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    Via libera al quinto pacchetto di sanzioni all’Iran. Borrell richiama Teheran all’impegno sul nucleare

    Bruxelles – Il cerchio sui responsabili della repressione delle proteste in Iran si stringe, ma l’Ue non centra ancora il bersaglio richiesto a gran voce nelle ultime settimane. Oggi (20 febbraio) i ministri degli Esteri dei 27 Paesi Ue hanno aggiunto alla lista delle sanzioni contro Teheran altre 32 persone e 2 entità, ritenute “responsabili di gravi violazioni dei diritti umani”. Decisione presa mentre fuori dall’Europa Building, sede del Consiglio europeo a Bruxelles, migliaia di manifestanti chiedevano a gran voce ai leader di fare un passo in più: inserire finalmente il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (Irgc) nell’elenco Ue delle organizzazioni terroristiche.
    Con il quinto pacchetto di sanzioni approvato oggi, le misure restrittive si applicano ora a 196 persone e 33 entità. Colpiti anche il ministro della Cultura e dell’Orientamento islamico, Mohammad Esmaeili, e il ministro dell’Istruzione, Yousef Nouri, oltre al vice comandante e al portavoce dei Pasdaran, membri del parlamento di Teheran, diversi procuratori dei Tribunali rivoluzionari, magistrati, guardie carcerarie e direttori degli istituti penitenziari. Per tutti i sanzionati è stato disposto il congelamento dei beni, i divieti di ingresso in Ue e di ricevere fondi o risorse economiche dal territorio comunitario. Inoltre, sarà impedita loro l’esportazione di apparecchiature che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna e di apparecchiature per il monitoraggio delle telecomunicazioni.
    Protest supporting Iranian resistance movement in Brussels on February 20, 2023. (Photo by Kenzo TRIBOUILLARD / AFP)
    “Le sanzioni non sono solo necessarie, sono inevitabili”, ha dichiarato l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell. Sanzioni che non stanno producendo alcun effetto sulla condotta del regime, che secondo il bollettino del mese scorso di Iran Human Rights sarebbe responsabile della morte di almeno 481 manifestanti. “Non sono sufficienti, ma hanno una valenza politica e pratica”, ha commentato Borrell. C’è chi chiede di più: l’ha fatto il Parlamento europeo, oggi l’hanno ribadito almeno 6 mila persone per le strade di Bruxelles. “Siamo qui oggi per farci sentire dai ministri degli Esteri: il Parlamento europeo ha già deciso che le Irgc devono essere inserite nella lista europea dei terroristi, ora è tempo per il Consiglio europeo di agire”, ha gridato ai manifestanti l’eurodeputata svedese di origini irachene Abir Al-Sahlani, che assieme ad altri parlamentari europei e belgi ha sostenuto la marcia di protesta della diaspora iraniana a Bruxelles. La richiesta dell’Eurocamera, approvata all’emiciclo di Strasburgo lo scorso 18 gennaio, per il momento è caduta nel vuoto, un po’ per ostacoli di natura giuridica, un po’ per il timore che una scelta così radicale possa compromettere definitivamente i rapporti con la Repubblica Islamica e di conseguenza tutti i dossier che la riguardano.
    Uno su tutti, il negoziato per l’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa), che non gode sicuramente di ottima salute: secondo il Wall Street Journal, Teheran starebbe producendo uranio arricchito con una purezza dell’84 per cento, considerato “quasi di livello militare”. Nonostante l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aeia), che dovrà rispondere alla richiesta di indagini formulata dall’Ue entro questa settimana, non abbia ancora confermato le indiscrezioni, il capo della diplomazia europea ha telefonato al ministro degli Esteri del regime di Teheran, Hossein Amir-Abdollahian, chiedendogli di rispettare gli impegni sul programma nucleare, viste le “notizie preoccupanti sull’arricchimento dell’uranio iraniano”.
    A destare preoccupazione è anche la detenzione di cittadini europei nelle carceri iraniane: in Belgio tiene banco la vicenda di Olivier Vandecasteele, operatore umanitario arrestato nel febbraio 2022 e condannato a 40 anni di carcere per spionaggio contro la Repubblica islamica, ma non è l’unico caso. Benjamin Briére, viaggiatore e blogger francese detenuto da oltre due anni e in sciopero della fame dallo scorso 28 gennaio, Ahmadreza Djalali, medico e docente iraniano naturalizzato svedese, accusato di spionaggio per conto di Israele nel 2016 e condannato a morte, e altri ancora. Borrell si è detto “preoccupato per il crescente numero di cittadini dell’Ue attualmente detenuti in Iran per motivi pretestuosi”, in condizioni “degradanti senza alcuna possibilità di un giusto processo”. Per il momento, oltre all’esplicito “invito a rispettare gli obblighi internazionali” ai mullah iraniani, Borrell non può fare altro che consigliare caldamente ai cittadini europei, “a causa del grave rischio per la loro sicurezza personale”, di non mettere piede in Iran.

