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    Il Montenegro a un passo dalla svolta nella leadership. Un indebolito Đukanović al primo ballottaggio presidenziale

    Bruxelles – Potrebbe essere arrivato alla sua ultima corsa il partito che ha sempre espresso la presidenza della Repubblica del Montenegro dal giorno della nascita della Repubblica Federale di Jugoslavia nel 1992 e dopo l’indipendenza del Paese nel 2006. Il primo turno delle elezioni presidenziali del 19 marzo ha fornito indicazioni rilevanti sulla possibile svolta nella leadership dello Stato balcanico considerato il più avanzato sulla strada di adesione all’Unione Europea. Il candidato del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) e presidente in carica dal 2018, Milo Đukanović, si è confermato in testa nella prima fase della tornata elettorale presidenziale, ma con una perdita di quasi 19 punti percentuali rispetto a quattro anni fa, quando non era nemmeno servito il ballottaggio. E ora si deve guardare le spalle dalla convergenza dei partiti più rappresentati in Parlamento sullo sfidante di Europe Now, Jakov Milatović.
    Chiamati alle urne per scegliere il nuovo presidente della Repubblica, gli elettori montenegrini hanno dato un segnale preciso alla scena politica nazionale. Basta plebisciti a sostegno del partito al potere da oltre 30 anni – anche se ha subito una prima battuta d’arresto alle elezioni parlamentari del 2020 – ma la corsa per la presidenza dovrà andare fino in fondo, in un clima di incertezza per la prima volta nella breve storia del Paese. In attesa della conferma ufficiale da parte della commissione elettorale, le proiezioni di tutti gli istituti di ricerca attivi in Montenegro hanno evidenziato la vittoria al primo turno di Đukanović con il 35,2 per cento dei voti, seguito da Milatović al 29,2. Sconfitti i candidati dei partiti più rappresentati in Parlamento, sia il leader del partito nazionalista filo-serbo Fronte Democratico, Andrija Mandić (19,3), sia quello del partito populista conservatore Montenegro Democratico, Aleksa Bečić (10,9).
    Ed è proprio da questa doppia sconfitta degli sfidanti più controversi del presidente in carica che potrebbe arrivare la svolta per il Montenegro, perché sia Mandić sia Bečić hanno annunciato il proprio appoggio esplicito al candidato del nuovo partito europeista. Se i rispettivi elettori dovessero rispettare le indicazioni dei due leader sconfitti, per Đukanović non ci sarebbe alcuna chance di riconferma al terzo mandato (dopo quello appena terminato e quello del 1998-2003). “Mi sono candidato per sconfiggerlo, perché simboleggia il passato e le politiche divisive che hanno impoverito il nostro Paese”, è stato l’affondo di Milatović nei confronti del presidente in carica. L’economista 37enne è un personaggio relativamente noto a livello nazionale. Dopo aver lavorato per il gruppo bancario e finanziario sloveno Nlb Group a Podgorica e Deutsche Bank a Francoforte, nel 2014 è entrato nel team di analisi economica e politica della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers) e dal 4 dicembre 2020 al 28 aprile 2022 è stato ministro dell’Economia e dello Sviluppo economico nella grande coalizione anti-Đukanović guidata da Zdravko Krivokapić. Durante l’anno e mezzo di governo Milatović ha presentato insieme al ministro delle Finanze, Milojko Spajić, un programma di riforme economiche intitolato proprio ‘Europe Now’, che comprendeva misure come l’aumento del salario minimo a 450 euro e il taglio dei contributi sanitari.
    Il candidato di Europe Now alle elezioni presidenziali in Montenegro del 2023,Jakov Milatović (credits: Savo Prelevic / Afp)
    I due tecnocrati hanno annunciato la volontà di fondare un nuovo partito di centro-destra liberale, anti-corruzione ed europeista dopo la caduta del governo Krivokapić nel febbraio 2022 – poi effettivamente fondato il 26 giugno – anticipando l’intenzione di collaborare con altre formazioni civiche e di centro, come la coalizione moderata di ‘La pace è la nostra nazione’ (guidata da Montenegro Democratico) e la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) del premier dimissionario, Dritan Abazović. Alle amministrative di ottobre nella capitale Podgorica Milatović ha corso come candidato sindaco per Europe Now, piazzandosi al secondo posto. Dopo la squalifica di Spajić da parte della commissione elettorale centrale per il possesso di cittadinanza serba – vietata dalla legge montenegrina per chi vuole correre per la presidenza della Repubblica – si è candidato come sfidante di Đukanović alla prima carica del Paese. Milatović è favorevole all’adesione del Montenegro all’Unione Europea, ma anche a relazioni più strette con la vicina Serbia (nonostante nel 2006 abbia votato a favore dell’indipendenza da Belgrado). È questo uno dei punti più controversi del nuovo partito – il co-fondatore Spajić ha svolto attività di lobbying negli Stati Uniti a favore degli interessi della Chiesa serbo-ortodossa nel Paese – anche se in Montenegro le tendenze filo-serbe non necessariamente sono contrarie alla visione europeista delle relazioni internazionali e non dovrebbero porsi questioni preoccupanti per il processo di adesione all’Ue iniziato nel 2012.

