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    Semaforo verde dall’Eurocamera al piano da 300 milioni per gli appalti congiunti di armi

    Bruxelles – Trecento milioni di euro fino alla fine del 2025 per rafforzare l’industria europea della difesa attraverso gli appalti congiunti. Con ampia maggioranza (530 voti a favore, 66 contrari e 32 astenuti), il Parlamento europeo riunito a Strasburgo in plenaria ha dato il via libera definitivo oggi (12 settembre) al nuovo regolamento, concordato con gli Stati membri Ue a fine giugno, per istituire uno strumento temporaneo per rafforzare l’industria europea della difesa attraverso appalti comuni tra i Ventisette (il nome inglese è ‘Edirpa’, European Defence Industry Reinforcement through common Procurement Act) che avrà una dotazione di 300 milioni fino al 2025. 
    Una proposta avanzata dalla Commissione europea a luglio 2022, che ricoprirà anche un ruolo di finanziamento importante per il piano Ue per lo sviluppo dell’industria della difesa, presentato dalla lo scorso 3 maggio per arrivare a produrre almeno un milione di munizioni all’anno Made in Europe con cui contribuire alla resistenza dell’Ucraina all’aggressione della Russia. Gli acquisti congiunti dovranno coinvolgere un minimo di tre Stati membri e saranno aperti alla partecipazione dei Paesi dell’Associazione europea di libero scambio che sono anche membri dello Spazio economico europeo (Paesi associati).
    Una nota dell’Europarlamento spiega che il contributo finanziario dell’Ue a ciascun acquisto sarà limitato al 15 per cento del valore stimato del contratto di appalto comune per consorzio, che può essere portato al 20 per cento se l’Ucraina o la Moldavia sono destinatarie di quantità aggiuntive di prodotti per la difesa, o se almeno il 15 per cento del valore stimato del contratto di appalto comune è assegnato a PMI o a società a media capitalizzazione in qualità di appaltatori o subappaltatori.
    Lo strumento incentiverà gli Stati membri ad acquistare in comune i prodotti per la difesa più critici e urgenti nel quadro della guerra di Russia in Ucraina, rafforzando l’interoperabilità tra gli Stati membri per gli stessi prodotti, faciliterà i risparmi sui costi e aumenterà la competitività e l’efficienza della base industriale e tecnologica di difesa europea. “Il voto di oggi segna un momento storico per la difesa dell’Ue, in quanto istituisce il primo strumento comunitario per l’approvvigionamento congiunto da parte degli Stati membri. Questo strumento li aiuterà a rifornire le loro scorte, ad aumentare l’interoperabilità tra le nostre forze armate, a rafforzare la nostra industria e a contribuire al nostro incrollabile sostegno all’Ucraina. Tuttavia, di fronte a una crisi storica, l’EDIRPA può essere solo un punto di partenza per un’agenda di difesa comune molto più ambiziosa”, ha dichiarato il co-relatore tedesco della commissione affari esteri Michael Gahler.
    Edirpa rappresenta un nuovo passo verso una difesa europea più ambiziosa e integrata, insieme alla Legge per il sostegno della produzione di munizioni, un piano in due pilastri (uno ‘programmatico’ e uno ‘normativo’) messo nero su bianco dal commissario per il mercato interno, Thierry Breton, a valle di un vero e proprio ‘tour della difesa’ che lo ha visto tra marzo e aprile impegnato a visitare gli undici Paesi dell’Unione europea con l’industria della difesa più avanzata, tra cui anche l’Italia. Il piano prevede di mobilitare 500 milioni di euro dal bilancio fino a giugno 2025 per aumentare la capacità dell’industria europea di produrre munizioni, con l’obiettivo di produrre almeno un milione di pezzi all’anno (di cui 260 milioni dal Fondo europeo per la difesa e 240 milioni proprio dallo strumento Edirpa). 

    Con ampia maggioranza approvato il nuovo regolamento, concordato con gli Stati membri Ue a fine giugno, per istituire uno strumento temporaneo per rafforzare l’industria europea della difesa

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    All’Eurocamera l’accordo con la Tunisia non piace (quasi) a nessuno. Nel mirino aumento degli sbarchi e violazioni dei diritti umani

