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    Visita in Tunisia di Johansson e Lamorgese: sui migranti approccio globale e ricollocamento obbligatorio

    Roma – L’Italia non resterà sola e nel nuovo patto il ricollocamento sarà obbligatorio. Ylva Johansson è in visita a Tunisi per i colloqui con il governo locale insieme alla ministra italiana Luciana Lamorgese e conferma l’impegno dell’UE per un approccio globale sui flussi migratori, per andare oltre le soluzioni di sicurezza che hanno dimostrato i loro limiti. La Commissaria europea agli affari interni spiega che è necessario un lavoro intenso tra i partner dell’UE e i paesi terzi “per evitare che i migranti partano, creando condizioni migliori per i giovani” e anche costruendo percorsi legali d’ingresso.
    Nel nuovo patto sulla migrazione e asilo ci saranno anche soluzioni specifiche per l’Italia e i Paesi che hanno coste molto estese. Aspettando un’intesa che è ancora prematura e non sarà pronta prima della fine dell’anno, Johansson comunque assicura che la proposta della Commissione è per “un meccanismo di ricollocamento assolutamente obbligatorio con i Paesi dell’Ue che secondo la loro forza economica e della loro dimensione, della loro popolazione, si vedranno attribuiti un certo numero di migranti”.
    Resta l’emergenza degli sbarchi estivi con l’Unione europea che dovrà rinnovare la sua moral suasion verso gli Stati membri per una redistribuzione su base volontaria per non lasciare sola l’Italia, unico Paese a ospitare i salvataggi in mare.  “Non basta la sicurezza, bisogna contrastare la povertà e sostenere lo sviluppo dei Paesi d’origine” ha detto durante gli incontri il presidente tunisino Kais Saied.
    l’incontro con il presidente della Repubblica tunisina Kais Saied
    Nella nota diffusa dal governo di Tunisi, la ministra Lamorgese ha sottolineato “l’impegno dell’Italia a continuare a sostenere il Paese nordafricano accelerando il ritmo degli investimenti, contribuendo allo sviluppo delle regioni interne e creando posti di lavoro per i giovani, al fine di ridurre il fenomeno migratorio”.
    L’UE continuerà a sostenere il processo democratico in Tunisia, ha assicurato Johansson, elogiando l’integrazione della comunità locale nella società e nel tessuto economico dei Paesi europei. età europee e il loro ruolo
    attivo nel tessuto economico dei paesi dell’Unione”. Durante l’incontro, conclude la nota “le due parti hanno espresso la loro determinazione a combattere le reti criminali della tratta di esseri umani che sfruttano le difficili condizioni economiche di alcuni gruppi per trarne profitto”.

    L’incontro con le istituzioni tunisine per rafforzare la collaborazione con l’UE del Paese nordafricano. Le parti d’accordo per affrontare il fenomeno non solo con il registro della sicurezza che ha mostrato limiti

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    Turchia: per il Parlamento europeo i rapporti con l’UE sono “al minimo storico”

    Bruxelles – Sullo stato di diritto, sui diritti fondamentali e in politica estera il governo turco “mostra chiare divergenze con le politiche e gli interessi dell’Unione Europea”. In una risoluzione adottata a fronte 480 voti a favore, 64 contrari e 150 astensioni il Parlamento europeo traccia un bilancio il più possibile oggettivo d quanto accaduto alle relazioni tra Ankara e Bruxelles negli ultimi due anni.
    Nel constatare le scelte del partner turco la relazione presentata dall’eurodeputato socialista Nacho Sánchez Amor (S&D) passa in rassegna progressi e passi indietro rispetto allo stato dei rapporti tra il Paese e l’UE. Secondo il documento il dialogo con Ankara ha raggiunto “il suo minimo storico” in virtù delle tendenze autoritarie che si registrano soprattutto sul fronte interno. Ciò che spaventa maggiormente è l’accentramento del potere nelle mani del governo di Recep Tayyip Erdogan, accusato di aver abusato dei poteri a lui affidati dalla legge in quanto presidente del Paese per restringere l’indipendenza della magistratura e reprimere l’attività di avvocati, difensori dei diritti umani, giornalisti e accademici.
    Una situazione ritenuta intollerabile dall’Eurocamera, che invita il Consiglio UE e la Commissione europea a fare leva sullo strumento della sospensione formale dei negoziati di adesione del Paese all’Unione Europea in corso dal 2005 per costringere il governo di Erdogan a rimettersi in carreggiata sul rispetto dei principi democratici. “La porta resta aperta, ma socchiusa”, ha dichiarato il relatore della relazione Sánchez Amor, che ha messo in guardia anche sul possibile progetto di potenziamento dei rapporti commerciali con Ankara. “Un aggiornamento dell’unione doganale con la Turchia è auspicabile, ma non lo appoggeremo se non ci sarà una condizionalità democratica”, ha continuato il socialista spagnolo.
    L’Europarlamento non dimentica le ultime scelte fatte da Ankara in politica estera. Partendo dalle tensioni dell’estate 2020 nel Mediterraneo orientale e ricordando le ingerenze nel conflitto del Nagorno-Karabakh, gli eurodeputati hanno definito le iniziative del governo inaccettabili per i valori dell’Unione Europea. E pur identificando nella Turchia come “un partner strategico per la stabilità nella regione”, soprattutto per gli sforzi legati all’accoglienza di 3,6 milioni di rifugiati siriani sul proprio territorio nazionale, il documento ribadisce che proprio “l’uso di migranti e rifugiati come strumento di ricatto non può essere accettato”.
    Ma la mano è tesa alla società civile. “Non dobbiamo commettere l’errore di confondere la Turchia ed il suo popolo, crogiolo di tradizioni e culture, con il governo sempre più autoritario di Erdogan che sta trascinando il Paese in un vortice pericoloso di nazionalismo e revanscismo”, ha affermato nel suo intervento durante il dibattito parlamentare l’eurodeputato 5 stelle Fabio Massimo Castaldo. “Dobbiamo rimanere al fianco della società civile turca dimostrando una buona volta determinazione, coesione e visione politica, perché sono gli unici aspetti che questa Turchia potrà comprendere”, ha continuato il vicepresidente del Parlamento europeo.
    La posizione del Parlamento è stata supportata quasi all’unanimità da popolari, socialisti, verdi e liberali, ma non dalle forze politiche poste agli estremi dell’emiciclo, più favorevoli alla continuazione del dialogo. Il Parlamento europeo si aspetta che possa influenzare la discussione della riunione del Consiglio europeo di giugno, che avrà la Turchia tra i suoi punti all’ordine del giorno. Il commissario europeo per la politica di vicinato Olivér Várhelyi ha già presentato i temi che saranno toccati relativi alle relazioni con Ankara: : commercio, immigrazione, dialoghi di alto livello sulla salute e sui cambiamenti climatici e mobilità delle persone. “Se la Turchia dovesse girarci le spalle, la Commissione utilizzerà tutti gli strumenti a sua disposizione per tutelare i suoi interessi”, ha detto Várhelyi.

