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    Prima del Consiglio Ue von der Leyen sente i leader di Kosovo e Serbia. Borrell: “Stati membri stanno perdendo la pazienza”

    Bruxelles – Scende in campo la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, per cercare di dare il colpo definitivo ai rischi dell’aumento delle tensioni tra Kosovo e Serbia. “Ho sottolineato l’urgente necessità di una de-escalation e del ritorno al dialogo facilitato dall’Ue sulla normalizzazione delle relazioni con la Serbia”, ha reso noto oggi (27 giugno) in un tweet la stessa numero uno dell’esecutivo comunitario dopo la telefonata con il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e poco prima di fare lo stesso con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić. Colloqui che arrivano alla vigilia del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri Ue troveranno anche la questione delle violenze degli ultimi mesi nel nord del Kosovo e della tensione tra Pristina e Belgrado sul tavolo delle discussioni.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro dell’Albania, Edi Rama (27 giugno 2023)
    È la seconda volta che la presidente von der Leyen affronta la questione da quando il 26 maggio sono scoppiate le violente proteste nel nord del Kosovo che hanno portato a un aggravamento della situazione nella regione. “Le recenti tensioni sono preoccupanti, mi associo agli appelli rivolti a tutte le parti ad abbandonare lo scontro e ad adottare misure urgenti per ristabilire la calma“, aveva messo in chiaro la leader della Commissione presentando il nuovo piano di crescita per i Balcani Occidentali lo scorso 31 maggio. Da allora però è passato quasi un mese e sono stati pochi i segnali di riduzione delle provocazioni tra Pristina e Belgrado. Ma – come ha messo in chiaro l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in un punto stampa con il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, al termine dell’incontro di oggi – “gli Stati membri stanno perdendo la pazienza davanti a una situazione che continua a deteriorarsi“. Della questione i 27 governi ne hanno discusso ieri (26 giugno) al Consiglio Affari Esteri, trovandosi d’accordo sul fatto che “le parti devono permettere la de-escalation della situazione e trovare una via basata sulla tabella di marcia proposta loro la settimana scorsa” alla riunione di emergenza a Bruxelles.
    A proposito delle discussioni a livello Ue, saranno proprio i 27 capi di Stato e di governo ad affrontare direttamente la questione tra giovedì e venerdì. Come emerge dall’ultima bozza delle conclusioni visionata da Eunews, il Consiglio Europeo “condanna i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo e chiede un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione europea il 3 giugno 2023″, in riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese. La specifica sulla data è una novità rispetto alla prima versione delle conclusioni, ma non è l’unica. Spicca in particolare l’esortazione a entrambe le parti a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo” (Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica), mentre rimane la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. Uguale il passaggio sulla necessità della ripresa del dialogo facilitato dall’Ue e la “rapida attuazione dell’Accordo sul percorso di normalizzazione e del relativo Allegato di attuazione” (ripetitivamente l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo). Ma nell’ultima bozza è stato incluso anche l’esplicito riferimento alla “istituzione dell’Associazione/Comunità dei Comuni a maggioranza serba“.
    L’arresto/sequestro di tre poliziotti kosovari dai servizi di sicurezza serbi nell’area di confine tra Serbia e Kosovo (14 giugno 2023)
    Anche il premier albanese Rama da Bruxelles ha messo in guardia sugli “effetti devastanti che un’ulteriore deterioramento della situazione potrebbe avere non solo in Kosovo e Serbia, ma in tutta la regione” dei Balcani Occidentali. Parole di soddisfazione sono state rivolte a Belgrado per aver risolto l’ultimo episodio di tensione – la liberazione di ieri dei tre poliziotti kosovari arrestati/rapiti dalle forze di sicurezza serbe il 14 giugno – ma “ora è tempo per una de-escalation urgente e immediata”, ha rimarcato il primo ministro: “Questa situazione non può impattare in modo negativo la regione, abbiamo molto da fare dopo tanti progressi, non può cadere tutto come un castello di sabbia”. Ecco perché l’idea condivisa da Tirana è quella di “una conferenza di massimo livello con Ue e Stati Uniti, che porti i leader dei due Paesi allo stesso tavolo“, è quanto avanzato da Rama. Da quel tavolo il premier Kurti e il presidente Vučić “non devono andarsene prima di aver trovato un accordo, altrimenti rischieranno di incorrere in conseguenze negative e spiacevoli per tutti”.
    Cosa sta succedendo tra Serbia e Kosovo
    Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma la tensione tra Pristina e Belgrado rimane ancora alta e per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.

