More stories

  • in

    L’Ue e i partner internazionali stanno spingendo gli sforzi di mediazione per una tregua agli scontri armati in Sudan

    Bruxelles – Non si fermano gli scontri armati in Sudan, nemmeno dopo l’annuncio di un possibile cessate il fuoco temporaneo in occasione dell’Eid al-Fitr, la festività della religione islamica che segna la fine del Ramadan. Nella capitale Khartum e negli altri centri urbani del Paese anche oggi (21 aprile) si stanno verificando combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf), inclusi raid aerei sulle abitazioni civili. Dopo quasi una settimana di scontri si contano oltre 350 morti e più di tremila feriti, oltre a quasi ventimila profughi in fuga verso il Ciad.
    Khartum (credits: Afp)
    È per questo motivo che l’Unione Europea, in concerto con i partner internazionali, sta cercando di spingere sugli sforzi di mediazione per raggiungere una tregua in Sudan: “I combattimenti devono terminare per lasciare spazio al dialogo e alla mediazione”, è l’esortazione dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che ha ricordato il ruolo dell’Unione nel sostenere una “una cessazione immediata delle ostilità, che dovrebbe servire come primo passo verso un accordo di cessate il fuoco permanente da negoziare con urgenza”. In questo contesto sono viste positivamente le iniziative collettive regionali e internazionali, “compresi quelli delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana, dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) e della Lega degli Stati Arabi”, considerate “essenziali” per riportare il Sudan “sulla via della pace e della stabilità” e per rispettare le “aspirazioni della popolazione sudanese a un futuro pacifico, stabile e democratico”.
    Una proposta di tregua era arrivata ieri sera (20 aprile) dal capo delle forze paramilitari, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, ma l’esercito regolare guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan non ha risposto, rifiutando ogni dialogo con quelli che vengono considerati i responsabili per l’inizio degli scontri armati. “L’Unione Europea e i suoi Stati membri condannano fermamente i combattimenti in corso”, ha ricordato l’alto rappresentante Borrell, scagliandosi contro atti che mettono a rischio sia “gli sforzi per ripristinare la transizione verso un governo democratico a guida civile”, sia la “stabilità regionale”. Oltre alle vittime civili, Bruxelles condanna le violazioni del diritto internazionale: il riferimento è all’attacco all’ambasciatore Ue in Sudan, Aidan O’Hara, presso la sua residenza e al clima di insicurezza generale per volontari e operatori di organizzazioni non governati e di agenzie Onu nel Paese. “C’è bisogno di un’azione forte dell’Europa perché si fermi la violenza“, ha esortato dall’emiciclo del Parlamento Europeo il capo-delegazione del Pd, Brando Benifei.
    Cosa sta succedendo in Sudan
    L’esplosione delle violenze nella capitale Khartum e nel resto del Paese è iniziato lo scorso 15 aprile. A fronteggiarsi sono l’esercito regolare del Sudan, comandato dal generale al-Burhan (dal 2021 anche presidente del Paese), e le forze paramilitari da 100 mila membri guidate dal generale Dagalo (vicepresidente del Sudan). L’esercito regolare ha il controllo dell’aviazione e sta bombardando le basi Rsf, che a loro volta sta facendo largo uso di artiglieria nei centri abitati.
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati da qualche giorno in violenti combattimenti armati.
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur (iniziata nel 2003) furono accusati di genocidio: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, furono accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si trasformarono autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e allacciando i rapporti con il gruppo mercenario russo Wagner.

    L’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, spinge per la “cessazione immediata delle ostilità” tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces, che costituirebbe “il primo passo verso un accordo di cessate il fuoco permanente da negoziare con urgenza”

  • in

    L’Ucraina nuovo membro del Meccanismo di protezione civile dell’Ue. Altri 55 milioni di euro in fondi umanitari

    Bruxelles – Dopo oltre un anno di assistenza convogliata attraverso il Meccanismo di protezione civile dell’Ue, l’Ucraina è diventata oggi (20 aprile) ufficialmente uno Stato partecipante del quadro di solidarietà europeo che aiuta i Paesi colpiti da una catastrofe. A sancire l’ingresso di Kiev come 36esimo membro del Meccanismo è stato il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, in visita nella capitale ucraina proprio per firmare l’accordo che concede all’Ucraina la piena adesione. “Lavoriamo per un obiettivo comune, aiutare le persone in difficoltà ovunque si trovino, perché insieme siamo più forti”, è stato il messaggio indirizzato dal membro del gabinetto von der Leyen al governo ucraino al momento della firma.
    Dall’inizio dell’invasione russa del Paese il 24 febbraio dello scorso anno, l’Unione ha convogliato attraverso il Meccanismo di protezione civile dell’Ue oltre 88 mila tonnellate di attrezzature salvavita, cibo e medicinali, mentre sono saliti a oltre mille i generatori di energia mobilitati dalle riserve energetiche strategiche di RescEu. In qualità di membro a pieno titolo, da oggi anche l’Ucraina potrà inviare aiuti nel momento in cui un altro Paese si trova in crisi. Parallelamente alla firma per l’adesione al Meccanismo di protezione civile dell’Ue, l’Ucraina ha ricevuto da Bruxelles altri 55 milioni di euro in fondi umanitari – facendo salire il totale a 200 milioni dall’inizio del 2023 – con l’obiettivo di iniziare la preparazione del prossimo inverno, con o senza guerra in corso nel Paese.

