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    A Roma il vertice Weimar Plus in sostegno di Kiev. Rutte: “All’Aia la Nato concorderà il 5 per cento”

    Bruxelles – Sostegno incrollabile all’Ucraina e aumento delle spese per la difesa in ambito Nato. Sono i punti principali affrontati alla riunione del gruppo Weimar Plus, presieduto oggi a Roma da Antonio Tajani. Sul nuovo target del 5 per cento dell’Alleanza nordatlantica, il vicepremier forzista assicura l’impegno dell’Italia ma chiede più flessibilità. Nel frattempo, l’Ue spinge per adottare nuove sanzioni contro il Cremlino.I pesi massimi della difesa europea si sono riuniti oggi (12 giugno) a Villa Madama, a Roma, per discutere di sostegno a Kiev e di sicurezza euro-atlantica, inclusi i nuovi impegni di spesa militare dell’Alleanza nordatlantica. Alla Farnesina, il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha accolto gli omologhi di Francia, Germania, Polonia, Spagna, Regno Unito e Ucraina, insieme all’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas e, per la prima volta, alla presenza del Segretario generale della Nato Mark Rutte.Focus sulla difesaSul versante sicurezza, il tema centrale è senza dubbio la necessità di aumentare massicciamente le spese militari nel Vecchio continente. Nella loro dichiarazione congiunta, i ministri hanno riconosciuto che gli alleati europei devono “assumersi maggiori responsabilità all’interno della Nato” e auspicato “un ambizioso rafforzamento delle capacità di difesa europee, intensificando in modo flessibile e sostenibile le spese per la sicurezza e e la difesa nazionali“.A Villa Madama con i Ministri dei Paesi Weimar+ per un importante confronto sulla sicurezza euroatlantica e sul sostegno all’#Ucraina.Abbiamo concordato di rafforzare il nostro impegno per un’Europa più forte, capace di difendere i propri cittadini e di contribuire alla pace e… pic.twitter.com/6IC639JRDc— Antonio Tajani (@Antonio_Tajani) June 12, 2025Il riferimento è duplice. Da un lato, c’è il colossale piano ReArm Europe proposto dall’esecutivo comunitario: fino a 800 miliardi di potenziali investimenti nazionali da parte dei Ventisette (derivanti dal rilassamento delle regole del Patto di stabilità) più altri 150 miliardi in appalti congiunti dal fondo Safe, cui potranno partecipare anche Paesi extra-Ue come Regno Unito e Ucraina.Dall’altro lato, c’è il nuovo obiettivo del 5 per cento che sta per essere concordato dai leader dell’Alleanza al summit dell’Aia, in calendario per fine mese. Ma la parola d’ordine, appunto, è flessibilità. A sottolinearlo è lo stesso padrone di casa: “L’Italia è favorevole” ad alzare l’asticella, ha dichiarato il vicepremier, “ma bisogna programmarlo in almeno 10 anni“. Il Belpaese ha raggiunto solo recentemente il target del 2 per cento deciso nel 2014.Sul nodo cruciale delle tempistiche è arrivata la sponda di Rutte, che prima della ministeriale ha incontrato Giorgia Meloni per un bilaterale. “Non ho comunicato nulla riguardo a una data di scadenza” per tradurre in pratica il nuovo target (composto da 3,5 punti di Pil per le spese militari e un ulteriore 1,5 per cento in investimenti collegati in senso lato alla sicurezza), ha affermato il capo della Nato, in un’apertura agli alleati coi conti pubblici sotto pressione come l’Italia.La premier italiana Giorgia Meloni accoglie a Palazzo Chigi il Segretario generale della Nato, Mark Rutte, il 12 giugno 2025 (foto: Chigi)Ma non c’è dubbio, ha tenuto il punto l’ex premier olandese, sulla necessità di “spendere di più” e di farlo massicciamente, a partire dalla produzione di munizioni e dall’aumento delle capacità di difesa antiaeree. Perché, sostiene, la Russia potrebbe attaccare direttamente il territorio Nato “entro il 2029 o al massimo al 2030”. Tutti d’accordo: per il titolare degli Esteri tedesco Johann Wadephul, “la capacità di difesa non deve essere un dibattito teorico, è un’amara necessità”, mentre Kallas ha ribadito che “un’Europa più forte significa anche una Nato più forte“.Sostegno a Kiev (e sanzioni su Mosca)Quanto al dossier Ucraina, i partecipanti hanno ribadito il sostegno al Paese aggredito, accogliendo con favore “gli sforzi di pace guidati dagli Stati Uniti e i recenti colloqui” tra le squadre negoziali di Kiev e Mosca (l’ultimo a Istanbul a inizio mese) ma deplorando l’approccio tutt’altro che costruttivo di Vladimir Putin.