    Nella plenaria gli eurodeputati approvano a larga maggioranza una relazione critica su quanto osservato da Ankara negli ultimi anni. L’Eurocamera spinge Consiglio e Commissione a usare l’arma della sospensione formale dei negoziati di adesione all’Unione Europea in corso dal 2005 per ottenere da Erdogan maggiori garanzie sui diritti

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    Bielorussia, bloccato il sito indipendente Tut.by e arrestati giornalisti. L’UE: “Si fermino le vessazioni contro stampa”

    Bruxelles – Non si fermano più gli attacchi alla libertà di stampa in Bielorussia e probabilmente in questi giorni stiamo assistendo all’apice della repressione delle voci indipendenti e critiche verso il regime del presidente Alexander Lukashenko. Tut.by, uno dei più importanti siti di informazione bielorussi è stato messo off-line dalle autorità del Paese, dopo che martedì (18 maggio) hanno fatto irruzione nella redazione e hanno iniziato a perquisire le abitazioni private della direttrice, Marina Zolotova, e di altri dipendenti.
    Gli agenti che hanno effettuato le perquisizioni appartengono al dipartimento per le Indagini finanziarie del Comitato di controllo statale della Bielorussia. Come ha confermato il ministero dell’Informazione bielorusso, la causa del provvedimento sarebbe stata la pubblicazione sul sito di “materiale di un fondo di solidarietà non registrato”: secondo le autorità, Tut.by avrebbe violato la legge sui media, dando spazio online a BYSOL, una fondazione che sostiene le vittime della repressione politica nel Paese.
    In aggiunta, lo stesso dipartimento ha avviato un procedimento penale per “evasione di imposte e tasse su larga scala” nei confronti di alcuni dirigenti del sito di informazione. Dopo le perquisizioni nelle abitazioni private e il sequestro di computer e cellulari, 15 redattori sono stati arrestati, mentre la direttrice Zolotova è stata portata al dipartimento per le Indagini finanziarie per essere interrogata.
    Stando ai dati forniti dall’Associazione bielorussa dei giornalisti, sono 16 i giornalisti al momento dietro le sbarre per (presunti) reati commessi nel riportare cosa sta accadendo nel Paese, dal 9 agosto dello scorso anno in protesta pacifica contro i risultati della rielezione-farsa del presidente Lukashenko. A febbraio erano state condannate a due anni di carcere due giornaliste ventenni, Katsiaryna Andreyeva e Darya Chultsova, con l’accusa di “fomentare le proteste contro il presidente” (stavano trasmettendo in live streaming una manifestazione in memoria dell’attivista Raman Bandarenka). Una delle reporter di Tut.by, Katsiaryna Barysevich, era invece finita a processo per aver rivelato informazioni scomode contro il regime proprio sulle dinamiche della morte di Bandarenka.
    Svetlana Tikhanovskaya, leader dell’opposizione bielorussa e presidente legittima riconosciuta dall’UE, su Twitter ha invocato “un’azione immediata” da parte della comunità internazionale: “Le repressioni contro il principale portale di notizie Tut.by sono un chiaro tentativo di distruggere i resti dei media indipendenti in Bielorussia“, quelli che ancora “coprono coraggiosamente la brutale realtà e la situazione sul campo”.