    Montenegro, presidential election (first round) today:
    100% CeMI parallel count:
    Đukanović (DPS-S&D): 35.2% (-18.7)Milatović (Evropa Sad!-*): 29.2% (new)Mandić (NSD-*): 19.3% (new)Bečić (DCG~EPP): 10.9% (new)…
    +/- 2018 election#Montenegro #Izbori2023 #IzboriCG pic.twitter.com/Kn53NmXCgk
    — Europe Elects (@EuropeElects) March 19, 2023

    La situazione politica in Montenegro
    Dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti gli equilibri politici sono iniziati a cambiare già con le elezioni del 30 agosto 2020, vinte dalla larghissima coalizione anti-Đukanović messa in piedi dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ di Krivokapić. Il 4 febbraio 2022 è stata la piattaforma ‘Nero su bianco’ a sfiduciare il governo Krivokapić, appoggiando una mozione dell’opposizione e dando il via a un governo di minoranza guidato da Abazović. Un governo di scopo per preparare le elezioni anticipate nella primavera successiva – che pochi giorni fa sono state annunciate per il prossimo 11 giugno – ma anche il più breve della storia del Paese, dopo il crollo del 19 agosto per la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović. A scatenare la crisi è stato il cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba, un’intesa per regolare i rapporti reciproci e per il riconoscimento della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219. Tutti i partiti filo-serbi l’hanno appoggiato, mentre gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue.
    Da allora Abazović è premier ad interim e nel frattempo si è aggravata anche la crisi istituzionale, con il via libera a una contestatissima legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo. La legge permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrebbe l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi.
    Il vero problema è stata la parallela vacanza di quattro membri (su sette) della Corte Costituzionale, l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge contestata. Senza la sua piena funzionalità non è stato possibile considerare il voto del Parlamento in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei. Dopo mesi di vacanza e di richiami internazionali, lo scorso 27 febbraio l’Assemblea del Montenegro è riuscita a eleggere tre giudici della Corte Costituzionale vacanti (manca ancora il quarto), condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina e per continuare il percorso europeo del Paese. In attesa che si chiarisca il futuro del Montenegro, tra presidente e nuovo Parlamento.

    Il presidente in carica vince il primo turno, ma crollando rispetto alle elezioni del 2018. Il 2 aprile sfiderà il candidato di Europe Now, Jakov Milatović, che potrebbe sfruttare l’endorsement degli altri partiti sconfitti per mettere fine al potere trentennale del Partito Democratico dei Socialisti

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    Le 12 ore di Ohrid. L’Ue riesce a far trovare l’intesa a Serbia e Kosovo per l’attuazione dell’accordo di normalizzazione

