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    Georgia, nuovo richiamo Ue: “Ulteriore allontanamento da democrazia ed Europa”

    Bruxelles – Unione europea e Georgia sempre più distanti e sempre più ai ferri corti. “Stiamo assistendo a ulteriori passi di allontanamento delle autorità georgiane dagli standard democratici” e di conseguenza dall’Ue, la denuncia dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Kaja Kallas, in risposta agli ultimi sviluppi nel Paese caucasico a cui è stato congelato il processo di adesione proprio per effetto del deterioramento della situazione.“L’adozione affrettata di emendamenti al Codice sui reati amministrativi, al Codice penale e alla Legge sulle assemblee e le manifestazioni avrà effetti di vasta portata sulla società georgiana”, lamenta ancora Kallas. Questi interventi legislativi “comprometteranno in modo significativo i diritti alla libertà di espressione, alla libertà di riunione e alla libertà dei media”. Da qui la richiesta ufficiale al governo di Tblisi di “sospendere queste misure, ad astenersi da ulteriori tensioni e ad attendere il parere dell’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’Osce (Odihr)“.L’Alto rappresentante lo ribadisce un volta di più: così facendo la Georgia si gioca le sue chance di adesione all’Unione europea. “Questi sviluppi segnano una grave battuta d’arresto per lo sviluppo democratico della Georgia e non sono all’altezza delle aspettative di un paese candidato all’Ue“, continua Kallas, che esorta anche a “rilasciare tutti i giornalisti, gli attivisti e i detenuti politici detenuti ingiustamente”. Tra questi anche Mzia Amaglobeli, considerato a Bruxelles “un altro esempio del modo in cui le autorità trattano i giornalisti e chiunque parli liberamente”. Dall’Ue un nuovo invito anche ad “un dialogo con tutte le forze politiche e i rappresentanti della società civile”. Le pressioni dell’Unione europea sulla Georgia continueranno. L’Aula del Parlamento europeo ha in calendario (giovedì 13 febbraio) il voto della risoluzione di condanna per la repressione delle manifestazioni anti-governative e le voci critiche nei confronti dell’attuale leadership georgiana. Un testo non vincolante, ma che serve a mantenere pressioni e distanze con un partner che non c’è più.

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    Dazi, clima, diritto internazionale: Trump detta l’agenda del Parlamento europeo

    Bruxelles – Commercio, innovazione e competitività, salute. Praticamente Donald Trump in tutte le sue declinazioni più una, l’ultima: l’attacco del presidente degli Stati Uniti alla Corte penale internazionale. L’inquilino della Casa Bianca irrompe nei lavori di un Parlamento europeo che finisce col disegnare la propria agenda attorno a quella di Trump, oggetto di tre diversi dibattiti d’Aula. La sessione plenaria prevede la questione dazi (martedì 11 febbraio alle 9), restrizione all’export di chip verso l’Ue (martedì 11 febbraio alle 18), ritiro dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dall’accordo sul clima (mercoledì 12 febbraio alle 16): il Parlamento europeo ruota attorno alle dichiarazioni e alle minacce del presidente Usa.C’è chiaramente la questione dazi a tenere banco, con il diffuso timore, tra i diversi gruppi, che si possa innescare una guerra commerciale che non gioverebbe a nessuno. L’approccio generale e condiviso tra le diverse anime dell’Aula, è quello di cercare di evitare quanto più possibile di arrivare ad avere sovra-costi statunitensi ai beni europei, ma di essere pronti a rispondere. I socialisti vorrebbero in particolare che la Commissione europea mettesse a punto già delle contromisure, così da avere una risposta “tempestiva e decisa” in caso di scenario peggiore.Per Popolari (Ppe) e conservatori (Ecr) la priorità resta la cooperazione per quello che si continua a considerare un partner strategico e di lungo corso. “Su Trump attendiamo, sappiamo che è un grande mediatore”, confida Denis Nesci (Fdi/Ecr), che conferma come “siamo in fase di dibattito”, e quindi “dobbiamo essere pronti a quello che può succedere ma attendere”. I Verdi vorrebbero una risposta unita e non procedere in ordine sparso, come spiega Ignazio Marino (Europa Verde/Verdi): “Su Trump purtroppo l’Europa si sta dimostrando debole e divisa”, e quindi “il bullo prevale”.Ma è il dibattito del 12 febbraio – senza risoluzioni – che rischia di infiammarsi ancora di più, perché alle questioni Oms e la seconda uscita dagli accordi di Parigi sul clima si aggiungono le minacce di sanzioni alla Corte penale internazionale. Uscite, queste ultime, che infiammano già il dibattito che verrà. “Trump sta invitando alla pulizia etnica a Gaza, e ora attacca la Corte penale internazionale, con Ursula von der Leyen che non fa niente“, le critiche che piovono da laSinistra nei confronti della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. “La Corte penale internazionale è un luogo quasi sacro che deve essere tutelato”, tuona Valentina Palmisano (M5S), convinta delle necessità della “protezione del diritto internazionale anche alla luce delle ultime dichiarazioni di Trump”Mentre la portavoce del gruppo dei socialisti fa notare come nonostante un’agenda dalla forte connotazione di politica estera (si parla anche del terzo anno di guerra russo-ucraina, disordini e proteste in Serbia, deterioramento della situazione in Georgia), critica l’assenza dell’Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza dell’Ue, Kaja Kallas. “Sarebbe stato bello averla in Aula”, commemta.Infine le restrizioni degli Stati Uniti alle esportazioni di chip utili alla doppia transizione. Il nuovo regime voluto da Trump avrà ripercussioni per 17 Stati membri su 27 (Austria, Bulgaria, Cipro, Croazia, Estonia, Grecia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Ungheria), e questo rende il dibattito necessario per organizzare una risposta.  Neppure in questo caso sono previste risoluzioni. Si vuole censurare Trump, senza censurare Trump. Che impone la sua agenda nell’agenda del Parlamento europeo