    Action needed now! The repressions against leading news portal @tutby are a clear attempt to destroy the remains of independent media in Belarus, which bravely covers the brutal reality and the situation on the ground. @osce @AnnLinde @riber @OSCE_RFoM @IreneKhan @RSF_inter pic.twitter.com/ZP9QN0qblW
    — Sviatlana Tsikhanouskaya (@Tsihanouskaya) May 18, 2021

    Nella giornata di ieri è arrivata la risposta da parte dell’Unione Europea, tra gli attori internazionali più attivi a sostegno dell’opposizione al presidente Lukashenko. “Le recenti azioni delle autorità bielorusse contro i media e i giornalisti indipendenti mostrano il totale disprezzo per la libertà di espressione e contraddicono i principali impegni internazionali assunti dalla Bielorussia”, ha reso noto in un comunicato Peter Stano, portavoce dell’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell.
    Nella nota si fa riferimento anche alle detenzioni di Alexander Burakov, freelance di Deutsche Welle, Vladimir Laptsevich, reporter del portale di notizie online Mogilev Region, Tatyana Kapitonova, fotoreporter freelance, e Lyubov Kasperovich, giornalista di Tut.by. “Le vessazioni nei confronti dei giornalisti devono cessare e tutti i detenuti devono essere immediatamente rilasciati, insieme a tutti i prigionieri politici”.

    Bloccato l’accesso al dominio della redazione bielorussa, perquisite le case della direttrice e di 15 redattori. Il portavoce dell’alto rappresentante Borrell punta il dito contro il regime Lukashenko per il “totale disprezzo della libertà di espressione”

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    Montenegro, sulla strada europea è il Paese balcanico più avanzato. Ma c’è l’allarme per debito da 809 milioni con Cina