    Bruxelles – Il diavolo sta nei dettagli, “ma a volte sta nel calendario e nelle tempistiche”. L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha fornito una sua personalissima interpretazione della “lunga e difficile” discussione di 12 ore a Ohrid, sulle sponde del lago in Macedonia del Nord, teatro dell’ultimo round di alto livello del dialogo per la normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia. Un appuntamento atteso con particolare urgenza a Bruxelles, dopo il vertice del 27 febbraio decisivo per far trovare alle due parti una complicatissima intesa sulla proposta Ue in 11 punti. Mancava solo il via libera all’allegato di attuazione dell’accordo – la vera chiave di volta di tutta l’intesa che stabilisce “ciò che deve essere fatto, entro quando, da chi e come” – e ad Ohrid si può dire che quantomeno non c’è stata nessuna battuta di arresto.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (18 marzo 2023)
    Perché i due leader di Kosovo e Serbia, rispettivamente il premier Albin Kurti e il presidente Aleksander Vučić, hanno avallato l’allegato di attuazione, ma non l’hanno firmato. Il 18 marzo ad Ohrid è andato in scena un duello diplomatico, in cui l’alto rappresentante Borrell e il suo braccio destro, il rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák, hanno dovuto destreggiarsi per arrivare alle 23.10 e poter dire “abbiamo un accordo”. Tra luci e ombre. “Devo ammettere che inizialmente abbiamo proposto un annesso più ambizioso e dettagliato, ma sfortunatamente le parti non hanno trovato un accordo“, ha confessato Borrell, puntando il dito sulla responsabilità condivisa tra Pristina e Belgrado: “Da una parte, al Kosovo è mancata flessibilità nella sostanza, dall’altra parte, la Serbia aveva dichiarato a priori che non l’avrebbe firmato, anche se era pronta a implementarlo pienamente”. Ecco perché i due diplomatici europei hanno dovuto mettere sul tavolo “diverse proposte creative” – anche se “non così ambiziose come le prime” – e così, con la dichiarazione alla stampa dell’alto rappresentante Ue, “l’annesso è considerato adottato”.
    Non si tratta solo di parole o promesse, ma di un documento che ha un impatto concreto, anche senza firma. “Quello che hanno accettato – l’accordo e l’annesso di implementazione – diventeranno una parte integrante dei rispettivi percorsi verso l’adesione Ue“, ha puntualizzato l’alto rappresentante Borrell. In altre parole, se Pristina e Belgrado vorranno continuare a seguire la strada verso l’adesione Ue, è esplicito l’obbligo di mettere a terra tutti i punti concordati e adottati in principio. Anche senza firma. “Per renderlo concreto, lancerò immediatamente i lavori per includere gli emendamenti nel capitolo di negoziazione 35 con la Serbia [sulle relazioni esterne, ndr] e nell’agenda del gruppo speciale sulla normalizzazione del Kosovo”, e da questo momento “entrambe le parti saranno legate dall’accordo”. Il retro della medaglia è perfettamente intuibile: “Ora gli obblighi sono parte del percorso europei, non rispettarli avrà conseguenze“. Anche perché il dialogo Pristina-Belgrado “non riguarda solo Kosovo e Serbia”, ha spiegato ancora Borrell, facendo riferimento alla “stabilità, sicurezza e prosperità” dell’intera regione dei Balcani Occidentali.
    Cosa prevede l’allegato di attuazione dell’accordo tra Serbia e Kosovo
    L’allegato di attuazione dell’accordo sul percorso di normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia è composto di 12 punti, che costituiscono “parte integrante dell’accordo” stesso. Le due parti si impegnano “pienamente” a rispettare tutti gli articoli non solo dell’intesa del 27 febbraio, ma anche dell’allegato che mette nero su bianco i “rispettivi obblighi da adempiere tempestivamente e in buona fede“. Il presupposto è proprio il fatto che entrambi i documenti sono ora “parte integrante dei rispettivi processi di adesione all’Ue“, con le misure annunciate dall’alto rappresentante per rendere questo punto effettivo nei rapporti bilaterali tra Bruxelles e Pristina e tra Bruxelles e Belgrado.
    Come obblighi da attuare, Kosovo e Serbia “convengono di approvare con urgenza la Dichiarazione sulle persone scomparse“, negoziata nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue e Pristina deve “avviare immediatamente negoziati per la definizione di accordi e garanzie specifici che assicurino un livello adeguato di autogestione per la comunità serba in Kosovo“, così come già concordato 10 anni fa. Si tratta dell’Associazione delle municipalità serbe nel Paese prevista dall’accordo del 2013, mai implementato. Sul piano dell’attuazione di tutte le disposizioni sia dell’accordo sia dell’allegato, le due parti istituiranno un Comitato congiunto di monitoraggio presieduto dall’Ue, da istituire “entro 30 giorni”. Tra le scadenze viene inclusa anche quella di metà agosto 2023 (“entro 150 giorni) per l’organizzazione di una Conferenza dei donatori per definire un pacchetto di investimenti e aiuti finanziari per Kosovo e Serbia, in modo da attuare l’articolo 9 sull’impegno dell’Ue “in materia di sviluppo economico, connettività, transizione ecologica e altri settori chiave”. In ogni caso l’Unione Europea “non effettuerà alcun esborso prima di aver accertato la piena attuazione di tutte le disposizioni dell’accordo”.
    Il rispetto dei due documenti implica il fatto che “tutti gli articoli saranno attuati indipendentemente l’uno dall’altro“, che l’ordine dei paragrafi dell’allegato “non pregiudica l’ordine di attuazione” e che non dovrà essere bloccata l’attuazione di “nessuno degli articoli”. Le discussioni tra le parti per l’attuazione dell’accordo continueranno “nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue” e il mancato rispetto degli obblighi derivanti “dall’accordo, dal presente allegato o dai precedenti Accordi di dialogo” può avere “conseguenze negative dirette sui rispettivi processi di adesione e sugli aiuti finanziari che ricevono dall’Ue“, è quanto si legge a chiare lettere nel documento avallato da Kurti e Vučić..

    Sulle sponde del lago macedone il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, hanno avallato (ma non firmato) l’allegato di implementazione del vertice di Bruxelles. Un vincolo per i rispettivi percorsi Ue su “ciò che deve essere fatto, entro quando, da chi e come”

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    A pochi giorni dalle elezioni presidenziali, il Parlamento del Montenegro è stato sciolto. Ritorno alle urne anticipato