    La presidente della Commissione Ue ha telefonato al premier kosovaro, Albin Kurti, e al presidente serbo, Aleksandar Vučić, per ribadire “l’urgente necessità di una de-escalation e del ritorno al dialogo”. Nella bozze di conclusioni del vertice dei leader Ue inserito un punto specifico

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    Approvato dal Consiglio dell’Ue l’accordo di libero scambio con la Nuova Zelanda. Entrata in vigore attesa entro il 2024

    Bruxelles – Fa passi in avanti l’accordo di libero scambio Ue-Nuova Zelanda e ora si attende solo il via libera del Parlamento Europeo per l’entrata in vigore. A dare la spinta decisiva è stata l’approvazione di oggi (27 giugno) da parte del Consiglio dell’Ue, che ha adottato la decisione di firmare l’accordo stretto nel giugno dello scorso anno dal gabinetto von der Leyen con Wellington. “L’accordo Ue-Nuova Zelanda rafforzerà il rapporto tra partner stretti e giocherà un ruolo importante nel nostro impegno nella regione dell’Indo-Pacifico“, si è congratulato il vicepresidente esecutivo della Commissione Ue responsabile per l’Economia, Valdis Dombrovskis: “È un accordo moderno e dinamico, che promuove forti azioni a protezione del clima e dei diritti del lavoro”.
    Il vicepresidente esecutivo della Commissione Ue per l’Economia, Valdis Dombrovskis (27 giugno 2023)
    Il via libera del Consiglio è necessario – insieme a quello ancora mancate dell’Eurocamera – per sancire la fine del processo iniziato esattamente cinque anni fa. Una volta entrato in vigore – “ci aspettiamo che questo accada all’inizio del 2024“, ha precisato Dombrovskis nel corso della conferenza stampa – l’accordo di libero scambio Ue-Nuova Zelanda porterà all’eliminazione dei dazi su tutte le esportazioni di merci e prodotti industriali e alimentari dai Paesi membri Ue verso la Nuova Zelanda, mentre l’Unione eliminerà “o ridurrà sostanzialmente” i dazi sulla maggior parte delle merci neozelandesi, si legge testo dell’intesa firmata il 30 giugno 2022 dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e dall’allora premier neozelandese, Jacinda Ardern, volata a Bruxelles appositamente per presenziare all’appuntamento storico. L’entrata in vigore avverrà “il primo giorno del secondo mese successivo alla conferma” di entrambe le parti sul completamento dei requisiti e delle procedure legali.
    Cosa prevede l’accordo Ue-Nuova Zelanda
    Al centro dell’accordo di libero scambio Ue-Nuova Zelanda c’è la collaborazione per spingere una crescita stimata dell’80 per cento degli investimenti e del commercio bilaterale fino al 30 per cento: in altri termini, un potenziale aumento delle esportazioni annuali dell’Ue fino a 4,5 miliardi di euro. Di fondamentale importanza per Bruxelles è la tutela di 163 indicazioni geografiche protette (come il formaggio Asiago) e quasi duemila tra vini e alcolici (tra cui il Prosecco). Sarà illegale la vendita di imitazioni – divieto dell’uso di un termine Ig “per prodotti non genuini”, o espressioni come ‘genere’, ‘tipo’, ‘stile’, ‘imitazione’ – e l’uso “ingannevole” di simboli, bandiere o immagini che suggeriscono una falsa origine geografica. Stop anche a tutti i dazi sulle principali esportazioni alimentari dell’Ue in Nuova Zelanda, come carni suine, vino e spumante, cioccolato, dolciumi e biscotti
    Da sinistra: l’ex-prima ministra della Nuova Zelanda, Jacinda Ardern, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (30 giugno 2022)
    L’accordo di libero scambio Ue-Nuova Zelanda rappresenta un primo caso nel suo genere, considerato che nel capitolo sul commercio e lo sviluppo sostenibile sono state incluse questioni ambientali e climatiche con una clausola inedita: nella collaborazione per la determinazione del prezzo del carbonio e la transizione verso un’economia a basse emissioni, sono previste sanzioni in caso di “violazione sostanziale” dell’Accordo di Parigi sul clima. L’obiettivo è quello di prevenire e limitare i danni ad acqua, aria e suolo, facilitando il commercio e gli investimenti in beni, servizi e tecnologie a basse emissioni di carbonio. In questo quadro rientra anche il capitolo su energia e materie prime, con l’eliminazione delle restrizioni all’esportazione di beni energetici, rinnovabili incluse: in particolare saranno promossi il commercio e gli investimenti per le energie rinnovabili e i prodotti ad alta efficienza energetica.
    Di rilievo infine il capitolo sul digitale e la proprietà intellettuale. Saranno facilitati i flussi di dati transfrontalieri, vietando i requisiti “ingiustificati” di localizzazione dei dati e mantenendo il livello di protezione dei dati personali secondo il Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) dell’UE, “che contribuisce in modo significativo alla fiducia nell’ambiente digitale”. In questo modo le imprese potranno contare sulla “prevedibilità e certezza del diritto” e i cittadini comunitari e neozelandesi su “un ambiente online sicuro” nel momento in cui effettuano transazioni commerciali digitali a livello transfrontaliero. Per quanto riguarda le disposizioni in materia di proprietà intellettuale, saranno protetti il diritto d’autore, i marchi, i disegni e i modelli industriali, con un aumento degli standard accettati da Wellington: 20 anni per i diritti di autori, esecutori e produttori di registrazioni sonore e 15 anni per disegni e modelli registrati.