    Cos’è il Meccanismo di Protezione Civile dell’Ue
    Istituito nel 2001 dalla Commissione, il Meccanismo di protezione civile dell’Ue è il mezzo attraverso cui i 27 Paesi membri e altri 9 Stati partecipanti (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Islanda, Macedonia del Nord, Montenegro, Norvegia, Serbia, Turchia e Ucraina) possono rafforzare la cooperazione per la prevenzione, la preparazione e la risposta ai disastri, in particolare quelli naturali. Una o più autorità nazionali possono richiedere l’attivazione del Meccanismo quando un’emergenza supera le capacità di risposta dei singoli Paesi colpiti: la Commissione coordina la risposta di solidarietà degli altri partecipanti con un unico punto di contatto, contribuendo almeno a tre quarti dei costi operativi degli interventi di ricerca e soccorso e di lotta agli incendi. In questo modo vengono messe in comune le migliori competenze delle squadre di soccorritori e si evita la duplicazione degli sforzi. In 21 anni di attività, il Meccanismo di protezione civile dell’Ue ha risposto a oltre 600 richieste di assistenza all’interno e all’esterno del territorio dell’Unione.
    Il Meccanismo comprende un pool europeo di protezione civile, formato da risorse pre-impegnate dagli Stati aderenti, che possono essere dispiegate immediatamente all’occorrenza. Il centro di coordinamento della risposta alle emergenze è il cuore operativo ed è attivo tutti i giorni 24 ore su 24. A questo si aggiunge la riserva rescEu, una flotta di aerei ed elicotteri antincendio (oltre a ospedali da campo e stock di articoli medici per le emergenze sanitarie) per potenziare le componenti della gestione del rischio di catastrofi: nel corso di quest’estate la Commissione ha finanziato anche il mantenimento di una flotta antincendio rescEu aggiuntiva in stand-by, messa a disposizione da Italia, Croazia, Francia, Grecia, Spagna e Svezia. A Bruxelles si sta sviluppando anche una riserva per rispondere a incidenti chimici, biologici, radiologici e nucleari.

    Con la firma del documento a Kiev alla presenza del commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, il Paese invaso dalla Russia diventa il 36esimo Stato partecipante del sistema di gestione del rischio di catastrofi dei 27 membri dell’Unione (più altri 9 partner)

  • in

    L’Ue in aiuto alla Tunisia, la Commissione lavora a un “sostanzioso pacchetto” di assistenza macro-finanziaria

    Bruxelles – L’Unione europea rompe gli indugi ed è pronta ad accorrere in sostegno alla Tunisia. Chiudendo un occhio sull’inasprimento della repressione del dissenso da parte del presidente Kais Saied, e mettendo temporaneamente da parte anche la condizione che finora era stata posta a qualsiasi operazione di assistenza finanziaria Ue: lo sblocco dell’accordo trovato a ottobre 2022 tra Tunisi e il Fondo Monetario Internazionale per un programma di aiuti da quasi 2 miliardi di euro.
    Da un lato un “sostanzioso pacchetto di assistenza macro-finanziaria in attesa di un accordo con il Fmi”, dall’altro “un ulteriore sostegno al bilancio per la Tunisia, a integrazione dei programmi esistenti”. È quanto sarebbe previsto, secondo fonti diplomatiche, in un documento informale che la Commissione europea ha fatto circolare tra i 27 Paesi Ue, redatto in vista del Consiglio Affari Esteri di lunedì 24 aprile. Il pacchetto delineato dall’esecutivo comunitario sarebbe “complementare all’accordo tra la Tunisia e il Fmi, per il quale l’Ue e gli altri donatori internazionali continuano a sollecitare la leadership tunisina per la sua rapida finalizzazione”.
    Il presidente della Repubblica tunisina, Kais Saied (Photo by FETHI BELAID / AFP)
    Accordo che sembra però sempre più lontano, quanto meno con Saied alla guida del Paese: solo pochi giorni fa il presidente ha definito “inaccettabili i dettami imposti dall’esterno”, e ha dichiarato che la Tunisia può fare a meno del maxi-prestito internazionale e “contare su se stessa”. D’altra parte però, diversi membri del suo stesso governo hanno affermato più volte che non c’è alternativa all’accordo, tant’è che una delegazione tunisina ha partecipato agli incontri del Fmi e della Banca mondiale a Washington dal 10 al 16 aprile per rilanciare le trattative sull’assistenza finanziaria.
    L’Italia e l’emergenza sbarchi dalla Tunisia
    Roma è più che uno spettatore interessato: è il governo italiano che ha portato con forza la questione tunisina a Bruxelles, e solo una settimana fa il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, dopo un incontro alla Farnesina con l’omologo tunisino, ha confermato che l’Italia è “favorevole a sostegni di tipo economico per favorire la crescita di questo Paese così importante” e che il governo “farà la sua parte anche nei confronti del Fmi“.
    Come ha ribadito il commissario Ue per il Bilancio, Johannes Hahn, nel corso del dibattito al Parlamento europeo di Strasburgo sulla necessità di salvare vite in mare nel Mediterraneo centrale, “per supportare l’Italia dobbiamo rafforzare le relazioni con la Tunisia”. Per far fronte all’impennata di arrivi a Lampedusa e sulle coste siciliane – oltre 30 mila dall’inizio dell’anno– non è sufficiente scongiurare il collasso politico-economico del Paese nordafricano, ma per l’Ue è necessario intensificare la cooperazione sul fronte migratorio.
    A fine mese la commissaria per gli Affari Interni, Ylva Johansson, si recherà in Tunisia per lanciare un “partenariato operativo contro il traffico di esseri umani”. Gli obiettivi, sottolineati da Hahn e elencati nel non-paper della Commissione, sono “prevenire le partenze e le perdite di vite umane e aumentare i rimpatri”. Ma anche “fornire alternative credibili ai viaggi mortali”, rafforzando l’offerta per percorsi di migrazione regolare attraverso una Partnership per i Talenti. A conferma del ruolo che vuole giocare il governo Meloni nella vicenda, la commissaria  dovrebbe essere accompagnata dai ministri degli Interni di Italia e Francia, Matteo Piantedosi e Gérald Darmanin. La missione congiunta italo-francese sarebbe in via di definizione: “Si sta discutendo su come costruirla”, confermano fonti diplomatiche.