    Bruxelles – Dopo le elezioni presidenziali, quelle parlamentari, per tentare di rimettere il Montenegro su una strada più stabile nel suo cammino verso l’adesione all’Unione Europea. Con un decreto presidenziale il leader del Paese balcanico, Milo Đukanović, ha sciolto ieri (16 marzo) il Parlamento nazionale a soli tre giorni dal primo turno di voto per eleggere il nuovo presidente della Repubblica – in cui proprio Đukanović cerca la riconferma – e oggi ha fissato le elezioni anticipate per l’11 giugno.
    “L’Assemblea è sciolta con decreto del Presidente del Montenegro, il decreto diventa effettivo il giorno in cui viene dichiarato”, si legge in un comunicato dell’ufficio di presidenza diffuso alla stampa. La decisione di emanare il decreto sulla base dell’articolo 92 della Costituzione nazionale è stata presa dopo il fallimento del primo ministro incaricato di formare un governo, Miodrag Lekić (leader dell’Alleanza Democratica Demos), che nei 90 giorni di tempo a sua disposizione non è riuscito a mettere insieme una maggioranza parlamentare (di 41 deputati su 81).
    Il tentativo di mettere fine alla crisi politica e istituzionale – invocato da mesi dal presidente Đukanović e in linea con il mandato iniziale del poi sfiduciato governo di Dritan Abazović – nel Paese considerato il più avanzato sulla strada di adesione all’Ue arriva a ridosso delle presidenziali programmate per domenica (19 marzo). Il leader del Partito Democratico dei Socialisti (Dps), eletto numero uno del Montenegro cinque anni fa, tenterà di sfruttare il proprio credito europeista per conquistare un secondo mandato, ma dovrà fronteggiare non solo i candidati dei partiti più rappresentati in Parlamento – il leader del partito populista conservatore Montenegro Democratico, Aleksa Bečić, e quello del partito nazionalista filo-serbo Fronte Democratico, Andrija Mandić – ma anche Jakov Milatović, il candidato del nuovo movimento europeista Europe Now, al primo vero banco di prova nazionale dopo il secondo posto alle amministrative dell’ottobre 2022 nella capitale Podgorica. Il sistema elettorale è a doppio turno: se nessun candidato otterrà la maggioranza dei voti domenica, si terrà il ballottaggio tra i due più votati il 2 aprile.
    In occasione delle elezioni presidenziali in Montenegro, anche una delegazione di sei eurodeputati guidata dal croato Tonino Picula (S&D) sarà presente nel Paese balcanico da oggi a lunedì (20 marzo). La delegazione di osservazione elettorale del Parlamento Europeo sarà inquadrata nella missione internazionale dell’Ufficio per le istituzioni democratiche per i diritti umani (Odihr) dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Come reso noto dai servizi dell’Eurocamera, i sei eurodeputati incontreranno i candidati dei partiti politici, i rappresentanti delle autorità nazionali, della società civile e dei media nazionali, mentre domenica osserveranno le elezioni dall’apertura dei seggi fino alla chiusura, e successivamente seguiranno lo spoglio.
    I due anni e mezzo di crisi in Montenegro
    Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (guidata da Montenegro Democratico) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’ dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Dritan Abazović. Il 4 febbraio dello scorso anno era stata proprio ‘Nero su bianco’ a sfiduciare il governo Krivokapić, appoggiando una mozione dell’opposizione e dando il via a un governo di minoranza guidato da Abazović.
    Da sinistra: il primo ministro ad interim del Montenegro, Dritan Abazović, e il il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stata appoggiata dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettata, perché considerata un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue.
    Mentre da allora Abazović è premier ad interim, a partire dal settembre dello scorso anno si è aggravata anche la crisi istituzionale. A sparigliare le carte è stato il via libera a una contestatissima legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo, che permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato. In caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrebbe l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi.
    Il vero problema si è però innestato con la parallela vacanza di quattro membri (su sette) della Corte Costituzionale, l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge contestata. Senza la sua piena funzionalità non è stato possibile considerare il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei. Dopo mesi di vacanza e di richiami internazionali, lo scorso 27 febbraio l’Assemblea del Montenegro è riuscita a eleggere tre giudici della Corte Costituzionale vacanti (si rimane ancora in attesa del quarto), condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina e per continuare il percorso europeo del Paese.

    La legislatura si chiude con un anno e mezzo di anticipo, dopo che il leader del Paese alla ricerca di riconferma, Milo Đukanović, ha sciolto per decreto l’Assemblea nazionale, per mettere fine alla crisi politica. La tornata elettorale sarà organizzata per l’11 giugno

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    Dal Belgio 240 veicoli militari per l’Ucraina

    Bruxelles – Il Belgio fornirà 240 nuovi veicoli militari  all’Ucraina di cui 150 carri Volvo, seguiti da mezzi corazzati e automobili da fuoristrada.
    Il governo l’ha deciso lo scorso 27 gennaio, questi carri Volvo già in servizio dal 1990 sono stati ora rimessi a nuovo e sono dunque in ottime condizioni, assicurano le autorità.
    Ieri e stato deciso dal parlamento Olandese di mandare due navi cacciamine entro il 2025. Le marine belga e olandese collaborano strettamente, quindi il Belgio contribuirà all’addestramento di base dei militari ucraini e alla manutenzione dei due cacciamine. Il ministero della difesa Belga sta ancora studiando se il Belgio possa inviare propri cacciamine.

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    Il Parlamento europeo suona l’allarme sullo stato di diritto in Israele, da Tel Aviv accuse di ingerenze