    Thank you @AbirAlsahlani ✌️✌️✌️#IRGCterrorists‌ #WomanLifeFreedom #MahsaAmini‌ #مهسا_امينی‌ https://t.co/nIeKTVw1Rb
    — Nasser (@Nasser83174478) February 20, 2023

    Aggiunte 32 persone e 2 entità, tra cui due ministri, alla lista dei responsabili della repressione delle proteste, mentre per le strade di Bruxelles migliaia di persone chiedono l’inserimento delle Guardie della rivoluzione nell’elenco europeo dei terroristi

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    Ue: “Se la Russia usa armi chimiche pronti ad assistere l’Ucraina”

    Bruxelles – Semmai la Russia dovesse utilizzare armi chimiche in Ucraina o un incidente di questo tipo dovesse prodursi l’Unione europea risponderà. Dal consiglio Affari esteri arriva l’avvertimento al presidente russo Vladimir Putin. I ministri responsabili degli Stati membri preparano la conferenza del 15-19 maggio, convocata per la revisione della convenzione sulle armi chimiche, il trattato internazionale per la messa al bando di questi tipi di armi in ogni sua forma (produzione, sviluppo, utilizzo, detenzione, conservazione). Nelle conclusioni adottate in vista dell’appuntamento si ricorda che la Commissione europea ha la capacità di fornire valutazioni rapide degli incidenti chimici in Ucraina e come, in tal senso, sia “pronta a rispondere rapidamente alle richieste di assistenza dell’Ucraina“.
    E’ questa una delle condizioni chiave, quella di una richiesta di intervento. L’auspicio di fondo è che non ce ne sia necessità, ma i Ventisette non vogliono farsi trovare impreparati e si dicono pronti a “sostenere l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw) nel caso in cui l’Ucraina richieda assistenza all’Organizzazione a causa di un incidente chimico o di un presunto attacco chimico”. L‘Opcw è l’organizzazione internazionale responsabile per l’attuazione della convenzione per la messa al  bando delle armi chimiche.
    Da Bruxelles si prova a mettere pressione, ricordando, nel preambolo delle conclusioni in materia, che il Consiglio dell’Ue è “fermamente convinto” che l’uso di armi chimiche, “compreso l’uso di sostanze chimiche tossiche come armi, da parte di chiunque, sia esso un attore statale o non statale, ovunque e in qualsiasi circostanza sia inaccettabile e debba essere condannato con forza“. Un ricorso a sostanze per la distruzione di massa, recita ancora il preambolo, “costituisce una violazione del diritto internazionale e può costituire un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità”, eventualità  che renderebbe impossibile non intervenire. “Non può esserci impunità e i responsabili di tali atti aberranti devono e saranno ritenuti responsabili”. Putin è avvisato.

    L’avvertimento a Mosca nelle conclusioni della riunione dei ministri degli Esteri. “Uso di armi chimiche un crimine contro l’umanità e non può esserci impunità”

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    Allarme Ue sui migranti: Tajani preoccupato per la situazione tunisina, Grecia al lavoro per barriera con la Turchia