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    Macron invita a Parigi il nuovo leader siriano Ahmed al-Shara’

    Bruxelles – La Francia potrebbe essere il primo Paese occidentale ad accogliere il nuovo presidente ad interim della Siria, Ahmed al-Shara’. Almeno, questo è quanto trapela da Damasco, visto che l’Eliseo non ha ancora ufficialmente confermato l’invito. È probabile che l’occasione della visita sarà la conferenza internazionale sul futuro del Paese mediorientale, che si terrà a Parigi il prossimo 13 febbraio.Non si è ancora posato del tutto il polverone causato dall’improvvisa (e inattesa) caduta del regime sanguinario di Bashar al-Assad, rovesciato a inizio dicembre dalle milizie salafite di Hay’at Tahrir al-Sham (Hts, letteralmente “Comitato per la liberazione del Levante”) guidate da Ahmed al-Shara’, altrimenti noto col nome di battaglia Abu Mohammed al-Jolani (che lui ha però chiesto ai suoi interlocutori di non utilizzare).Ma la “nuova Siria” sta già godendo, se non di un reset totale delle sue relazioni internazionali, almeno di un’importante apertura di credito. A fine gennaio, ad esempio, i ministri degli Esteri dei Ventisette hanno concordato di allentare gradualmente alcune parti dell’ampio regime sanzionatorio che l’Ue aveva imposto contro il Paese levantino, anche se è ancora presto per i dettagli tecnici.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza comune, Kaja Kallas (foto: European Council)Il canale diretto con ParigiE ieri (5 febbraio), il nuovo padrone della Siria post-Assad ha sentito al telefono il presidente francese Emmanuel Macron, aprendo così il suo primo canale diretto con un leader europeo. L’inquilino dell’Eliseo, si legge in un comunicato ufficiale, ha discusso con il suo omologo “della necessità di proseguire la lotta al terrorismo, a beneficio del popolo siriano e della sicurezza della nazione francese“, esprimendo la disponibilità di Parigi “a sostenere la transizione” in corso e auspicando che quest’ultima “possa soddisfare pienamente le aspirazioni del popolo siriano“.Quello che Macron ha invece omesso di annunciare, almeno stando ai media transalpini, è di aver invitato al-Shara’ a recarsi personalmente a Parigi “nelle prossime settimane”. A riferirlo, al posto dell’Eliseo, è stato l’ufficio della presidenza siriana. Si tratterebbe del primo incontro con un leader occidentale, che fa seguito a quelli coi vicini regionali: negli scorsi giorni, dopo aver ricevuto l’emiro del Qatar, al-Shara’ ha viaggiato in Arabia Saudita e in Turchia.Ricostruzione e migrazioniIl messaggio che il nuovo presidente ad interim sta portando in lungo e in largo è che le due priorità del nuovo corso da lui inaugurato sono la stabilità e la ricostruzione del Paese. Quest’ultima, evidentemente, sarà un business gigantesco. E proprio di questo, tra le altre cose, si parlerà il prossimo 13 febbraio alla Conferenza internazionale sulla Siria, che sarà ospitata proprio nella capitale transalpina.Il presidente francese Emmanuel Macron (foto: Stephane De Sakutin/Afp)Al di là dei paroloni sulla transizione democratica e inclusiva che al-Shara’ sostiene di voler portare avanti, è evidente che una questione centrale nei futuri rapporti tra Damasco e Bruxelles sarà la gestione dei flussi migratori, eterna spina nel fianco delle cancellerie europee. Le quali stanno aspettando, proprio in queste settimane, la proposta dell’esecutivo comunitario sui famigerati “centri di rimpatrio” extra-Ue, per deportare nei Paesi terzi i rifugiati che non intendono accogliere sul proprio territorio e sui quali l’Agenzia europea per i diritti fondamentali (Fra) ha suonato giusto oggi un flebile campanello d’allarme.Geopolitica e sicurezzaIn più, c’è la dimensione geo-strategica. Da un lato, la Siria – martoriata da oltre un decennio di devastante guerra civile, durante la quale al-Assad non ha esitato a usare le armi chimiche contro i suoi stessi cittadini, e lacerato dall’esperienza dello Stato islamico (cui peraltro l’Hts è stata affiliata per un periodo) – è stato storicamente un alleato di ferro della Russia di Vladimir Putin, alla quale forniva notoriamente un accesso al Mediterraneo tramite il porto di Tartus, non distante dal confine col Libano. Lì, Mosca gestiva una base navale che sembra stia ora abbandonando, almeno a giudicare dalle immagini satellitari raccolte a fine gennaio. La sfida, per i partner regionali ed europei della nuova Siria, è quella di far uscire Damasco dall’orbita del Cremlino.Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan (destra) riceve ad Ankara il leader siriano Ahmed al-Shara’, il 4 febbraio 2025 (foto via Imagoeconomica)Dall’altro lato, la questione della sicurezza potrebbe risultare più complessa. Il neo-sultano turco Recep Tayyip Erdoğan, ad esempio, intende continuare a combattere le Forze democratiche siriane (Sdf), una coalizione di milizie che controllano la regione de facto autonoma del Rojava nel nord-est del Paese e la cui formazione principale è l’Unità di protezione popolare (Ypg) curda, che Ankara considera il ramo siriano del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), classificato come organizzazione terroristica.Al contrario, per gli occidentali i curdi rappresentano un prezioso alleato nella lotta al terrorismo jihadista (almeno nominalmente, visto il clamoroso voltafaccia degli Stati Uniti di Donald Trump nel 2019). Per il momento, Macron avrebbe ribadito la “lealtà” della Francia verso di loro. Ma per al-Shara’, alla ricerca di appoggi internazionali più ampli e solidi possibile, si pone ora il problema di come integrarli nello Stato siriano post-dittatoriale.

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    “Gaza parte essenziale del futuro stato palestinese”. L’Ue, alla fine, risponde a Trump

