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    Appello di Meloni ai leader Ue sulla migrazione. Il dossier sarà in agenda al prossimo Consiglio Europeo

    Bruxelles – Le 66 vittime del naufragio di Cutro, in Calabria, cambiano l’agenda del prossimo vertice dei 27 leader Ue a Bruxelles, previsto per il 23 e 24 marzo. Ai punti “Ucraina, competitività e mercato unico, commercio, energia” sarà aggiunto un’altra volta il dossier migranti. L’input, anche se un possibile ritorno sul tema era già previsto, è partito dalla premier italiana, Giorgia Meloni, che in una lettera inviata ieri (primo marzo) ai presidenti del Consiglio Ue, Charles Michel, della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e della presidenza di turno svedese del Consiglio dell’Ue, Ulf Kristersson, ha chiesto un’azione immediata delle istituzioni europee sul tema.
    Il portavoce del Consiglio Ue, Barend Leyts, in risposta ha dichiarato che “l’accordo” raggiunto all’ultimo vertice è stato quello di “monitorare i progressi sul tema migrazione, in particolare sulla base di aggiornamenti da parte della Commissione e della presidenza del semestre di turno. Sarà in agenda al prossimo Consiglio Europeo”. Così, l’ennesima tragedia consumata nel Mar Mediterraneo mette pressione all’Unione, con l’Italia “pronta, a partire dal prossimo Consiglio Europeo, a dare il suo contributo a ogni iniziativa comune” che rientri nella risposta di Meloni alla questione migrazione: “È fondamentale e urgente adottare da subito iniziative concrete, forti e innovative per contrastare e disincentivare le partenze illegali, ricorrendo anche a urgenti stanziamenti finanziari straordinari per i Paesi di origine e transito affinché collaborino attivamente”, ha ribadito la premier ai leader Ue.
    Niente di nuovo rispetto a quanto deciso all’ultimo vertice, lo scorso 9 febbraio, in cui i Ventisette avevano indicato come prioritaria la necessità di ridurre le partenze, attraverso una maggiore azione esterna, un controllo più efficace delle frontiere esterne dell’Ue e una maggiore cooperazione con i Paesi d’origine e di transito. “Al Consiglio Europeo straordinario dello scorso febbraio abbiamo individuato alcune misure che vanno nella giusta direzione, ma il fattore tempo è decisivo“, ha sottolineato la presidente del Consiglio dei ministri, perché “senza concreti interventi dell’Ue, sin dalle prossime settimane e per l’intero anno, la pressione migratoria sarà senza precedenti”. Insomma, non è più possibile rimandare le decisioni operative, come accaduto a febbraio, quando lo stesso numero uno del Consiglio Ue, Charles Michel, aveva dichiarato: “Se ne riparlerà a marzo, perché non volevamo una discussione eccessivamente lunga oggi”.
    I resti dell’imbarcazione schiantata a Cutro, in Calabria (credits: Alessandro Serrano / Afp)
    Meloni, come già successo a novembre scorso, quando lo scontro tra Roma e Parigi sulla nave Ocean Viking aveva fatto sì che l’Europa annunciasse misure immediate, calca la mano sulla tragedia di Crotone per ottenere risultati concreti: “Confido di non essere sola in questa battaglia di civiltà”, scrive la premier, insistendo sul “dovere, morale prima ancora che politico, di fare di tutto per evitare che disgrazie come queste si ripetano”. E allora dito puntato contro la tratta illegale di esseri umani, che va “stroncata”, perché il fenomeno migratorio sia gestito “nel rispetto delle regole e della sicurezza, anzitutto nell’interesse degli stessi migranti, e con numeri tali da consentire l’effettiva integrazione di chi viene in Europa con la legittima aspirazione a una vita migliore”. Nessun riferimento, nella lunga lettera della presidente, alla possibilità di intensificare gli sforzi europei in operazioni congiunte di ricerca e salvataggio, con cui forse si sarebbero potuti salvare i naufraghi dell’imbarcazione avvistata sabato sera scorso da un velivolo di Frontex, quando si trovava ancora a 40 miglia dalle coste calabresi.

    Nella lettera inviata ai presidenti Michel, von der Leyen e Kristersson la richiesta di “adottare da subito iniziative concrete” per contrastare le partenze irregolari. Per la premier italiana sono necessari fondi straordinari per i Paesi d’origine affinché “collaborino attivamente”

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    Il figlio dell’ultimo scià di Persia al Parlamento Europeo: “La mia missione è la transizione democratica” in Iran