    A fissare la data è stato il vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, accogliendo il passo in avanti verso l’eliminazioni dei dazi alle esportazioni reciproche e la tutela dei prodotti agricoli europei. Intesa storica su sanzioni in caso di violazione dell’Accordo sul clima di Parigi

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    L’accordo con la Tunisia sulla gestione dei migranti è a un passo. Tajani: “Martedì 27 la firma”

    Bruxelles – La firma del memorandum d’intesa tra l’Ue e Tunisi potrebbe arrivare già domani. L’accordo sarebbe stato trovato oggi (26 giugno) al Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo, con il testo inviato dalle autorità tunisine e approvato dal commissario Ue per l’allargamento e la politica di vicinato, Olivér Várhelyi. A riverlarlo, un soddisfattissimo Antonio Tajani: “Domani Várhelyi sarà a Tunisi per la firma”, ha dichiarato il vicepremier e ministro degli Esteri a margine del vertice.
    L’azzurro rivendica i propri meriti – “ho parlato questa mattina con il ministro degli Esteri tunisino e poco dopo è arrivato il testo dell’accordo”- e quelli del governo Meloni, che per primo ha posto con urgenza la questione della stabilità politica tunisina in chiave sicuritaria e di gestione dei flussi migratori, e che sta interpretando il ruolo di mediatore tra Bruxelles e l’autoritario presidente Kais Saied. Le premier italiana aveva tra l’altro manifestato il desiderio di vedere firmato il memorandum d’intesa prima del Consiglio europeo del 29-30 giugno dal momento che, come sottolineato dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, il pacchetto di partenariato globale dovrà in ogni caso essere approvato dagli Stati membri.
    Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kais Saied, Giorgia Meloni
    La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in una lettera indirizzata ai 27 capi di stato e di governo in vista del vertice, ha confermato che il commissario Várhelyi “finalizzerà a breve un memorandum d’intesa con la Tunisia“, che dovrà fare da “modello” per “partenariati simili in futuro”. La partnership disegnata durante la missione a Tunisi di von der Leyen, Meloni e il suo omologo olandese, Mark Rutte, prevede una maggiore cooperazione su sviluppo economico, scambi e investimenti, accordi sulle energie rinnovabili, gestione dei flussi migratori, mobilità e formazione nell’ambito della partnership per i talenti. Dei cinque pilastri dell’accordo, sembra giocarsi tutto sull’equazione tra sviluppo economico – in sostanza assistenza finanziaria a Tunisi – e gestione dei flussi migratori. C’è anche un terzo termine, con tutti dubbi e le perplessità del caso. Borrell ha ricordato a margine del Consiglio Affari Esteri che “il quadro giusto è supporto economico, ma anche garanzie per il rispetto dei diritti umani e trattamento dignitoso di tutti i migranti”.
    L’Ue è infatti pronta a mobilitare immediatamente 150 milioni come supporto al budget e 105 per la gestione dei flussi migratori – di cui 60 per il controllo dei confini-, restituendo di fatto un po’ di ossigeno alle casse di un Paese sull’orlo del collasso economico-sociale. I restanti 900 milioni di assistenza microfinanziaria rimarrebbero invece vincolati alla firma dell’accordo da 1,9 miliardi di dollari tra Tunisi e il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), congelato ormai da mesi a causa del rifiuto di Saied di avviare una serie di riforme impopolari previste per sbloccare il finanziamento. In cambio, Bruxelles chiede in sostanza a Saied di continuare a fermare le partenze dei barconi e di trasformare la Tunisia in una sorta di piattaforma dove rispedire i migranti irregolari, che verrebbero sottoposti alle procedure d’asilo nel Paese nordafricano. I migranti a cui fosse riconosciuto il diritto d’asilo verrebbero ripresi dagli Stati membri, gli altri resterebbero in Tunisia. Borrell ha aggiunto un termine importante all’equazione: “Il quadro giusto è supporto economico, ma anche garanzie per il rispetto dei diritti umani e il trattamento dignitoso di tutti i migranti”, ha avvertito a margine del Consiglio Affari Esteri.
    Proteste a Sfax contro la presenza di migranti subsahariani. A destra una donna con uno striscione che recita: “Non siamo razzisti ma la sicurezza è la nostra priorità” (Photo by HOUSSEM ZOUARI / AFP)
    Il gioco al rialzo di Saied, che nonostante gli incontri degli ultimi mesi con diversi leader Ue continua a dichiarare pubblicamente che la Tunisia “non accetterà mai di essere il guardiano dei confini di nessun Paese” sembra funzionare, e il presidente tunisino ha trovato nell’Italia un ottimo compagno di squadra per fare cassa il più possibile. Anche oggi Tajani si è detto speranzoso che i 105 milioni dall’Ue per la gestione dei confini siano seguiti da una seconda tranche, e ha espresso fiducia sulla “flessibilità del Fondo monetario internazionale”, che sarebbe emersa durante gli ultimi colloqui tra l’Italia e la direttrice generale del Fmi, Kristalina Georgieva.
    Intanto però, dopo mesi in cui proprio Saied ha soffiato sul fuoco dell’intolleranza verso i migranti subsahariani, in Tunisia sono scoppiate le polemiche per il possibile accordo con l’Unione europea. A Sfax, città portuale da dove partono la maggior parte dei barconi diretti verso le coste italiane, da qualche giorno infuriano le proteste per la presenza di migranti irregolari, sfociate anche in episodi di violenza tra la popolazione locale e gli stranieri.