    Bruxelles – Adelante, con juicio. Si potrebbe prendere in prestito la celebre citazione dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni per commentare la posizione del Parlamento Europeo sullo stato di avanzamento del Montenegro lungo il cammino europeo. In plenaria, la relazione sul rapporto 2019/2020 della Commissione UE, presentata da Tonino Picula (S&D), è stata approvata con 595 voti a favore, 66 contrari e 34 astenuti, ma ciò che è emerso con chiarezza è un duplice sentimento nei confronti di Podgorica. Da una parte, la soddisfazione per i progressi sulle riforme e lo Stato di diritto, che ha portato il Paese a essere quello “più avanzato sulla strada dell’accesso all’Unione”. Dall’altra, le preoccupazioni per la situazione finanziaria e l’indebitamento con la Cina. Tutte questioni di cui Bruxelles deve tenere conto, se vuole che il Montenegro diventi nel prossimo futuro il ventottesimo Paese membro UE.
    Il relatore per il Montenegro, Tonino Picula (S&D)
    “Questo dibattito arriva nel contesto della prima transizione di potere negli ultimi 30 anni”, ha introdotto la discussione il relatore, spiegando gli effetti del risultato delle elezioni parlamentari del 30 agosto dello scorso anno. Quasi nove mesi complessi per il Paese, senza un dialogo interno, dal momento in cui “il massimo partito di opposizione [il Partito Democratico dei Socialisti, ndr] non vuole partecipare ai lavori in Parlamento” e perché “la coabitazione tra il presidente, Milo Đukanović, e il premier, Zdravko Krivokapić, non è costruttiva né in linea con la Costituzione”. In più, “da sei mesi si attende il voto sulla legge di bilancio per l’anno in corso e questo crea ulteriori pressioni politiche”, ha commentato Picula.
    Se ci sono punti su cui deve essere implementato lo sforzo del Paese per superare i blocchi politici, è altrettanto vero che non mancano gli aspettavi positivi. Il relatore del gruppo S&D ha ricordato che “il Montenegro ha aperto tutti capitoli negoziali per l’accesso all’Unione e ne chiusi tre” e che ora la “massima sfida” è portarli tutti a compimento, anche grazie alla nuova metodologia di adesione di Serbia e Montenegro approvata la scorsa settimana. “I progressi sui sei cluster tematici dipenderanno dai progressi sullo Stato di diritto e sul sistema giudiziario, ovvero i capitoli 23 e 24“, accompagnati da un forte impegno per “difendere chi lotta contro la criminalità organizzata”, “proteggere l’indipendenza dei media” e “risolvere il problema delle minoranze non rappresentate nell’attuale Parlamento”.
    È stato lo stesso relatore a lanciare però l’allarme sulle “importanti conseguenze politiche” degli investimenti della Cina nel Paese: “Dobbiamo aiutare il nostro partner nel dialogo con le istituzioni finanziarie internazionali”. Le preoccupazioni per l’Unione Europea non sono di poco conto e, quantificate, ammontano a 809 milioni di euro di debito che Podgorica deve ripagare a Pechino. Il finanziamento era stato richiesto nel 2014 per la costruzione di un’autostrada che dovrebbe attraversare il Paese, dal porto montenegrino di Antivari (Bar) alla località di Boljare, e che al momento non è ancora stata completata. Secondo quanto riporta il Financial Times, se il debito non dovesse essere ripagato entro luglio, la Cina avrebbe il diritto di acquisire il controllo di parte del territorio montenegrino, verosimilmente uno sbocco sul Mediterraneo. Ed è su questo punto che si è concentrato il dibattito in plenaria.
    Il confronto tra gli eurodeputati
    L’eurodeputato del Movimento 5 Stelle e vicepresidente del Parlamento Europeo, Fabio Massimo Castaldo
    A sollevare la questione del debito del Montenegro è stato Thomas Waitz (Verdi/ALE), che ha esortato la Commissione e il Consiglio a “trovare una soluzione, perché il Paese non sia venduto alla Cina“, proprio nel momento in cui “la  sua strada europeista è stata tracciata”. L’europarlamentare del Movimento 5 Stelle e vicepresidente del Parlamento UE, Fabio Massimo Castaldo, ha rincarato la dose, impostando tutto il suo intervento sulla questione: “Questo caso è il sintomo di come il processo di adesione possa avvitarsi su sé stesso”, dal momento in cui “la classe politica montenegrina precedente aveva deciso di inoltrarsi in questo sentiero pericoloso e azzardato, nonostante i moniti della BEI”. Tuttavia, secondo l’europarlamentare italiano, il Montenegro non deve essere lasciato solo, perché “oggi una leva politica ci chiede aiuto per superare le scelte prese da chi aveva tornaconti personali” e “non possiamo permettere che un possibile futuro Stato membro diventi un avamposto di una potenza terza nel cuore dell’Europa”.
    Preoccupate anche le destre europee, sia sulle diramazioni cinesi in Montenegro, sia sulla credibilità del Paese. “La questione degli investimenti e del debito pone dubbi sulla sua trasparenza“, ha sottolineato Dominique Bilde (ID), che ha calcato la mano sulle “ambiguità delle autorità montenegrine verso la comunità internazionale riguardo all’adesione alla Belt and Road Initiative” e sul fatto che “quando si trovano in difficoltà chiedono aiuto all’Unione”. Secondo Zdzisław Krasnodębski (ECR), l’UE sta correndo il “rischio di alzare l’asticella troppo in alto, dobbiamo essere realistici sulle vere possibilità di adesione”.
    L’eurodeputata del PPE, Željana Zovko
    Più cauti gli altri gruppi politici, a partire dal PPE: “Da questa relazione, vediamo che è il Paese balcanico in stato più avanzato, anche se deve rafforzarsi sulla riconciliazione con gli Stati vicini e migliorare l’inclusione delle minoranze etniche”, ha affermato Željana Zovko. Sul fronte S&D, Petra Kammerevert ha posto l’accento sul fatto che “si possono constatare miglioramenti continui, anche se dobbiamo rimanere vigili”. Anche per Klemen Grošelj (Renew Europe) “la sfida dei prestiti cinesi dimostra che non ci sono soluzioni facili sulla questione del debito“, ma “focalizzarsi sulla strada dei finanziamenti europei può essere la soluzione per allineare il Paese agli obiettivi del Green Deal e della digitalizzazione”.
    La posizione di Commissione e Consiglio
    Da parte della Commissione Europea è arrivato un messaggio di supporto al Montenegro, in atto e da ricevere. A livello finanziario, il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, non prende nemmeno in considerazione la possibilità che Bruxelles vada a ripagare di tasca propria il debito che Podgorica ha con Pechino (nonostante le richieste di aiuto ricevute il mese scorso). Ma allo stesso tempo ha voluto ribadire con forza che “l’Unione Europea è il massimo fornitore di assistenza economica, il principale investitore e partner commerciale“.
    Il commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi
    Lo dimostra il fatto che sia stato già approvato uno schema di aiuti macro-finanziari da 60 milioni di euro, “di cui entro fine maggio arriverà la seconda tranche da 30 milioni”. In più, il 6 ottobre dello scorso anno è stato messo in campo il Piano economico e di investimenti da 29 miliardi di euro, che “ha il potenziale per rendere i Balcani più attraenti per gli investimenti, rafforzare le infrastrutture e creare posti di lavoro in ogni Stato balcanico”. Per fornire questo sostegno, il commissario ha chiesto il sostegno del Parlamento: “Deve arrivare il prima possibile un accordo sullo strumento di assistenza pre-adesione IPA III, spero già nel trilogo a giugno”.
    Ma il commissario Varhelyi ha anche rivendicato i primi successi europei nei Balcani sul fronte dei vaccini anti-COVID: “Durante il dibattito di marzo avevo anticipato che stavamo lavorando sul supporto alla regione, ora vi aggiorno sul fatto che sono iniziate le spedizioni delle 651 mila dosi Pfizer/BioNTech“. Gli eurodeputati sono stati informati sui progressi nella campagna di vaccinazione nei sei Paesi balcanici grazie all’iniziativa europea (con tranche settimanali da maggio ad agosto) e al meccanismo COVAX, oltre agli aiuti di emergenza e ai fondi per mitigare la crisi socio-economica: “Vogliamo fare in modo che tutti gli operatori sanitari e i gruppi vulnerabili siano vaccinati quanto prima”, ha concluso il commissario. Complessivamente, in Montenegro arriveranno circa 126 mila dosi (42 mila dall’UE e 84 mila da COVAX), su oltre un milione e 500 mila in tutta la regione (651 mila dall’UE e 951 mila da COVAX).