    Bruxelles – Reza Ciro Pahlavi, il figlio maggiore dell’ultimo scià di Persia, cerca di accreditarsi agli occhi del mondo democratico come figura cardine delle forze di opposizione in Iran che da mesi stanno manifestando contro il regime degli ayatollah. “È un onore per me parlare per conto dei miei compatrioti, che mi hanno dato il compito di portare la loro voce e il loro messaggio ai rappresentanti eletti dell’Ue”, ha esordito il principe ereditario in visita oggi (primo marzo) al Parlamento Europeo, accompagnato dagli eurodeputati Charlie Weimers (Ecr) e Tomáš Zdechovský (Ppe).
    Pahlavi, in esilio dall’età di 19 anni, intravede ora uno spiraglio per rientrare nel Paese e rovesciare il regime che nel 1979 depose suo padre e instaurò la Repubblica Islamica a Teheran. Fondatore del National Council of Iran nel 2013, gruppo di opposizione in esilio, ha sposato la causa del popolo iraniano e cerca ora di ritagliarsi un ruolo di primo piano nell’Iran che verrà. “La mia missione è di servire la transizione”, ha dichiarato Pahlavi, che vuole essere “costruttore di un processo democratico” nel suo Paese dopo “l’inevitabile caduta del regime criminale” dei mullah. Apparentemente nessun ruolo politico, nessuna bramosia di potere: “Devo essere al di sopra e neutrale, non siamo qui per imporre un’alternativa, ma per proporre un processo”, promette il principe.
    Il percorso sembra essere tracciato. Dopo aver preso coscienza che la Repubblica Islamica “rappresenta una minaccia per il suo popolo e che non può essere riformata”, oggi stiamo assistendo alla “disobbedienza civile e agli scioperi nazionali che porteranno al collasso del sistema”. Una volta caduto il regime, il processo “dovrà continuare con libere elezioni per un’Assemblea costituente e infine arrivare a un referendum nazionale“, dove i cittadini sceglieranno la forma di governo che desiderano “per salvaguardare i propri diritti”. Se fosse una monarchia parlamentare, è lecito pensare che il figlio dell’ultimo scià di Persia non rifiuterebbe l’onere e l’onore di guidarla.
    Da sinistra: Reza Ciro Pahlavi e l’eurodeputato Charlie Weimers (Ecr)
    Ma Pahlavi al Parlamento Europeo è venuto anche per chiedere che l’Ue inasprisca le posizioni contro il regime attuale e che garantisca supporto totale al popolo iraniano. Aiutare gli iraniani a evitare la soppressione di internet da parte del regime, finanziare lunghi scioperi sindacali e designare il corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche come organizzazione terroristica. Perché sanzionare i pasdaran “velocizzerebbe il processo di implosione del regime”, facilitando defezioni tra le fila governative. E potrebbe anche aprire la strada al sequestro di beni da utilizzare per creare un fondo per finanziare i lavoratori iraniani, ha suggerito Weimers.
    Pahlavi è convinto che il supporto alla causa del popolo iraniano rientra anche negli interessi economici dell’Unione, perché “l’Iran rappresenta oggi il più vasto mercato ancora da aprire al mondo“. Con un regime democratico, partner dell’Occidente, le aziende europee avrebbero “immense opportunità economiche”, ma non solo: Teheran potrebbe “soddisfare i bisogni energetici dell’Ue con benefici reciproci“. A chi gli chiede del programma sul nucleare, Pahlavi garantisce che ne ha sempre avuto un giudizio negativo, anche nelle applicazioni civili. “Ci sono molte alternative più pulite e sicure da sviluppare”, ha dichiarato ancora il principe, sottolineando inoltre “l’incompetenza del regime che ha portato a una grave crisi ambientale nel Paese”. Il messaggio di Pahlavi è che un Iran pacifico è la promessa di un “futuro più sicuro e prospero per tutte le nazioni democratiche”. Resta da capire se il giovane popolo iraniano che protesta ha intenzione di consegnare le chiavi della transizione al vecchio figlio di un ancor più vecchio monarca.

    Reza Ciro Pahlavi ha incontrato deputati di diversi gruppi politici, per cercare di legittimarsi come garante della transizione democratica a Teheran in caso di implosione del regime. E chiede agli eurodeputati di prendere ulteriori misure in supporto dei manifestanti

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    Contro l’Unione dei muri e fili spinati, il Movimento europeo chiede all’Eurocamera di opporsi ai leader Ue