“Siamo pronti per la pace, vogliamo finire la guerra quest’anno“, ha dichiarato il titolare degli Esteri di Kiev, Andrij Sybiha. Ma, secondo il suo omologo polacco Radoslaw Sikorski, lo zar “si sta prendendo gioco” delle aperture concesse sia da Volodymyr Zelensky sia da Donald Trump (la cui mediazione non sembra finora portare da nessuna parte).Il presidente russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)Per costringere l’inquilino del Cremlino a sedersi al tavolo delle trattative, i partecipanti al vertice odierno hanno ribadito la “disponibilità a intensificare la pressione sulla Russia“, anche ricorrendo all’imposizione di nuove sanzioni. In tal senso si sta già lavorando a Bruxelles, dove gli ambasciatori dei Ventisette stanno discutendo sul 18esimo pacchetto presentato a inizio settimana dalla Commissione.Sulle nuove misure – che vanno adottate all’unanimità dalle cancellerie – aleggia il veto del primo ministro slovacco Robert Fico, ufficialmente per timori relativi alla sicurezza energetica di Bratislava. Da Roma, Kallas si è detta “abbastanza ottimista su un accordo finale“, mentre i portavoce del Berlaymont continuano a ripetere che “la Commissione discute costantemente con gli Stati membri” su come le sanzioni possano “funzionare nell’interesse di tutti”.

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    L’Ue finanzia il colosso delle armi di Israele, ma assicura: “Nessun fondo per la guerra a Gaza”

    Bruxelles – Con i riflettori accesi sulla carneficina in corso a Gaza, dove i bombardamenti israeliani hanno ucciso più di 55 mila civili palestinesi, sul banco degli imputati finisce anche la Commissione europea: oltre al supporto incondizionato che Bruxelles ha garantito a Israele all’indomani del 7 ottobre – e che solo ora sembra voler seriamente rimettere in discussione -, emergono inquietanti e controversi legami tra alcuni fondi europei e l’industria della difesa di Tel Aviv.Poche settimane fa un’inchiesta condotta dai quotidiani belgi L’Echo e De Tijd ha svelato l’impiego di circa un miliardo di euro del fondo Ue per la ricerca e l’innovazione (Horizon) da parte di aziende del settore bellico israeliane. A cui si è aggiunta ieri (11 giugno) la pubblicazione da parte di Investigate Europe di dettagli sulla partecipazione del colosso delle armi Israel Aerospace Industries (Iai) a 15 progetti finanziati con il Fondo Ue per la difesa. La stessa azienda avrebbe piede in 8 progetti del fondo Horizon.In entrambi i casi, la Commissione europea si è auto-assolta assicurando di avere “solide misure di salvaguardia” per fare in modo che nessun centesimo proveniente da Bruxelles contribuisca a commettere violazioni dei diritti fondamentali. Ma sono tanti i dubbi – condivisi anche dalla Corte dei Conti dell’Ue – sull’efficacia dei meccanismi di monitoraggio sull’utilizzo dei fondi europei.L’indagine di Investigate Europe e Reporters United ne sono una conferma. In sostanza, l’Ue avrebbe ammesso la greca Intracom Defense, di proprietà quasi integralmente della più grande compagnia pubblica di armamenti israeliana, la Israeli Aerospace Industries, a 15 progetti finanziati dal Fondo europeo per la Difesa. Il FED, istituito nel 2017 dalla Commissione presieduta da Jean Claude Juncker, dovrebbe essere riservato alle sole compagnie europee. Ma ammette la possibilità dell’estensione a Paesi terzi, vincolata ad alcune garanzie che devono essere fornite dalle società stesse.il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e l’ex ministro della Difesa. Yoav Gallant, entrambi oggetto di un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale  (Photo by Abir SULTAN / POOL / AFP)Una sorta di autocertificazione, che poi viene vagliata da Bruxelles, e che ha permesso a Intracom Defense di usufruire di ben 15 progetti, di cui sette avviati dopo la risposta israeliana al 7 ottobre e dopo che la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità al premier Benjamin Netanyahu e all’allora ministro dell Difesa Yoav Gallant. In particolare, il progetto più controverso, che ha l’obiettivo di sviluppare un drone armato e per cui Intracom – ovvero la Israeli Aerospace Industries – ha ricevuto 14 milioni di euro, è stato avviato nel dicembre 2024.Atene aveva comunicato a Bruxelles l’associazione di un’impresa proveniente da un Paese terzo al progetto e fornito le garanzie necessarie per il via libera della Commissione, ha ricostruito oggi il portavoce dell’esecutivo Ue Thomas Regnier. “Per quanto riguarda le restrizioni al trasferimento di informazioni sensibili o dei risultati del progetto, disponiamo nuovamente di chiare garanzie per assicurare che nessun progetto nell’ambito dell’EDF violi il diritto dell’Unione europea, il diritto internazionale e i diritti fondamentali”, ha assicurato. Secondo quanto rivelato da Investigate Europe, la valutazione da parte di Bruxelles era stata effettuata nel giugno 2023, prima dello scoppio della guerra tra Israele e Hamas.“Naturalmente il monitoraggio e la valutazione continuano, come è sempre stato fatto”, ha aggiunto Regnier, bollando però come “altamente speculativa” qualsiasi ipotesi di revisione di tali finanziamenti.