    Bruxelles – “Gaza è una parte essenziale di un futuro stato palestinese“. Alla fine la Commissione europea si esprime pubblicamente. E’ Anouar El Anouni, portavoce della Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, a chiarire la linea e rispondere alle provocazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, deciso a calpestare decenni di faticosi processi di una pace in Medio Oriente che l’Ue vuole. “L’Ue sostiene pienamente la soluzione dei due stati, che riteniamo sia l’unico modo per raggiungere una pace sostenibile sia per gli israeliani che per i palestinesi”, aggiunge il portavoce di Kaja Kallas.La risposta però è tardiva. La Commissione europea impiega qualcosa come 36 ore per commentare le uscite di Trump. Alle parole riecheggiate in Europa nella mattina di mercoledì, 5 febbraio, la prima replica ufficiale e pubblica è affidata a un portavoce poco dopo le 12 del giorno dopo, giovedì 6 febbraio. Una ‘calma’ che offre la riprova dell’incapacità ad agire sui grandi temi e tradendo una volta di più le aspirazioni geopolitiche morte e sepolte comunque da anni.Anouar El Anouni, portavoce dell’Alta rappresentante Ue [Bruxelles, 6 febbraio 2025]Nel frenetico attivismo delle alte sfere Ue, sempre pronte a commentare qualunque cosa e sempre smaniose di apparire, comparire e presenziare, sui mezzi d’informazione e ancor più sui social, si nota l’assenza di commenti da parte della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, come dell’Alta rappresentante Kaja Kallas, incapaci anche di esprimersi sulla volontà dichiarata di Trump di spostare la popolazione di Gaza.La questione è grossa. In Parlamento europeo non mancano malumori tra le file dei gruppi che hanno stretto alleanza con il Ppe. Si vede in von der Leyen e nella sua Commissione “assenza di leadership”. Così riferiscono fonti parlamentari. Prima della ‘questione Gaza’ si imputava all’esecutivo comunitario la mancata reazione all’imperversare di Elon Musk e le sue ingerenze nelle questioni dell’Unione europea tramite il suo social X. Adesso si aggiunge una reazione tardiva sulla questione arabo-israeliana, con la Commissione che, parole del portavoce El Anouni, “prende nota delle dichiarazioni del presidente Trump”. Non proprio una figura delle migliori per chi vorrebbe un ruolo di peso nel mondo e una politica estera europea.

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    Difesa: Ue del tutto impreparata al coordinamento dello spostamento di Forze Armate

    Bruxelles – Secondo le conclusioni di una nuova relazione della Corte dei conti europea, le forze armate degli Stati membri dell’Ue non sono ancora in grado di spostarsi rapidamente a livello transfrontaliero. L’ultimo piano d’azione dell’Unione sulla mobilità militare “ha riscontrato progressi eterogenei a causa di carenze di progettazione, e l’attuazione è tuttora ostacolata”. L’obiettivo di spostare personale, equipaggiamento e attrezzature militari in modo rapido e scorrevole nell’Ue e al di fuori, “anche con breve preavviso e su larga scala, non è stato ancora raggiunto”.Con il ritorno della guerra ad alta intensità nel continente europeo, le priorità in termini di difesa sono cambiate e, pertanto, l’Unione intende prepararsi in modo efficiente a possibili aggressioni future. La politica in materia di mobilità militare si è evoluta dal primo piano d’azione, pubblicato nel 2018. Per la prima volta nella storia, il bilancio per il periodo 2021‑2027 ha riservato un importo dedicato a progetti di infrastrutture di trasporto civili e militari a duplice uso. Tuttavia, rilevano i magistrati contabili, “il punto di svolta è stato la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, che ha reso la necessità strategica dell’Ue di mobilità militare una questione da affrontare con urgenza”. Sotto pressione, è stato pubblicato il secondo piano d’azione nel novembre 2022.