    Bruxelles – Basta barriere, basta divisioni e politiche divisorie. Una petizione contro l’Europa che “costruisce duemila chilometri di muri e di fili spinati”, ma soprattutto per un’Europa “che accoglie e include”. L’ha presentata oggi (28 febbraio) la sezione italiana del Movimento Europeo alla commissione per le Petizioni del Parlamento europeo. Partiti, sindacati e associazioni aderenti all’organizzazione puntano il dito contro il recente “mutamento di approccio della Commissione europea rispetto al Migration Pact(il patto per l’immigrazione) del settembre 2020″, che avrebbe sancito il passaggio “dalla priorità del diritto internazionale, dei valori dell’Unione europea e della tutela dei diritti fondamentali ad un’Europa che respinge e che esclude”, e chiedono all’Eurocamera di respingere le conclusioni del Consiglio europeo straordinario del 9 febbraio, “usando tutti gli strumenti istituzionali di cui l’assemblea dispone”.
    Nel mirino del Movimento c’è in particolare un paragrafo di quelle conclusioni, in cui “si chiede alla Commissione di mobilitare immediatamente ingenti fondi e mezzi dell’Ue per sostenere gli Stati membri nel rafforzamento delle capacità e delle infrastrutture di protezione delle frontiere, dei mezzi di sorveglianza — compresa la sorveglianza aerea — e delle attrezzature”.
    La rinnovata enfasi posta dai 27 leader Ue sul rafforzamento dell’azione esterna, sulla cooperazione in materia di rimpatri e sul controllo delle frontiere esterne non farebbe che confermare il principio “secondo cui il controllo dei flussi di migranti è essenzialmente un problema di sicurezza”, negando al contempo qualsiasi “valore aggiunto per le economie europee e per la ricchezza delle nostre culture” derivante dall’accoglienza dei migranti economici.
    Il Movimento europeo contesta il significato conferito dall’Ue al termine pull factor (fattore di attrazione, letteralmente), che “non deriva dalla mancanza di respingimenti e di rimpatri dei migranti irregolari, ma dalla fuga inarrestabile dai conflitti interni, dalle guerre fra Stati, dalla fame, dai disastri ambientali e dall’espropriazione delle terre”.
    Nella petizione viene inoltre sottolineato come all’ultimo vertice europeo “nulla è stato detto sulla necessità di mobilitare risorse umane e finanziarie da mettere a disposizione in particolare dei poteri locali per garantire politiche di inclusione”.
    Risorse che invece i governi di Austria, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta e Slovacchia, vorrebbero indirizzare per l’innalzamento di infrastrutture fisiche ai confini dell’Unione: i cittadini contribuenti del Movimento europeo vogliono vederci chiaro e sapere se dal budget comunitario “saranno esclusi finanziamenti per la costruzione di muri e fili spinati, su quale linea di bilancio saranno prelevati questi fondi, se sarà necessario un bilancio suppletivo su cui l’assemblea avrà l’ultima parola e come si verificherà la pertinenza e la necessità delle spese effettuate”.
    La petizione, presentata insieme ai movimenti europei in Francia, Polonia e Spagna, ha raccolto l’adesione di Emergency, Eumans, l’associazione Medel dei magistrati democratici europei, l’associazione Last Twenty, Humanfirst Italia, Concorde, Open Arms, la Fondazione Migrantes, cento organizzazioni non governative e partiti politici, esponenti del mondo accademico, mille cittadine e cittadini.

    Presentata oggi al Parlamento europeo una petizione per respingere le conclusioni del vertice dello scorso 9 febbraio, in particolare la richiesta di mobilitare fondi comunitari per la costruzione di infrastrutture alle frontiere

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    Il Global Gateway dell’Ue implementato con 4 miliardi di euro mobilitati da Commissione e Banca Europea per Investimenti

    Bruxelles – Un’intesa decisiva per iniziare a sbloccare tutto il potenziale del Global Gateway, la strategia dell’Ue per le infrastrutture sostenibili a livello globale. La Commissione Europea e la Banca Europea per gli Investimenti (Bei) hanno firmato oggi (28 febbraio) una serie di accordi da 4 miliardi di euro complessivi per sostenere le imprese dei Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico fino al 2027. “L’accordo di oggi è un’altra pietra miliare nel progresso della priorità strategica del Global Gateway”, ha confermato la commissaria per i Partenariati internazionali, Jutta Urpilainen, presentando la mobilitazione di finanziamenti pubblici e privati “in settori chiave come la digitalizzazione, il clima e l’energia, i trasporti e la salute” nei Paesi partner in tutto il mondo.
    “La mobilitazione del settore privato è fondamentale per lo sviluppo sostenibile dei Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico”, ha aggiunto la commissaria parlando degli accordi siglati dall’esecutivo comunitario e dalla Bei. Nello specifico i 4 miliardi si compongono di un accordo di garanzia fino a 3,5 miliardi di euro in prestiti e di un contributo del Fondo fiduciario da 500 milioni di euro. Un esempio delle possibilità di investimento attraverso l’accordo di garanzia è il Green African Agricultural Value Chain Facility, che fornisce finanziamenti agli intermediari dell’Africa subsahariana per la concessione di prestiti alle piccole e medie imprese nelle catene del valore agroalimentari. Il Fondo fiduciario, invece, andrà a sostenere la costruzione di piccole centrali elettriche a energia rinnovabile, per consentire l’approvvigionamento autonomo di elettricità in aree remote non collegate alla rete.

    A che punto siamo con il Global Gateway
    Le intese da 4 miliardi di euro vanno ad aggiungersi all’accordo di garanzia da 26,7 miliardi di euro firmato da Ue e Bei nel maggio del 2022. Primi mattoni posti nell’Ue per dare concretezza alla strategia da 300 miliardi di euro che risale al dicembre 2021, in risposta alla Belt and Road Initiative della Cina e per rispondere alle sfide globali della transizione verde, della connettività digitale e dell’accesso alla salute pubblica. L’obiettivo del Global Gateway è proprio quello di veicolare un aumento degli investimenti in progetti locali, per “promuovere valori democratici, buona governance, trasparenza e partenariati equi”, mettendo in contatto istituzioni finanziarie e di sviluppo degli Stati membri, la Bei e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers).
    Metà degli sforzi d’investimento del Global Gateway hanno come punto focale i progetti di sviluppo che riguardano il continente africano. Circa 150 miliardi di euro che, come confermato al vertice Ue-Unione Africana di un anno fa dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, saranno indirizzati a potenziare le transizioni verde e digitale. Sul piano energetico, nello specifico, la volontà è quella di dare una spinta decisiva al potenziale verde del continente africano tra sole, vento e idroelettrico, attraverso la piena decarbonizzazione e il traguardo del cento per cento rinnovabile. In questo senso va letto anche il progetto della Grande Muraglia Verde contro desertificazione, effetti dei cambiamenti climatici e crisi alimentare in Africa, aspetti imprescindibili del Global Gateway. La stessa presidente von der Leyen ha definito la Grande Muraglia Verde un “baluardo contro l’insicurezza alimentare e il cambiamento climatico”, per cui la Banca Europea per gli Investimenti potrebbe presto svolgere un ruolo decisivo per la sua implementazione con il sostegno a progetti imprenditoriali concreti.