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    Usa e Cina verso una tregua commerciale (che c’era già). L’Ue rimane alla finestra

    Bruxelles – Stati Uniti e Cina avrebbero trovato la quadra per sospendere l’escalation tariffaria che stava portando le due più grandi economie del mondo alla guerra commerciale aperta. Questa, almeno, è la lettura di Donald Trump. In realtà, Washington e Pechino hanno solo fatto enorme fatica per tornare al punto in cui si trovavano un mese fa, mentre non appare vicina una soluzione strutturale e duratura. L’unica cosa certa, per ora, è che l’Europa continua a rimanere alla finestra, nell’attesa che il presidente statunitense cambi idea sui dazi.Fumata bianca da Londra“Il nostro accordo con la Cina è concluso“, ha scritto ieri (11 giugno) Donald Trump sul suo social Truth, specificando che manca ora solo “l’approvazione finale” da parte sua e del presidente cinese Xi Jinping. Parlando alla stampa, il tycoon newyorkese ha successivamente definito come “ottimo” l’accordo raggiunto: “Abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno e ne trarremo grandi vantaggi. Speriamo che anche loro ne traggano beneficio”, ha dichiarato.Non sono stati resi noti molti dettagli dell’intesa preliminare raggiunta tra le squadre negoziali, emerse ieri da una maratona di due giorni a Londra. Per ora si sa solo che Pechino si è impegnata a riprendere le esportazioni verso gli States di magneti e terre rare senza limitazioni, mentre Washington ha fatto retromarcia sulle minacce di sospendere i visti per gli studenti provenienti dalla Repubblica popolare.Sul versante dazi, l’amministrazione a stelle e strisce ha mantenuto una pressione tariffaria complessiva del 55 per cento (rispetto al 145 per cento in vigore precedentemente) sui prodotti cinesi, così composta: 10 per cento di dazi “reciproci” imposti durante il Liberation Day, un ulteriore 20 per cento comminato al Dragone (insieme a Canada e Messico) come punizione per gli sforzi giudicati insufficienti nel contrasto alla diffusione del fentanyl e, infine, il 25 per cento introdotto da Trump durante il suo primo mandato e mai rimosso dal suo successore Joe Biden. Viceversa, i dazi cinesi sulle merci statunitensi si abbasseranno dal 125 al 10 per cento.I lati oscuri dell’accordoSecondo molti osservatori, tuttavia, l’entusiasmo dell’inquilino della Casa Bianca sarebbe eccessivo. Da un lato, le discussioni nella capitale britannica non hanno portato a progressi reali nei negoziati tra Washington e Pechino per evitare uno scontro a tutto campo. Tale eventualità non sarà scongiurata definitivamente finché non verrà stipulato il famigerato “accordo commerciale globale” tra i due colossi economici (Trump vorrebbe siglarlo entro la fine dell’estate).In effetti, i due Paesi si ritrovano ora nella medesima posizione in cui si erano lasciati il mese scorso, quando a Ginevra avevano concordato un compromesso che, di fatto, è tale e quale quello di ieri. Nelle settimane che sono intercorse, le due parti si sono reciprocamente accusate di aver violato i termini pattuiti in quell’occasione, dando il via ad una rapida escalation tariffaria che rischiava di danneggiare pesantemente entrambe.La Repubblica popolare aveva mancato di rimuovere alcune restrizioni sull’export di terre rare e magneti, e gli Usa avevano reagito limitando la vendita di semiconduttori, software, prodotti chimici e minacciando di sospendere i visti per studenti e ricercatori cinesi.Il segretario al Tesoro statunitense, Scott Bessent (sinistra), e il vicepremier cinese He Lifeng a Londra, il 9 giugno 2025 (foto: Li Ying via Afp)Come sottolineato dal viceministro al Commercio di Pechino Li Chenggang, quello concordato nei colloqui di Londra non è niente più che un “accordo quadro” valido “in linea di principio”, che dovrà servire a tradurre in concreto “il consenso raggiunto dai due capi di Stato durante la telefonata del 5 giugno e il consenso raggiunto durante l’incontro di Ginevra“.A sentire il segretario al Commercio Usa, Howard Lutnick, la due giorni londinese – che alcune indiscrezioni giornalistiche hanno descritto come tesa, a riprova del clima di sfiducia tra le rispettive squadre negoziali – ha “messo ordine” rispetto alle priorità delle parti: “Siamo sulla strada giusta”, dice, ma è una strada che rimane in salita. Anche per il titolare del Tesoro, Scott Bessent, il processo per giungere ad un accordo complessivo sarà “molto più lungo“.D’altra parte, notano diversi analisti, Trump avrebbe fatto il passo più lungo della gamba anche da un punto di vista strategico e geopolitico. Sarebbe stato un azzardo alzare così tanto la voce con la Repubblica popolare sia perché, a conti fatti, la Cina ha più alternative rispetto agli Usa se gli scambi tra le due superpotenze dovessero ridursi ulteriormente (o addirittura interrompersi), sia perché la leadership comunista ha uno spazio di manovra sconosciuto a qualunque governo democratico.Il presidente cinese Xi Jinping (foto: Photo by Tingshu Wang via Afp)Battere i pugni sul tavolo e ricattare, innescando una spirale incontrollabile di rappresaglie commerciali, potrebbe non essere il modo più lungimirante per trattare con Pechino, soprattutto per chi – come Washington – tratta da una situazione di sostanziale dipendenza dalle materie prime critiche su cui la Cina detiene virtualmente un monopolio planetario.E senza le quali le industrie a stelle e strisce (quella pesante, quella automobilistica, quella tecnologica e soprattutto quella militare) andrebbero a schiantarsi, con buona pace dei deliri di onnipotenza in salsa Maga. Insomma, Trump potrebbe aver ingaggiato un braccio di ferro che, semplicemente, gli Stati Uniti non sono oggi in grado di vincere.L’Ue rimane al paloAd ogni modo, il presidente Usa ha suggerito oggi (12 giugno) che nelle prossime settimane sentirà i partner commerciali di Washington per negoziare nuovi dazi unilaterali, prima che scadano le sospensioni temporanee concesse ad alcuni Paesi e all’Ue. La data fatidica è il 9 luglio, ma la finestra potrebbe allungarsi anche oltre: è “altamente probabile” che “posticiperemo la data per continuare i negoziati in buona fede“, ha pronosticato Bessent.Per il momento, a Bruxelles, l’esecutivo comunitario non si sbottona. Quelle arrivate da Londra sono “buone notizie per il mondo intero”, sostiene la portavoce Paula Pinho, ma “dobbiamo aspettare per saperne di più, vedere se e come (l’intesa tra Usa e Cina, ndr) avrà effetti sull’Ue”. Le trattative tra la Commissione – rappresentata dal titolare del Commercio Maroš Šefčovič – e la Casa Bianca continuano a porte chiuse, mentre rimangono in vigore i dazi del 50 per cento su acciaio e alluminio made in Europe.Il commissario al Commercio, Maroš Šefčovič, e la presidente dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen (foto: Christophe Licoppe/Commissione europea)Verosimilmente, a questo punto, la matassa potrà essere sbrogliata solo da un incontro al massimo livello tra Trump e Ursula von der Leyen. Tutti gli occhi sono puntati sul G7 che si terrà a Kananaskis, in Canada, dal 15 al 17 giugno, ma dal Berlaymont non trapela alcuna conferma su un bilaterale tra i due leader.Che qualche giorno dopo, il 24 e il 25, si incontreranno nuovamente all’Aia in occasione del summit della Nato, durante il quale i membri dell’Alleanza dovrebbero dare il disco verde ai nuovi obiettivi di spesa militare al 5 per cento del Pil. Dopo tutto, si tratta di una richiesta avanzata dallo stesso Trump: e chissà che, se gli europei accetteranno di mettere mano al portafoglio, anche il tycoon non possa ridursi a più miti consigli sulle tariffe che stanno strangolando l’economia del Vecchio continente.