    Bruxelles – Pioggia di critiche per il controverso memorandum d’intesa Ue-Tunisia fortemente voluto e firmato lo scorso 16 luglio dalla Commissione europea e dall’autoritario presidente Kais Saied. Non solo da sinistra, come era lecito aspettarsi. Anche una parte dell’universo conservatore del Parlamento europeo ha sollevato i propri dubbi su un accordo poco trasparente, che nel breve periodo non ha portato alcun risultato e che rischia di rendere l’Ue ostaggio delle politiche aggressive dell’uomo forte di Tunisi.
    A un giorno dall’atteso discorso sullo Stato dell’Unione di Ursula von der Leyen, la scelta della presidente della Commissione europea di rafforzare la cooperazione con un Paese sempre più lontano dagli standard di democrazia e rispetto dei diritti umani tanto cari all’Ue non è andata giù all’emiciclo di Strasburgo. A metterci la faccia il commissario Ue per l’allargamento, Olivér Várhelyi, che ha cercato di convincere gli eurodeputati delle ragioni che hanno reso necessario un accordo che prevede l’esborso immediato di 150 milioni di euro a supporto del budget del Paese nordafricano e 105 milioni per la gestione delle frontiere. E altri 900 milioni di euro di assistenza macrofinanziaria vincolati all’accordo tra Saied e il Fondo Monetario Internazionale per un maxi-prestito da 1,9 miliardi di dollari.
    Il commissario Ue per l’Allargamento, Oliver Varhelyi
    Varhelyi ha definito il memorandum “un investimento nella nostra prosperità, stabilità e nelle future generazioni” e ha garantito che ora il focus è sulla sua rapida implementazione, che starebbe procedendo con “regolari meeting tecnici e politici” con le controparti tunisine. Obiettivo “fondamentale” è trovare una soluzione ai flussi migratori in un modo “comprensivo e sostenibile”: per il commissario i trend attuali – con un aumento degli sbarchi del 69 per cento dal Mediterraneo centrale da quando è stato firmato il memorandum-, non smentiscono l’accordo ma anzi ne “evidenziano l’urgenza”. Essenziale prevenire partenze irregolari “che troppo spesso finiscono in tragedia”, attraverso “un rafforzamento della capacità di gestione dei confini” e “del sistema di sorveglianza marittima” delle autorità tunisine. Sulla base della partnership operativa anti-trafficanti siglata ad aprile dalla commissaria Ue per gli Affari Interni, Ylva Johansson, il memorandum prevede un’intensificazione degli sforzi per rompere il business delle reti di criminali che si arricchiscono sui viaggi spesso fatali dei migranti. Secondo Varhelyi la guardia costiera tunisina ha già disposto circa 24 mila fermi quest’anno, contro i 9 mila del 2022. E ha salvato già quasi 50 mila persone migranti.
    L’accusa più forte mossa all’esecutivo Ue è aver chiuso un occhio sulle sempre più sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate in Tunisia ai danni dei migranti subsahariani. Violazioni documentate: secondo Human Rights Watch sarebbero circa 1200 i migranti respinti e abbandonati dalle autorità tunisine verso il deserto, al confine con la Libia, soltanto nel periodo tra la fine di giugno e la fine di luglio. Il commissario Ue ha assicurato che, in cooperazione con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), l’Unhcr e altri partner locali, l’Ue starebbe “rafforzando il proprio impegno sulla protezione dei migranti in condizioni di vulnerabilità”, fornendo “sollievo immediato con acqua, primo soccorso e rifugi d’emergenza”. Ma Varhelyi ha rimandato al Consiglio d’Associazione Ue-Tunisia, che nelle intenzioni dell’esecutivo comunitario dovrebbe svolgersi prima della fine dell’anno, tutti i discorsi sulla situazione dei diritti umani e sui principi fondamentali.
    Migranti subsahariani abbandonati nel deserto al confine con la Libia, 16 luglio 2023 (Photo by Mahmud Turkia / AFP)
    Socialisti e democratici, Sinistra europea e Verdi non hanno fatto sconti. Per la leader S&d, Iratxe Garcia Perez, è “inaccettabile che il denaro dei contribuenti europei sia utilizzato da un governo che attacca i principi fondamentali dei diritti umani”, per il capodelegazione del Partito Democratico, Brando Benifei, il memorandum non è altro che “l’ennesimo tentativo inutile di esternalizzare il controllo delle frontiere europee con grandi rischi per i diritti umani”. Perché se errare è umano, perseverare è diabolico: “L’esperienza libica dovrebbe averci insegnato come accordi di questo tipo siano drammaticamente fallimentari”, ha ricordato in aula Benifei. Anche la pentastellata Laura Ferrara ha avvertito che il rischio è di “alimentare la dipendenza da un Paese terzo con tutele dei diritti umani del tutto inadeguate”, un Paese che “è evidente che non possa essere considerato sicuro”. Ancora più duro Pietro Bartolo (Pd), ex medico a Lampedusa, per cui l’Ue è “complice della caccia ai negri aperta da Saied”.
    Se da sinistra si è levata a gran voce la richiesta di tornare sui propri passi e cancellare l’accordo, anche il Partito Popolare europeo ne ha riconosciuto i limiti. Per Manfred Weber “è necessario, ma non perfetto”, mentre l’eurodeputato di Forza Italia Salvatore De Meo ha parlato di “bicchiere mezzo pieno”. Il leader del Ppe, volato a Tunisi di recente per una serie di incontri, ha dichiarato che il primo ministro tunisino avrebbe spiegato che “l’aumento di arrivi di migranti dalla Tunisia sono motivati dal panico creato dal memorandum d’intesa” e che a Tunisi “si aspettavano di vedere un aumento prima che i numeri possano iniziare a diminuire”. Anche più a destra, nei gruppi dei Conservatori e Riformisti (Ecr) e Identità e Democrazia (Id) qualcuno ha storto il naso: Assita Kanko (Ecr) ha dichiarato che “l’Europa sta ballando con il diavolo”, mentre la leghista Annalisa Tardino ha denunciato le “tante passerelle e i zero risultati” dell’intesa.
    Un fuoco incrociato che mette in difficoltà von der Leyen, che ha definito il memorandum “una pietra miliare” dei rapporti con i Paesi del vicinato nordafricano. Forse con troppa fretta, o con la bramosia di incassare un successo in più a un anno dalle elezioni europee. Perché basta dare una sfogliata al trattato sull’Ue per riscoprire che, all’articolo 21, “i diritti umani sono il metro di misura della nostra politica estera”.

    Da S&d, Sinistra europea e Verdi la richiesta di ritirare il Memorandum d’intesa, qualche critica anche da Ecr e Id. Per il leader del Ppe, Manfred Weber, l’accordo con la Tunisia “è necessario, non perfetto”

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    L’Ue condanna le elezioni amministrative “illegali” dopo i referendum farsa del 2022 nelle regioni occupate in Ucraina