    Bruxelles – “Deterioramento della democrazia in Israele e conseguenze sui territori occupati”. Nel titolo scelto per il dibattito che si è tenuto ieri sera (14 marzo) all’emiciclo di Strasburgo, c’erano già tutti gli indizi necessari per capire la posizione del Parlamento europeo sulla situazione dello stato di diritto a Tel Aviv e sull’escalation di violenza in atto contro il popolo palestinese.
    Eli Cohen e Antonio Tajani, 14/03/23 [Ph Account Twitter Eli Cohen]Prima di cominciare il dibattito, gli eurodeputati hanno ascoltato l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, appositamente in aula per riferire sullo stato dell’arte delle relazioni tra l’Unione e Israele: “Voglio sottolineare che siamo impegnati con entrambe le parti, Israele e Palestina”, ha esordito il capo della diplomazia europea, che solo poche ore prima aveva avuto una conversazione telefonica con il ministro degli Esteri di Tel Aviv, Eli Cohen. “Non era molto contento del dibattito, era preoccupato, mi ha chiesto perché il Parlamento europeo ingerisce nelle questioni interne israeliane“: il racconto di Borrell combacia con la richiesta di “agire per impedire l’intervento europeo nel conflitto israelo-palestinese” fatta dallo stesso Cohen all’omologo italiano, Antonio Tajani, proprio ieri in visita in Israele.
    “L’interesse non implica né l’ingerenza né la volontà di imporre lezioni a nessuno”, ha replicato Borrell. I motivi di preoccupazione sono vari e riguardano la politica estera e l’involuzione dello stato democratico: da un lato l’aumento di estremismo e violenza contro la popolazione palestinese e la continua espansione delle colonie illegali israeliane nei territori occupati, dall’altro la riforma del sistema giudiziario portata avanti dal governo di Benjamin Netanyahu e la possibile reintroduzione delle pena di morte nel Paese.
    Dal Parlamento europeo l’invito a sospendere l’accordo di associazione con Israele
    Brando Benifei, 14/03/23
    Per Pedro Marques, vicepresidente del gruppo dei Socialisti e democratici, la riforma della giustizia proposta da Tel Aviv “non è accettabile e non è accettata neanche in Israele”, viste le “manifestazioni di massa” che imperversano nel Paese. “Un assalto alla democrazia”, “una catastrofe”, “un attentato”, l’hanno definita a turno Marques, l’eurodeputata dei Verdi/Ale, Margrete Auken e la socialista Maria Arena. Secondo il capo delegazione del Partito democratico a Bruxelles, Brando Benifei, la riforma fa parte di “un disegno nazionalista e autoritario di un governo che minaccia la democrazia israeliana”. Una riforma che “vuole concentrare il potere nelle mani dell’esecutivo e depotenziare la Corte suprema”, grazie alla quale “il governo potrebbe nominare facilmente i giudici della corte e sarebbe in grado di bloccare le sentenze della corte stessa”.
    Durissimo è stato Manu Pineda, membro della Sinistra europea e presidente della delegazione dell’eurocamera per i rapporti con la Palestina (Dpal): dopo aver ricordato i “183 palestinesi uccisi” e la “distruzione di centinaia di abitazioni” nella Striscia di Gaza solo nell’ultimo anno, Pineda ha incalzato l’alto rappresentante Borrell chiedendo cosa sta facendo l’Ue nei confronti di un “regime coloniale che sancisce l’apartheid ai danni del popolo del Paese che occupa”. La proposta che sorge a più riprese è di sospendere l’accordo di associazione con Israele, firmato nel 2000 e rinnovato nel 2022: per l’Ue l’accordo “si fonda sui valori comuni condivisi di democrazia e rispetto dei diritti umani, dello Stato di diritto e delle libertà fondamentali”, ma come sottolinea Maria Arena, “il governo israeliano rompe completamente” quei valori.
    Grace O’Sullivan, 14/02/23
    Margrete Auken, che si è recata più volte in Palestina con la delegazione Dpal, riassume così l’atteggiamento dell’Ue sul conflitto israelo-palestinese: “Se sei neutrale in situazioni ingiuste, hai scelto di essere dalla parte dell’oppressore”. Durante l’ultima missione della delegazione, che risale al mese scorso, l’eurodeputata dei Verdi/Ale Grace O’Sullivan racconta di aver visto “che Israele estrae direttamente carburante fossile dai territori occupati”. Combustibile che viene poi venduto anche in Europa, che nel giugno scorso ha firmato un importante accordo con Tel Aviv per incrementare le forniture di gas dalla regione. “Perché il petrolio e il gas di uno Stato occupante sono più accettabili di quelli di un altro?”, è la domanda di O’Sullivan in riferimento alla determinazione con cui l’Ue ha limitato e bandito gas e petrolio russi.
    “Se un altro Paese avesse fatto quello che fa Israele avremmo già imposto delle sanzioni, e invece dobbiamo scusarci per l’ingerenza” attacca Marc Botenga, della Sinistra europea, che reitera l’invito a sospendere l’accordo di associazione Ue-Israele. Josep Borrell, alla fine del dibattito, ha rivendicato la dichiarazione firmata dai 27 Paesi membri in cui “ha lanciato un appello ad ambo le parti per agire in maniera responsabile” e ha ribadito che “Israele deve smettere l’espansione delle colonie, illegali secondo il diritto internazionale”.
    Ma sulla possibilità di congelare il partenariato con Tel Aviv, il capo della diplomazia europea ha frenato con decisione: “Gli accordi di partenariato non sono con un governo, ma con uno Stato. Non possono cambiare solo perché in un Paese cambia il governo “, ha chiuso Borrell. Che ora ha un’altra gatta da pelare: Eli Cohen, dopo aver espresso le sue perplessità per il dibattito al Parlamento europeo, in un tweet ha definito “un’ingiustizia morale” il paragone che Borrell avrebbe fatto durante la loro telefonata, in cui metteva sullo stesso piano “gli attacchi terroristici di Hamas, il cui unico scopo è uccidere gli ebrei, e le azioni effettuate dall’IDF per la sicurezza dei cittadini israeliani”.

    Nel dibattito all’emiciclo di Strasburgo, la riforma della giustizia del governo Netanyahu è stata definita a più riprese “una catastrofe” e “un attentato alla democrazia”. Diversi eurodeputati chiedono la sospensione del partenariato con Tel Aviv, ma Borrell chiude. E viene attaccato dal Ministro degli Esteri Eli Cohen

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    L’Ue punta sul gas algerino, ma Algeri lo sta già usando come arma politica