    La misura, proposta in un non-paper circolato tra i 27 in vista del Consiglio Affari Esteri di lunedì 24 aprile, sarebbe “complementare e in attesa” dell’accordo tra il presidente Saied e il Fondo Monetario Internazionale. A fine mese Johansson in Tunisia per lanciare il partenariato operativo anti-trafficanti

  • in

    Che cosa significa liberalizzazione dei visti per un Paese extra-Ue ed extra-Schengen e a quali è stata concessa

    Bruxelles – Dopo un’attesa di oltre cinque anni, anche per i cittadini del Kosovo sarà in vigore al più tardi dal primo gennaio 2024 la liberalizzazione dei visti in ingresso nell’area Schengen. Un successo politico che cambierà da un punto di vista pratico la vita ai kosovari, gli ultimi in Europa a poter beneficiare di una prerogativa che per i cittadini dell’Unione Europea ormai è data pressoché per scontata. Oggi (19 aprile) è stato formalizzato a Strasburgo l’accordo di liberalizzazione dei visti con Pristina, alla presenza della presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, il vicepremier kosovaro, Besnik Bislimi, e il relatore per l’Eurocamera, Thijs Reuten, che in occasione del via libera dalla sessione plenaria ha rilasciato un’intervista a Eunews.
    Ma cosa significa liberalizzazione dei visti per un Paese extra-Ue? Nella pratica si tratta dell’esenzione dal dover fare richiesta per ottenere il visto d’ingresso per accedere allo spazio Schengen, ovvero l’area che ha ha abolito le frontiere interne. I cittadini di questi Stati possono utilizzare semplicemente il proprio passaporto nazionale – senza ulteriori requisiti richiesti – per viaggiare e soggiornare fino a 90 giorni (in un periodo complessivo di 180 giorni) nei Paesi Ue e Schengen.
    Tutti i cittadini dei Paesi membri Ue possono attraversare liberamente le frontiere interne con la propria carta d’identità – anche quelli che non fanno parte dello spazio Schengen, cioè Cipro, Bulgaria, Irlanda e Romania – così come i cittadini dei territori esterni appartenenti ai 27 Paesi Schengen (Groenlandia, Isole Svalbard, Guyana Francese, Nuova Caledonia e altri territori d’oltremare). All’area che ha abolito le frontiere interne aderiscono anche quattro Stati extra-Ue: Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera. I cittadini di un qualsiasi altro Paese nel mondo solitamente devono fare richiesta di un visto (di lavoro, turistico, di studio), che è l’atto con il quale uno Stato concede a un individuo straniero il permesso di accedere nel proprio territorio. Tuttavia l’Ue ha istituito una politica di visti comune per soggiorni di breve durata, transito nel territorio o negli aeroporti internazionali degli Stati Schengen.
    Sulla base di una valutazione caso per caso la Commissione può proporre ai co-legislatori del Parlamento e del Consiglio dell’Ue una decisione per la liberalizzazione dei visti. La valutazione si basa su una serie di criteri pre-stabiliti: migrazione irregolare, ordine pubblico e sicurezza, vantaggi economici (turismo e commercio estero), diritti umani, libertà fondamentali, implicazioni di coerenza regionale e reciprocità. Le nuove decisioni sull’esenzione devono essere adottate da entrambi i co-legislatori, dopo i negoziati bilaterali con il Paese interessato.

    Signed, sealed, delivered.
    Proud moment for @Europarl_EN as today we gave our final green light for visa liberalisation with Kosovo.
    This will make life easier for the people of Kosovo – to travel, to do business, to deepen the bond with fellow Europeans. pic.twitter.com/cZVx5eZ8QU
    — Roberta Metsola (@EP_President) April 19, 2023

    A quali Stati è stata concessa la liberalizzazione dei visti
    Le decisioni sulla liberalizzazione dei visti vanno ad aggiornare i due elenchi annessi al Regolamento del 2018: quello dei ‘Paesi terzi i cui cittadini devono essere in possesso del visto all’atto dell’attraversamento delle frontiere esterne’ e quello dei ‘Paesi terzi i cui cittadini sono esenti da tale obbligo’. Del primo elenco fanno parte tutti gli Stati del mondo con cui non sono in vigore accordi per la liberalizzazione dei visti, sia quelli per cui il visto è sempre necessario per entrare o transitare in qualsiasi Paese Schengen (Afghanistan, Bangladesh, Eritrea, Etiopia, Ghana, Iran, Iraq, Nigeria, Pakistan, Repubblica Democratica del Congo e Somalia), sia quelli per cui non è richiesto in tutti i Paesi Schengen. I cittadini di Stati appartenenti a questo elenco devono rispettare le regole nazionali sui visti richieste da ciascun membro Ue o Schengen.
    Il secondo elenco conterà invece 64 membri al più tardi dal primo gennaio 2024, quando il Kosovo sarà spostato dal primo elenco. Di questo elenco fanno parte anche due regioni amministrative speciali della Cina (Hong Kong e Macao) e Taiwan (autorità territoriale non riconosciuta come Stato da tutti i membri Ue). Gli accordi con Bielorussia, Russia e Vanuatu sono stati invece sospesi. Questa la lista dei Paesi a cui è stata concessa la liberalizzazione dei visti:
    Albania, Andorra, Antigua e Barbuda, Argentina, Australia, Bahamas, Barbados, Bosnia ed Erzegovina, Brasile, Brunei, Canada, Cile, Colombia, Corea del Sud, Costa Rica, Dominica, El Salvador, Emirati Arabi Uniti, Georgia, Giappone, Grenada, Guatemala, Honduras, Hong Kong, Isole Salomone, Israele, Kiribati, Kosovo, Malaysia, Macao, Macedonia del Nord, Isole Marshall, Mauritius, Messico, Micronesia, Moldova, Monaco, Montenegro, Nauru, Nicaragua, Nuova Zelanda, Palau, Panama, Paraguay, Perù, Saint Christopher (Saint Kitts) e Nevis, Regno Unito, Samoa, San Marino, Santa Lucia, Serbia, Seychelles, Singapore, Stati Uniti, St. Vincent e Grenadine, Taiwan, Timor Est, Tonga, Trinidad e Tobago, Tuvalu, Ucraina, Uruguay, Vaticano e Venezuela.