    Bruxelles – Era solo una questione di tempo, dopo i referendum farsa e l’annessione delle quattro regioni dell’Ucraina occupate dalla Russia dopo l’inizio dell’invasione del 24 febbraio 2022. Tra l’8 e il 10 settembre anche a Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson – così come in Crimea e nella città di Sebastopoli – sono andate in scena le elezioni amministrative, in corrispondenza di quelle locali e regionali sul territorio russo. Elezioni che sono state immediatamente definite “illegali” dalla comunità internazionale e dall’Unione Europea, tanto quanto lo erano stati i plebisciti di un anno fa che avrebbero sancito la presunta volontà popolare di farsi inglobare da Mosca.
    Operazioni di voto nell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk, 10 settembre 2023 (credits: Afp)
    “L’Unione Europea condanna fermamente lo svolgimento di queste cosiddette ‘elezioni’ illegittime nei territori dell’Ucraina temporaneamente occupati dalla Russia”, è la condanna dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che – nel respingere “con forza” l’appuntamento elettorale – lo ha definito piuttosto un “ulteriore futile tentativo” da parte del Cremlino di “legittimare o normalizzare il suo controllo militare illegale e il tentativo di annessione di parti dei territori ucraini”. L’ennesima “palese” violazione del diritto internazionale non è tollerata da Bruxelles, che “non riconosce e non riconoscerà né lo svolgimento di queste cosiddette ‘elezioni’ né i loro risultati“. Al contrario “la leadership politica russa e coloro che sono coinvolti nell’organizzazione delle elezioni dovranno affrontare le conseguenze di queste azioni illegali”, è la minaccia di Borrell.
    Sembra scontato ricordarlo, ma è già solo il contesto (oltre all’invasione armata) a dimostrare come queste elezioni non possano essere considerate un appuntamento elettorale democratico o spontaneo: dalla concessione forzata di passaporti russi – “anche ai bambini” – ai trasferimenti e le deportazioni forzate, dalle violazioni e gli abusi “diffusi e sistematici” dei diritti umani, fino all’intimidazione e la crescente repressione dei cittadini ucraini da parte delle autorità d’occupazione. L’alto rappresentante Ue ha voluto rivolgere un incoraggiamento ai residenti ucraini “che si sono opposti al voto fittizio e continuano a resistere all’occupazione russa”, ribandendo che Mosca “deve ritirare immediatamente, completamente e incondizionatamente tutte le sue truppe e i suoi equipaggiamenti militari all’interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti”. Fuori anche dalla penisola di Crimea, dove dal 2014 è stata istituita (sempre in modo illegale secondo il diritto internazionale) una Repubblica autonoma che è di fatto parte della Russia.
    Operazioni di voto a Mosca, 10 settembre 2023 (credits: Natalia Kolesnikova / Afp)
    A questo si aggiunge quanto accaduto nel corso del fine settimana nella stessa Russia, dove ormai nessuno considera più gli appuntamenti alle urne delle vere elezioni (ben prima di quelle del 2021). “Si sono svolte in un contesto estremamente ristretto, alimentato dall’aggressione all’Ucraina“, ha attaccato Borrell, ricordando che “le autorità hanno amplificato la repressione interna introducendo la censura di guerra e reprimendo ulteriormente” i politici dell’opposizione, le organizzazioni della società civile, i media indipendenti e altre voci critiche “con l’uso di leggi repressive e sentenze politicamente motivate“. Tutto questo ha inevitabilmente comportato restrizioni dei diritti civili e politici, “precludendo a molti candidati la possibilità di candidarsi e limitando la scelta degli elettori russi e l’accesso a informazioni accurate”.
    I referendum farsa del 2022 nelle regioni occupate in Ucraina
    È passato quasi un anno esatto da quel 27 settembre 2022, quando nelle quattro regioni dell’Ucraina occupata era andato in scena uno spettacolo a dir poco desolante. Il 99 per cento dei votanti si era espressa a favore dell’annessione alla Russia, ma – dati alla mano – con una partecipazione quasi irrisoria di cittadini ucraini, senza contare le minacce armate dei soldati russi casa per casa per costringere la popolazione ad andare a votare nelle quattro regioni che rappresentano circa il 15 per cento del territorio dell’Ucraina. Per esempio, nella regione di Zaporizhzhia avevano votato in totale in 39.367 su una popolazione complessiva di 1.666.515 persone, ovvero il 2,3 per cento. O ancora, nell’Oblast di Donetsk – solo parzialmente controllato dall’esercito russo – avrebbe votato il 97 per cento degli aventi diritto al voto, ma ‘dimenticando’ di contare più della metà degli elettori. Tutto ciò condito da uno scrutinio effettuato con modalità del tutto illecite.
    L’autocrate russo, Vladimir Putin, e i quattro leader separatisti dei territori occupati dalla Russia in Ucraina, alla cerimonia di annessione al Cremlino (30 settembre 2022)
    In ogni caso l’autocrate russo, Vladimir Putin, ha utilizzato questi finti plebisciti per dichiarare l’annessione delle quattro regioni pochi giorni più tardi. Il 30 settembre 2022 i leader filo-russi delle autoproclamate Repubbliche popolari hanno siglato il Trattato di adesione alla Russia al Cremlino, in una cerimonia-parata nel solito stile di grandezza ostentata di Putin. “Voglio che mi sentano a Kiev, che mi sentano in Occidente: le persone che vivono a Luhansk, Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia diventano nostri cittadini per sempre”, ha minacciato l’autocrate russo. Il 18 marzo del 2014 i rappresentanti separatisti della Crimea avevano anticipato i tempi e otto anni più tardi il copione si è ripresentato quasi uguale a se stesso. A tre giorni dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina Mosca aveva riconosciuto l’indipendenza di Donetsk e Luhansk e aveva poi fatto lo stesso sette mesi più tardi con Kherson e Zaporizhzhia, prima di inglobare tutte le regioni ucraine separatiste all’interno del progetto della Grande Russia.

    Organizzata una tornata elettorale a Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson in corrispondenza del voto locale e regionale in Russia. “Un ulteriore futile tentativo di legittimare o normalizzare il suo tentativo di annessione”, è la condanna dell’alto rappresentante Ue, Josep Borrell

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    Dall’Ucraina all’energia, a Nuova Delhi prende il via il G20 tra divisioni e nuovi ingressi