    Bruxelles – L’Algeria è la nuova Russia, con risorse energetiche pronte da essere usate come arma politica contro l’Unione europea? Il rischio, in Europa, c’è chi lo vede e non può fare a meno di porre la questione ad una Commissione che però tira dritto e rinnova la fiducia ad un partner diventato ancor più strategico alla luce della guerra in Ucraina e la necessità di affrancarsi dalle forniture di Gazprom. Susana Solís Pérez, europarlamentare liberale (Re) vede però sullo sfondo un nuovo problema di indipendenza geopolitica per l’Unione, per effetto di questioni tutte regionali.
    C’è la questione del Sahara occidentale a dividere Algeria e Marocco. Rabat rivendica come propri i territori che invece la repubblica araba democratica di Saharawi (Rads) considera come parte integrante del Paese. Algeri sostiene la Rads e il suo movimento politico di riferimento, il Fronte polisario. Divergenze di vedute che hanno portato all‘interruzione delle relazioni diplomatiche nel 2021, e le tensioni in nord Africa hanno già avuto ripercussioni per l’Europa.
    Nella sua interrogazione, Susana Solís Pérez, ricorda che il gasdotto Maghreb-Europa (Mge) rifornisce la penisola iberica di gas algerino attraverso il Marocco. Una conduttura lunga 1.400 chilometri che dal 1996 trasporta oltre 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno nell’Europa occidentale. “A seguito della rottura delle relazioni diplomatiche tra Algeria e Marocco nell’agosto 2021, l’Algeria ha deciso di non rinnovare il contratto di 25 anni di Mge”, rileva l’europarlamentare. Preoccupata non a torto, visto che l‘Algeria ha sospeso l’accordo di amicizia con la Spagna per il sostegno dato a Madrid alle rivendicazioni marocchine sul Sahara occidentale.
    “L’Algeria ha aumentato il prezzo delle forniture di gas alla Spagna attraverso il gasdotto Medgaz“, denuncia ancora la parlamentare liberale. Medgaz è un’infrastruttura sottomarina lunga circa 757 chilometri, con una capacità massima annuale di 10,5 miliardi di metri cubi di gas. Una scelta, quella di rivedere i listini nei confronti di Madrid, che mostra “l‘uso dell’approvvigionamento energetico da parte dell’Algeria come arma politica“.
    La Commissione europea lascia all’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, il compito di rassicurare sulla questione. “L’Ue ha costantemente lavorato per rafforzare il suo partenariato con l’Algeria, concentrandosi sulle priorità indicate nell’accordo di associazione”, ricorda il membro del collegio dei commissari. Inoltre, “a seguito della decisione dell’Ue di tagliare le sue importazioni di gas dalla Russia, l’Algeria si è impegnata ad aumentare le sue forniture di gas all’Europa nel 2022 e negli anni successivi”. Tradotto: Algeri è un partner affidabile, non è una nuova Russia, “l‘Unione europea apprezza molto la cooperazione energetica con l’Algeria ed è pronta ad approfondirla ed espanderla ulteriormente”.
    La strategia Ue ha una sua logica. L‘Algeria resta comunque parte dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec). E’ vero che l’Unione ha scelto la strada della sostenibilità e del superamento dei combustibili fossili, ma nella transizione avere interlocutori privilegiati all’interno del gruppo che fissa i prezzi del barile di greggio può rappresentare un punto di forza. Un orientamento che suona però da scommessa.
    La questione è sul tavolo anche da prima dello scoppio della guerra in Ucraina. Antonio Tajani, ora ministro degli Esteri ma allora in veste europarlamentare, sollevò la stessa questione sempre via interrogazione scritta. La decisione di Sonatrach di interrompere ogni tipo di attività in Marocco e con il Marocco “pone quesiti importanti sulla dipendenza energetica dell’Unione”. Scrisse così Tajani, a riprova del fatto che già prima di un riposizionamento sul mercato l’opzione algerina non sembra delle migliori.
    Borrell ha provato a rassicurare anche in quel frangente: “Per quanto riguarda le attuali tensioni diplomatiche tra Algeria e Marocco, l’Ue è pronta a fornire tutto il sostegno necessario al processo guidato dalle Nazioni Unite per trovare una soluzione politica giusta e reciprocamente accettabile al caso del Sahara occidentale”. Ma fino ad oggi l’Ue ha sempre privilegiato la parte marocchina nel confronto con i Saharawi, il che la potrebbe esporre alle ripicche energetiche algerine. 

    La questione del Sahara occidentale è motivo di scontro tra Algeria e Marocco, e le posizioni spagnole a sostegno di Rabat ridisegnano i contratti di Sonatrach. La questione già nota prima dello scoppio delle guerra in Ucraina

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    L’Ue al fianco della Moldova nella lotta contro i disordini sobillati dalla Russia: “Supporto incrollabile a Chișinău”