“La mobilità militare è fondamentale al fine di rendere la capacità di difesa dell’Ue credibile, e c’è chiaramente bisogno di accelerare il passo. Tuttavia, la mobilità militare non ha ancora raggiunto la velocità massima a causa di strozzature lungo il percorso” – ha affermato Marek Opioła, membro della Corte responsabile della relazione.L’organizzazione dei movimenti militari “potrebbe subire notevoli ritardi per vari motivi, come la burocrazia. Per esempio, lo spostamento di carri armati da un paese dell’Ue a un altro non è possibile se i mezzi superano il peso massimo consentito dalle normative sulla circolazione stradale. In circostanze normali, uno Stato membro dell’Ue necessita attualmente che le autorizzazioni dei movimenti transfrontalieri gli vengano notificate con 45 giorni di anticipo”.La Corte ha riscontrato che la Commissione europea non aveva condotto una valutazione dei bisogni approfondita nella progettazione del piano d’azione 2.0, e non ha quindi potuto effettuare una stima attendibile dei finanziamenti necessari per realizzare i suoi obiettivi. La dotazione totale per la mobilità militare per il periodo 2021‑2027, pari a 1,7 miliardi di euro, “è relativamente modesta, ma gli Stati membri lo hanno accolto come un passo nella giusta direzione. I fondi dell’Ue sono stati resi disponibili rapidamente, il che ha inviato un messaggio politico importante. Tuttavia, poiché la domanda superava di gran lunga l’offerta, la dotazione finanziaria disponibile è terminata a fine 2023”. Di conseguenza, vi sarà un intervallo significativo, di oltre quattro anni, prima che i fondi vengano nuovamente resi disponibili, “il che ostacola la stabilità e la prevedibilità dei finanziamenti”.I fondi devono essere ben mirati perché abbiano impatto, “ma – rileva la Corte – non sono stati presi in considerazione fattori geopolitici e militari nella selezione dei progetti infrastrutturali a duplice uso da finanziare. Inoltre, i progetti sono stati selezionati in modo frammentario, non sempre tenendo conto delle zone più strategiche né del quadro più ampio”. I progetti finanziati erano ubicati principalmente nell’Europa orientale, ma l’Ue non ha finanziato quasi nessun progetto sulla rotta meridionale verso l’Ucraina. Per di più, “l’Unione aveva già selezionato i progetti da finanziare ben prima che fossero stabilite le necessità più urgenti”.I dispositivi di governance per la mobilità militare sono complessi e frammentati, e non presentano alcun punto di contatto. “Ciò – sottolinea la Corte – rende difficile sapere con esattezza chi fa cosa”. Al fine di aiutare l’Ue a fare progressi, la Corte suggerisce di migliorare tali dispositivi e la focalizzazione dell’intervento dell’Ue, oltre a rendere i finanziamenti più prevedibili. Per alleviare le strozzature della mobilità militare, l’Unione può inoltre sfruttare le potenzialità dei fondi attualmente destinati al trasporto civile.