  • in

    Von der Leyen e Borrell cercano di serrare le fila Ue tra Cina e Taiwan. Ma all’Eurocamera scoppia la polemica su Macron

    Bruxelles – Divide et impera. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, sono certi che la Cina stia giocando una partita diplomatica sottile, sfruttando le crepe nell’unità degli Stati membri e delle famiglie politiche europee per quanto riguarda i rapporti dell’Unione con Pechino, la posizione su Taiwan e la strategia per arrivare all’ormai inflazionato concetto della ‘autonomia strategica’. Una tattica che si starebbe sviluppando sull’onda lunga delle polemiche scatenate dalle parole del presidente francese, Emmanuel Macron, di ritorno dal viaggio a Pechino proprio con la numero uno della Commissione Ue lo scorso 6 aprile.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo (18 aprile 2023)
    “Negli ultimi giorni e settimane abbiamo già visto queste tattiche in azione“, è stato l’avvertimento lasciato tra le righe dalla presidente von der Leyen nel corso del suo intervento di oggi (18 aprile) alla sessione plenaria del Parlamento Ue a Strasburgo nel dibattito sulla strategia per le relazioni Ue-Cina. Il riferimento è alla necessità di “una forte politica europea sulla Cina, che si basa su un coordinamento tra gli Stati membri e le istituzioni dell’Ue” – come affermato nel discorso programmatico del 30 marzo – e alla “volontà di evitare le tattiche di divisione e conquista che sappiamo di dover affrontare“. Divide et impera, appunto. “È ora che anche l’Europa passi all’azione, è il momento di dimostrare la nostra volontà collettiva e mostrare l’unità che ci rende forti”, ha provato a esortare l’emiciclo dell’Eurocamera la leader dell’esecutivo comunitario.
    La posizione di von der Leyen sulle sfide portate dalla Cina è netta, nel tentativo di compattare i gruppi politici e mettersi alla testa di un’Unione che non parli con diverse voci contrastanti. “Il punto di partenza è la necessità di avere un quadro condiviso e chiaro dei rischi e delle opportunità“, ha messo in chiaro agli eurodeputati la presidente della Commissione: “Questo significa riconoscere e dire chiaramente che le azioni del Partito Comunista Cinese sono ormai al passo con l’indurimento della postura strategica complessiva negli ultimi anni”. Non solo le “dimostrazioni di forza militare” nel Mar Cinese Meridionale e Orientale, o al confine con l’India, ma anche la questione di Taiwan. “La politica dell’Ue di ‘una sola Cina’ [il principio secondo cui esiste un solo Stato-nazione nel mondo sotto il nome di Cina, ndr] è di lunga data”, ha ricordato von der Leyen, ma questo non cambia il fatto che “abbiamo sempre chiesto pace e stabilità nello Stretto di Taiwan e ci opponiamo fermamente a qualsiasi cambiamento unilaterale dello status quo, in particolare attraverso l’uso della forza“.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, alla sessione plenaria del Parlamento Europeo (18 aprile 2023)
    Sulla stessa linea d’onda l’alto rappresentante Borrell, riferendosi proprio alla questione delle tensioni tra Cina e Taiwan. “Stiamo parlando dello Stretto più strategico al mondo, dobbiamo essere presenti per difendere la libertà di commercio”, ha sottolineato con forza intervenendo di fronte agli eurodeputati. Non si tratta solo di “una questione morale nell’essere contrari all’uso della forza”, ma anche di una fredda valutazione sul fronte economico: “Sarebbe gravissimo per la produzione dei semiconduttori a Taiwan“. E poi c’è il tema del ruolo dell’Unione Europea come “potenza geopolitica”, che per Borrell implica il fatto di “essere presenti in tutte le regioni del mondo, per difendere i nostri interessi”. Ecco perché è necessario fare un “appello alla calma” tra Pechino e Taipei, ha concluso Borrell: “Bisogna tornare a uno status quo nel perimetro strategico dell’Ue e non gettare benzina sul fuoco, sono sicuro che tutti i Paesi Ue saranno d’accordo“.
    [embedded content]
    La bagarre al Parlamento Ue sulle parole di Macron su Cina e Taiwan
    Ma quel senso di unità auspicato da von der Leyen e Borrell non si è manifestato nemmeno a pochi minuti dalla fine dei due interventi, quando i presidenti dei gruppi politici al Parlamento Ue si sono succeduti di fronte all’emiciclo per esprimere il proprio punto di vista sulle relazioni tra Bruxelles e Pechino. A scatenare le polemiche tra gli eurodeputati sono state le accuse contro Macron da parte del presidente del Partito Popolare Europeo (Ppe), Manfred Weber (dopo aver tentato invano di far passare un titolo per la discussione sulle relazioni Ue-Cina incentrato proprio sui “danni” provocati dal presidente francese). “È ingenuo dire che Taiwan non è una nostra questione“, è stato l’attacco di Weber, facendo esplicito riferimento alle affermazioni “sciocche” dell’inquilino dell’Eliseo a proposito della possibilità per l’Ue di non essere coinvolta in un conflitto tra Pechino e Taipei. “Per l’economia europea Taiwan è essenziale, e chi la attacca vuole distruggere l’essenza democratica” su cui si basa l’Unione: “Chi non è chiaro da questo punto di vista tradisce gli interessi e i valori europei” e Macron “ha intaccato l’unità dell’Ue”.
    Durissima la risposta del presidente del gruppo di Renew Europe, Stephan Séjourné: “Weber non si è accorto che il titolo della discussione è diverso, ma in ogni caso non ricorda che con i governi di partiti affiliati al Ppe sono aumentate le dipendenze strategiche dalla Cina“. Anche la leader del gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D), Iratxe García Pérez, si è scagliata contro il collega popolare: “In questo nuovo ruolo di leader dell’opposizione, per Weber è indifferente criticare tutti i leader europei, da Macron a Scholz, ma mai quelli dell’estrema destra, attenzione che magari un giorno criticherà anche von der Leyen”. Il presidente del gruppo dei Verdi/Ale, Philippe Lamberts, ha invece preso di mira “l’ingenuità mercantilistica che abbia avuto nei confronti della Cina, come se un commercio senza limiti avrebbe potuto portare la democrazia a Pechino”, mentre l’omologo del gruppo di Identità e Democrazia (ID), Marco Zanni, ha definito Macron “il più grande sovranista e nazionalista d’Europa, che è andato in Cina e ha portato a casa ricchi contratti e accordi per le aziende francesi”.
    A tentare di smorzare le polemiche su Macron e riprendere le fila di un’unità difficile sulla questione cinese è stato l’alto rappresentante Borrell, in chiusura del dibattito durato tre ore. “Ho letto con molta attenzione il discorso dove ha sviluppato il concetto di autonomia strategica, ci ho trovato molte idee europeiste che condivido“, ha puntualizzato di fronte agli eurodeputati, esortandoli a “evitare ulteriori cacofonie” e “lavorare insieme sulla politica di sicurezza, perché il Parlamento Europeo svolge un ruolo importante”. La strategia dell’Unione “non si contraddice con la Nato e non cerca alternative agli Stati Uniti”, ha ribadito con forza Borrell: “Si tratta di rendere la comunità transatlantica più forte, se lo saremo anche noi, perché Stati Uniti e Nato non possono risolvere tutte le nostre crisi“.