    Bruxelles – Se in Tunisia la situazione interna si fa di giorno in giorno più tesa, l’Italia non può stare a guardare. Perché il rischio, evocato oggi (20 febbraio) dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, al vertice a Bruxelles con gli omologhi dei 27 Paesi membri, è di avere “flussi migratori sempre crescenti”. Ma l’allarme per un rinnovato “panico flussi” non arriva solo da Roma: anche il governo di Atene avrebbe sollevato le proprie preoccupazioni a causa del drammatico terremoto che ha colpito Turchia e Siria, che potrebbe intensificare nei prossimi mesi la pressione al confine greco-turco.
    L’Europa si sente braccata sulle due rotte che già nel 2022 hanno registrato ingressi da record: l’anno scorso, secondo i dati dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex), dai Balcani occidentali sono entrate, in modo irregolare, più di 145 mila persone migranti, mentre gli sbarchi dal Mediterraneo centrale sono stati oltre 102 mila. E già nel 2022, la maggior parte di questi erano da una parte cittadini turchi e siriani, dall’altra egiziani e tunisini.
    A Tunisi la situazione non fa che aggravarsi, con un Paese che da 11 anni vive una profonda crisi economica e politico-istituzionale: prima la pandemia e poi le conseguenze della guerra in Ucraina stanno portando lo Stato nordafricano sull’orlo della bancarotta. “Sappiamo che c’è una situazione molto complicata, stanno arrivando flussi migratori preoccupanti”, ha esordito a proposito Tajani dal Consiglio Affari esteri Ue. Per questo il ministro ha chiesto che la questione tunisina venga inserita come punto principale nell’agenda del prossimo vertice di Bruxelles, previsto il 20 marzo. Il mantra è sempre lo stesso: “Stiamo facendo in modo di avere un coinvolgimento dell’Europa sulla situazione tunisina, perché non può essere un problema solo italiano”, ha dichiarato Tajani, che in mattinata ha avuto un colloquio di una decina di minuti con l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, Josep Borrell, che “si è mostrato disponibile a confrontarsi e trovare delle soluzioni”. Tajani e Borrell avrebbero ipotizzato anche di recarsi di persona a Tunisi per discutere con il presidente Kaïs Saïed.
    Nelle zone devastate dal più forte terremoto degli ultimi cento anni, che ha colpito il sud est della Turchia e il nord della Siria lo scorso 6 febbraio, secondo l’Unhcr potrebbero esserci già oltre 5 milioni di sfollati. “Siamo pronti ad ogni evenienza e il lavoro sulla recinzione di Evros sta già accelerando”, avrebbe dichiarato il ministro greco per la Protezione civile, Takis Theodorikakos, a un’emittente locale. Atene sta infatti innalzando una recinzione lungo il fiume Evros, confine naturale con la Turchia, che mette ancora una volta sotto i riflettori il dibattito che da qualche settimana sta divampando a Bruxelles, sulla necessità che sia l’Ue a finanziare le infrastrutture per proteggere i confini esterni. L’Unione europea “deve capire che i confini dell’Evros non sono solo confini della Grecia, ma anche dell’Europa”, ha ricordato Theodorikakos, che ha espresso ottimismo sul fatto che almeno alcuni Paesi Ue contribuiranno a coprire i costi.

    Il ministro degli Esteri ha chiesto a Josep Borrell di affrontare la questione dei “flussi migratori sempre crescenti” dalla Tunisia al prossimo Consiglio Affari Esteri. Da Atene l’allarme per i profughi del terremoto in Turchia e Siria: “Stiamo accelerando sulla recinzione a Evros”

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    Si terrà il 16 marzo a Bruxelles la Conferenza dei donatori a supporto dei terremotati in Turchia e Siria