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    Trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente”. Il piano shock che Trump ha esposto a Netanyahu

    Bruxelles – Donald Trump vuole mettere le mani su Gaza e trasformarla nella “Riviera del Medio Oriente”. In una conferenza stampa alla Casa Bianca con il primo ministro d’Israele, Benjamin Netanyahu (su cui pende un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale), il presidente degli Stati Uniti ha esposto un piano che ha tutti i contorni di una vera e propria pulizia etnica. Acclamato immediatamente dall’élite politica israeliana, respinto dai principali alleati di Washington e dai suoi più importanti rivali, Russia e Cina. Da Bruxelles invece, per ora, non trapela nulla.Sono ripresi da pochissimo i negoziati tra Israele e Hamas per limare i dettagli della seconda fase della tregua, che dovrebbe portare alla liberazione di tutti gli ostaggi israeliani e al ritiro completo dell’esercito di Tel Aviv dalla Striscia, ma già il presidente americano rimescola le carte. E l’idea – finora – piace soltanto a Israele. Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti “prenderanno il controllo” della Striscia di Gaza: “Ne saremo proprietari e saremo responsabili dello smantellamento di tutte le pericolose bombe inesplose e di altre armi presenti sul posto”, ha affermato ai cronisti, aggiungendo inoltre che Washington “spianerà” gli edifici distrutti e “creerà uno sviluppo economico che fornirà un numero illimitato di posti di lavoro e di alloggi per la popolazione dell’area”.Di quale popolazione parla Trump non è dato sapere, ma sicuramente non i gazawi: Trump ha affermato che i quasi 2 milioni di palestinesi di Gaza dovrebbero trasferirsi nei Paesi vicini con “cuori umanitari” e “grandi ricchezze”. Ma né la Giordania, né l’Egitto, né tanto meno le monarchie del Golfo hanno mai aperto all’accoglienza della popolazione palestinese di Gaza. Nello scioccante piano della Casa Bianca, da “simbolo di morte e distruzione” la Striscia di Gaza diventerebbe una “Riviera del Medio Oriente”, dove “la gente del mondo” potrebbe andare a vivere.Sfollati palestinesi nella spiaggia di Deir el-Balah, nel centro della Striscia di Gaza (Photo by AFP) Il tycoon newyorkese non ha escluso l’invio di truppe statunitensi per mettere in sicurezza l’enclave palestinese. “Per quanto riguarda Gaza, faremo ciò che è necessario. Se sarà necessario, lo faremo”, ha risposto ad un cronista. Trump ha inoltre annunciato che il prossimo mese prenderà una posizione sulla sovranità israeliana sulla Cisgiordania, aggiungendo che intende visitare la Striscia di Gaza, Israele e l’Arabia Saudita. Il supporto al trasferimento forzato degli abitanti dall’enclave palestinese e l’eventuale riconoscimento dei territori israeliani occupati nella West Bank costituirebbero un drastico cambiamento nell’approccio che Washington – seppur strettissimo alleato di Israele – ha tenuto per decenni. Quello del sostegno per la soluzione dei due Stati, secondo i confini tracciati dalla risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e con Gerusalemme Est capitale dello Stato di Palestina. Trump ha smentito in modo confuso: “Non significa nulla riguardo a due Stati o a uno Stato o a qualsiasi altro Stato. Significa che vogliamo dare alle persone una possibilità di vita, che non hanno mai avuto perché la Striscia di Gaza è stata un inferno per le persone che vi abitano”.Dalla Cina all’Egitto, il “sud del mondo” respinge il piano di TrumpPer quanto Trump abbia sostenuto che “tutti quelli con cui ho parlato amano l’idea che gli Stati Uniti possiedano quel pezzo di terra”, le reazioni alla proposta dell’uomo a capo dell’esercito più potente del mondo sembrano di tutt’altro tenore. A partire da Hamas, che l’ha definito “ridicolo”: il portavoce Sami Abu Zuhri ha dichiarato che “la nostra gente nella Striscia di Gaza non permetterà che questi piani vengano approvati”, ribadendo che “ciò che è richiesto è porre fine all’occupazione e all’aggressione contro la nostra gente, non espellerla dalla sua terra”.Il governo saudita, in una dichiarazione, ha minacciato che non ci sarà