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    Approvato l’accordo militare Usa-Danimarca, i soldati americani avranno basi e giurisdizione propria

    Bruxelles – Con 94 voti favorevoli e solo 11 contrari, il parlamento danese ha approvato ieri sera (11 giugno) un nuovo accordo di difesa che concede agli Stati Uniti un accesso esteso alle basi militari di tre città danesi: Karup, Skrydstrup e Aalborg. L’intesa prevede la possibilità per le forze armate statunitensi di operare da questi siti, immagazzinare materiale militare, effettuare manutenzioni, esercitazioni e stazionare personale. Le forze Usa avranno anche giurisdizione legale autonoma per quanto riguarda i propri militari, sollevandoli dal rispetto del diritto danese in prima istanza.L’accordo, firmato nel dicembre 2023 sotto l’amministrazione di Joe Biden ma finalizzato dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa bianca, ha sollevato critiche da parte di una parte dell’opinione pubblica e di alcune forze politiche, in particolare per i timori relativi alla perdita di sovranità e al potenziale conflitto con i principi costituzionali danesi. Tra i voti contrari si sono distinti quelli dell’Alleanza Rosso-Verde (Enhedslisten), degli ambientalisti di Alternativet e della parlamentare indipendente Theresa Scavenius, che ha parlato di “mancanza di controllo democratico” e di un processo decisionale troppo opaco. Secondo il leader di Enhedslisten, Pelle Dragsted, l’accordo segna “un fallimento nei confronti della popolazione danese” e rischia di creare “zone sotto giurisdizione americana, fuori dal controllo delle autorità danesi, dove potrebbero verificarsi abusi”. Il Danish institute for human rights ha espresso timori per la possibilità che i soldati americani, agendo anche fuori dalle basi, possano intervenire su manifestazioni o attività civili, senza essere perseguibili secondo il diritto locale.La premier danese Mette Frederiksen (foto: Consiglio Europeo)Il governo danese ha respinto le accuse, sottolineando che la responsabilità primaria della sicurezza resterà in capo alle autorità nazionali. Il ministro della Giustizia Peter Hummelgaard ha dichiarato che il controllo danese “rimane saldo” anche nelle aree coinvolte dall’intesa. La premier Mette Frederiksen ha difeso la scelta come necessaria nel contesto attuale: “Il problema non è un’eccessiva presenza americana in Europa, bensì il rischio che gli Stati Uniti si disimpegnino o fermino le donazioni all’Ucraina”.La ratifica dell’accordo arriva in un momento delicato nei rapporti bilaterali tra Copenaghen e Washington. Le recenti dichiarazioni del presidente Trump sulla volontà di “ottenere” la Groenlandia “in un modo o nell’altro” hanno riacceso tensioni mai del tutto sopite. Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, l’intelligence americana avrebbe ricevuto istruzioni per monitorare i movimenti indipendentisti groenlandesi e valutare il sentimento locale sull’estrazione di risorse, generando una risposta diplomatica dura da parte di Frederiksen: “Non si spia un alleato“, ha dichiarato.A complicare ulteriormente il quadro, le affermazioni del vicepresidente Usa JD Vance, che durante una visita alla base spaziale americana di Pituffik lo scorso 26 marzo aveva invitato la Groenlandia a “tagliare i ponti con la Danimarca” per allinearsi con Washington. Per il governo danese, proprio questo scenario rende ancora più strategico l’obiettivo di mantenere aperto il canale con gli Stati Uniti. Nonostante le preoccupazioni espresse da varie voci politiche e accademiche, l’accordo viene così interpretato da Copenaghen come uno strumento per gestire in modo più stabile una relazione sempre più complessa con il principale alleato militare della Nato.