    Secondo il vicepremier italiano domani il commissario Ue Várhelyi sarà a Tunisi per la firma. In una lettera ai 27 capi di stato e di governo, von der Leyen conferma “l’accordo a breve”. Assistenza finanziaria, scambi e investimenti, energie rinnovabili e gestione dei flussi migratori i cinque pilastri. Pronti 105 milioni per il controllo delle coste

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    “Il mostro creato da Putin gli si è rivoltato contro”. L’Ue studia le conseguenze della crisi tra il Cremlino e la Wagner

    Bruxelles – Nessuno si sbilancia, nonostante ormai siano passati due giorni dalla fine del possibile colpo di Stato in Russia. Perché per le istituzioni comunitarie l’azione dell’entità militare privata Wagner e del suo leader Yevgeny Prigozhin e la risposta del Cremlino rimangono sempre “un affare interno della Russia”, in cui nessuno vuole entrare. Lo hanno dichiarato tutti oggi (26 giugno) al Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo, a partire dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “Stiamo seguendo da vicino quello che succede, il mostro creato da Vladimir Putin con la guerra in Ucraina sta agendo contro il suo creatore“.
    Da sinistra: l’autocrate russo, Vladimir Putin, e il leader del gruppo Wagner, Yevgeny Prigozhin (credits: Alexey Druxhinin / Sputnik / Afp)
    Questo è quanto dalle istituzioni comunitarie, per trovare altre reazioni di rilievo dalle capitali dell’Unione bisogna scavare nei dettagli delle dichiarazioni rilasciate a margine del Consiglio Affari Esteri. “Abbiamo notato un cambiamento e che sono apparse crepe nel sistema russo“, è stato il massimo dell’apertura da parte del ministro degli Affari esteri italiano, Antonio Tajani, che per il resto si è mantenuto cauto dietro a un ripetuto “non tocca a noi interferire nella situazione interna alla Russia“. Oppure il ministro degli Esteri svedese e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Tobias Billström, che – barricandosi dietro a uno sterile “dobbiamo guardare la vicenda come un affare interno russo” – si è lasciato sfuggire quanto i Paesi vicini alla Russia e all’Ucraina avvertono da venerdì sera (23 giugno): “Quello che succede a Mosca ha un impatto sull’ambiente di sicurezza circostante“. Lo stesso ministro ha messo in chiaro che “non siamo in posizione per fare profonde analisi, serve ancora più lavoro”, ma che in ogni caso “tutti dobbiamo preoccuparci quando si parla della Wagner” e che “evidentemente Putin sta perdendo la guerra, non sta andando nella direzione che vorrebbe”. Parole simili a quelle dell’omologo italiano: “Certamente l’assenza di Wagner non rafforza l’armata russa“, ha aggiunto Tajani.
    Il quartier generale del gruppo Wagner a San Pietroburgo, Russia (credits: Olga Maltseva / Afp)
    A parlare in maniera più esplicita è però l’alto rappresentante Ue Borrell, in particolare al termine del confronto con i 27 ministri. “Insurrezione armata abortita, questo è il modo migliore per riferirsi agli eventi di questo fine settimana caratterizzati dalle azioni del gruppo Wagner”, in una situazione che ora “rimane complessa e difficilmente prevedibile”. Ciò che è chiaro è che il tentativo di colpo di Stato tra venerdì e sabato scorso ha mostrato la “fragilità anche del potere militare russo, l’Ucraina lo sta spezzando” e che “la credibilità di Putin è indebolita”. Il vero problema è che se “prima la Russia era una minaccia perché era forte, ora lo è perché potrebbe essere entrata in un’era di instabilità politica“. Instabilità interna e fragilità che preoccupano non poco l’Unione, dal momento in cui la Russia rimane “una grande potenza nucleare”. In ogni caso non è ancora possibile fornire analisi e previsioni degli scenari in caso la situazione a Mosca dovesse sfuggire dal controllo di Putin e della sua cerchia di oligarchi: “Non abbiamo dato scuse all’opinione pubblica russa per dire che siamo coinvolti, a dire la verità siamo sorpresi e gli scenari non si tratteggiano in sole 24 ore”, ha aggiunto Borrell. Per quanto riguarda la presenza di Prigozhin in Bielorussia e l’eventualità che il gruppo armato Wagner si sposti a Minsk, l’Alto rappresentante ha spiegato che “non abbiamo ancora preso in considerazione questo aspetto”.