    Approvata dagli eurodeputati in plenaria la relazione sui progressi del Montenegro verso l’adesione all’UE. Riconosciuti gli sforzi sullo Stato di diritto, ma ci si interroga su come aiutare il Paese ed evitare il controllo di Pechino di parti del territorio

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    Strategia anti Covid globale. Dalla conferenza per l’Africa via i brevetti sui vaccini

    Roma – Un new deal per l’Africa e come primo impegno i vaccini. Il vertice di Parigi poteva essere solo l’ennesimo incontro di sole buone intenzioni ma questa volta potrebbe sortire qualcosa di più concreto. In prima battuta sulla questione dei sullo stop temporaneo ai brevetti che i partecipanti hanno sottoscritto. E’ la vittoria del presidente francese Emmanuel Macron che ha chiamato a raccolta i principali capi di Stato e di governo africani e dei Paesi occidentali, e i vertici di ONU, UE e delle Istituzioni Finanziarie Internazionali.
    Incontro ibrido, per la gran parte da remoto ma che Mario Draghi ha voluto onorare in presenza. “L’Europa e gli Stati Uniti hanno risposto alle devastazioni della pandemia” con finanziamenti all’economia e garantendo la vaccinazione per tutti. “In Africa non c’è nulla di tutto questo – ha detto il premier italiano – con questo summit dobbiamo cominciare a organizzare una risposta dello stesso tipo”.

    Una risposta mondiale che “sosterremo nel G20 e nelle istituzioni multilaterali”, proposte che vanno dalle ristrutturazioni dei debiti alla questione dei vaccini” ha aggiunto Draghi. L’iniziativa del presidente Usa Joe Biden sui brevetti non è per nulla tramontata almeno per gli obiettivi di Parigi. “Sosteniamo i trasferimenti di tecnologie e la richiesta all’Oms, all’Omc e a Medicines Patent Pool (il comitato dell’Onu per la medicina salvavita) di togliere tutti gli obblighi in termini di proprietà intellettuale che ostacolano la produzione di qualsiasi tipo di vaccino”, ha detto Macron al termine del vertice.
    Al summit hanno partecipato anche la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio Charles Michel e la direttrice del Fondo monetario internazionale Kristalina Georgieva. “Abbiamo concordato l’obiettivo di raggiungere il 40 per cento di persone vaccinate nel continente africano entro il 2021 – ha detto la leader del FMI – e del 60 per cento entro metà del 2022, riallocando 500 milioni di dosi in eccesso e aumentando la produzione fino a un miliardo per il prossimo anno”.
    In sostanza, da parte di tutti i partecipanti c’è la consapevolezza che non ci sarà ripresa economica senza una strategia globale anti Covid. Tutto ciò ha portato anche alle altre proposte della moratoria sul debito dai Paesi del G20 per il 2020 e il 2021 a cui si aggiunge un quadro comune di consolidamento per la ristrutturazione del debito. Fondo monetario, l’Agenzia internazionale per lo sviluppo dei paesi poveri e i partecipanti del club di Parigi hanno poi concordato di mobilitare diritti speciali di prelievo (le riserve del paniere di valuta estera utilizzate dal FMI in momenti di crisi) fino a 650 miliardi di dollari per finanziare investimenti pubblici e privati.
    Impegni che anche i rappresentanti degli Stati africani hanno definito come “un cambio di paradigma” nelle politiche economiche delle grandi potenze. “Per la prima volta l’Europa, gli Stati Uniti e la Cina insieme decidono di trattare le loro relazioni con l’Africa” – ha detto il presidente della Repubblica del Congo e dell’Unione africana Felix Tshisekedi – le conclusioni non resteranno lettera morta ma saranno il punto di partenza per promuovere un cambiamento”.

    Macron a Parigi convince tutti per rilanciare l’iniziativa di Biden. Draghi: In Africa dobbiamo rispondere come abbiamo fatto in Europa e negli Stati Uniti. Tra gli impegni anche la ristrutturazione del debito

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    Balcani occidentali, Borrell vuole far rivivere la tradizione delle “cene informali” con i leader della regione

    Bruxelles – Cena con dialogo. Sta sfoderando tutto l’arsenale diplomatico a sua disposizione l’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, per ravvivare la fiamma dell’europeismo nei Balcani occidentali e promuovere la stabilità nella regione. Rimproveri agli Stati membri UE di poco impegno, accelerazione sul fronte dei vaccini anti-COVID e ora il tentativo di far rivivere la tradizione delle “cene informali” con i leader dei Paesi balcanici (sulle orme della predecessora, Federica Mogherini). L’obiettivo rimane sempre lo stesso: far sentire la presenza geopolitica dell’Unione nella penisola e accelerare il processo di allargamento dell’UE nei Balcani.
    Ieri sera (martedì 18 maggio) i capi di Stato e di governo di Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia si sono incontrati a Bruxelles per un incontro non ufficiale, insieme all’alto rappresentante Borrell e al commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. “L’impegno dell’Unione nei confronti dei Balcani occidentali è indiscutibile e deve essere molto visibile”, ha twittato Borrell per spiegare i motivi della cena: “Tenere discussioni strategiche e politiche aperte sul nostro futuro comune” e “valutare la situazione e le sfide in una regione strategica per l’Europa”. Oltre all’allargamento dell’UE nella regione, c’è l’idea di condividere “un approccio più ampio e geopolitico” con i partner balcanici.