    Gli accordi di investimento consistono di un accordo di garanzia fino a 3,5 miliardi in prestiti e di un contributo del Fondo fiduciario di 500 milioni, a sostegno delle imprese dei Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico fino al 2027: “Il settore privato è fondamentale per lo sviluppo sostenibile”

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    Le aziende del Belgio non lasciano la Russia: ce ne sono ancora 240

    Bruxelles – Solo una dozzina di aziende belghe hanno lasciato la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Nel marzo 2022, c’erano circa 240 aziende belghe con una o più filiali in Russia, e oggi, questo numero non è quasi cambiato.
    Come reazione all’ aggressione russa, molte aziende internazionali hanno deciso di lasciare quel mercato, mentre altre continuano a fare affari come sempre. Le tasse pagate da queste aziende concorrono a permettere al governo russo di finanziare la guerra in Ucraina.
    Quasi un anno fa, il produttore di birra AB InBev ha annunciato che si sarebbe ritirato dalla Russia. Non l’ha ancora fatto. Per quasi un anno, AB InBev ha negoziato con Efes la sua uscita dalla joint venture, ma senza successo. Anche il produttore di vetro AGC Europe e il produttore di porte e finestre Deceuninck affermano di essere in procinto di uscire, ma sono ancora lì, sottolonea l’agenzia di stampa Belga.
    Non tutte le aziende sono convinte della necessità della loro uscita. Il produttore di silicone Soudal rientra nella categoria di quelle che prendono tempo, così come il panettiere La Lorraine e il produttore di fili d’acciaio Bekaert. Il produttore di pannolini Ontex e l’azienda alimentare Puratos non hanno nemmeno intenzione di partire. Continueranno a operare in Russia, motivando la loro decisione con il fatto che forniscono prodotti essenziali.
    Questo tipo di decisioni non sono apprezzate dalla comunità internazionale. Recentemente l’azienda olandese Heineken è stata sommersa da reazioni negative, in quanto è emerso che il produttore di birra ha lanciato non meno di 61 nuovi prodotti sul mercato russo l’anno scorso, mentre aveva appena promesso di smettere di investire lì a causa della guerra in Ucraina.
    Il Belgio fa resistenze anche alle sanzioni sui diamanti russi.  Ad oggi i non sono inseriti nell’elenco dei beni oggetto dei dieci pacchetti di sanzioni europee verso Mosca, soprattutto a causa delle resistenze belghe. Anversa, la capitale delle Fiandre, è il principale punto di arrivo dei diamanti in Europa, inclusi quelli dalla Russia, che nel 2021 ammontavano a circa un quarto del totale.

    Alcune dicono di volerlo fare ma di non esserci riuscite per motivi societari. Altre non hanno intenzione di lasciare il mercato. Anversa riesce a tenere fuori i diamanti anche dal decimo pacchetto di sanzioni contro Mosca

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    Cosa prevede la proposta Ue in 11 punti accettata da Serbia e Kosovo per la normalizzazione dei loro rapporti