    Bruxelles – Il G20 delle divisioni e dei (probabili) nuovi ingressi. Dopo Bali di quasi un anno fa, sarà Nuova Delhi a ospitare a partire da questa sera (8 settembre) e fino a domenica i vertici delle istituzioni comunitarie, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, insieme a tutti gli altri leader dei 19 Paesi più industrializzati al mondo (oltre l’Unione europea) che rappresentano due terzi della popolazione (e l’85 per cento del prodotto interno lordo mondiale) in un vertice sotto il tema “Una Terra, Una Famiglia, Un Futuro” in cui, nonostante le divergenze sui temi sul tavolo, dovranno restituire l’immagine di unità.
    Guerra in Ucraina, eliminazione graduale dei combustibili fossili e ristrutturazione del debito. Tre i principali dossier che animeranno il dibattito delle venti economie più importanti al momento, divise da profondi disaccordi su tutti e tre gli spunti di dibattito e che cercheranno di facilitare il dialogo sulla fine della guerra in Ucraina e sulla lotta al riscaldamento globale, pure senza la partecipazione dei leader di Cina e Russia, Xi Jinping e Vladimir Putin. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov guiderà la delegazione di Mosca al vertice, mentre quella cinese sarà rappresentata dal premier Li Qiang.
    Mostrare unità ma soprattutto sottoscrivere una dichiarazione congiunta ambiziosa sarà un’impresa, principalmente sotto il profilo della guerra in Ucraina e sull’ambizione per ridurre l’uso dei combustibili fossili. Sbloccare i negoziati sul grano ucraino e l’iniziativa sul Mar Nero da cui la Russia si è chiamata fuori sarà una delle priorità principali dell’Unione europea alla riunione dei leader, anche se il dialogo non è facile. “Le discussioni sono in corso su questo punto specifico, quindi credo che questa sia la grande sfida che abbiamo”, ha riferito un alto funzionario europeo alla vigilia della riunione, sottolineando che i colloqui saranno tesi anche perché a ospitare la riunione sarà la presidenza indiana che in più di un’occasione nel quadro delle Nazioni Unite si è astenuta su risoluzioni chiave di condanna dell’invasione russa ai danni dell’Ucraina. “Attaccando deliberatamente i porti ucraini, il Cremlino li priva del cibo di cui hanno un disperato bisogno ed è scandaloso che la Russia, dopo aver posto fine all’Iniziativa del Mar Nero, blocchi e attacchi i porti marittimi ucraini. Questo deve finire”, ha detto Michel in una dichiarazione pubblicata questa mattina. “Le navi cariche di grano devono avere un accesso sicuro attraverso il Mar Nero e l’iniziativa delle Nazioni Unite di Antonio Guterres ha consegnato dai 30 ai 32 milioni di tonnellate ai mercati, soprattutto ai paesi in via di sviluppo”.
    Quello che si aprirà sabato sarà anche e soprattutto un vertice dei leader G20 profondamente legato al clima per spianare la strada alla prossima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite che si terrà a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dal 30 novembre al 12 dicembre, ma non si aspettano accordi per alzare le ambizioni globali sull’uso dei combustibili fossili. Da parte dell’Unione europea c’è “l’ambizione di andare oltre quanto concordato all’ultima riunione del G20 di Bali”, che si è tenuta a novembre 2022, “non solo dal punto di vista dell’eliminazione graduale dei sussidi ai combustibili inefficienti ma anche dal punto di vista di ridurre gradualmente l’uso di combustibili fossili, incluso il carbone”, ha ricordato un alto funzionario europeo. “Per ora, sfortunatamente, è stato impossibile andare oltre quanto stabilito a Bali, quindi” nelle conclusioni “rimarremo legati a quanto concordato a Bali”. A luglio scorso i ministri dell’Energia del G20 hanno fallito nel tentativo di trovare un accordo su una tabella di marcia per ridurre l’uso dei combustibili fossili e India e Cina frenano su un accordo ambizioso sul carbone. Questi due paesi sono tra i maggiori inquinatori del pianeta, ma accusano i paesi occidentali, che hanno iniziato a inquinare durante la rivoluzione industriale due secoli fa, di avanzare una richiesta difficile da realizzare.
    Il gruppo dei 20, che comprende i paesi più ricchi e potenti del mondo (che riunisce nello specifico Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Corea del Sud, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Turchia, Regno Unito, Usa e UE) dovrebbe inoltre discutere e garantire l’adesione dell’Unione africana, che conta 55 stati membri e quindi avrebbe lo stesso status dell’Unione Europea di blocco regionale.

    Da questa sera e fino a domenica i vertici delle istituzioni comunitarie, insieme ai leader dei 19 Paesi più industrializzati al mondo che rappresentano due terzi della popolazione (e l’85 per cento del prodotto interno lordo mondiale). Non ci saranno Putin e Xi

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    La strigliata di Borrell alla Georgia su status di candidato Ue, polarizzazione politica e propaganda russa