    The EU’s commitment to the Western Balkans is unquestionable and needs to be very visible. This is why I revived the tradition of regular informal dinners with the six leaders tonight, to have open strategic and political discussions on our common future. pic.twitter.com/Cn9T1ApE33
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) May 18, 2021

    Come reso noto dal Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE), l’incontro si è tenuto “in un’atmosfera aperta e schietta”, che ha permesso di presentare “una riflessione strategica” su come “accelerare le riforme e soddisfare le aspettative dei cittadini sull’integrazione nell’Unione”, ma anche “rafforzare le narrazioni positive e costruttive nella regione”. Per tutti i commensali, l’integrazione europea dei Balcani occidentali rimane “un obiettivo strategico fondamentale”, mentre è stato confermato il “forte impegno per la cooperazione regionale” nelle sfide globali, come la pandemia COVID-19.
    Un resoconto confermato anche dalle parole della prima ministra della Serbia, Ana Brnabić, che in una dichiarazione alla stampa in tarda serata ha offerto un retroscena sull’incontro: “Inizialmente l’atmosfera era tesa, ma poi la cena è proseguita molto meglio ed è durata più del previsto“. Secondo la premier, “è sempre positivo quando dialoghiamo, abbiamo affrontato importanti questioni politiche ed economiche, concentrandoci sul futuro migliore per i nostri cittadini”.
    È presumibile che parte della tensione iniziale sia stata causata dalla richiesta avanzata dal nuovo primo ministro kosovaro, Albin Kurti, di spingere i cinque Paesi UE che ancora non riconoscono l’indipendenza del Kosovo (Spagna, Grecia, Cipro, Romania e Slovacchia) ad allinearsi alla posizione degli altri ventidue Stati membri e a quella del Parlamento UE. Parlando con i giornalisti, il premier ha dichiarato di aver discusso con “amici e colleghi a Bruxelles su come possono aiutarci a fare riforme nei nostri Paesi”, ma soprattutto “a convincere i cinque Stati membri che non riconoscono l’indipendenza del Kosovo a farlo“. Kurti ha poi ribadito la necessità di liberalizzare i visti per i cittadini kosovari, “gli unici in Europa soggetti a un regime di visti”. Qualche pagina del menù per la prossima cena informale è già pronto.
    Da sinistra: Albin Kurti (primo ministro del Kosovo), Zoran Tegeltija (presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina), Edi Rama (primo ministro dell’Albania), Josep Borrell (alto rappresentante UE), Milo Đukanović (presidente del Montenegro), Ana Brnabić (prima ministra della Serbia), Zoran Zaev (primo ministro della Macedonia del Nord) e Olivér Várhelyi (commissario UE per la Politica di vicinato e l’allargamento)

    L’alto rappresentate ha ospitato a Bruxelles i capi di Stato e di governo dei sei Paesi per discussioni geopolitiche in un’atmosfera “aperta e schietta”. L’obiettivo: favorire la stabilità della penisola e accelerare il processo di allargamento UE

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    Conflitto Israele-Palestina: l’Ungheria ostacola l’intesa dei ministri Esteri UE per cessate il fuoco e rilancio dei negoziati di pace