    Il gruppo Wagner in Russia
    La Wagner è un gruppo paramilitare strettamente legato all’establishment politico e militare russo, soprattutto a livello personale tra l’autocrate Putin e il fondatore della milizia privata Prigozhin. Il nucleo originario – le cui origini risalgono al 2011 – è di circa 10 mila mercenari (tra ex-militari e agenti di sicurezza russi e di altri Paesi come la Serbia), ma nel corso del 2022 il numero complessivo è aumentato a diverse decine di migliaia, dopo la vasta campagna di reclutamento consentita dal Cremlino anche nelle carceri russe. Teoricamente in Russia gli eserciti di mercenari sarebbero illegali, ma proprio lo scorso anno il gruppo Wagner si è registrato come società con sede a San Pietroburgo. Le prime azioni militari sono state registrate in Crimea nel 2014, quando la Wagner affiancò l’esercito russo per conquistare il controllo della penisola. I mercenari si spostarono poi a Luhansk insieme ai separatisti filo-russi, fino all’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022: quest’anno si sono ritagliati un ruolo cruciale nella battaglia di Bakhmut (nell’Ucraina orientale), mantenendo quasi da soli la potenza di fuoco russa opposta a quella ucraina.
    Tuttavia proprio la battaglia di Bakhmut – con la strategia di logoramento messa in piedi appositamente da Kiev – ha fatto emergere Prigozhin come soggetto problematico per la presunta unità delle fila russe. Prima ha annunciato a maggio l’intenzione di voler ritirare le proprie truppe dalla città, poi ha accusato il governo russo (e in particolare il ministero della Difesa) di non fare abbastanza per sostenere le forze paramilitari. Dopo un’escalation di accuse, venerdì scorso ha attaccato senza mezzi termini tutta la macchina di propaganda della Russia e ha iniziato l’insurrezione nella notte tra venerdì e sabato. Dopo aver preso la città di Rostov e aver iniziato a marciare su Mosca, nel pomeriggio di sabato è arrivato l’annuncio dello stop alla “marcia della giustizia” per “non versare inutilmente sangue russo”. Lo stesso Prigozhin ha confermato di aver accettato il compromesso avanzato dall’autoproclamato presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenko, secondo cui tutti gli insorti riceveranno l’amnistia, i mercenari che non hanno partecipato alla sollevazione potranno integrarsi nell’esercito regolare e lo stesso leader del gruppo Wagner si sarebbe recato a Minsk.
    I mercenari della Wagner sono stati impegnati in Siria a partire dal 2017 nella guerra civile al fianco di Bashar al Assad, ed è nota la presenza in diversi Paesi africani (si sospetta anche nel Sudan recentemente travolto dalla guerra civile). Dall’ottobre 2020 Prigozhin è colpito dalle sanzioni dell’Unione Europea per l’avvelenamento di Alexei Navalny (uno dei principali oppositori di Putin), mentre le misure restrittive contro il gruppo Wagner sono state imposte pochi mesi prima dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Gli individui colpiti sono coinvolti in “gravi abusi dei diritti umani, tra cui tortura, esecuzioni e uccisioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, o in attività destabilizzanti” fuori dalla Russia: “Wagner ha reclutato, addestrato e inviato operatori militari privati in zone di conflitto in tutto il mondo“, dalla Libia alla Siria, dall’Ucraina alla Repubblica Centrafricana, “per alimentare la violenza, saccheggiare risorse naturali e intimidire i civili in violazione del diritto internazionale”.