alcuna normalizzazione delle relazioni con Israele senza la creazione di uno Stato palestinese indipendente. L’Arabia saudita ha respinto “qualsiasi tentativo di sfollare i palestinesi dalla loro terra”. Il ministro degli Esteri egiziano, Badr Abdelatty, dopo aver discusso con il premier dell’Autorità palestinese, Mohamed Mostafa, ha sottolineato la necessità che “i palestinesi rimangano a Gaza, visto il loro fermo attaccamento alla loro patria e il rifiuto di abbandonarla”.Per la Turchia il piano è “inaccettabile”: il ministro degli Esteri di Ankara, Hakan Fidan, ha ricordato a Trump che “la guerra è iniziata proprio per questo motivo: la sottrazione di terra ai palestinesi” e assicurato che “non c’è nessuno spiraglio per una discussione su questo tema”. Contrari al trasferimento forzato dei palestinesi anche la Cina, che “ha sempre sostenuto che il dominio dei palestinesi sui palestinesi è il principio di base della governance post-bellica di Gaza”, e la Russia, secondo cui  “la soluzione in Medio Oriente può avvenire solo sulla base della presenza di due Stati”.L’Ue rimane in silenzio. Francia, Germania e Regno Unito: “Gaza è dei palestinesi”Se dalle istituzioni europee non trapela nulla, dalle capitali cominciano ad arrivare reazioni preoccupate. Il ministro degli Esteri del Regno Unito, David Lammy, ha dichiarato da Kiev che Londra rimane convinta che i palestinesi debbano “vivere e prosperare nelle loro terre d’origine a Gaza e in Cisgiordania”, mentre per Parigi l’avvenire di Gaza passa per “un futuro stato palestinese” e non dal controllo “di un paese terzo”. Il Quai d’Orsay, sede del ministero degli Esteri francese, ha ribadito “la sua contrarietà a qualsiasi trasferimento forzato della popolazione palestinese di Gaza, che rappresenterebbe una violazione grave del diritto internazionale, un attacco alle aspirazioni legittime dei palestinesi, ma anche un forte ostacolo alla soluzione a due stati e un fattore di destabilizzazione per i nostri partner vicini che sono l’Egitto e la Giordania, oltre che l’insieme della regione”.Perfino Annalena Baerbock, la ministra degli Esteri tedesca che qualche mese fa aveva dichiarato che la popolazione civile “perde il proprio status di protezione” quando è utilizzata come scudo umano, si è opposta con fermezza: “È chiaro che Gaza, come la Cisgiordania e Gerusalemme est, appartiene ai palestinesi. Esse costituiscono la base per un futuro stato palestinese”, ha affermato. Il vicepremier italiano, Antonio Tajani, ha sottolineato il no di Giordania ed Egitto che rendono “un po’ difficile” il piano di Trump. Ben più duro il capodelegazione del Partito Democratico al Parlamento europeo, Nicola Zingaretti, che ha definito la “folle proposta” di Trump “un insulto alla pace e ai diritti del popolo palestinese”.Dall’estrema destra all’opposizione, Israele con TrumpDa Netanyahu, agli esponenti dell’estrema destra sionista, al leader dell’opposizione israeliana Benny Gantz, Israele ha invece applaudito il piano di trasformazione della Striscia di Gaza suggerito da Trump. Un piano che “potrebbe cambiare la storia”, ha affermato il premier israeliano durante la conferenza stampa congiunta a Washington, definendo Trump “il più grande amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca” ed elogiandolo per aver “pensato fuori dagli schemi con idee nuove”. Netanyahu ha inoltre ringraziato l’amministrazione americana per aver interrotto i finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi (Unrwa).Il piano di Trump rinvigorisce i leader dell’estrema destra. Itamar Ben-Gvir, ex ministro per la Sicurezza nazionale che si è dimesso dopo la firma della tregua con Hamas, ha rivendicato la paternità del piano e affermato che questa “è l’unica soluzione al problema di Gaza”, mentre Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, ha promesso che farà di tutto per “seppellire definitivamente” l’idea di uno Stato palestinese. Il piano è piaciuto anche al leader del partito di opposizione israeliano Unita’ nazionale, Benny Gantz, che ha elogiato le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti definendole “creative, originali e interessanti”.