    Bruxelles – Dopo l’allarme, la reazione. Le autorità della Repubblica di Moldova hanno annunciato di aver arrestato sette persone con l’accusa di favoreggiamento di disordini durante le proteste antigovernative filo-russe di ieri (12 marzo). Una rete “orchestrata da Mosca” per destabilizzare la situazione interna al Paese candidato all’adesione all’Unione Europea, di cui farebbero parte cittadini moldavi e “agenti russi” inviati direttamente dal Cremlino per organizzare “disordini di massa” a Chișinău.
    Proteste anti-governative a Chișinău, Moldova, il 12 marzo 2023 (credits: Daniel Mihailescu / Afp)
    “Congratulazioni alla polizia moldava, che ha arrestato persone sospettate di aver pagato per promuovere disordini filorussi e antigovernativi”, è il commento della commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, ricordando che “il sostegno dell’Ue alla Moldova rimane essenziale“. Una dimostrazione è stata la riunione di venerdì (10 marzo) del Nucleo di sostegno Ue insieme alla ministra degli Interni moldava, Ana Revenco, in cui è stata firmata una lettera di intenti con Europol per garantire un supporto nella lotta al crimine organizzato. A margine dello stessa riunione a Bruxelles la ministra Revenco ha avvertito che “la Repubblica di Moldova è la seconda linea dell’aggressione russa contro l’Ucraina”. Nel corso della giornata di ieri migliaia di manifestanti filo-russi hanno marciato nella capitale del Paese, guidati da esponenti di Șor, il partito di Ilan Shor, oligarca moldavo sanzionato nell’ottobre dello scorso anno dagli Stati Uniti per la sua vicinanza al governo russo (la stessa cosa il governo moldavo chiede a Bruxelles di fare) e oggi in esilio in Israele per proteggersi da un furto bancario da 1 miliardo di dollari.
    Prima della riunione con la commissaria Johansson la ministra Revenco aveva fatto un riferimento implicito alle responsabilità anche di Shor nel rischio di colpo di Stato in Moldova, parlando di “sforzi e risorse di Mosca, gruppi di interesse e oligarchi fuggiti per aumentare il livello di destabilizzazione nel Paese”. Le autorità di polizia hanno anche informato che nell’ultima settimana è stato negato l’ingresso in Moldova a 182 cittadini stranieri – tra cui un “possibile rappresentante” del gruppo militare privato russo Wagner – mentre l’agenzia anti-corruzione ha effettuato un sequestro pari a oltre 200 mila euro per un presunto finanziamento illegale di Șor da parte di un gruppo di criminalità organizzata legato a Mosca. “La Moldova è uno dei Paesi più negativamente colpiti dalle conseguenze della guerra russa in Ucraina, negli ultimi mesi è diventato sempre più target degli attacchi ibridi e della disinformazione russa”, ha ricordato alla stampa il portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna, Peter Stano: “L’obiettivo è chiaro, minare e destabilizzare il Paese e le sue riforme anti-corruzione del governo pro-Ue”.
    Nelle ultime settimane si sono svolte diverse proteste da parte del gruppo Movimento per il Popolo – che riunisce diversi gruppi, associazioni e partiti filo-russi come Șor – per spingere la presidente europeista Maia Sandu a rassegnare le dimissioni. Non è un caso se poco meno di un mese fa Sandu ha confermato un report dell’intelligence ucraina, secondo cui il Cremlino ha messo in atto un piano per “rompere l’ordine democratico e stabilire il controllo” russo sul Paese candidato all’adesione Ue: l’obiettivo sarebbe “un cambio di potere a Chișinău”, attraverso “azioni violente, mascherate da proteste della cosiddetta opposizione“, con il coinvolgimento di “cittadini stranieri”. Per sostenere la leadership moldava, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha telefonato ieri alla presidente Sandu: “Il sostegno dell’Ue è incrollabile“, ha confermato il numero uno del Consiglio, precisando che è necessario “continuare a lavorare insieme in questa nuova fase di relazioni strategiche”. La conversazione telefonica è stata anche un’occasione per discutere della seconda riunione della Comunità Politica Europea, che il primo giugno porterà i capi di Stato e di governo dei Paesi proprio a Chișinău, ma anche della “determinazione della Moldova a portare avanti le riforme e gli sforzi per avanzare sulla strada Ue”.
    Le tensioni interne in Moldova
    Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina il 24 febbraio 2022 sono aumentate le tensioni nella Repubblica di Moldova e in particolare nell’autoproclamata Repubblica filo-russa della Transnistria, nell’est del Paese, con attacchi a Tiraspol e lungo il confine con l’Ucraina (primi segnali di strategia di destabilizzazione russa e di tentativo di trovare un pretesto per un possibile intervento armato). Nell’ultimo mese si sono registrati sempre più numerosi atti di provocazione palese di Mosca, con missili che attraversano lo spazio aereo della Repubblica di Moldova in direzione del territorio ucraino, mentre lo scorso 9 febbraio il presidente Volodymyr Zelensky ha informato per primo i 27 leader Ue (come poi confermato dalla presidente Sandu) del piano del Cremlino per “rompere l’ordine democratico e stabilire il controllo” russo sul Paese che ha ottenuto lo status di candidato dal 23 giugno dello scorso anno.
    Sul piano politico la situazione è particolarmente delicata, con le dimissioni dimissioni a sorpresa dello scorso 10 febbraio da parte della prima ministra europeista, Natalia Gavrilița. A succederle è stato scelto l’ex-segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza ed ex-ministro degli Affari Interni, Dorin Recean, che ha subito tranquillizzato sul fatto che sicurezza, economia e integrazione Ue saranno le priorità del governo, a partire dalla “realizzazione di tutte le condizioni per l’adesione all’Unione Europea” nel più breve tempo possibile. La Moldova aveva fatto richiesta formale per aderire all’Ue il 3 marzo dello scorso anno, a una settimana dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, ricevendo il via libera della Commissione tre mesi più tardi e il successivo benestare del Consiglio Ue alla concessione dello status di Paese candidato il 23 giugno.