    Nei rispettivi interventi alla plenaria del Parlamento Ue è stata ribadita la necessità di unità tra i Ventisette nell’affrontare la tattica di Pechino di “divisione e conquista”. Le accuse del presidente del Ppe, Manfred Weber, al leader francese riaccendono però la bagarre tra eurodeputati

  • in

    INTERVIEW / Reuten: “Kosovo visa liberalization is the start of a new chapter for our relations. But it took us too long”

    Brussels – One small step for the European Union, one giant leap for Kosovo. Even if the conditions for getting there have been on the table for years, embarrassing the EU institutions, Kosovo visa liberalization will become soon reality thanks to the green light of the European Parliament. Following the vote in the plenary session, also the citizens of the last remaining European country – except for Russia and Belarus – will be able to access to the EU and the Schengen area only with their passports. “This is the opening of a new chapter in our relationship”, the rapporteur for the European Parliament, Thijs Reuten (S&D), confirmed in an interview with Eunews.
    In a few months, the same rules will be applied to all Western Balkan countries – Albania, Bosnia and Herzegovina, Kosovo, Montenegro, North Macedonia and Serbia – in order to have access to the area where internal borders are abolished: no need to apply for a visa for short-stays (90 days in any 180-day period). What is almost taken for granted by EU citizens will become a reality for Kosovar citizens as well, coming closer to the awareness of being part of “the same continent, the same family, the same heritage, the same history”, the Dutch MEP hopes.
    Why is the adoption of Kosovo visa liberalization so meaningful?
    “The final adoption of Kosovo visa liberalization by the plenary session of the European Parliament means that we have completed the legislative process and we can hold the signing ceremony tomorrow, April 19. It goes without saying that it has been long overdue, because Kosovo has been fulfilling the criteria for many years. It is an historic breakthrough, considering that Kosovar citizens who do not have access to either an Albanian or Serbian passport are not able to travel easily in the rest of Europe. And it also has a symbolic value. To me, this is the start of a new era, because finally Kosovo will join all the other visa-free countries”.
    When will it go into effect?
    “At the latest on 1st January 2024, there will be visa-free travel for Kosovar citizens. I would have wanted an earlier date, but this is linked to the Etias [European Travel Information and Authorisation System, ndr] entry into force, that has been postponed too many times. It was supposed to be already active, according to the original plan. If a miracle happens and the system will be running before, theoretically, Kosovo visa liberalization could start earlier. But let’s focus on 1st January 2024″.
    The rapporteur for Kosovo visa liberalization, Thijs Reuten, and the Prime Minister of Kosovo, Albin Kurti
    What will it change then for Kosovar citizens?
    “That they can decide to travel freely to the European Union. They still have to show their passport, when they enter the EU or the Schengen area, like many other people from all over the world. However, they will no longer have to think to get a visa. Every time you have to pass through this process, you feel like doing an exam, although you are sure that you fulfill all the conditions. Us, the EU citizens, are used to travel easily wherever with our national passport, we need to get a visa for a very few countries. But for Kosovar citizens it was not like that”.
    Why did it take us so long?
    “I think it took us so long because of political reasons in the Council. Some governments used this last pending European file in the series of visa liberalization in internal political debates. This is not good, because there are always elections coming up somewhere or political reasons to postpone a decision. It is very simple: if we set rules and conditions – and a country meets all of them – we have to deliver. Unfortunately, the European Union has a tradition not always to deliver even when conditions are fulfilled. This is something that undermines the trust in the process, like in the case of Kosovo visa liberalization”.
    Albanian prime minister, Edi Rama, said that Kosovar citizens were more connected to Europe when they were part of Yugoslavia…
    “Kosovo was left behind for so long, it was the last European country without visa liberalization. Even Bosnia and Herzegovina and Montenegro got it a long time ago. Kosovar citizens were left aside, resulting in the situation that they were feeling less free or less included, compared to the times when they were part of former Yugoslavia. The more you think about it, the more ridiculous the situation gets. In any case, Kosovo kept faith in the process, and now everything is behind us”.
    How was the attitude of the political groups in the European Parliament?
    “In the European Parliament, there has never been an issue, and we have always been the co-legislator pushing for the visa liberalization. When Kosovo fulfilled all the conditions more than four years ago, based on the European Commission’s report, we pushed to go ahead with a large majority. In the Council, when the Czech presidency saw a window of opportunity last year, we could finally strike a deal thanks to all EU governments, because moving Kosovo from one list to the other was not a very complicated issue in technical terms“.
    However, five EU Member States still do not recognize Kosovo as an independent State.
    “Spain, Greece, Cyprus, Romania and Slovakia have had different paths in their position of non-recognition of Kosovo, but I hope that all of them will be engaged in this debate. I am really counting on them to assess the situation: it does not have to happen next week or next month, but there is a need for some kind of change. I think it would be quite illogical, if these five countries will not show at least their willingness to move in the direction of recognizing Kosovo. In particular considering the direction the EU is taking on the normalization agreement, that we want to be binding and implemented”.
    You are referring to the agreements between Kosovo and Serbia reached between February and March.
    “Yes, I see a situation moving towards recognition. Because the agreement includes the recognition of travel documents and symbols of Kosovo, the non-objection by Serbia to membership of Prishtina in international organizations, and also not encouraging others to block. I am confident there will be some good news in the next months, thanks to this agreement: an implementation committee will be set up, there are very important talks ongoing, for example the one on the missing persons. In small steps, we are moving”.
    There has been a big discussion about the fact that the agreement has not been signed. At the same time, the EU is using the financial leverage as a tool of persuasion for the implementation.
    “If this agreement will not be implemented, there will have to be severe consequences. We must be strict and step up our game. Because now we have a binding agreement, I think that the HRVP Josep Borrell did a great job. There is no discussion on the signing, the attention in Serbia and Kosovo has to be only on the implementation, because we will put what has been agreed into the framework of the respective EU accession processes of Kosovo and Serbia”.
    Does it have particular implications for Serbia?
    “Both countries must implement the agreement as fast as possible, of course. However, we saw Kosovo negotiating in a tough manner, but in good faith, while on the other side the Serbian President [Aleksandar Vučić, ndr] wants to create a sort of insecurity in and around the process. Moreover, we have a Hungarian commissioner [for Neighborhood and Enlargement, Olivér Várhelyi, ndr] who is not serving the interests of the European Union, that is to bring all the candidate countries closer to the European Union, on equal footing and measured against the same high standards. Just a couple of weeks ago, the day after Vučić returned to Belgrade saying he would not sign the agreement, he got 600 million euros from the EU, the biggest grant ever given to Serbia. For this wrong signal, I asked a written question to the European Commission about it”.
    What should the EU ask Serbia?
    “I am a friend of Serbia too, I want this country to join the EU as well, but we need to be clear about the conditions: democracy, impartial political structures, Rule of Law. And the EU membership cannot be achieved, if Serbia is involved in all kinds of destabilizing actions from Montenegro to Bosnia and Herzegovina and faces democratic backsliding. If we can find the road to make its accession a success, as the biggest country and economy Serbia could lead the entire region in joining the EU family“.
    From the left: the Prime Minister of Kosovo, Albin Kurti, the EU Special Representative for the Belgrade-Pristina Dialogue, Miroslav Lajčák, the EU High Representative for Foreign Affairs and Security Policy, Josep Borrell, and the President of Serbia, Aleksandar Vučić (March 18, 2023)

  • in

    INTERVISTA / Reuten: “La liberalizzazione dei visti per il Kosovo è l’inizio di un nuovo capitolo. Ma ci abbiamo messo troppo”