    Bruxelles – C’è il via libera delle parti, ora servirà un intenso lavoro per l’implementazione e la firma dell’accordo definitivo. A Bruxelles è scattato ieri sera (27 febbraio) il semaforo verde all’ultimissima versione di quella che fu la proposta franco-tedesca per la normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia e che oggi è a tutti gli effetti una proposta Ue perché, come puntualizzato dall’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, “tutti i 27 Paesi membri l’hanno appoggiata”. Compresi i cinque che non riconoscono l’indipendenza del Kosovo (Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia).
    Da sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti (27 febbraio 2023)
    Un totale di 11 punti, due in più rispetto alla versione di partenza dello scorso settembre, che dovranno regolare i rapporti futuri tra i due Paesi balcanici. L’intesa politica tra il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti – esplicita a Bruxelles, ma più o meno tacita in patria per tutte le sue implicazioni nei due Paesi – è sicuramente un passo in avanti rispetto agli altri sei vertici di alto livello svoltisi a Bruxelles dal 2019 a ieri. Tuttavia l’attenzione è già rivolta al prossimo incontro di metà marzo, quando si dovranno prendere decisioni pratiche per mettere a terra gli impegni di principio sanciti negli 11 punti della proposta Ue dal titolo Agreement on the path to normalization between Kosovo and Serbia.
    Il testo della proposta Ue sui rapporti Kosovo-Serbia
    Leggendo il testo della proposta Ue è palese la ripresa della base di partenza franco-tedesca, sviscerata con i risultati di cinque mesi di confronto diplomatico tra Bruxelles, Pristina e Belgrado. L’articolo 1 si imposta sull’incipit originario “le Parti sviluppano tra loro relazioni normali e di buon vicinato sulla base della parità di diritti”, ma aggiunge che i due Paesi dovranno anche “riconoscere reciprocamente i rispettivi documenti e simboli nazionali, compresi passaporti, diplomi, targhe e timbri doganali”. Un evidente richiamo a quanto accaduto rispetto alle tensioni nel nord del Kosovo tra fine luglio e dicembre per l’imposizione delle targhe kosovare alla minoranza serba.
    Sparito dall’articolo 2 il riferimento alle reciproche aspirazioni all’adesione all’Ue, sostituito dagli “obiettivi e principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite, in particolare quelli dell’uguaglianza sovrana di tutti gli Stati, del rispetto della loro indipendenza, autonomia e integrità territoriale, del diritto all’autodeterminazione, della tutela dei diritti umani e della non discriminazione”. Rimane implicito il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo dalla Serbia (in vigore unilateralmente dal 17 febbraio 2008), rafforzato dal punto 4: “Le Parti partono dal presupposto che nessuna delle due può rappresentare l’altra nella sfera internazionale o agire per suo conto”. La nuova aggiunta di peso è il paragrafo che precisa senza ambiguità che “la Serbia non si opporrà all’adesione del Kosovo a nessuna organizzazione internazionale“. Eventuali controversie dovranno essere risolte “esclusivamente con mezzi pacifici” e astenendosi “dalla minaccia o dall’uso della forza”, precisa l’articolo 3.
    Il riferimento al ruolo dell’Ue trova invece spazio nei due punti successivi. L’articolo 5 mette nero su bianco che “nessuna delle due Parti bloccherà, né incoraggerà altri a bloccare” – un richiamo tra le righe ai membri Ue contrari all’adesione del Kosovo, ma anche allo stretto rapporto tra Serbia e Ungheria – “i progressi dell’altra Parte nel rispettivo cammino verso l’Ue sulla base dei propri meriti”. L’articolo 6 aggiunge che Pristina e Belgrado “proseguiranno con nuovo slancio il processo di dialogo guidato dall’Ue che dovrebbe portare a un accordo giuridicamente vincolante sulla normalizzazione globale delle loro relazioni“. Più nello specifico serviranno “accordi aggiuntivi” sulla “futura cooperazione nei settori dell’economia, della scienza e della tecnologia, dei trasporti e della connettività, delle relazioni giudiziarie e delle forze dell’ordine, delle poste e delle telecomunicazioni, della sanità, della cultura, della religione, dello sport, della tutela dell’ambiente, delle persone scomparse, degli sfollati “.
    I comuni interessati dall’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, come previsto dall’accordo del 2013
    L’articolo 7 sviluppa il punto precedente, ma focalizzandosi sui diritti della minoranza serba in Kosovo. Anche in questo caso non è esplicito il riferimento all’Associazione delle municipalità serbe nel Paese prevista dall’accordo del 2013 (mai implementato), ma non è difficile leggere le condizioni che Pristina dovrà accettare. Gli “accordi e garanzie specifiche” per “assicurare un livello adeguato di autogestione per la comunità serba in Kosovo e la capacità di fornire servizi in settori specifici” si baseranno su “strumenti pertinenti del Consiglio d’Europa e attingendo alle esperienze europee esistenti”. È prevista anche la possibilità di un “sostegno finanziario da parte della Serbia e un canale di comunicazione diretto per la comunità serba con il governo del Kosovo”, ma anche una formalizzazione dello status della Chiesa serbo-ortodossa in Kosovo e un “forte livello di protezione ai siti del patrimonio religioso e culturale serbo” nel Paese confinante.
    L’articolo 8 riprende integralmente lo stesso punto della proposta franco-tedesca: “Le Parti si scambiano missioni permanenti, che saranno istituite presso la sede del rispettivo governo” e “le questioni pratiche relative all’istituzione delle missioni saranno trattate separatamente”. Prima della precisazione all’articolo 10 che Pristina e Belgrado “confermano l’obbligo di attuare tutti i precedenti accordi di dialogo, che restano validi e vincolanti” sotto l’egida di un “comitato congiunto presieduto dall’Ue per il monitoraggio dell’attuazione del presente accordo” – che riprende e amplia l’ultimo punto della versione di partenza della proposta di mediazione – a Bruxelles è stato deciso di inserire un altro articolo. Quello che ricorda e rafforza “l’impegno dell’Ue e di altri donatori a creare un pacchetto speciale di investimenti e di sostegno finanziario per i progetti comuni delle Parti in materia di sviluppo economico, connettività, transizione ecologica e altri settori chiave”.
    L’ultimo punto è quello su cui ci sarà più da lavorare, perché è la vera chiave di volta di tutta l’intesa: “Le Parti si impegnano a rispettare la tabella di marcia per l’attuazione allegata al presente Accordo“. Il testo dell’allegato non è pubblico, fonti diplomatiche a Bruxelles spiegano a Eunews che al momento dovrebbe rimanere riservato per una serie di motivazioni non meglio specificate (ma intuibili, considerato il delicato equilibrio per raggiungere un accordo definitivo tra Pristina e Belgrado). È certo però che sui dettagli di questo documento di implementazione dell’intesa si concentrerà il lavoro delle prossime settimane, in attesa del nuovo faccia a faccia tra Vučić, Kurti e i negoziatori Ue a metà marzo.