    Bruxelles – Il primo viaggio in Georgia come alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza in uno dei momenti più delicati della storia recente del Paese. “La Georgia appartiene alla famiglia europea, ho deciso di recarmi di persona per confermarlo”, ha esordito così Josep Borrell nel corso della conferenza stampa di oggi (8 settembre) a Tbilisi, al termine del primo incontro con il primo ministro georgiano, Irakli Garibashvili, per mettere in fila le priorità per l’avvicinamento del Paese all’Unione Europea e fare un bilancio dei progressi ma soprattutto delle criticità da dover risolvere.
    Da sinistra: il primo ministro della Georgia, , e l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell (7 settembre 2023)
    “Qui si vedono dimostrazioni di appartenenza chiara all’Unione Europea“, ha voluto sottolineare l’alto rappresentante Borrell, facendo riferimento a “oltre l’80 per cento di supporto della popolazione, ma anche le tantissime bandiere Ue per le strade, ce ne sono più qui che a Bruxelles”. Da mesi sono costanti le richieste di “rappresentanti della società civile e forze politiche” per la concessione dello status di candidato all’adesione Ue, in particolare dalla presidente della Repubblica, Salomé Nino Zourabichvili, di fronte agli eurodeputati a Bruxelles. Tuttavia, la candidatura”è un impegno serio, non è qualcosa che i Paesi hanno diritto di ottenere a prescindere”, e tutto il processo è “basato sul merito, con riforme serie e adesione ai valori europei”. Borrell ha voluto essere sincero: “C’è ancora molto lavoro da fare”, in particolare sulle 12 priorità definite nel parere della Commissione.
    A questo proposito nella presentazione orale dello scorso giugno sullo stato delle riforme, l’esecutivo comunitario ha rilevato che Tbilisi ha completato 3 priorità su 12: quella sull’uguaglianza di genere e sulla lotta contro la violenza di genere, quella sull’implementazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nei tribunali nazionali e quella sulla nomina di un difensore d’ufficio nei processi. In altre 7 priorità sono stati registrati alcuni progressi: impegno contro la polarizzazione politica, funzionamento delle istituzioni pubbliche e del sistema elettorale, adozione delle riforme giudiziarie, rafforzamento delle agenzie anti-corruzione, lotta contro la criminalità organizzata, rafforzamento della difesa dei diritti umani e coinvolgimento della società civile nel processo decisionale. Solo progressi limitati nella de-oligarchizzazione, mentre nessun progresso sul pluralismo dei media e gli standard sui procedimenti contro i proprietari dei media. “Il duro lavoro non serve a compiacere Bruxelles” – ha messo in chiaro Borrell – “si tratta di migliorare la vita dei cittadini georgiani, tenendo fede alle grandi aspirazioni europee della popolazione”.
    Di qui il secondo richiamo dell’alto rappresentante, alla “unità nazionale, tutti devono lavorare in modo costruttivo” per mettere fine alla “polarizzazione dello scenario politico”. La ricetta di Borrell (ripetuta sempre uguale più volte) è: “Maggioranza inclusiva, opposizioni collaborative, partito al potere impegnato a lavorare per rendere questa cooperazione effettiva”. Da questa riduzione della tensione passerà proprio la strada verso l’Ue, altrimenti il rischio è di “perdere questa opportunità storica”. Da Bruxelles non c’è nessuna volontà a interferire in “questioni interne”, ha assicurato Borrell, sottolineando che “siete voi che dovete lavorare all’unità”. Tuttavia una questione di particolare preoccupazione – proprio perché riguarda direttamente l’Unione Europea – è quella sollevata dalle recenti tensioni politiche in Georgia a proposito dell’avvio della procedura di impeachment della presidente Zourabichvili da parte del partito al governo Sogno Georgiano (di cui il premier Garibashvili è esponente), a causa dei recenti viaggi della leader a Berlino, Bruxelles e Parigi: “La procedura rischia di aumentare la polarizzazione politica, tutte le istituzioni devono lavorare insieme per superarla”, è l’esortazione di Borrell.
    Ultima, ma non certo per importanza, la questione dell’allineamento di Tbilisi alla politica estera dell’Unione, in particolare sulla questione delle sanzioni internazionali contro la Russia. “Apprezziamo la posizione chiara della Georgia nei forum internazionali”, ha ribadito l’alto rappresentante Ue, che ha però biasimato la ripresa dei voli con la Russia: “C’è molto ancora da fare, è quello che ci aspettiamo da un Paesi che aspira a diventare membro Ue”. La questione dei rapporti con Mosca – molto controverso in un Paese che è stato invaso nel 2008 proprio dall’esercito russo per garantire il separatismo delle autoproclamate Repubbliche dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia – riguarda anche la propaganda e la disinformazione russa, con un esempio sibillino fatto proprio da Borrell all’indirizzo del premier georgiano: “È assurdo pensare che l’Ue voglia usare la Georgia per aprire un secondo fronte nella guerra russa, è una narrativa falsa per avvelenare l’atmosfera”. Ecco perché Bruxelles supporta “media indipendenti e società civile per prevenire la manipolazione delle informazioni”. Supporto che si estende anche all’integrità e alla sovranità della Georgia, a fronte di un 20 per cento del territorio al momento non sotto il controllo dello Stato centrale: “Abbiamo un rappresentante speciale per questa regione e una missione di monitoraggio Ue dedicata da 15 anni”, con “60 milioni di euro in arrivo attraverso l’European Peace Facility per aumentare la resistenza e la capacità del vostro esercito”.
    La situazione politica in Georgia
    Per l’Unione Europea la Georgia rimane uno dei Paesi partner più complessi da gestire, a causa dello scollamento tra una popolazione a stragrande maggioranza filo-Ue e un governo quantomeno controverso sulle tendenze filo-russe (anche se poi ha fatto richiesta di aderire all’Unione per i timori sollevati dall’espansionismo del Cremlino). Tra le notizie che hanno sollevato più preoccupazioni a Bruxelles va ricordata la ripresa dei voli tra Georgia e Russia dopo la decisione di Mosca di eliminare il divieto in vigore, ma anche l’avvicinamento del premier Garibashvili – che da ancora membro osservatore del Partito del Socialismo Europeo ha partecipato alla convention di quest’anno dei conservatori europei e statunitensi a Budapest – all’omologo ungherese, Viktor Orbán, e alle sue politiche autoritarie e anti-Lgbtq+.
    Le proteste pro-Ue dei manifestanti georgiani a Tbilisi, 7 marzo 2023 (credits: Afp)
    La richiesta della Georgia di aderire all’Ue è arrivata il 3 marzo 2022, a una settimana dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Mentre il 17 giugno il gabinetto von der Leyen ha dato la luce verde alle richieste di Ucraina e Moldova, alla Georgia è stata indicata la necessità di lavorare su una serie di priorità. La decisione ufficiale è arrivata al Consiglio Europeo del 23 giugno, che ha approvato la linea tracciata dalla Commissione: Kiev e Chișinău sono diventati Paesi candidati, Tbilisi ha ricevuto solo la “prospettiva europea”. A causa di questo ‘fallimento’, nella capitale georgiana si sono svolte due grandi manifestazioni pro-Ue: una ‘marcia per l’Europa’ per ribadire l’allineamento del popolo ai valori dell’Unione e una richiesta di piazza di dimissioni del governo. I tratti comuni di queste manifestazioni sono state le bandiere – bianca e rossa delle cinque croci (nazionale) e con le dodici stelle su campo blu – cartelli con rivendicazioni europeiste e l’inno georgiano intervallato dall’Inno alla Gioia.
    Sei mesi fa sono scoppiate dure proteste popolari contro un controverso progetto di legge sulla ‘trasparenza dell’influenza straniera’ di filo-russa memoria, voluta proprio dal premier Garibashvili per registrare tutte le organizzazioni che ricevono più del 20 per cento dei loro finanziamenti dall’estero come ‘agente straniero’ (in modo simile a quanto in vigore in Russia dal primo dicembre dello scorso anno). Dopo l’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento decine di migliaia di cittadini georgiani sono scesi in piazza con le bandiere della Georgia e dell’Unione Europea – gridando slogan come Fuck Russian law e tappezzando la città di insulti a Putin – sostenuti sia dalle istituzioni comunitarie sia dalla presidente Zourabichvili. Dopo due giorni di proteste ininterrotte il partito Sogno Georgiano ha ritirato il progetto di legge, ma senza sconfessare la propria iniziativa. Il fondatore del partito al potere è l’oligarca Bidzina Ivanishvili, che compare nella risoluzione non vincolante del Parlamento Europeo in cui è richiesto alla Commissione di imporre nei suoi confronti sanzioni personali.