    Bruxelles – Un piccolo passo per l’Unione Europea, un grande passo per il Kosovo. Anche se, a ben vedere, le condizioni per arrivarci c’erano già tutte da anni e questo non fa particolare onore ai Ventisette. Con il voto favorevole in Parlamento Europeo è arrivato il via libera definitivo alla liberalizzazione dei visti per i cittadini del Kosovo, gli ultimi in tutta Europa – fatta eccezione per Russia e Bielorussia – a cui non bastava esibire il proprio passaporto per accedere ai Paesi membri dell’Ue e dello spazio Schengen. “È l’inizio di un nuovo capitolo nelle nostre relazioni”, lo ha definito il relatore per il Parlamento Europeo, Thijs Reuten (S&D), in un’intervista concessa a Eunews.
    Fra pochi mesi per tutti i Paesi dei Balcani Occidentali – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – varranno le stesse regole di ingresso nell’area che ha abolito le frontiere interne: per i soggiorni di breve durata (fino a 90 giorni in un periodo complessivo di 180) non è necessario richiedere un visto, ma è sufficiente presentare il passaporto. Ciò che per i cittadini dell’Unione Europea è pressoché scontato diventerà una realtà anche per quelli kosovari, finalmente più vicini a sentirsi davvero parte “dello stesso continente, della stessa famiglia, dello stesso patrimonio culturale, della stessa storia”, è la speranza dell’eurodeputato olandese.
    Che significato ha il via libera alla liberalizzazione dei visti per il Kosovo?
    “L’adozione definitiva della liberalizzazione dei visti per il Kosovo da parte della sessione plenaria del Parlamento Europeo significa che abbiamo completato l’iter legislativo e che domani [19 aprile, ndr] si potrà svolgere la cerimonia di firma. Era un momento atteso da tempo, perché il Kosovo soddisfa i criteri da molti anni. Si tratta di una svolta storica, considerato il fatto che i cittadini kosovari che non hanno accesso a un passaporto albanese o serbo non possono viaggiare facilmente nel resto d’Europa. E ha anche un valore simbolico: per me è l’inizio di una nuova era, perché finalmente il Kosovo si unirà a tutti gli altri Paesi esenti da visto”.
    Quando entrerà in vigore l’esenzione?
    “Al più tardi il primo gennaio 2024 i cittadini kosovari saranno esenti dal visto. Avrei voluto fosse prima, ma l’esenzione è legata all’entrata in vigore dell’Etias [Sistema europeo di informazione e autorizzazione ai viaggi, ndr], che è stato rimandato troppe volte. Avrebbe dovuto essere già attivo, secondo il piano originale. Se accadrà un miracolo e il sistema entrerà in funzione prima, teoricamente la liberalizzazione dei visti per il Kosovo potrebbe arrivare in una data precedente. Ma ora concentriamoci sul primo gennaio 2024″.
    Il relatore per la liberalizzazione dei visti per il Kosovo, Thijs Reuten, e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti
    Cosa cambierà in quel momento per i cittadini kosovari?
    “Che potranno decidere di viaggiare liberamente nell’Unione Europea. Dovranno comunque mostrare il passaporto quando entreranno nei Paesi membri Ue o dell’area Schengen, come molte altre persone provenienti da tutto il mondo, ma non dovranno più pensare a ottenere un visto. Ogni volta che si deve passare attraverso questa procedura, è come passare da un esame, anche se si soddisfano tutte le condizioni. Noi cittadini dell’Unione Europea siamo abituati a viaggiare facilmente ovunque con il nostro passaporto e dobbiamo chiedere un visto in pochissimi Paesi. Ma per i cittadini kosovari finora è stato l’esatto contrario”.
    Perché ci è voluto tanto tempo?
    “Credo che ci sia voluto così tanto tempo per questioni politiche in seno al Consiglio. Alcuni governi hanno usato quest’ultimo dossier in sospeso sulla liberalizzazione dei visti in Europa per dibattiti politici interni. Ma ci sono sempre elezioni in programma o problemi politici per posticipare le decisioni. È molto semplice: se stabiliamo regole e condizioni – e un Paese le raggiunge tutte – dobbiamo rispettare gli impegni. Purtroppo l’Unione Europea ha una tradizione nel non rispettare sempre le condizioni, ma questo mina la fiducia nel processo di allargamento, come nel caso della liberalizzazione dei visti in Kosovo”.
    Il primo ministro albanese, Edi Rama, ha dichiarato che i cittadini kosovari erano meglio collegati all’Europa quando facevano parte della Jugoslavia…
    “Il Kosovo è stato lasciato indietro per troppo tempo, è l’ultimo Paese europeo a cui è stata garantita la liberalizzazione dei visti. Persino la Bosnia ed Erzegovina e il Montenegro l’hanno ottenuta molto tempo fa. I cittadini kosovari sono stati marginalizzati, con il risultato che si sono sentiti meno liberi o meno inclusi rispetto ai tempi dell’ex-Jugoslavia. Più ci si pensa, più la situazione è ridicola. In ogni caso, il Kosovo ha mantenuto la propria fiducia nel processo legislativo e ora ci siamo lasciati tutto questo alle spalle”.