    Rimangono impliciti (ma evidenti nelle implicazioni pratiche) il riconoscimento dell’indipendenza di Pristina da Belgrado e l’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo. Sarà decisivo il rispetto della tabella di marcia allegata per l’implementazione dell’accordo

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    I leader di Serbia e Kosovo hanno accettato la proposta Ue per normalizzare i rapporti. Ora dovrà essere implementata

    Bruxelles – È l’ultimo chilometro, quello in cui la meta si vede, sembra vicinissima, ma allo stesso tempo quello più difficile, in cui fallire può diventare la più grande débâcle. Questo è il punto in cui si trova il dialogo mediato dall’Unione Europea per la normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo, proprio oggi (27 febbraio) in cui si è assistito a uno dei momenti più decisivi degli ultimi anni. Perché per la prima volta da quando esiste il dialogo Pristina-Belgrado i leader dei due Paesi balcanici hanno accettato la proposta di mediazione dell’Ue che spiana la strada verso un accordo definitivo.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier del Kosovo, Albin Kurti (27 febbraio 2023)
    Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, “hanno concordato che non serviranno altre discussioni sulla proposta dal titolo Agreement on the path to normalization between Kosovo and Serbia” è l’annuncio soddisfatto alla stampa dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, al termine degli incontri durati tutto il pomeriggio. Dopo la presentazione per la proposta franco-tedesca nel settembre dello scorso anno, “ci siamo impegnati in un’intensa diplomazia navetta” a Bruxelles, con il rappresentante speciale per il dialogo Pristina-Belgrado, Miroslav Lajčák, volato “dieci volte a Pristina e otto a Belgrado”. Oggi si può parlare di una proposta Ue – il cui testo “sarà pubblicato a breve” dal Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) – perché “tutti i 27 Paesi membri l’hanno appoggiata al livello più alto possibile all’ultimo Consiglio Europeo” e i due leader balcanici “si sono mostrati favorevoli ad accettare soluzioni sostenibili”.
    Siamo ancora all’ultimo chilometro, e non al traguardo, perché ciò che manca è l’implementazione di un accordo politico a tutti gli effetti. “Abbiamo una lunga storia di accordi non implementati, ma le parti hanno confermato di essere pronte a farlo in modo rapido”, ha rassicurato l’alto rappresentante Ue, con implicito riferimento all’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo stabilita nell’accordo di Bruxelles del 2013 e ancora al centro delle polemiche per la mancata istituzione: “L’Ue ha ricordato l’obbligo di implementare tutti gli accordi già firmati, che rimangono validi e vincolanti”. Nel frattempo “la diplomazia navetta continuerà”, con il rappresentante speciale Lajčák che “continuerà le discussioni a Belgrado e Pristina” e Borrell che convocherà “un nuovo incontro di alto livello tra i due leader a metà marzo“. L’obiettivo è proprio quello di “completare le discussioni” sulla chiave di volta di tutta l’intesa raggiunta oggi: “L’allegato di implementazione, che è parte dell’accordo, ma deve ancora essere finalizzato“.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    La parola d’ordine di Borrell è “fiducia reciproca”, soprattutto sulle promesse di astenersi da “azioni non coordinare che potrebbero portare nuove tensioni sul campo e far deragliare i negoziati” sull’accordo definitivo di normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. L’intesa “non è utile tanto per l’Ue, quanto piuttosto per i cittadini di Kosovo e Serbia”, è l’ennesimo esortazione di Borrell al buon senso. Si parla di “libertà di movimento utilizzando il proprio passaporto e le proprie targhe, reciprocamente riconosciuti”, di “possibilità economiche, assistenza finanziaria, cooperazione imprenditoriale e nuovi investimenti”. Di più “opportunità di lavoro, senza burocrazia inutile, e di commercio, perché i certificati di import ed export non saranno più un problema”. Di più “sicurezza, certezza e prevedibilità” sulla protezione dei diritti della minoranza serba in Kosovo, “compresa la Chiesa ortodossa e i siti culturali e archeologici”. Di un nuovo futuro di rapporti pacifici tra i due vicini balcanici, dopo la tragedia del conflitto etnico tra il 1998 e il 1999.