    Bruxelles – Mentre continua senza sosta l’invio di aiuti umanitari a Turchia e Siria attraverso il Meccanismo di protezione civile dell’Ue, le istituzioni comunitarie hanno fissato la data dell’appuntamento-chiave per raccogliere fondi per il sostegno immediato e il coordinamento della ricostruzione delle aree colpite dal terremoto del 6 febbraio, che ha causato la morte di oltre 45 mila persone nei due Paesi. Il prossimo 16 marzo a Bruxelles si terrà la Conferenza dei donatori, organizzata dalla presidenza di turno del Consiglio dell’Ue in collaborazione con la Commissione, per portare allo stesso tavolo “Paesi Ue e vicini, membri delle Nazioni Unite, istituzioni finanziarie internazionali e parti interessate” a partecipare a questo sforzo di solidarietà a sostegno delle popolazioni terremotate.
    Antiochia, Turchia (credits: Sameer Al-Doumy)
    A renderlo noto sono state entrambe le istituzioni Ue, a partire dal ministro degli Esteri e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Tobias Billström, facendo ingresso questa mattina (20 febbraio) al Consiglio Affari Esteri: “Vogliamo fare tutto il possibile” per fornire “supporto addizionale per alleviare le terribili conseguenze di questo terremoto”. Il ministro svedese ha precisato di aspettarsi “un’alta partecipazione e anche di raccogliere più soldi possibile” nel corso di una Conferenza il cui obiettivo – come ha spiegato la portavoce dell’esecutivo comunitario Dana Spinant – è quello di “raccogliere risorse e coordinare la risposta a supporto della ricostruzione nelle aree colpite in entrambi i Paesi”.
    Della volontà di organizzare una Conferenza dei donatori si era a conoscenza da qualche giorno a Bruxelles, quando la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e il primo ministro della Svezia, Ulf Kristersson, ne avevano discusso nel corso di una conversazione telefonica. Ma ancora non erano stati forniti dettagli sulla data. La conferenza di alto livello sarà presieduta dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e dal ministro svedese per la Cooperazione internazionale allo sviluppo, Johan Forssell. “Stiamo inviando un messaggio alle popolazioni della Turchia e della Siria, l’Ue sosterrà le vostre comunità perché nessuno dovrebbe essere lasciato solo quando una tragedia come questa colpisce un popolo”, aveva sottolineato la presidente von der Leyen, anticipando la decisione di organizzare una Conferenza dei donatori.
    La mobilitazione Ue a sostegno di Turchia e Siria
    Jindires, Siria (credits: Afp)
    In parallelo al Consiglio Affari Esteri di oggi si è svolta anche una nuova riunione del meccanismo integrato di risposta politica alle crisi (Ipcr) dell’Ue “per affrontare la situazione a seguito del sisma in Turchia e Siria”, ha fatto sapere la presidenza di turno svedese del Consiglio dell’Ue. I Ventisette hanno fatto il punto “sul sostegno dell’Ue e degli Stati membri, al fine di coordinare gli sforzi per soddisfare le esigenze immediate e affrontare i colli di bottiglia“. In vista della Conferenza del 16 marzo, la riunione di oggi tra le istituzioni Ue, le autorità turche e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) “ha fornito un aggiornamento della situazione sul campo”, in particolare sull’assistenza attraverso il Meccanismo di protezione civile dell’Ue.
    A proposito del Meccanismo di protezione civile dell’Ue, a sostegno della Turchia si sono mobilitati 21 Stati europei – Albania, Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Repubblica Ceca, Slovenia, Slovacchia, Spagna e Svezia – con squadre mediche e milioni di articoli, come attrezzature per rifugi, stufe, generatori, mobili, attrezzature mediche, kit igienici, cibo e indumenti caldi. In totale per Ankara sono stati stanziati 5,5 milioni di euro di aiuti umanitari, ma anche duemila tende e ottomila letti attraverso la riserva rescEu ospitata dalla Romania e 500 unità abitative di soccorso dotate di 2.500 letti dalla riserva ospitata dalla Svezia. Per la Siria si sono mobilitati 12 Paesi europei – Austria, Bulgaria, Cipro, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Romania, Slovenia e Norvegia – attraverso gli hub di Beirut e Gaziantep (Turchia) e l’Unione ha stanziato 10 milioni di euro in aiuti umanitari per offrire un rapido soccorso alle vittime del sisma.

    La Commissione Europea e la presidenza di turno svedese del Consiglio dell’Ue ospiteranno la riunione aperta ai Ventisette, Paesi vicini, Nazioni Unite, istituzioni finanziarie e tutte le parti interessate a “raccogliere fondi e coordinare la risposta per la ricostruzione” post-sisma

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    Si stringono i tempi per trovare l’intesa definitiva tra Serbia e Kosovo. A Bruxelles il nuovo incontro tra Vučić e Kurti