    Bruxelles – Sulla ripresa del conflitto tra Israele e Palestina l’Unione Europea parla come un attore politico e diplomatico unito. Anzi no. Sono bastate 24 ore per affossare il miraggio di vedere tutti e 27 i Paesi membri UE allineati sulla stessa posizione, che in fondo è quella dell’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: la protezione dei civili, un cessate il fuoco immediato e la ripresa dei negoziati di pace per una soluzione “stabile e duratura, senza adagiarsi sullo status quo che non evita il ritorno della violenza”.
    L’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    Nel corso del Consiglio Affari Esteri straordinario convocato dallo stesso Borrell per oggi (martedì 18 maggio), è stata l’Ungheria l’unico Stato membro a mettersi di traverso all’intesa di massima raggiunta dai ministri degli Esteri europei (non ci sono state conclusioni ufficiali, dal momento in cui si trattava di un vertice informale). “È stata una riunione intensa”, ha confermato Borrell, “ma ce n’era bisogno, perché i governi nazionali iniziavano a prendere posizioni autonomamente”. Ventisei su ventisette è una maggioranza che lascia l’alto rappresentante “abbastanza soddisfatto, perché partivamo da sensibilità diverse“. Ma l’amarezza per aver sfumato l’obiettivo dell’unanimità ha accompagnato tutta la conferenza stampa e alla fine è stata espressa in modo esplicito: “Sinceramente non riesco a capire come non si possa essere d’accordo con questo testo. Abbiamo bisogno di un orizzonte politico sul breve e sul lungo raggio nella regione, lo status quo non è un’opzione perché è chiaro che la violenza può tornare”.
    Al netto dell’ostacolo ungherese, come già anticipato ieri dal portavoce Peter Stano, per l’Unione Europea “la priorità è far cessare tutte le violenze e implementare il cessate il fuoco”, in modo da permettere di “proteggere i civili e dare accesso agli aiuti umanitari a Gaza“, ha confermato Borrell. “L’escalation tra Israele e Palestina ha causato un numero elevato di vittime, tra cui troppe donne e bambini. Questo è inaccettabile”. Sul breve periodo, l’UE riconosce il “diritto di Israele di difendersi, ma in modo rispettoso delle leggi internazionali e umanitarie” e pretende che “si fermi l’occupazione abusiva di territori palestinesi e le espulsioni da Gerusalemme Est“. Ma sul lungo periodo, “c’è bisogno di una soluzione politica efficace, l’unica che può portare davvero alla pace”: vale a dire, un impegno per “rilanciare i negoziati di pace, rimasti in stallo per troppo tempo”, favorendo il processo democratico anche in Palestina.
    Il dibattito in Parlamento 
    Proprio mentre i ministri degli Esteri concludevano il vertice informale, al Parlamento Europeo si è tenuto il dibattito in plenaria sulla strategia dell’Unione verso Israele e la Palestina. Un dibattito che, come fatto notare con disappunto dall’eurodeputato Pedro Marques (S&D), “si sarebbe potuto posticipare a domani, per permettere all’alto rappresentante UE un confronto con noi”. A suo nome, invece, ha parlato il ministro degli Esteri portoghese e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Augusto Santos Silva, che ha posto l’accento sulla necessità di orientare “tutti gli sforzi verso la difesa delle vite umane e la fine dell’escalation di violenza” e ha ricordato i colloqui di Borrell con il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, e il ministro degli Esteri israeliano, Gabi Ashkenazy.
    Il ministro degli Esteri portoghese e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Augusto Santos Silva
    Da parte del Consiglio dell’UE c’è stato un tentativo di tenere equidistanza verso le istanze di Israele e della Palestina: “Siamo particolarmente preoccupati per quello che succede a Gaza, sia per i raid aerei di Israele, sia per i razzi lanciati dalla Striscia”. Da una parte, vengono condannati gli “attacchi indiscriminati di Hamas, da cui Israele ha il diritto di difendersi”, ma allo stesso tempo sono considerate “illegali e contro il diritto internazionale le espulsioni di cittadini palestinesi da Gerusalemme Est”.
    Il dibattito in plenaria ha però messo in luce anche profonde divisioni tra i gruppi politici sulle dinamiche del conflitto, con le sinistre che hanno sottolineato la debolezza delle potenze internazionali nel condannare le occupazioni abusive da parte di Israele e le destre che hanno calcato la mano sul diritto del governo guidato da Benjamin Netanyahu di difendersi da organizzazioni terroristiche come Hamas. In mezzo, il PPE e Renew Europe, che hanno mantenuto una linea più aderente a quella dell’alto rappresentante Borrell: “Il lancio di razzi da Gaza non ha alcuna giustificazione, ma Israele deve rispondere con moderazione”, ha predicato calma David McAllister (PPE), sostenendo la necessità di un fronte unito con gli Stati Uniti, l’Egitto e la Giordania. Per Hilde Vautmans (Renew Europe), “finché le due parti saranno provocate da estremisti, non ci sarà pace” e per questo “dobbiamo lavorare a un nuovo accordo di Oslo e trovare una posizione comune anche in Parlamento”.
    L’eurodeputata del Partito Democratico, Pina Picierno (S&D)
    Da parte del gruppo S&D, Maria Arena ha accusato che “voler mettere fine alle ostilità senza considerare le cause del conflitto, significa voler riscrivere i fatti”. E mentre viene chiesto un cessate il fuoco, “l’equidistanza oggi ci disturba, perché dimentichiamo che ci troviamo di fronte a occupazioni abusive e un regime di apartheid, come ci dicono ONG internazionali e israeliane”. È per questo che serve una “pace durevole, ma per tutti”, che per la collega italiana Pina Picierno (PD) passa dall’impegno per la democrazia e l’affermazione dei diritti civili e politici anche in Palestina: ” Siamo rimasti impotenti per anni, mentre i terroristi di Hamas hanno messo da parte la classe politica palestinese. Dobbiamo ribaltare questa tendenza”.
    Anche per Jordi Solé (Verdi/ALE) la sola de-escalation “porterebbe a una situazione di ordinaria amministrazione, mentre sul terreno c’è un’ingiustizia di fondo che la comunità internazionale non riconosce”. La co-presidente del gruppo della Sinistra al Parlamento UE, Manon Aubry, definendosi “ardente partigiana per una soluzione pacifica che contempli due Stati”, ha ribadito che “non ci sarà soluzione duratura al conflitto senza porre fine alla colonizzazione israeliana e tornare al rispetto delle risoluzioni ONU“.
    Dura la replica dalle destre europee: “Accettereste mai un’organizzazione terroristica che attacca il vostro Paese democratico?”, ha tuonato Charlie Weimers (ECR). “Ecco perché dobbiamo sostenere Israele contro un gruppo che cerca la sua distruzione”. Secondo Anna Bonfrisco (ID), “Israele è un partner affine nell’area più strategica per l’Europa, mentre Hamas sponsorizza solo l’odio e attacca la democrazia”. Per questa ragione, “la pace che dia impulso alla rinascita economica della regione va costruita con Israele”.