    Qual è stata la posizione dei gruppi politici del Parlamento Europeo?
    “Al Parlamento Europeo non c’è mai stato alcun problema e siamo sempre stati i co-legislatori che hanno spinto per la liberalizzazione dei visti. Da quando il Kosovo ha soddisfatto tutte le condizioni più di quattro anni fa, sulla base del rapporto della Commissione Europea, abbiamo spinto con una larga maggioranza per andare avanti con la liberalizzazione. E alla fine anche al Consiglio dell’Ue, quando l’anno scorso la presidenza ceca ha intravisto una finestra di opportunità, abbiamo potuto finalmente trovare un accordo grazie a tutti i governi. Perché in fondo spostare il Kosovo da una lista all’altra non era una questione così complicata a livello tecnico”.
    Eppure cinque Stati membri dell’Ue non riconoscono ancora il Kosovo come Stato indipendente.
    “Spagna, Grecia, Cipro, Romania e Slovacchia hanno avuto percorsi diversi nella loro posizione di non-riconoscimento del Kosovo, ma spero che tutti si impegnino in questo dibattito. Conto davvero su di loro nella valutazione dela situazione: non deve accadere la settimana prossima o il mese prossimo, ma abbiamo bisogno di un cambiamento. Penso che non sarebbe molto logico se questi cinque Paesi non mostrassero almeno la loro volontà di muoversi nella direzione del riconoscimento del Kosovo. In particolare considerando la direzione che l’Ue sta prendendo sull’accordo di normalizzazione, che vogliamo sia vincolante e implementato”.
    Si riferisce agli accordi tra Kosovo e Serbia raggiunti tra febbraio e marzo.
    “Sì, e vedo una situazione che va verso il riconoscimento del Kosovo. Perché l’accordo prevede il riconoscimento dei documenti di viaggio e dei simboli nazionali, la non-opposizione da parte della Serbia all’adesione di Prishtina alle organizzazioni internazionali, e anche il non incoraggiare altri a bloccarla. Sono fiducioso che arriveranno buone notizie nei prossimi mesi, grazie a questo accordo: sarà istituito un comitato di attuazione e sono già in corso colloqui molto importanti, per esempio quello sulle persone scomparse. A piccoli passi, ci stiamo muovendo”.
    Si è discusso molto sul fatto che l’accordo non è stato firmato. Allo stesso tempo, l’Ue sta usando la leva finanziaria come strumento di persuasione per la sua implementazione.
    “Se l’accordo non sarà implementato, ci saranno pesanti conseguenze. Dobbiamo essere rigorosi e alzare la posta in gioco. Perché ora abbiamo un accordo vincolante, e credo che l’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, abbia fatto un ottimo lavoro. Non ci deve essere nessuna questione a proposito della firma, l’attenzione in Serbia e in Kosovo deve essere rivolta solo all’implementazione dell’accordo, perché inseriremo quanto concordato nel quadro dei processi di adesione all’Ue di Kosovo e Serbia”.
    Che implicazioni ha tutto ciò per la Serbia?
    “Entrambi i Paesi devono attuare l’accordo il più velocemente possibile, naturalmente. Tuttavia, abbiamo visto il Kosovo negoziare in modo duro, ma in buona fede, mentre dall’altra parte il presidente serbo [Aleksandar Vučić, ndr] vuole creare una sorta di insicurezza nei confronti del processo. A questo si aggiunge il fatto che abbiamo un commissario ungherese [per il vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, ndr] che non sta facendo gli interessi dell’Unione Europea, cioè avvicinare tutti i Paesi candidati all’Unione Europea su un piano di parità e agli stessi standard. Solo un paio di settimane fa, il giorno dopo essere tornato a Belgrado dicendo che non avrebbe firmato l’accordo, Vučić ha ottenuto 600 milioni di euro dall’Ue, la più grande sovvenzione mai concessa alla Serbia. Per questo ho presentato un’interrogazione scritta alla Commissione Europea”.
    Cosa dovrebbe chiedere l’Ue a Belgrado?
    “Sono un amico della Serbia, voglio che anche questo Paese entri nell’Ue, ma dobbiamo essere chiari sulle condizioni: democrazia, strutture politiche imparziali, Stato di diritto. E l’adesione all’UE non può essere raggiunta se la Serbia è coinvolta in azioni destabilizzanti, dal Montenegro alla Bosnia ed Erzegovina e nell’erosione della democrazia. Se riusciamo a trovare la strada per rendere la sua adesione un successo, in qualità di più grande Paese e maggiore potenza economica, la Serbia potrebbe guidare l’intera regione a entrare nella famiglia dell’Unione Europea”.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić (18 marzo 2023)