    Bruxelles – Proprio nel giorno del quindicesimo anniversario dalla proclamazione d’indipendenza unilaterale del Kosovo dalla Serbia. Se è un caso, è uno di quelli particolarmente curiosi, anche considerata l’urgenza della questione. Come rende noto il Servizio europeo per l’Azione esterna (Seae), il prossimo 27 febbraio l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha convocato a Bruxelles una riunione di alto livello del dialogo Belgrado-Pristina.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier del Kosovo, Albin Kurti (21 novembre 2022)
    La nota del Seae precisa che alla riunione saranno presenti sia il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, sia il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, avendo entrambi “confermato la loro partecipazione”. L’appuntamento arriva a tre mesi dall’ultimo incontro fallimentare andato in scena proprio a Bruxelles il 21 novembre dello scorso anno, in cui non erano stati fatti passi in avanti sulla questione della re-immatricolazione delle auto con targhe kosovare su tutto il territorio amministrato da Pristina (risolta solo da un accordo in extremis raggiunto alla mezzanotte di due giorni più tardi).
    Gli ultimi eventi nel rapporto tra Serbia e Kosovo
    Da allora però molte cose sono cambiate, nonostante siano trascorsi solo tre mesi. Dopo le dure tensioni con Belgrado per la nomina del nuovo ministro kosonaro per le Comunità e il ritorno dei profughi, Pristina è ancora sotto pressione dei partner europei e statunitense per l’istituzione delle Associazione delle municipalità serbe in Kosovo. Ma nel corso del mese di dicembre sono andati in scena altri tre importanti eventi che hanno reso sempre più urgente la risoluzione di un dialogo mediato dall’Ue che sta per compiere 12 anni. Prima della richiesta ufficiale del Kosovo di aderire all’Unione Europa, al vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana è stata messa nero su bianco la necessità di compere “progressi concreti verso un accordo globale giuridicamente vincolante” sulla normalizzazione delle relazioni tra Pristina e Belgrado. Ma pochi giorni più tardi si sono riaccese le tensioni nel nord del Kosovo (risolte grazie alla diplomazia internazionale), con blocchi stradali e barricate messi in atto dalle frange più estremiste della minoranza serba.
    Da sinistra: il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, e l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    Una serie di eventi e di posizioni sempre più radicalizzate e in un certo senso più ravvicinate temporalmente rispetto al passato. Il che da una parte ha reso evidente che solo una soluzione definitiva tra i due Paesi può mettere fine a rischi di un’esacerbazione delle violenze, e dall’altra sembra suggerire che davvero questo accordo potrebbe essere più vicino, con entrambi gli attori politici (caratterizzati da marcati tratti nazionalisti) che esasperano la propria retorica per uscire dai negoziati con un compromesso più favorevole. Ecco perché sarà decisivo quantomeno cercare – ma poi tutto si gioca sul trovarlo – uno sbocco politico alla “proposta dell’Ue sulla normalizzazione delle relazioni tra Kosovo e Serbia”, su cui sarà incentrata la riunione di alto livello del 27 febbraio. Prima della sessione congiunta, l’alto rappresentante Borrell e il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, terranno “incontri separati” sia con Vučić sia con Kurti: sul tavolo dei lavori ci sarà la nuova versione della proposta di mediazione franco-tedesca che dovrebbe portare a un’intesa entro la fine dell’anno.

    L’alto rappresentante Josep Borrell e il rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák, presiederanno la riunione di alto livello per cercare uno sbocco politico alla proposta dell’Unione Europea sulla normalizzazione delle relazioni Pristina-Belgrado

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    Beni russi per la ricostruzione dell’Ucraina e l’istituzione di un tribunale per i crimini di guerra: l’Ue al lavoro con Kiev per punire Mosca