    I 12 anni di dialogo tra Kosovo e Serbia
    Era l’8 marzo 2011 quando le delegazioni della Serbia e del Kosovo si sedevano per la prima volta al tavolo del dialogo dell’Ue, per trovare una soluzione sul mantenimento della stabilità dei Balcani occidentali dopo lo scossone della dichiarazione di indipendenza unilaterale di Pristina da Belgrado di tre anni prima. In sette mesi di negoziati a Bruxelles si è arrivati a una serie di accordi: fine dell’embargo commerciale, riconoscimento dei timbri doganali kosovari, possibilità di varcare il confine tra i due Stati per i cittadini e condivisione dei registri catastali e dei documenti su nascite, morti e matrimoni. È seguito poi un altro altro anno e mezzo di accordi tecnici, per risolvere le questioni più urgenti a livello commerciale, burocratico e diplomatico.
    Il 2013 ha segnato l’inizio del dialogo Serbia-Kosovo di alto livello. A due anni dall’inizio dei negoziati si è arrivati al successo della firma dell’Accordo sui principi che disciplinano la normalizzazione delle relazioni, il 19 aprile del 2013. Da quel momento sono potuti così iniziare i lavori per siglare l’Accordo di stabilizzazione e associazione con Pristina e i negoziati di adesione all’Unione per Belgrado. Non sono stati affrontati però i due temi più urgenti per implementare l’accordo di Bruxelles: il riconoscimento della sovranità del Kosovo da parte di Belgrado e la creazione della Comunità delle municipalità serbe nel Paese con il benestare di Pristina. Dal 2014 è iniziato un periodo di tensione e interruzioni continue dei lavori, fino al congelamento del dialogo nel novembre del 2018 a causa della decisione del governo kosovaro di introdurre dazi maggiorati del 100 per cento sulle merci provenienti da Serbia e Bosnia ed Erzegovina.
    Lo stallo per le relazioni tra i due Paesi è durato 20 mesi, fino a quando il presidente serbo Vučić e l’ex-premier kosovaro, Avdullah Hoti, sono tornati per tre volte ai tavoli dei negoziati tra il 12 luglio e il 7 settembre del 2020. A esacerbare nuovamente i rapporti tra le due parti ha contributo l’elezione del governo nazionalista di Kurti nel febbraio del 2021, che ha alzato il livello di tensione retorica con l’altrettanto nazionalista Vučić. Ecco perché dopo due infruttuosi vertici a Bruxelles il dialogo si è bloccato di nuovo sotto i colpi della cosiddetta battaglia delle targhe tra i due Paesi, scatenata dalla decisione del governo di Pristina di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro.
    Una questione che ha infiammato anche la seconda metà del 2022, con blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara a fine luglio, altre due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles e le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali a inizio novembre. Parallelamente agli intensi colloqui per trovare una soluzione di compromesso sulle targhe (raggiunta nella notte tra il 23 e il 24 novembre), Francia e Germania hanno dato una spallata decisiva per portare a termine il dialogo Pristina-Belgrado con la proposta in 9 punti (aggiornata e assorbita dai negoziatori europei alla vigilia del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana). Le continue fiammate tra le due parti negli ultimi mesi – sia sul piano diplomatico, sia con nuove barricate a inizio dicembre – hanno suggerito che l’accordo era sempre più vicino: entrambi gli attori politici – marcatamente nazionalisti – hanno esasperato la propria retorica per uscire dai negoziati con un compromesso più favorevole. Il via libera all’intesa definitiva tra Kosovo e Serbia a Bruxelles oggi ha confermato pienamente questo scenario, in attesa di portare a termine l’ultimissimo chilometro.