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    Norvegia, Jens Stoltenberg è il nuovo ministro delle Finanze, per tentare di salvare i socialdemocratici

    Bruxelles – A volte ritornano. Stavolta, a tornare è stato Jens Stoltenberg, l’ex primo ministro norvegese che, dopo un decennio alla guida dell’Alleanza nordatlantica, è stato arruolato nuovamente nell’esecutivo di Oslo al dicastero delle Finanze.L’annuncio è arrivato ieri (4 febbraio). Il 65enne ha assunto l’incarico di ministro delle Finanze nel gabinetto del premier Jonas Gahr Støre, dal 2014 alla guida del Partito laburista (Ap) a seguito della nomina di Stoltenberg (che a sua volta lo presiedeva dal 2002) a Segretario generale della Nato. Stoltenberg si è dichiarato “profondamente onorato di essere stato chiamato ad aiutare il mio Paese in questa fase critica”.Gahr Støre aveva dato vita ad un governo di minoranza nell’ottobre 2021 in coalizione col Partito di centro (Sp), ma lo scorso 30 gennaio quest’ultimo si è chiamato fuori dall’esecutivo in disaccordo coi socialdemocratici relativamente alle regole del mercato energetico dell’Ue. Questo sviluppo ha “liberato” diverse caselle ministeriali, tra cui appunto quella delle Finanze, occupata dal leader dell’Sp Trygve Slagsvold Vedum.Stoltenberg è una figura di lungo corso della politica nazionale: membro dello Storting (il Parlamento monocamerale di Oslo) dal 1993 al 2017, è stato ministro (prima dell’Industria e dell’energia, dal 1993 al 1996, poi delle Finanze, tra il 1996 e il 1997 e nuovamente ora) e ministro di Stato (come si chiama il premier norvegese) due volte (dal 2000 al 2001 e quindi tra il 2005 e il 2013).An honour to be appointed as Minister of Finance of Norway in PM @jonasgahrstore government. We face geopolitical challenges & a more uncertain world. Economic stability & prosperity will be my focus.It’s a privilege to serve my country, and I am ready to play my part. pic.twitter.com/UhGidpC2hT— Jens Stoltenberg (@jensstoltenberg) February 4, 2025Nell’ottobre 2014, qualche mese dopo l’annessione unilaterale della Crimea (e il sostegno ai separatisti del Donbass) da parte della Russia di Vladimir Putin, ha iniziato il suo mandato da Segretario generale della Nato – che all’epoca contava 28 Stati membri – per venire successivamente riconfermato quattro volte, stante la necessità di mantenere la continuità alla guida dell’Alleanza di fronte all’invasione su larga scala dell’Ucraina lanciata da Mosca nel febbraio 2022.In tale capacità, si è guadagnato il soprannome di “sussurratore di Trump” per aver apparentemente convinto il presidente statunitense a non ritirare Washington dalla Nato nel corso del suo primo mandato. Lo scorso ottobre ha lasciato il testimone di Segretario generale all’ex primo ministro olandese Mark Rutte.La Norvegia ha in programma delle elezioni legislative per il prossimo settembre, e il Partito laburista è dato in calo di oltre 7 punti (appena sotto il 19 per cento) dai sondaggi, mentre si troverebbero per ora in testa il Partito del progresso (FrP), di destra (quasi al 24 per cento), tallonato dal partito conservatore Høyre al 22,4 per cento.La chiamata di Stoltenberg da parte di Gahr Støre risponde dunque, oltre alla necessità di rimpolpare il gabinetto con figure di alto profilo, anche a quella di rinvigorire la campagna elettorale dell’Ap in vista di un appuntamento con le urne che si annuncia particolarmente difficile, anche considerato il rischio che Oslo diventi bersaglio dei dazi commerciali di Washington e, potenzialmente, anche di Bruxelles.