    Bruxelles – La strategia Ue per perseguire i crimini di guerra commessi dal Cremlino in Ucraina prende forma, passo dopo passo. E procede su binari paralleli: da un lato il congelamento e la confisca dei beni di oligarchi russi e entità che sostengono la campagna militare di Putin, che potranno essere utilizzati per compensare la popolazione ucraina e finanziare la ricostruzione, dall’altra la raccolta di prove su chi si è macchiato di crimini di guerra e l’istituzione di un tribunale che possa garantire che nessuno resti impunito.
    Questa mattina (17 febbraio) si è riunita a Bruxelles la Task Force “Freeze and Seize” (Congelamento e sequestro), che vede impegnati l’Unione europea, Washington e Kiev allo scopo di assicurare giustizia per i crimini del conflitto in Ucraina. I beni russi congelati a un anno dall’inizio della guerra ammontano già a 21.5 miliardi di euro: ora gli sforzi della Task Force si concentrano su “come confiscare gli asset russi e come usarli in modo trasparente affinché le vittime e i sopravvissuti ricevano una compensazione“, ha dichiarato Andriy Kostin, Procuratore Generale di Kiev. Per fare in modo che sia la Russia a pagare il conto della futura ricostruzione del Paese invaso, il Commissario Ue per la Giustizia, Didier Reynders sta lavorando a una proposta di direttiva che aggiunga alla lista dei crimini Ue l’evasione delle sanzioni. Già approvata da Consiglio e Parlamento europeo, ora l’esecutivo comunitario è all’opera per implementarla. “Giustizia non sarà fatta senza la riparazione dei danni. I parenti delle vittime, la nostra gente che è stata ferita, torturata, stuprata, detenuta illegalmente, che ha perso la proprietà, tutti dovranno ricevere compensazioni dai fondi e dagli asset russi”, ha avvisato Kostin.
    Contemporaneamente, procede a piccoli passi il capitolo sulle responsabilità di guerra: “Vogliamo assicurarci che i colpevoli dei crimini di guerra in Ucraina siano certi del rischio di essere portati davanti a una Corte”, ha affermato Reynders. Per fare sì che questo accada, prima di tutto l’Ue si sta impegnando per la raccolta e la conservazione di prove: Eurojust, l’Agenzia di cooperazione giudiziaria dell’Ue, ha ricevuto l’incarico di costruire un nuovo database per la conservazione delle evidenze, che “sarà presto pronto a funzionare”. Prove raccolte in cooperazione con 14 Paesi membri Ue, con la Corte Penale Internazionale (Icc) e, ovviamente, con l’Ucraina: “Stiamo indagando 67 mila crimini di guerra– ha dichiarato il Procuratore Kostin-, il 99,9 per cento dei crimini perpetrati in Ucraina sarà processato”. Kiev insiste che si trovi inoltre il modo di perseguire la Russia per lo specifico reato di aggressione, che nel caso dell’Ucraina non è competenza dell’Icc perché Kiev non ha ratificato lo Statuto di Roma, trattato fondativo della Corte. Per questo la Task Force “ha dato il suo sostegno allo sviluppo di un centro internazionale per la persecuzione del crimine di aggressione contro l’Ucraina” a l’Aia, primo step verso la creazione di un tribunale ad hoc.
    Come ha ricordato il Procuratore Generale ucraino, “finché Putin sarà leader del Cremlino, non ci sarà mai il sostegno da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite“, che sarebbe indispensabile per il riconoscimento di un nuovo tribunale internazionale. Ma la Task Force è al lavoro per trovare possibili percorsi giuridici da intraprendere e, a distanza di sei mesi da quando il tema è stato posto, “più di 20 Paesi discutono già la composizione legale di questo tribunale”.

    Congelati già 21,5 miliardi di euro a oligarchi e entità russi, necessari per compensare le vittime dei crimini di guerra perpetrati dal Cremlino. Che “sono già 67 mila”, ha dichiarato il Procuratore Generale ucraino, Andriy Kostin

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    Per il Parlamento Ue “non c’è più differenza tra Russia e Bielorussia”, dai prigionieri politici alla guerra in Ucraina