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    Ue e Regno Unito trovano l’intesa post-Brexit su Gibilterra

    Bruxelles – Niente più controlli di terra, cooperazione tra forze di polizia, regole sui visti per chi non è residente in rispetto dell’area Schengen e delle regole di libera circolazione: Spagna e Regno Unito trovano l’intesa su Gibilterra, eliminando così gli ultimi aspetti della Brexit rimasti in sospeso. L’intesa è stata raggiunta in occasione dell’incontro tra le parti a Bruxelles (il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares e il ministro degli Esteri britannico David Lammy, insieme al primo ministro di Gibilterra Fabian Picardo, con la mediazione del commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič).Niente più controlli alle frontiere di terraUno dei punti principali dell’accordo politico riguarda la libera circolazione delle persone e delle merci. C’è l’impegno di garantirlo per la frontiera terrestre, per tutti i flussi in entrata e uscita tra Spagna e Gibilterra. Si stima che ogni giorno circa 15mila persona attraversino la frontiera terrestre ispano-britannica di Gibilterra, tra cui migliaia di transfrontalieri, lavoratori che vivono in Spagna ma che svolgono la professione oltre confine.“Con questo accordo, la barriera scomparirà”, enfatizza il ministro spagnolo Albares. “È l’ultimo muro sull’Europa continentale” che viene rimosso, aggiunge. I controlli si applicheranno al porto e in aeroporto, e saranno doppi: per l’Ue saranno effettuati dalla Spagna, mentre per il Regno Unito, le verifiche saranno condotte dalle autorità di Gibilterra come avviene attualmente. Gibraltar’s economy and way of life was under threat.We have secured a practical solution which safeguards sovereignty, jobs and growth.Working in lockstep with @FabianPicardo we have ensured Gibraltar’s interests – as part of the UK family – are at the heart of this… https://t.co/efngUyhQ2X— David Lammy (@DavidLammy) June 11, 2025Regno Unito, un piede in Schengen e uno nell’unione doganaleL’intesa politica non incide in alcun modo sulla sovranità britannica sulla rocca, punto centrale che per Londra rappresenta un elemento indispensabile per il futuro. Gibilterra è e resta del Regno Unito, ma per i cittadini di Sua Maestà non residenti a Gibilterra che vi arrivano saranno applicate le norme di Schengen: ciò significa che potrebbero essere respinti dagli agenti di polizia di frontiera spagnola, con sede presso il porto e l’aeroporto di Gibilterra, se hanno già trascorso 90 giorni nell’area Schengen su un periodo di 180 giorni. Un elemento, questo, che potrebbe non essere gradito ai conservatori britannici. La presenza e l’autorità della corona spagnola nel porto e nell’aeroporto gibilterriani, britannici, possono essere considerati come una riduzione della sovranità britannica.José Manuel Albares Bueno e Maroš Šefcovic, 11/06/25Inoltre, per quanto riguarda le merci, sul possedimento britannico sulle ‘colonne d’Ercole’ c’è l’intesa per una tassazione indiretta da applicare a Gibilterra, anche sul tabacco, che eviterà distorsioni e contribuirà alla prosperità dell’intera regione. E’ questo un ingresso del territorio britannico nell’unione doganale. Il ministro degli Esteri britannico, Lammy, parla di vittoria: “Abbiamo ottenuto una soluzione pratica che salvaguarda la sovranità, l’occupazione e la crescita”.Per Sefcovic l’intesa scrive “un nuovo capitolo nelle relazioni tra Ue e Regno Unito”. Ora servirà tempo per tradurre tutto questo nei testi giuridici, ma per il commissario europeo quanto deciso “è una pietra miliare davvero storica per l’Unione Europea, inclusa la Spagna, così come per il Regno Unito”.

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    Serbia, il presidente filorusso Aleksandar Vučić per la prima volta in Ucraina