    Al Consiglio Affari Esteri a Lussemburgo l’alto rappresentante Ue, Josep Borrell, ha aggiornato i 27 ministri sul tentato colpo di Stato da parte della milizia privata di Yevgeny Prigozhin e il ruolo della Bielorussia: “Mosca potrebbe essere entrata in un’era di instabilità politica”

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    Iran, un pacchetto di sanzioni europee al mese. Siamo al nono, ma nel Paese aumentano le esecuzioni capitali

    Bruxelles – Arriva puntuale, anche questo mese, il pacchetto di sanzioni Ue contro i responsabili di gravi violazioni dei diritti umani in Iran. È il nono, uno al mese dallo scorso ottobre, e colpisce 7 persone che vanno ad aggiungersi alla lunga lista nera, che ora conta 223 individui e 37 entità.
    I 27 ministri degli Esteri Ue hanno deciso di applicare misure restrittive nei confronti del procuratore generale e del vice giudice del tribunale penale della provincia di Isfahan, responsabili dei processi che hanno portato all’esecuzione capitale di tre manifestanti nel mese di maggio. Preso di mira anche il comandante del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (Irgc) della stessa provincia. Le misure restrittive, che consistono nel congelamento dei beni , nel divieto di viaggio verso l’Unione Europea e nel divieto di ricevere fondi o risorse economiche dal territorio comunitario, colpiscono anche il governatore e il comandante della polizia di Rezvanshahr, città nella provincia di Gilan, responsabili di aver ordinato agli agenti di aprire il fuoco sui manifestanti in diverse proteste, causando morti e feriti.
    Infine, entrano ufficialmente nei cattivi il governatore della città di Amol, responsabile dell’uccisione di almeno due giovani manifestanti iraniani, e il comandante del Corpo delle Guardie Imam Hossein di Karaj per la detenzione e lo stupro di Armita Abbasi da parte delle forze di sicurezza di Karaj. Abbassi, ventunenne, era stata indicata come una dei leader delle proteste e per questo incarcerata per oltre tre mesi.
    Alle sanzioni si accompagnano i soliti appelli alla Repubblica Islamica affinché “ponga fine alla violenta repressione delle proteste pacifiche e al ricorso a detenzioni arbitrarie”. I 27 invitano inoltre Teheran a “cessare la pratica di imporre ed eseguire condanne a morte contro i manifestanti, revocare le condanne a morte pronunciate e garantire un giusto processo a tutti i detenuti“.
    Le esecuzioni capitali nel Paese, secondo l’ong Iran Human Rights (Ihrngo), sono aumentate in maniera drammatica: solo a maggio sarebbero state giustiziate almeno 142 persone, dato più alto dal 2015. In questa prima metà di 2023 sarebbero almeno 307, con un aumento del 76 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Emblematiche le parole del direttore di Ihrngo, Mahmood Amiry-Moghaddam, che in un comunicato stampa ha dichiarato: “Se la comunità internazionale non mostra una reazione più forte all’attuale ondata di esecuzioni, nei prossimi mesi altre centinaia cadranno vittime della loro (delle autorità iraniane, ndr) macchina per uccidere”. Dopo nove pacchetti di sanzioni, forse è arrivato il momento di cambiare strategia.