    Bruxelles – A un giorno dall’annuncio del decimo pacchetto di sanzioni Ue contro la Russia, dall’emiciclo del Parlamento Europeo di Strasburgo si alzano voci che mettono in guardia su una falla nelle misure restrittive: “Ormai non c’è più differenza tra Russia e Bielorussia, ma il regime di Lukashenko non è stato nemmeno citato”. In un dibattito sulla situazione dei prigionieri politici a Minsk, gli eurodeputati hanno ribadito la richiesta alla Commissione di adeguare il regime di sanzioni contro la Bielorussia di Lukashenko a quello applicato alla Russia di Putin, non solo per il trattamento della dissidenza interna, ma soprattutto per la partecipazione ormai attiva all’aggressione armata dell’Ucraina.
    “Stiamo facendo abbastanza?”, si è chiesto il socialdemocratico olandese Thijs Reuten, incalzando l’esecutivo comunitario a “sottoporre il burattino di Putin alle stesse sanzioni” previste dalla nuova tornata presentata ieri (15 febbraio) dalla presidente Ursula von der Leyen proprio in sessione plenaria dell’Eurocamera. “L’isolamento deve riguardare entrambi i Paesi”, gli ha fatto eco l’eurodeputata lettone del Ppe Sandra Kalinete, ribandendo una richiesta che i membri del Parlamento Ue rivolgono alla Commissione dal maggio dello scorso anno. A nome dell’esecutivo comunitario, il titolare per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, ha confermato agli eurodeputati che il gabinetto von der Leyen è impegno in questo obiettivo e che “presto saranno imposte altre sanzioni nel contesto della guerra“. È da almeno un mese che i servizi della Commissione stanno lavorando su una nuova tornata di misure restrittive contro il regime di Lukasehnko, considerate le anticipazioni della stessa presidente von der Leyen durante la conferenza stampa di presentazione della terza dichiarazione congiunta Ue-Nato dello scorso 10 gennaio.
    Sin dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina le istituzioni comunitarie hanno riconosciuto il ruolo della Bielorussia come supporto al Cremlino per gli attacchi da nord e, proprio per questa ragione, hanno incluso decine di esponenti del regime di Lukasehnko e hanno rinvigorito l’embargo supotassio, acciaio, combustibili e trasporti bielorussi. L’azione di Minsk ha permesso alle truppe e alle armi russe di muoversi attraverso il suo territorio, di utilizzare il suo spazio aereo, di rifornirsi di carburante e di immagazzinare munizioni militari, e da mesi ci si aspetta che le truppe bielorusse partecipino attivamente alla guerra. Ma è stata cruciale anche la decisione di abbandonare lo status di Paese non-nucleare, attraverso un referendum-farsa a quattro giorni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Al momento un totale di 195 persone e 35 entità è interessato dalle misure restrittive dell’Ue – compreso lo stesso Lukasehnko e il figlio Viktor, consigliere per la Sicurezza Nazionale – anche per la repressione delle manifestazioni pacifiche dopo l’esito truccato delle elezioni presidenziali dell’agosto 2020.
    I prigionieri politici in Bielorussia
    È proprio per questo secondo aspetto – quello delle violazioni dei diritti umani e la repressione della dissidenza interna – che gli eurodeputati vogliono dalla Commissione ancora più decisione nel sanzionare la Bielorussia di Lukashenko. “I bielorussi sono diversi dal regime, credono in un altro Stato“, ha sottolineato l’eurodeputata tedesca del gruppo dei Verdi/Ale Viola von Cramon-Taubadel: “Ogni dittatore raccoglie quello che ha seminato, sia Putin sia Lukasehnko devono rispondere delle loro azioni”. Sono ormai “oltre 1.450 i prigionieri politici” che sono finiti in carcere per la partecipazione alle manifestazioni pacifiche e per le richieste di democrazia nel Paese, ha ricordato il commissario Lenarčič, avvertendo che “il numero aumenta ogni giorno“.
    (credits: John Thys / Afp)
    A proposito della situazione degli oppositori nelle carceri bielorusse, nel mese di gennaio sono state presentate nuove accuse penali contro Siarhei Tsikhanouski, marito della presidente ad interim riconosciuta dall’Ue e leader delle forze democratiche nel Paese, Sviatlana Tsikhanouskaya, imprigionato il 29 maggio del 2020 con l’obiettivo di impedirgli di partecipare alle elezioni presidenziali e condannato a 18 anni di reclusione poco più di un anno fa. Sempre a gennaio è iniziato anche il processo per Ales Bialiatski, fondatore dell’organizzazione per i diritti umani Viasna e vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 2022, con l’accusa di contrabbando di denaro e di finanziamento delle proteste: rischia dai 7 ai 12 anni di carcere, “la sentenza è imminente”, ha avvertito Lenarčič. Preoccupano anche le condizioni di salute di Maria Kolesnikova, una delle tre leader dell’opposizione nel 2020 che ha scontato il primo anno di carcere degli 11 a cui è stata condannata: a inizio dicembre è stata ricoverata in ospedale in gravi condizioni e da allora non sono più arrivate notizie.
    Intanto il Parlamento nazionale e l’autoproclamato presidente hanno dato il via libera agli emendamenti alla legislazione sulla cittadinanza del 2002, introducendo la possibilità di privare della cittadinanza i bielorussi all’estero condannati per reati di “partecipazione a un’organizzazione estremista” o “grave danno agli interessi della Bielorussia”, anche in assenza dell’imputato a processo. Una legge che sembra tagliata su misura della leader delle forze democratiche Tsikhanouskaya, il cui processo in contumacia è iniziato lo scorso 17 gennaio. “Vogliamo un meccanismo di responsabilità presso l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani” sulle violazioni dei diritti umani in Bielorussia, è quanto spiegato con forza dal commissario Lenarčič alla plenaria del Parlamento Ue, ricordando anche che Bruxelles sta “sostenendo sul piano finanziario una piattaforma di responsabilità che raccoglie prove per perseguire i responsabili” nella cerchia del regime di Lukasehnko.