    Bruxelles – Colpo di scena tra i Balcani occidentali e l’Ucraina. Uno dei principali alleati europei di Vladimir Putin, il presidente serbo Aleksandar Vučić, ha partecipato a sorpresa ad un summit a Odessa, incontrando l’omologo ucraino Volodymyr Zelensky nella sua prima visita ufficiale nel Paese. Potrebbe trattarsi di un tentativo di riposizionare Belgrado sullo scacchiere internazionale, più lontano da Mosca e più vicino a Bruxelles?L’annuncio, diffuso dall’ufficio della presidenza serba, ha colto tutti di sorpresa. Aleksandar Vučić si è recato oggi (11 giugno) a Odessa per una visita ufficiale di un giorno, mettendo piede in Ucraina per la prima volta da quando è salito al potere nel lontano 2012. L’autoritario leader balcanico ha partecipato ad un summit organizzato da Kiev che riunisce una dozzina di Paesi dell’Europa sud-orientale.Tra gli altri, erano presenti nella città portuale – colpita nelle scorse ore dall’ennesimo bombardamento russo – anche il neo-eletto presidente romeno Nicușor Dan, la presidente moldava Maia Sandu, il premier greco Kyriakos Mitsotakis e quello croato Andrej Plenković. Nessun invito, invece, per i rappresentanti del Kosovo: probabilmente un gesto di buona fede da parte ucraina nei confronti di Belgrado, che non riconosce l’indipendenza di Pristina.Grateful to all the leaders and partners who came together in Odesa for the Fourth Ukraine–Southeast Europe Summit.@sandumaiamd, @JakovMilatovic, @NicusorDanRO, @avucic, @R_JeliazkovPM, @AndrejPlenkovic, @kmitsotakis, @elisaspiropali, @IzetMexhiti, @tfajonYour presence sends… pic.twitter.com/Q58VCl0hdK— Volodymyr Zelenskyy / Володимир Зеленський (@ZelenskyyUa) June 11, 2025Secondo diversi osservatori, la comparsata a Odessa andrebbe letta come un segnale politico del leader serbo, che starebbe cercando di riposizionare il suo Paese un po’ più lontano dalla Russia e un po’ più vicino all’Ue. Vučić si era finora destreggiato in un complicato equilibrismo tra Mosca e Bruxelles, che non sembrava averlo ancora messo in particolare difficoltà.Uno dei più solidi alleati europei di Vladimir Putin (col quale ha celebrato l’80esimo anniversario della vittoria sovietica sulla Germania nazista lo scorso 9 maggio), il presidente serbo mantiene con la Federazione profondi legami economici, energetici, strategici e storico-culturali.Per non alienarsi il Cremlino, sta cercando di restare “neutrale” rispetto alla guerra d’Ucraina: non ha aderito alle sanzioni dell’Ue contro Mosca (è in arrivo il 18esimo pacchetto) e fornisce aiuti umanitari (ma non militari) a Kiev, mentre alle votazioni in sede Onu si è ripetutamente schierato a favore dell’integrità territoriale del Paese aggredito, evitando di riconoscere la Crimea e le altre oblast’ parzialmente occupate come territorio russo de jure.Eppure, negli ultimi giorni il rapporto tra Mosca e Belgrado pare essersi improvvisamente incrinato. A fine maggio, l’intelligence russa ha accusato la Serbia di aver inviato armi a Kiev tramite triangolazioni con Paesi Nato come Bulgaria, Cechia e Polonia e altri intermediari africani, arrivando a parlare di una “pugnalata alle spalle” da parte del tradizionale alleato balcanico. La Serbia, come la Russia, è storicamente avversa alla Nato, avendone subito i bombardamenti nel 1999.Il presidente russo Vladimir Putin durante le celebrazioni per l’80esimo anniversario della vittoria sovietica sulla Germania nazista, il 9 maggio 2025 a Mosca (foto: Vyacheslav Prokofyev/Sputnik via Afp)D’altra parte, almeno sulla carta, Vučić punta a portare Belgrado dentro il club a dodici stelle. Ma sul percorso verso l’adesione pesano – o erano pesate fin qui – sia la gestione sempre più autoritaria del potere da parte sua (a partire dalla repressione delle oceaniche proteste che stanno scuotendo il Paese da mesi) sia l’imbarazzante vicinanza con lo zar russo, nonostante i silenzi di António Costa e di Kaja Kallas.Attualmente, sono aperti 22 capitoli negoziali su un totale di 33 e un paio sono stati chiusi provvisoriamente, ma il processo è in naftalina da qualche anno. Nello specifico, i problemi sarebbero legati all’apertura del cluster 3 (crescita inclusiva), poiché i Ventisette non ritengono soddisfacente la situazione dello Stato di diritto, inclusi il contrasto alla corruzione, l’indipendenza della magistratura e la libertà dei media.La verità, ad ogni modo, è che l’avvicinamento della Serbia all’Ue – parallelamente all’allontanamento dalla Russia – è nell’interesse strategico di Bruxelles. È probabilmente ancora presto, tuttavia, per dire se siamo di fronte ad un riallineamento della politica estera di Belgrado, che comporterebbe l’abbandono di alleanze decennali da parte di Vučić, peraltro senza una prospettiva concreta di adesione.