    Il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, hanno dato il via libera alla proposta avanzata Bruxelles e sostenuta da tutti i Paesi membri dell’Unione. A metà marzo un nuovo vertice di alto livello per portare a termine gli allegati all’accordo ancora non finalizzati

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    L’Ue accoglie la nomina di 3 giudici della Corte Costituzionale del Montenegro: “Riforme per avanzare sul percorso europeo”

    Bruxelles – Un passo in avanti per scongiurare una crisi istituzionale cronica che porterebbe a un pericoloso stop del Montenegro nella sua strada verso l’adesione all’Unione Europea. Dopo mesi di stallo, l’Assemblea del Montenegro è riuscita oggi (27 febbraio) a eleggere tre dei quattro giudici della Corte Costituzionale vacanti, condizione di base per ripristinare la piena funzionalità dell’istituzione montenegrina e per continuare il percorso europeo del Paese. Un accordo arrivato al termine di un “dialogo politico duro, lungo ma fruttuoso, che ha prodotto oggi dei risultati”, ha sottolineato con forza la presidente dell’Assemblea nazionale, Danijela Đurović, esultando per la “ripartenza del nostro viaggio nell’Ue, perché il Montenegro vi appartiene”.
    Da sinistra: il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e il presidente del Montenegro, Milo Đukanović
    “Accolgo con grande favore la nomina dei giudici della Corte Costituzionale mancanti da parte dell’Assemblea del Montenegro, è un passo davvero importante verso un sistema giudiziario pienamente funzionante“, è il commento del presidente del Consiglio Ue, Charles Michel: “Garantire istituzioni adeguate e stabili è fondamentale, così come lo sono riforme credibili dell’Ue, in modo che il Montenegro possa avanzare sul percorso europeo”. Analisi simile quella presentata dal commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, che ha voluto anche ricordare che “ora ci sono tutte le condizioni per organizzare le elezioni presidenziali e generali“. Proprio a questo proposito è utile ricordare che il prossimo 19 marzo gli elettori montenegrini si recheranno alle urne per scegliere il prossimo presidente della Repubblica, carica ricoperta dal 2018 da Milo Đukanović (e precedentemente dal 1998 al 2022).
    “Questo è il primo passo per risolvere la crisi costituzionale del Paese, invitiamo tutti gli attori politici a lavorare insieme per il futuro europeo del Montenegro”, è l’esortazione del relatore del Parlamento Europeo per il Montenegro, Tonino Picula (S&D), a cui ha fatto eco il presidente della delegazione alla commissione parlamentare di stabilizzazione e associazione Ue-Montenegro, Vladimír Bilčík (Ppe): “La cultura del dialogo e del compromesso al di là delle linee di partito è l’unica strada da percorrere per progredire sulla via dell’Ue”. L’obiettivo ora deve essere “l’elezione rapida del quarto giudice” mancante, ha precisato l’eurodeputato slovacco.
    La crisi istituzionale in Montenegro
    Da sinistra: il primo ministro del Montenegro, Dritan Abazović, e il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    La nomina dei giudici è di cruciale importanza se si considera lo scenario istituzionale particolarmente critico nel Paese che a Bruxelles è considerato il più avanzato sulla strada di adesione all’Ue tra i 10 che sono coinvolti nel processo di allargamento dell’Unione. La vacanza dei membri della Corte Costituzionale si accompagna da mesi a una contestatissima legge sugli obblighi del presidente nella nomina dell’esecutivo. Considerato il fatto che la Corte Costituzionale è l’unico organismo istituzionale che può valutare nel merito la legge, senza la sua piena funzionalità non è possibile considerare il voto dell’Assemblea nazionale in linea con la raccomandazione della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che ha un ruolo-chiave nell’adozione di Costituzioni conformi agli standard europei.
    Eppure l’iter di approvazione della legge è proseguito lo stesso a Podgorica. Dopo il primo via libera di inizio novembre la tensione è aumentata esponenzialmente fino al voto decisivo di un mese più tardi. La legge permetterebbe ai parlamentari di firmare una petizione per la designazione di un primo ministro (con il supporto della maggioranza assoluta, cioè 41), nel caso in cui il presidente si rifiutasse di proporre un candidato: in caso di assenza della maggioranza, lo stesso presidente avrà l’obbligo di organizzare un secondo giro di consultazioni con i partiti e proporre un candidato. Al contrario, secondo la Costituzione del Montenegro il presidente ha solo il dovere di organizzare le consultazioni e proporre un premier designato con il sostegno firmato di almeno 41 parlamentari entro un massimo di 30 giorni. Lo scorso 20 settembre il numero uno del Paese Đukanović ha proposto di tornare alle urne, dopo essersi rifiutato di confermare come nuovo primo ministro il leader dell’Alleanza Democratica (Demos), Miodrag Lekić, a causa del ritardo nella presentazione delle 41 firme a suo sostegno.
    La crisi politica a Podgorica
    Tutto questo mentre dal 2020 il Paese vive in una costante crisi politica. Con le elezioni del 30 agosto 2020 in Montenegro erano cambiati gli equilibri politici dopo 30 anni di governo ininterrotto del Partito Democratico dei Socialisti (Dps) del presidente Đukanović. Al potere era andata per poco più di un anno una colazione formata dai filo-serbi di ‘Per il futuro del Montenegro’ (dell’allora premier, Zdravko Krivokapić), dai moderati di ‘La pace è la nostra nazione’ (dell’ex-presidente del Parlamento, Aleksa Bečić) e dalla piattaforma civica ‘Nero su bianco’, dominata dal Movimento Civico Azione Riformista Unita (Ura) di Dritan Abazović. Il 4 febbraio dello scorso anno era stata proprio la piattaforma civica ‘Nero su bianco’ a togliere l’appoggio al governo Krivokapić, appoggiando una mozione di sfiducia dell’opposizione e aprendo la strada a un governo di minoranza guidato da Abazović. L’obiettivo dichiarato dell’esecutivo inaugurato a fine aprile era quello di preparare le elezioni per la primavera del 2023, esattamente ciò che continuano ad augurarsi le istituzioni comunitarie.
    Lo stesso governo Abazović è però crollato il 19 agosto (il più breve della storia del Paese) con la mozione di sfiducia dei nuovi alleati del Dps di Đukanović, a causa del cosiddetto ‘accordo fondamentale’ con la Chiesa ortodossa serba. L’intesa per regolare i rapporti reciproci – con il riconoscimento della presenza e della continuità della Chiesa ortodossa serba in Montenegro dal 1219 – è stato appoggiato dai partiti filo-serbi, mentre tutti gli altri l’hanno rigettato, perché considerato un’ingerenza di Belgrado nel Paese e un ostacolo per la strada verso l’adesione all’Ue. Da allora Abazović è premier ad interim, mentre si è aggravata l’instabilità politica e istituzionale, con tentativi di ricreare la maggioranza Krivokapić e appelli al ritorno alle urne. Alle prossime elezioni presidenziali ci sarà da fare attenzione al nuovo movimento europeista non rappresentato in Parlamento, Europe Now, al primo vero banco di prova nazionale dopo il secondo posto alle amministrative di ottobre 2022 a Podgorica (21,7 per cento dei voti e 13 seggi su 58 in Assemblea cittadina).

    Dopo mesi di stallo e crisi istituzionale, è arrivato il via libera del Parlamento nazionale: ora manca l’intesa per il quarto (e ultimo) posto vacante per rendere “pienamente funzionante” l’organo costituzionale. E il 19 marzo si terranno le cruciali elezioni presidenziali