    L’alto rappresentante Ue in visita nel Paese per ribadire che “appartiene alla famiglia europea”. Ma nel confronto con il premier Irakli Garibashvili sono emerse le maggiori criticità: procedura di impeachment alla presidente Zourabichvili, unità politica e aggiramento delle sanzioni

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    La controffensiva ucraina “avanza lentamente, ma avanza” con il supporto Nato. Stoltenberg: “Mai detto fosse facile”

    Bruxelles – Non c’è bisogno di allarmarsi, era uno scenario preventivato. Il segretario generale dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), Jens Stoltenberg, ha presentato così lo stato della controffensiva ucraina per riconquistare i territori ancora in mano dell’esercito russo dopo l’invasione del 24 febbraio 2022. L’Alleanza Atlantica è stata ed è tuttora decisiva per le operazioni militari di Kiev e per questo motivo gli eurodeputati della commissione per gli Affari esteri (Afet) hanno richiesto un’audizione al segretario Stoltenberg per ricevere un aggiornamento sullo stato delle operazioni sul campo di battaglia e sul sostegno portato avanti dalla maggior parte dei Paesi membri Ue.
    Il segretario generale dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), Jens Stoltenberg, in audizione al Parlamento Europeo (7 settembre 2023)
    “Gli ucraini stanno gradualmente guadagnando terreno“, ha messo in chiaro Stoltenberg questa mattina (7 settembre), precisando che la controffensiva dell’esercito di Kiev “avanza lentamente, ma avanza”. Si tratta di “un combattimento pesante ed estremamente difficile, ma ha permesso di rompere le linee difensive delle forze russe“. Perché se “nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile, sapevamo che erano state predisposte linee di difesa dall’esercito russo”, in pochi si aspettavano di trovare “un dispiegamento di mine come in Ucraina, poche altre volte nella storia l’abbiamo mai visto”. È questo che ha reso l’avanzata “meno rapida di come vorremmo”, ma rimane il fatto che “quando avanzano gli ucraini, i russi perdono terreno, centinaia di metri al giorno“. E poi c’è un fattore psicologico da tenere in considerazione: “All’inizio l’esercito russo si riteneva il secondo più forte al mondo [dopo gli Stati Uniti, ndr], ora è chiaro che è secondo, ma a quello ucraino”. Perché Kiev – invece di “cadere in qualche settimana, come dicevano gli esperti” – è riuscita a “respingere prima l’invasore dalla capitale, poi a nord-est e conquistando territori a sud, e ora ne sta liberando altri”, ha voluto ricordare il segretario generale della Nato.
    Da sinistra: il segretario generale dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), Jens Stoltenberg, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky
    Tutto questo “dimostra l’importanza del nostro sostegno e della nostra volontà di continuare a fornire supporto militare” a Kiev, a prescindere dalla situazione contingente del momento: “Non si sa come sarà il destino di una guerra dopo una settimana o un anno, bisogna accettare che anche l’Ucraina possa avere momenti difficili”. Finora il supporto militare dell’Alleanza Atlantica è stato “senza precedenti”, con la fornitura di artiglieria, munizioni, missili a lunga gittata, sistemi avanzati di difesa aerea e addestramento di soldati ucraini: “Vorrei anche rendere omaggio a Paesi Bassi, Danimarca e Norvegia per aver annunciato di essere pronti a consegnare F-16 a Kiev“, è stato il ringraziamento di Stoltenberg. Ora però “la priorità numero uno è fare in modo che i sistemi consegnati funzionino davvero e vengano assicurate munizioni“, ha precisato il segretario generale della Nato, avvertendo che “il dibattito pubblico è troppo focalizzato sulla consegna di nuovi sistemi, invece che sulla manutenzione necessaria”.
    La possibile adesione dell’Ucraina alla Nato
    Nel corso del dibattito con gli eurodeputati Stoltenberg ha anche fatto il punto sulla possibile adesione dell’Ucraina alla Nato, dopo quanto accaduto al vertice di Vilnius di metà luglio con l’impegno concreto attraverso una dichiarazione del G7: “Non è mai stata così vicina e questo riflette la realtà politica secondo cui le nazioni sono sovrane”. Come sempre sostenuto dagli alleati, Kiev “ha il diritto di decidere la propria strada” e spetta a solo queste due parti “decidere se e quando diventerà membro dell’Alleanza”. Al contrario, “la Russia non può porre il veto all’adesione di nessuno Stato sovrano e indipendente“.
    A questo proposito Stoltenberg ha ricordato quanto accaduto nei mesi precedenti all’invasione dell’Ucraina. “Nell’autunno del 2021 Vladimir Putin voleva la promessa per cui la Nato non si sarebbe mai più ampliata, ci ha inviato una proposta di trattato che abbiamo deciso di non firmare”, dal momento in cui “quello costituiva il suo presupposto per non invadere l’Ucraina”. Il segretario generale dell’Alleanza ha spiegato così quello che considera un ricatto dell’autocrate russo: “Voleva che firmassimo anche una promessa per rimuovere le infrastrutture militari in tutti i Paesi Nato che hanno aderito dopo il 1997, cioè la metà dei membri attuali”. L’Alleanza – di cui la Russia non fa parte e in cui non ha diritto di interferenza – avrebbe dovuto introdurre “una sorta classificazione con membri di seconda categoria“. Dopo il rifiuto, Putin ha mosso guerra contro Kiev “e ha ottenuto l’esatto opposto” rispetto a quanto chiedeva: “Ha avuto maggiore presenza della Nato sul fronte orientale, la Finlandia ha aderito e la Svezia lo farà a breve“.
    La speranza rimane comunque il ritorno della pace sul continente, perché “la storia dell’Europa ci dimostra che i nemici possono diventare amici, è possibile farlo anche con la Russia“. Tuttavia al momento Putin persevera nel suo errore di “tornare a controllare i Paesi vicini e se qualcuno vuole entrare nella Nato la considera una provocazione”, ha sottolineato ancora Stoltenberg. Ma “non lo è, è un diritto democratico di ciascun Paese”. Contro l’altro errore dell’autocrate russo – “di sottovalutare la forza e il coraggio degli ucraini e anche la nostra volontà e impegno nel supportarli” – secondo il segretario generale della Nato per il momento è necessario “sostenere le spese per la nostra difesa e per l’Ucraina, per assicurare la pace futura”.