    I ministri degli Esteri Ue a Lussemburgo emanano il nono pacchetto di misure restrittive per i responsabili di violazioni dei diritti umani. Colpiti governatori, comandanti di polizia e delle Irgc. Ma l’ong Iran Human Rights lancia l’allarme: 142 persone giustiziate nel mese di maggio

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    L’Occidente e la Russia, Balfour (Carnegie): Essere uniti sta dando i suoi frutti

    Bruxelles – Gli occidentali hanno mostrato unità anche di fronte alla crisi che si è scatenata sabato in Russia con la “marcia su Mosca” dei 25mila mercenari guidati da Yevgeny Prigozhin. Poche dichiarazioni, osservazione degli eventi, solo qualche giudizio sul caos che a quanto sembra si è creato nel gruppo dirigente russo.
    “L’esperienza di essere uniti sta dando i suoi frutti”, ha dichiarato Rosa Balfour, direttrice del think tank Carnegie Europe al Wall Street Journal. Secondo l’analista fino all’inizio dell’invasione russa in Ucraina i governi occidentali avevano opinioni diverse sulla Russia e sui suoi approcci, alcuni favorevoli all’impegno e altri più conflittuali. Adesso la strategia, anche attraverso il ruolo della Nato, sembra sostanzialmente condivisa.
    Se la rivolta fosse avvenuta un anno fa, “sarebbe stata estremamente problematica per l’Occidente”, ha detto Balfour, secondo la quale “alcuni leader avrebbero rifiutato la leadership di Putin, mentre altri lo avrebbero difeso come una forza di stabilità che doveva rimanere”. Oggi, ha detto Balfour al WSJ, “non mi sembra che questo accada”.
    Secondo l’analista “i commenti del presidente francese Emmanuel Macron il mese scorso a Bratislava hanno segnato un punto di svolta”. In quella occasione, Macron affermò che i Paesi dell’Europa occidentale non avevano ascoltato gli avvertimenti dei loro vicini orientali sull’aggressione della Russia e chiese maggiori sforzi per la sicurezza dell’Ucraina.
    “Gli europei hanno raggiunto un nuovo livello di comprensione e di valutazione strategica” sulla Russia, conclude Balfour.

    La direttrice del centro europeo della Fondazione statunitense al Wall Street Journal

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    Dumoulin (Ecfr): Le concessioni di Putin a Prigozhin aprono a sfide ancor più radicali

    Bruxelles – Cosa è successo nel fine settimana in Russia? Al di là della cronaca, oramai nota (almeno per grandi linee) cosa ha significato la “ribellione” (se questa è stata) di Yevgeny Prigozhin? Ne parla Marie Dumoulin, direttrice del programma per l’Europa allargata dell’European Council on Foreign Relations (Ecfr).
    “L’ammutinamento del fine settimana segna la fine del fenomeno Prigozhin così come lo conoscevamo. Aveva fatto molto affidamento sulle risorse governative, che probabilmente non saranno più a sua disposizione. Prima del febbraio 2022, l’attività principale di Wagner – ricorda Dumoulin – era quella di offrire protezione ai governi stranieri, come nella Repubblica Centrafricana o in Mali, contro i gruppi armati rivali che minacciavano il loro potere. Dopo la marcia su Mosca, Wagner probabilmente non rimarrà un fornitore di sicurezza credibile per i leader stranieri. Il modello subirà quindi cambiamenti fondamentali”.
    Secondo l’analista “la capacità di Prigozhin di mantenere le attività di Wagner all’estero sarà cruciale per comprendere il suo rapporto con la leadership russa. Le compagnie militari private non dovrebbero esistere in Russia, poiché non esiste uno status giuridico applicabile. Si presume generalmente che la Wagner sia stata fondata in stretta collaborazione con l’agenzia militare estera russa (Gru), fornendo un accordo utile per condurre azioni al di fuori dei confini russi con un certo grado di negabilità (da parte delle autorità russe, ndr) plausibile”.
    Dumoulin ritiene che con l’azione di sabato “formalmente, il potere di Vladimir Putin non è stato minacciato, ma la sua autorità è stata esplicitamente e radicalmente messa in discussione. Non è la prima volta: Anche il ritorno di Navalny in Russia all’inizio del 2021, dopo il tentativo di avvelenamento, ha rappresentato una sfida all’autorità di Putin, poiché Navalny ha affermato la sua capacità di stabilire l’agenda. Ma questa era una sfida politica. La marcia di Prigozhin su Mosca è stata molto più radicale e violenta. Il fatto che Putin sia disposto a fare concessioni di fronte alla violenza potrebbe preannunciare ulteriori sfide di natura ancora più radicale“.
    “La sfida – sottolinea la studiosa – è arrivata da una persona percepita come vicina a Putin, anche se Prigozhin non è mai stato un vero insider. Per questo motivo il suo tentativo di marciare su Mosca è stato definito da Putin ‘tradimento’. Tuttavia, è probabile che abbia chiarito a molti all’interno del sistema russo che il ‘divide et impera’ di Putin stava diventando pericoloso per il sistema stesso”.
    Gli eventi di questo fine settimana “hanno anche messo in discussione uno degli elementi centrali della narrativa di Putin da quando è al potere: ha costruito il suo governo sull’idea di portare stabilità e ordine nel Paese dopo il caos degli anni Novanta. Finché la guerra è rimasta lontana per la maggior parte dei russi, questa narrazione ha potuto reggere. Tuttavia ritiene Dumoulin -, una ribellione da parte di un gruppo paramilitare non si allinea bene con questa narrazione”.
    “Non mi aspetto che questi eventi abbiano un impatto diretto sulle operazioni in Ucraina – conclude l’analista di Ecfr -, ma probabilmente influenzeranno il morale dell’esercito russo e potrebbero persino portare a mettere in discussione la loro fedeltà alla leadership politica. Prigozhin ha espresso preoccupazioni riguardo agli obiettivi della ‘operazione militare speciale’ e alla condotta delle operazioni. Queste preoccupazioni sono probabilmente condivise da una parte dell’esercito russo“.