    La polizia ha arrestato sette persone legate al Cremlino durante le proteste antigovernative guidate da Șor, il partito filo-russo dell’oligarca Ilan Shor. Colloquio telefonico tra i presidenti del Consiglio Ue, Charles Michel, e del Paese candidato all’adesione Ue, Maia Sandu

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    Von der Leyen strappa a Biden un impegno su sussidi verdi e minerali critici

    Bruxelles – Un incontro “molto positivo”, che per Ursula von der Leyen dovrebbe spianare la strada a un dialogo tra Ue e Usa sugli incentivi per le tecnologie verdi e a un più ampio accordo vincolante per consentire l’accesso al mercato statunitense delle materie prime critiche europee. Il viaggio della presidente della Commissione europea a Washington della scorsa settimana per incontrare il capo della Casa Bianca Joe Biden si è chiuso venerdì così, con una dichiarazione congiunta e un impegno a lavorare per una distensione delle tensioni sull’Inflaction Reduction Act (Ira), il piano di sussidi verdi da 370 miliardi di dollari varato dall’amministrazione Biden per l’industria e la tecnologia pulita, che Bruxelles teme possa svantaggiare le imprese europee o costringerle alla delocalizzazione della produzione.
    Il dialogo sugli incentivi per l’energia pulita – si legge nella dichiarazione comune – servirà a coordinare “i rispettivi programmi di incentivi in ​​modo che si rafforzino a vicenda”, ovvero da una parte il Piano Ue per l’industria verde annunciato da von der Leyen e dall’altra l’Inflation Reduction Act di Biden. L’obiettivo si legge tra le righe ed è quello di evitare per quanto possibile la competizione industriale tra i due lati dell’Atlantico, soprattutto in chiave anti-Cina e alla sua corsa ai sussidi verdi. La presidente dell’Esecutivo comunitario ammette (e non è la prima volta) che l’IRA americana è un piano positivo per la transizione energetica globale perché consente un massiccio investimento verso l’energia verde che per Washington è inedito. Ma mentre l’Unione Europea fa da apripista livello mondiale in termini di strategia per ridurre le emissioni di carbonio, deve anche riuscire a evitare che l’impegno per la transizione verde di penalizzare l’industria o peggio, portare le industrie Ue a delocalizzare la produzione dove gli obiettivi climatici sono meno stringenti o i sussidi maggiori.

    On #IRA, two new major steps:
    → Starting on a critical raw materials agreement
    To secure strong supply chains for batteries in 🇪🇺 & ensure access to the 🇺🇸 market
    → Launching a dialogue on Clean Energy Incentives
    So our incentives reinforce each other rather than compete pic.twitter.com/xh6zWxGAMf
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) March 10, 2023

    Da quando l’amministrazione Biden ha presentato l’IRA in agosto, è stata istituita una task force Usa-Ue con cui Bruxelles sta cercando di ottenere agevolazioni per le imprese dell’Ue, un trattamento di favore come quello di cui godono Canada e Messico. Passi avanti nelle scorse settimane si sono registrati nell’ottenere l’accesso ai privilegi fiscali negli Stati Uniti per l’industria automobilistica europea, in particolare sulle auto elettriche aziendali in leasing. Rimane l’altra questione dei minerali per la produzione di batterie elettriche. L’Ira prevede fino a un massimo di 7.500 dollari di incentivi per le batterie elettriche, di cui 3.750 riguardano i minerali e 3.750 il resto della componentistica. Per la quota relativa ai minerali – quindi il 50 per cento – Bruxelles vuole che anche le batterie prodotte in Europa possano avvalersi degli incentivi fiscali americani.
    Venerdì si parlava della possibilità di raggiungere un accordo già durante il confronto tra i due leader, ma la strada sembra ancora lunga. Nella dichiarazione c’è l’impegno di Bruxelles e Washington a lavorare sulle materie prime critiche che sono state acquistate o lavorate nell’Unione europea e per dare loro l’accesso al mercato americano e ai suoi incentivi. “Lavoreremo su un accordo in merito”, ha annunciato von der Leyen in conferenza stampa al fianco di Biden. Saranno avviati “i negoziati su un accordo mirato sui minerali critici allo scopo di consentire ai minerali critici pertinenti estratti o lavorati nell’Unione europea di essere conteggiati ai fini dei requisiti per i veicoli puliti del credito d’imposta sui veicoli puliti” dell’IRA, spiega la dichiarazione comune.
    L’approvvigionamento di minerali critici per la transizione verde dipende quasi esclusivamente dalla Cina che lavora quasi il 90 per cento di terre rare e il 60 per cento di litio, indispensabile per la produzione di batterie. La Commissione presenterà questa settimana i dettagli legislativi del suo Piano industriale per il Green Deal, una strategia di lungo termine per la competitività dell’industria: il ‘Net-Zero Industry Act’, la proposta di regolamento per l’industria a emissioni zero, il ‘Critical Raw Material Act’ per non perdere la corsa all’approvvigionamento di materie prime critiche per la transizione e la riforma del mercato elettrico dell’Ue. I tre pilastri normativi del Piano per l’industria green saranno accompagnati da una più ampia comunicazione (non vincolante) sulla strategia Ue a lungo termine per la competitività. Le proposte finiranno sul tavolo dei capi di stato e governo al Vertice Ue del 23 e 24 marzo a Bruxelles.

    Il viaggio della presidente della Commissione a Washington si è chiuso venerdì l’idea di approfondire il dialogo sugli incentivi per le tecnologie verdi e spianare la strada a un più ampio accordo vincolante per consentire l’accesso al mercato statunitense delle materie prime critiche europee