    Nel corso di un’audizione al Parlamento Ue, il segretario generale dell’Alleanza Atlantica ha fatto il punto sull’avanzamento delle truppe di Kiev a sud: “Mai visto un dispiegamento simile di mine. Ma le linee difensive russe sono state rotte e ora stanno gradualmente recuperando terreno”

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    Il primo ripensamento post-Brexit di Londra. Accordo con Bruxelles per il ritorno del Regno Unito in due programmi Ue

    Bruxelles – Cadono le prime resistenze del Regno Unito post-Brexit a un ritorno nei programmi dell’Unione Europea, con tutto quello che significa anche da un punto di vista finanziario. Questa mattina (7 settembre) il governo britannico guidato da Rishi Sunak e la Commissione Europea hanno raggiunto un’intesa politica sulla partecipazione di Londra ai programmi Horizon Europe e Copernicus a partire dal primo gennaio 2024. Ricerca e innovazione e osservazione satellitare – con tutte le implicazioni sul piano della lotta alle conseguenze dei cambiamenti climatici e alle ambizioni di transizione energetica – hanno permesso di superare i dissapori degli ultimi due anni e mezzo a proposito dell’implementazione dell’Accordo di commercio e cooperazione, aprendo uno spiraglio per altri ripensamenti (come per esempio il programma d mobilità studentesca Erasmus+).
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro del Regno Unito, Rishi Sunak (27 febbraio 2023)
    “L’Unione Europea è leader mondiale nella ricerca e nell’innovazione, Horizon è fondamentale per mantenere il vantaggio tecnologico”, è stato il commento soddisfatto della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, a proposito di un accordo tra “partner e alleati strategici fondamentali” che “rafforzerà la scienza in tutta Europa”. Una soluzione concordata “di comune accordo”, precisa una nota congiunta, che permetterà alle due parti di rimettere in contatto le rispettive comunità di ricerca e spaziali per approfondire le relazioni sulle materie di innovazione comune. È la stessa Commissione a fornire alcuni dettagli dell’accordo: in primis il fatto che l’intesa di oggi è “pienamente in linea” con l’accordo negoziato per il post-Brexit e soprattutto che il Regno Unito “dovrà contribuire finanziariamente al bilancio dell’UE ed è soggetto a tutte le garanzie” previste. La stima per quanto riguarda il contributo finanziario di Londra per la partecipazione a Horizon Europe e a Copernicus è di 2,6 miliardi di euro all’anno (pari a 2,2 miliardi di sterline ogni 12 mesi).
    “Abbiamo lavorato con i nostri partner dell’Ue per assicurarci che questo sia l’accordo giusto per il Regno Unito, sbloccando opportunità di ricerca senza precedenti“, ha voluto sottolineare il premier Sunak, precisando che questa intesa è “giusta per i contribuenti britannici”. Anche se l’espressione “senza precedenti” è senza dubbio fuorviante – per nascondere un evidente fallimento della Brexit – considerato il fatto che nel programma predecessore di Horizon Europe, Horizon 2020 (nel bilancio pluriennale 2014-2020), il Regno Unito era il secondo maggior beneficiario di fondi Ue alle spalle della Germania. Se approvato dal Consiglio e adottato formalmente dal Comitato specializzato Ue-Regno Unito sulla partecipazione ai programmi dell’Unione, l’accordo politico permetterà a ricercatori ed enti di ricerca britannici di ritornare a partire dal prossimo anno in una “rete mondiale per affrontare le sfide globali in materia di clima, energia, mobilità, digitale, industria e spazio, salute”.
    Il totale dei finanziamenti da Horizon 2020 ai Paesi beneficiari
    Nelle intenzioni di Bruxelles c’è quella di tornare a stringere i legami con Londra per saldare l’alleanza sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici – grazie al programma satellitare Copernicus per il monitoraggio della Terra – e su quello del raggiungimento degli obiettivi climatici e del Green Deal – attraverso l’innovazione portata avanti con Horizon Europe (il 35 per cento dei 95,5 miliardi di euro complessivi stanziati sono destinati a questo proposito). Soddisfatto anche il vicepresidente della Commissione Ue per le Relazioni interistituzionali e vicepresidente esecutivo per il Green Deal europeo, Maroš Šefčovič: “L’accordo garantirà che i ricercatori e l’industria dell’Ue e del Regno Unito beneficino reciprocamente dell’esperienza degli altri e della proficua collaborazione nei programmi scientifici e spaziali dell’Ue”. Prove generali di responsabile per l’Innovazione, la ricerca, la cultura, l’istruzione e la gioventù nel gabinetto von der Leyen per la commissaria designata Iliana Ivanova: “Come ho detto nel mio scambio con i membri del Parlamento Ue, abbiamo bisogno di cooperare con i Paesi che la pensano allo stesso modo”.
    Due anni di contesa tra Ue e Regno Unito
    Dal momento in cui la Brexit è diventata a tutti gli effetti una realtà, i due anni e mezzo che hanno seguito l’entrata in vigore dell’Accordo di commercio e cooperazione sono stati particolarmente tortuosi per i rapporti tra Bruxelles e Londra. La contesa tra Londra e Bruxelles è iniziata nel marzo del 2021 attorno alla questione del periodo di grazia per il commercio nel Mare d’Irlanda, ovvero la durata della concessione temporanea ai controlli Ue sui certificati sanitari per il commercio dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord. Nel contesto post-Brexit questi controlli sonoritenuti necessari per mantenere integro il Mercato Unico sull’isola d’Irlanda. Il problema maggiore ha riguardato le carni refrigerate e per questa ragione si è spesso parlato di ‘guerra delle salsicce’ con Bruxelles.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e l’ex-primo ministro del Regno Unito, Boris Johnson
    Il tentativo di prorogare unilateralmente il periodo di grazia da parte dell’allora governo guidato da Boris Johnson ha scatenato lo scontro diplomatico tra le due sponde della Manica, apparentemente risolto tra il luglio e l’ottobre dello stesso anno. L’esecutivo comunitario ha così sospeso la procedura d’infrazione contro Londra, per cercare delle soluzioni di compromesso su tutti i settori più delicati. Ma nel giugno dello scorso anno la Commissione Ue ha scongelato la stessa procedura d’infrazione, attivandone altre due, per la decisione di Londra di tentare la strada della modifica unilaterale del Protocollo sull’Irlanda del Nord.
    Il crollo del governo Johnson prima e di quello disastroso di Liz Truss poi – con la contemporanea crisi economica che da allora ha travolto il Paese – ha agevolato le aperture da entrambe le parti verso una soluzione sostenibile per un accordo di compromesso. Accordo trovato con il Framework di Windsor il 27 febbraio 2023, firmato dalla presidente von der Leyen e dal premier Sunak. L’intesa raggiunta su Horizon Europe e Copernicus rappresenta “una pietra miliare dopo l’accordo sul Windsor Framework“, hanno voluto sottolineare le due parti.