    Secondo la direttrice del programma per l’Europa allargata dell’European Council on Foreign Relations il capo della Wagner “ha espresso preoccupazioni riguardo agli obiettivi e alla gestione della ‘operazione militare speciale’. Queste preoccupazioni sono probabilmente condivise da una parte dell’esercito russo”

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    L’Ue aumenta di 3,5 miliardi lo European Peace Facility. Per Borrell “è il momento di sostenere l’Ucraina più che mai”

    Bruxelles – I ministri degli Esteri dei 27 Paesi Ue lanciano un chiaro segnale politico del costante impegno a fornire sostegno militare all’Ucraina e ad altri partner nel mondo. Dopo un fine settimana ad alta tensione, in cui il quasi golpe militare condotto da Evgenij Prigožin e dalla milizia di mercenari del gruppo Wagner ha fatto vacillare per qualche ora Vladimir Putin e la sua leadership, l’Europa è pronta a approfittare dell’indebolimento fisiologico dell’azione russa aumentando ulteriormente l’appoggio militare a Kiev.
    Sulla base di un accordo preso già lo scorso 20 marzo, il Consiglio Affari Esteri ha dato il via libera oggi (26 giugno) all’incremento di 3,5 miliardi di Euro del massimale finanziario dello European Peace Facility (Epf), lo strumento europeo per la pace che permette di finanziarie tutte le azioni Ue relative a questioni militari e di difesa. “Il mostro creato da Vladimir Putin con la guerra in Ucraina sta agendo contro il suo creatore”: così ha commentato l’ammutinamento del gruppo militare ‘parastatale’ russo l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, arrivando al Consiglio a Lussemburgo. “Questo è il momento di sostenere Kiev più di ogni altro momento ed è un bene che l’Epf sia rimpinguato con altri 3,5 miliardi”.
    Dalle casse dell’Epf Bruxelles ha finora potuto finanziare le forze armate ucraine attraverso sette successivi pacchetti di sostegno, nonché molti altri paesi quali Mozambico, Georgia, Moldavia, Bosnia-Erzegovina, Somalia, Niger, Mauritania, Libano e Giordania. Nove missioni militari e dodici missioni civili, perché oltre alla fornitura di equipaggiamento militare l’Epf consente il finanziamento di azioni operative  nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune (Pesc): il protagonismo Ue ha fatto sì che il 92 per cento del massimale finanziario complessivo dell’Epf per il periodo 2021-27 fosse già stato impegnato. Così, dopo un primo aumento di 2,3 miliardi a marzo, è stato necessario portare il plafond complessivo dai 5,6 miliardi di euro iniziali a 12 miliardi di euro.
    A due anni dalla sua creazione, nel marzo 2021, “lo strumento ha dimostrato il suo valore”, cambiando “completamente il modo in cui supportiamo i nostri partner nella difesa”, ha dichiarato Borrell. Lo strappo tra il Cremlino e il temuto gruppo Wagner potrebbe innescare mutamenti di scenario non solo in Ucraina, ma anche in diversi Stati africani in cui la milizia è da anni molto attiva per conto di Mosca, per esempio in Repubblica Centro Africana, Libia, Mali, Sudan. Tutti Paesi in cui Bruxelles fa già sentire direttamente o indirettamente il proprio supporto militare. E che ora, approfittando della confusione nello Stato maggiore russo, potrebbe aumentare.

    Già speso più del 90 per cento del massimale finanziario per il periodo 2021-27, il Consiglio Affari Esteri dà il via libera al secondo incremento che porta il budget complessivo Ue per questioni militari e di difesa a 12 miliardi