    L’amarezza dell’alto rappresentante Borrell al termine del vertice straordinario: “Non capisco come si possa non essere d’accordo su queste priorità”. Ma anche la plenaria del Parlamento Europeo mostra divisioni tra gruppi politici su soluzioni e responsabilità per l’escalation di violenza

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    COVID, a maggio il rilancio dell’UE nella consegna dei vaccini ai Balcani occidentali, tra COVAX e finanziamenti diretti

    Bruxelles – Sono settimane decisive per il rilancio dell’Unione Europea a livello di credibilità nei Balcani occidentali, sia per il processo di allargamento sia per il sostegno alla lotta contro la pandemia COVID-19, e Bruxelles sta cercando di rendere tangibile la sua presenza nella regione. Dopo il forte messaggio dell’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ai ministri degli Esteri europei e l’adozione della nuova metodologia per i negoziati di accesso di Serbia e Montenegro, è caldo il fronte dell’invio dei vaccini anti-COVID ai Paesi balcanici, per recuperare il terreno perso nella sfida diplomatica con Cina e Russia.
    Nonostante i Balcani occidentali siano considerati il primo partner strategico e zona di influenza dell’Unione Europea, Bruxelles ha registrato gravi ritardi nell’attivarsi per aiutarli a pianificare la campagna di vaccinazione. Le consegne di dosi tramite il meccanismo COVAX (la struttura globale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per garantire un accesso equo e universale ai vaccini, sostenuta anche dall’UE con un miliardo di euro) sono rimaste ferme alla fine di marzo – il 2 aprile nel caso della Serbia, con le prime 57.600 dosi arrivate – e per tutto il mese di aprile ha regnato l’immobilismo.
    Il commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, e il ministro degli Esteri austriaco, Alexander Schallenberg, a Sarajevo (4 maggio 2021)
    Questo fino all’annuncio dell’invio di 651 mila dosi di vaccino Pfizer-BioNTech nella regione a partire da inizio maggio e fino ad agosto, attraverso un contratto finanziato direttamente da Bruxelles e concluso grazie all’impegno del governo austriaco. Stando alle cifre fornite dal Servizio europeo per l’Azione esterna, entro il 31 agosto dovrebbero arrivare 36 mila dosi in Serbia, 42 mila in Montenegro, 95 mila in Kosovo, 119.200 in Macedonia del Nord, 145 mila in Albania e 213.800 in Bosnia ed Erzegovina.
    Con l’arrivo di maggio la situazione è tornata a sbloccarsi, complice anche il viaggio del commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, nei Paesi balcanici tra il 3 e il 5 maggio, per ribadire l’impegno dell’Unione a sostegno della lotta comune alla pandemia. L’occasione è stata sfruttata anche per consegnare il primo carico simbolico in ciascuna capitale: 1.170 dosi a Belgrado, 2.430 a Podgorica, 4.680 sia a Pristina sia a Tirana, 4.850 a Skopje e 10.530 a Sarajevo.
    L’arrivo del secondo carico di vaccini tramite il meccanismo COVAX in Serbia (12 maggio 2021)
    Contemporaneamente, ha ricevuto un impulso anche la situazione sul fronte COVAX, nonostante alcune riserve. Tra l’11 e il 14 maggio sono ripresi con più costanza i voli per portare i vaccini promessi ai Balcani occidentali, cercando di colmare il ritardo sulla tabella di marcia del primo semestre 2021. A oggi, il Kosovo ha ricevuto 62.300 dosi su 100.800 previste, l’Albania 79.200 su 141.600, la Bosnia ed Erzegovina 121.300 su 177 mila, la Serbia 177.600 su 345.600. Fanno eccezione Montenegro e Macedonia del Nord, ancora fermi alle consegne del 28 marzo: al primo mancano ancora 60 mila dosi (24 mila su 84 mila), alla seconda 79.200 (24 mila su 103.200). Ma c’è ancora un mese e mezzo di tempo per recuperare il tempo perduto a inizio anno: con un massimo di due spedizioni per ogni Paese si potrebbero raggiungere tutti gli obiettivi, spazzando via almeno una parte dell’euro-scetticismo che sta serpeggiando nella regione.

    Dopo un mese di immobilismo dai primi carichi di fine marzo, Bruxelles ha sbloccato la situazione con il piano da 651 mila dosi Pfizer-BioNTech entro fine agosto e la ripresa del meccanismo dell’OMS: ancora un mese e mezzo per rispettare la tabella di marcia