    Trovata l’intesa politica per la partecipazione dal primo gennaio 2024 a Horizon Europe (per ricerca e innovazione) e Copernicus (per l’osservazione satellitare), secondo l’Accordo di commercio e cooperazione. La Commissione stima un contributo di 2,6 miliardi di euro all’anno

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    Prove di avvicinamento tra Bruxelles e Ankara, ma la Turchia fa la voce grossa: “Senza di noi l’Ue non può essere un vero attore globale”

    Bruxelles – Qualcosa si muove nelle relazioni tra Ue e Turchia, ma in che direzione è ancora difficile saperlo. Anticipato di qualche giorno dal benaugurante ingresso di Ankara nel programma Europa digitale, il commissario Ue per l’Allargamento, Olivér Várhelyi, è in missione per conto dell’esecutivo comunitario al di là del Bosforo, dove oggi (6 settembre) ha incontrato il ministro degli Esteri, Hakan Fidan, e quello del Commercio, Omar Bolat, del nuovo governo presieduto da Recep Tayyip Erdoğan.
    L’input a ridare vigore ai rapporti con la Repubblica turca è arrivato direttamente dai leader dei 27 Paesi Ue, che nelle conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo invitavano la Commissione a “presentare una relazione sullo stato delle relazioni con la Turchia”. Il commissario Ue si è detto ottimista che il dossier Turchia possa tornare “entro la fine dell’anno” sul tavolo dei capi di stato e di governo con qualcosa di “tangibile e positivo”. Qualcosa che non significa per forza riprendere i discorsi sull’adesione di Ankara al blocco, congelati dal 2018, ma riconoscere un “forte impegno politico e ed economico” comune.
    Vista l’urgenza con cui il tema dell’allargamento è tornato di casa a Bruxelles, il ministro degli Esteri Fidan in conferenza stampa ha provato ad afferrare il coltello dalla parte del manico. “Per l’Ue non è possibile essere un vero attore globale senza la Turchia- ha esordito-, è ovvio che le relazioni (Ue-Turchia, ndr) non vanno sacrificate per gli interessi politici meschini di alcuni Paesi membri“. A chi si riferisse non è dato saperlo, ma i sospetti cadono inevitabilmente su Grecia e Cipro, che nel Mediterraneo orientale convivono difficilmente con l’aggressiva presenza turca e che -in particolare Nicosia- hanno posto severi paletti a una distensione dei rapporti con Erdogan. “Crediamo che sarebbe un grosso errore escludere la Turchia dal processo di adesione all’Ue, in un periodo di forti preoccupazioni geopolitiche in cui l’allargamento è tornato nell’agenda europea”, ha avvertito Fidan.
    Nel frattempo, per “ricostruire nuovamente la fiducia”, il ministro degli Esteri turco ha fissato le condizioni di Ankara: l’aggiornamento dell’unione doganale, che “dovrebbe essere rivista sui bisogni di oggi e sulle aspettative di domani”, e un avanzamento sulla liberalizzazione dei visti. L’unione doganale tra Turchia e Ue risale a quasi 30 anni fa, ma si applica soprattutto ai beni industriali: Ankara vuole estendere il regolamento ai servizi, all’agricoltura e all’energia.
    Fidan, che ha inoltre invitato l’Ue a una “giusta condivisione di responsabilità” sull’immigrazione irregolare, ha firmato oggi con Varhelyi il rinnovamento dell’accordo sulla rete di sicurezza sociale per i rifugiati in Turchia, che prevede lo stanziamento di un’ultima tranche di 781 milioni di euro per gli aiuti umanitari agli oltre 4 milioni di profughi siriani presenti nel Paese, a cui Ankara blocca le porte dell’Europa. “Siamo grati per il lavoro svolto dalla Turchia, in totale abbiamo portato qui 10 miliardi di euro di sostegno, ma sappiamo che non coprono tutto lo sforzo”, ha dichiarato il commissario Ue.
    Se sull’unione doganale e sui visti Varhelyi ha confermato la buona volontà della Commissione europea ad agire nell’immediato, sull’inclusione della Turchia nel processo di allargamento il commissario ungherese è stato molto più cauto. “Dove siamo ora è chiaro, il negoziato per l’adesione è in stallo. L’Ue ha indicato criteri molto chiari, relativi alla democrazia e allo stato di diritto, che devono essere affrontati“, ha ricordato Varhelyi, suggerendo che “una tabella di marcia credibile per portare avanti le riforme potrebbe sicuramente riaccendere la discussione tra i 27”.

    Il commissario Ue per l’allargamento ha incontrato esponenti del governo Erdogan nella capitale turca. Firmato l’accordo per l’ultima tranche da 781 milioni di euro per i rifugiati in Turchia, sul processo di adesione Varhelyi ricorda i problemi “relativi alla democrazia e allo stato di diritto”