    Di fronte al trattamento della dissidenza e alla partecipazione nella guerra contro Kiev, gli eurodeputati hanno rinnovato la richiesta alla Commissione di allineare le sanzioni contro Kiev a quelle adottate contro Mosca: “Ogni dittatore raccoglie quello che ha seminato”

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    Israele blocca (ancora) la delegazione del Parlamento Ue per la Palestina: non può entrare nel Paese

    Dall’inviato a Strasburgo – Manu Pineda, presidente della delegazione Ue per le relazioni con la Palestina (Dpal), non è il benvenuto in Israele. Per la seconda volta il Ministero degli Esteri di Tel Aviv ha notificato all’eurodeputato della Sinistra europea il divieto di ingresso nel Paese, a una settimana dalla missione che la delegazione dovrebbe condurre in Palestina.
    Manu Pineda
    “Una decisione unilaterale e inaccettabile”, ha commentato da Strasburgo Pineda, che dopo aver preso conoscenza della misura nei suoi confronti ha chiesto una riunione d’urgenza con la presidente dell’Eurocamera, Roberta Metsola. L’eurodeputato spagnolo le chiederà “di prendere misure di reciprocità contro Israele”, ovvero il “divieto di ingresso al Parlamento Ue a rappresentanti e diplomatici israeliani”. La situazione è delicata, perché Tel Aviv è un partner privilegiato di Bruxelles, che riceve ingenti risorse dall’Unione e partecipa a numerosi programmi europei. Nonostante questo, da 13 anni la delegazione Dpal non riesce a visitare la Striscia di Gaza e i territori occupati.
    Nel maggio 2022 l’Eurocamera aveva sospeso la missione della delegazione a causa del veto imposto già allora a Pineda, ma questa volta potrebbe andare diversamente: “Dobbiamo assolutamente mantenere la missione, frutto di un anno di lavoro con l’ambasciata dell’Ue a Gerusalemme”, ha dichiarato ancora il presidente della delegazione, sottolineando che “la presenza in Palestina, in un momento che vede in Israele il governo più estremista degli ultimi anni, è indispensabile”.
    Rosa D’Amato
    Lo scopo della missione, ha spiegato a Eunews Rosa D’Amato, eurodeputata dei Verdi/Ale e membro della delegazione Dpal, “è perfettamente in linea con le prerogative di questa istituzione e con quanto già avviene negli altri paesi”: appurare il trattamento della popolazione palestinese da parte delle autorità israeliane, incontrare attori della società civile e monitorare la situazione umanitaria nei territori occupati. Dopotutto anche la Relatrice speciale delle Nazioni Unite, Francesca Albanese, ha definito come “ostinata e continua” la violazione da parte di Israele del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. E l’Unione europea stessa ha più volte richiamato le autorità israeliane sulle politiche di colonizzazione del territorio palestinese, come ribadito poco meno di un mese fa dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell, nell’ultimo incontro con il primo ministro palestinese, Mohammad Shtayyeh.
    Dopo le svariate denunce della delegazione per le relazioni con la Palestina sull’ostruzionismo israeliano, secondo D’Amato è arrivato il momento di “una presa di posizione forte”, se Metsola “ha a cuore l’immagine del Parlamento europeo”. Per il momento Manu Pineda dovrà accontentarsi di una riunione con il capo di gabinetto della Presidente, ma si è detto “fiducioso che Metsola trovi spazio nella sua agenda per riunirsi con la delegazione”.

    La delegazione dovrebbe partire per una missione nei territori occupati la prossima settimana, ma per la seconda volta Tel Aviv nega l’ingresso al suo Presidente Manu Pineda. Chiesta riunione urgente con Metsola per prendere misure contro Israele