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    Von der Leyen agli ambasciatori Ue: “Abbiamo un nostro ruolo, costruiamo la politica estera europea”

    Bruxelles – “La necessità è di costruire una politica estera europea“, che sia “mirata” e che tenga fermo il principio per cui si negozia quando si può e quando si deve, ma non a tutti a costi. Tradotto: “Se ci sono vantaggi reciproci in vista, siamo pronti a impegnarci con te”. Altrimenti niente. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, sprona gli ambasciatori Ue nel mondo ad una nuova diplomazia, che sia pragmatica e sappia rispondere al mondo di oggi. “Gran parte del mondo vede l’Europa come più forte di come la vediamo noi stessi, e l’Europa – insiste von der Leyen – ha molta più influenza in questo mondo di quanto a volte potremmo pensare“. Uno strumento da usare, anche nel confronto con gli amici di sempre.La presidente dell’esecutivo comunitario è brava a non fare nomi, a dire quello che deve in modo da non esporsi ma comunque affondare il colpo. Von der Leyen non chiama mai in causa Donald Trump, ma quello che lei dice ben si presta ad essere lette come riferimento al presidente degli Stati Uniti. E’ vero quando avverte gli ambasciatori che “ci sarà un uso crescente e una maggiore minaccia di strumenti di coercizione economica, quali sanzioni, controlli sulle esportazioni e dazi“. Un chiaro riferimento a Trump e il suo ‘bullismo commerciale’, contro cui von der Leyen ribadisce fermezza: “Ci prepariamo ad ogni scenario”, dice. Vuol dire anche eventualmente una guerra dai dazi Ue-Usa.Bandiere dell’Unione europea e degli Stati Uniti [foto: imagoeconomica]Non va per il sottile von der Leyen, in fin dei conti sono altri gli ambasciatori, e a loro invita a “cambiare il nostro modo di agire”. Un invito a essere pronti a “impegnarsi in difficili trattative, anche con partner di lunga data” – altro riferimento agli Stati Uniti – e un invito allo stesso ad accettare di “dover lavorare con paesi che non hanno idee simili ma condividono alcuni dei nostri interessi”. Perché, insiste la presidente della Commissione Ue, “il principio di base della diplomazia in questo nuovo mondo è di tenere gli occhi puntati sull’obiettivo”. Ciò significa real-politik, “trovare un terreno comune con i partner per il nostro reciproco beneficio, e accettare che a volte dovremo accettare di non essere d’accordo”.Si tratta di “un nuovo approccio che riguarda la garanzia della futura sicurezza e prosperità dell’Europa”, insiste von der Leyen, e che riguarda anche le relazioni con Repubblica popolare cinese. “La Cina è uno dei paesi più intricati e importanti al mondo. E il modo in cui la gestiremo sarà un fattore determinante per la nostra futura prosperità economica e sicurezza nazionale”.