale era concentrata sulla cosiddetta ‘battaglia delle targhe‘ e a carpire i dettagli della proposta franco-tedesca sulla mediazione finale nel 2023, il 6 dicembre al vertice Ue-Balcani Occidentali di Tirana la presidente Vjosa Osmani ha confermato che la lettera era pressoché ultimata. Otto giorni più tardi è stata firmata a Pristina la richiesta formale per ottenere lo status di Paese candidato e consegnata dal premier Albin Kurti alla presidenza di turno ceca del Consiglio dell’Ue il 15 dicembre a Praga.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e il ministro ceco per gli Affari europei e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Mikuláš Bek (15 dicembre 2022)
    Meno positivo è invece il quadro degli altri tre Paesi coinvolti nel processo di allargamento Ue (che dal 22 giugno 2021 è stato riformato con una nuova metodologia). Il Montenegro sta portando avanti i negoziati di adesione dal 2012 e al momento è il Paese allo stadio più avanzato. Tuttavia la crisi istituzionale che ha paralizzato Podgorica negli ultimi due anni e mezzo ha determinato uno stallo prolungato sui capitoli negoziali relativi allo Stato di diritto, in particolare il 23 (potere giudiziario e diritti fondamentali) e il 24 (giustizia e affari interni). La Serbia ha avviato i negoziati di adesione nel 2014 e quest’anno ha conosciuto una forte battuta d’arresto a causa della guerra russa in Ucraina: nel tentativo di seguire una politica di non-allineamento tra Bruxelles e Mosca, Belgrado non si è allineata alle sanzioni internazionali contro la Russia, ma per l’Ue non è concepibile che un partner candidato all’adesione non si allinei Politica estera e di sicurezza comune (Pesc). Infine, nel processo di allargamento Ue sarebbe coinvolta dal 1987 anche la Turchia: il Paese ha ottenuto lo status di candidato nel 1999 e ha avviato i negoziati di adesione nel 2005. Tuttavia, a causa delle continue provocazioni nel Mediterraneo orientale e delle violazioni dello Stato di diritto da parte del presidente Recep Tayyip Erdoğan, non c’è all’orizzonte nessun tipo di avanzamento.
    Come funziona il processo di allargamento Ue
    Il processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).
    Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.
    Per i Balcani Occidentali è previsto un processo parallelo – e separato – ai negoziati di adesione all’Unione, che ha comunque un impatto sull’allargamento Ue. Il processo di stabilizzazione e associazione è finalizzato ad aiutare i partner balcanici per un’eventuale adesione, attraverso obiettivi politici ed economici che stabilizzino la regione e creino un’area di libero scambio. Dopo la definizione di un quadro generale delle relazioni bilaterali tra l’Unione Europea e il Paese partner, la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione offre la prospettiva futura di adesione.

    Dai nuovi candidati Bosnia ed Erzegovina, Moldova e Ucraina all’apertura dei negoziati con Albania e Macedonia del Nord dopo 3 anni di stallo, fino alla candidatura di Georgia e Kosovo. Il rischio di destabilizzazione russa ha dato uno scossone ai tentennamenti dei Ventisette

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    La Russia vieterà da febbraio la vendita di petrolio ai paesi che usano il price cap

    Bruxelles – La Russia vieterà la vendita di petrolio e prodotti derivati ai Paesi che hanno deciso di non comprare più il greggio di Mosca oltre 60 dollari al barile, anche quando il prezzo di mercato è più alto. Lo ha stabilito un decreto firmato oggi (27 dicembre) dal presidente russo Vladimir Putin in risposta all’accordo sul tetto al prezzo del petrolio russo raggiunto a inizio dicembre dai Paesi G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America), dall’Unione europea e dall’Australia.
    Da giorni ormai era diventato sempre più probabile una risposta di Mosca al price cap occidentale al petrolio. “La vendita del petrolio e dei prodotti petroliferi russi a società e altri privati è vietata” se questi fanno ricorso al tetto sui prezzi, si legge nel decreto, che prevede però la possibilità per il Cremlino di concedere un permesso per la fornitura di petrolio a paesi che rientrano nel divieto. Il divieto entrerà in vigore il prossimo primo febbraio e durerà per cinque mesi, fino a luglio 2023.
    L’intesa sulla fascia di prezzo oltre la quale vietare il trasporto globale via mare del greggio di Mosca verso Paesi terzi è stata siglata nel contesto del G7, dove le sette economie più ricche al mondo hanno concordato insieme all’Australia di introdurre un tetto massimo globale sul prezzo del petrolio russo trasportato verso i Paesi terzi, nell’ottica di impedire alla Russia di continuare a trarre profitto dalla guerra di aggressione in Ucraina e di sostenere la stabilità dei mercati energetici globali. Il tetto è entrato in vigore il 5 dicembre per il greggio russo, mentre sarà operativo dal 5 febbraio 2023 anche per i prodotti raffinati del petrolio (su cui il livello di ‘cap’ dovrà essere stabilito in un secondo momento). Anche una volta fissato il tetto a 60 dollari al barile, la cifra può essere modificata in ogni momento, l’intesa prevede un meccanismo di revisione del funzionamento del price cap ogni due mesi.
    Il price cap globale è complementare all’entrata in vigore lo scorso 5 dicembre dell’embargo al petrolio russo deciso nel sesto pacchetto di sanzioni contro Mosca adottato a inizio giugno, con cui i governi dell’Ue hanno deciso di tagliare entro la fine del 2022 il 90 per cento delle importazioni russe di petrolio in arrivo nel continente europeo, attraverso un embargo su tutto il petrolio in arrivo via mare e un impegno di Germania e Polonia a tagliare anche le proprie importazioni attraverso l’oleodotto Druzhba.

    Il decreto firmato da Putin martedì in vigore dal primo febbraio per cinque mesi. La misura è in risposta al tetto al prezzo del petrolio venduto verso paesi terzi stabilito a oltre 60 dollari al barile da Unione europea, G7 e Australia