  • in

    L’ambasciatore Ue in Sudan è stato aggredito nella sua residenza a Khartoum durante gli scontri armati

    Bruxelles – I duri scontri armati in Sudan tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf) interessano da vicino l’Unione Europea, e non solo per gli sforzi nel coordinare la de-escalation di una potenziale guerra civile nel Paese africano. Nella serata di ieri (17 aprile) l’ambasciatore Ue in Sudan, l’irlandese Aidan O’Hara, è stato aggredito nella sua residenza nella capitale Khartoum, nel corso di quella che l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha definito “una grave violazione della Convenzione di Vienna” (il testo del 1961 che disciplina le prerogative di cui godono gli ambasciatori, tra cui l’inviolabilità dei funzionari diplomatici).
    Khartoum, Sudan (credits: Afp)
    La notizia è stata resa nota proprio dall’alto rappresentante Borrell a poche ore dall’aggressione dell’ambasciatore Ue in Sudan: “La sicurezza delle sedi diplomatiche e del personale è una responsabilità primaria delle autorità sudanesi e un obbligo previsto dal diritto internazionale“. Il nome di O’Hara è stato confermato dai portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), che hanno specificato di essere in contatto con il diplomatico irlandese e che “sta bene”. Parlando con Irish Times, il ministro degli Esteri irlandese, Micheál Martin, ha ribadito che l’ambasciatore Ue in Sudan non è stato “gravemente ferito”, ma si è detto “profondamente preoccupato per il grave incidente avvenuto a Khartoum”.
    Cosa sta succedendo in Sudan
    L’esplosione delle violenze nella capitale Khartum e nel resto del Paese è iniziato sabato mattina (15 aprile) e, secondo quanto riferito dall’inviato dell’Onu Volker Perthes, in tre giorni di combattimenti sono state uccise circa 185 persone e ferite più di 1.800, tra cui tre impiegati del Programma alimentare mondiale (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare). Il commissario europeo per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, ha ricordato che “gli operatori umanitari lavorano spesso negli ambienti più pericolosi, non sono un obiettivo e il diritto internazionale umanitario deve essere sempre rispettato”. A fronteggiarsi sono l’esercito regolare del Sudan, comandato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 anche presidente del Paese), e le forze paramilitari da 100 mila membri guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (vicepresidente del Sudan). L’esercito regolare ha il controllo dell’aviazione e ha iniziato a bombardare le basi Rsf, che a loro volta sta facendo largo uso di artiglieria nei centri abitati.
    Da sinistra: il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, vicepresidente del Sudan (credits: Afp)
    Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati da qualche giorno in violenti combattimenti armati.
    Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur (iniziata nel 2003) furono accusati di genocidio: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, furono accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si trasformarono autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e allacciando i rapporti con il gruppo mercenario russo Wagner.

    È successo nella serata del 17 aprile nella capitale sudanese, nel corso dei combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces. L’accusa dell’alto rappresentante Ue, Josep Borrell: “Grave violazione della Convenzione di Vienna”