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    L’Ue annuncia il 18esimo pacchetto di sanzioni contro la Russia. Nel mirino le esportazioni energetiche e il settore bancario

    Bruxelles – Non c’è 17 senza 18. A nemmeno due settimane dall’adozione dell’ultimo pacchetto di sanzioni contro la Russia, la Commissione Ue mette sul tavolo nuove misure restrittive per costringere il Cremlino ad accettare una tregua in Ucraina. Nel mirino di Bruxelles sono finiti stavolta i settori energetico e bancario, ma non è scontata la sponda di Washington sul tetto al prezzo del petrolio. E, a dirla tutta, nemmeno l’unità interna dei Ventisette.Era il 20 maggio scorso quando i ministri degli Esteri dei Ventisette approvavano il 17esimo pacchetto di sanzioni contro Mosca, puntando a colpire soprattutto la “flotta ombra” con cui la Federazione continua ad esportare il suo greggio in giro per il mondo. Oggi (10 giugno), i due papaveri più alti del Berlaymont hanno presentato un nuovo round di misure restrittive. “L’obiettivo della Russia non è la pace, bensì imporre il dominio della forza”, ha scandito Ursula von der Leyen presentando insieme a Kaja Kallas il 18esimo pacchetto sanzionatorio dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina.Secondo la presidente dell’esecutivo comunitario, “la forza è l’unica lingua che la Russia è in grado di comprendere” e dunque va mantenuta alta la pressione su Vladimir Putin affinché accetti di sedersi al tavolo negoziale, finora disertato dallo zar. Per l’Alta rappresentante, “nulla suggerisce che la Russia sia pronta per la pace”, anzi. Mosca, dice il capo della diplomazia a dodici stelle, è “crudele, aggressiva, una minaccia per tutti noi“.Il presidente russo Vladimir Putin (foto via Imagoeconomica)I due binari lungo i quali si muoveranno le prossime sanzioni saranno quelli dell’energia e delle transazioni finanziarie. Quanto al primo ramo, l’obiettivo è l’export di petrolio russo, che rappresenta ancora circa un terzo delle entrate del Cremlino. Per raggiungerlo, la Commissione propone tre diverse misure. Anzitutto, verranno vietate tutte le operazioni connesse ai Nord Stream 1 e 2: “Nessun operatore dell’Ue potrà effettuare, direttamente o indirettamente, alcuna transazione” relativa al doppio gasdotto che collega la Federazione alla Germania, spiega von der Leyen. Attualmente, nessuna delle due arterie sul fondale del Mar Baltico è in funzione.Un’ulteriore misura sarà poi l’abbassamento del tetto al prezzo del petrolio a 45 dollari al barile dai 60 attuali, concordati dai partner del G7 nel dicembre 2022. A sentire la popolare tedesca, “abbassando il tetto lo adattiamo alle mutate condizioni del mercato e ne ripristiniamo l’efficacia”. Contemporaneamente, la lista dei vascelli ombra del Cremlino si allunga ancora per includere altre 77 imbarcazioni, portando il totale a quota 419.Infine, l’Ue vorrebbe introdurre “un divieto di importazione di prodotti raffinati a base di petrolio greggio russo“, onde impedire che quest’ultimo raggiunga il mercato unico “per vie traverse”. Dopo l’adozione del 17esimo pacchetto di sanzioni, certifica Kallas, “le esportazioni di petrolio della Russia tramite le rotte del Mar Nero e del Mar Baltico sono diminuite del 30 per cento in una sola settimana”. Anche le cifre snocciolate da von der Leyen parlano di un crollo verticale degli introiti ottenuti da Mosca con i suoi idrocarburi: da 12 a 1,8 miliardi mensili.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas (foto: Dati Bendo/Commissione europea)Per quel che riguarda il settore bancario, l’idea è quella di “trasformare l’attuale divieto di utilizzare il sistema Swift in un divieto totale di effettuare transazioni” con entità ed istituti finanziari russi. Tale divieto, assicura von der Leyen, verrà esteso non solo ad altre 22 banche russe ma anche, soprattutto, “agli operatori finanziari di Paesi terzi che finanziano il commercio con la Russia eludendo le sanzioni”.Colpito anche il Fondo russo per gli investimenti diretti, che sovvenziona progetti e interventi di vario tipo in giro per il mondo, mentre vengono introdotti anche ulteriori limitazioni sulle esportazioni di “tecnologie e beni industriali fondamentali” verso la Federazione per un valore complessivo di oltre 2,5 miliardi di euro. Si tratta di macchinari, metalli, plastica e prodotti chimici ma anche beni e tecnologie a duplice uso (sia civile sia militare) cruciali per il complesso militare-industriale russo.Ci sono, tuttavia, giusto un paio di nodi politici che potrebbero rallentare (o addirittura far deragliare) l’adozione delle sanzioni comunitarie. Da un lato, il price cap sul greggio russo, come ricordato dalla stessa von der Leyen, è stato stabilito a livello del G7 e dunque, per modificarlo, serve l’accordo dei membri della coalizione. “Discuteremo come agire insieme” al vertice in programma per il 15-17 giugno a Kananskis (in Canada), ha promesso von der Leyen, che si dice “molto fiduciosa”.Ma il presidente statunitense Donald Trump non ha mostrato fin qui grande appetito per un nuovo giro di vite contro Mosca, per quanto i suoi alleati europei gli stiano tirando la giacca in tal senso fin dal suo ritorno alla Casa Bianca a gennaio. “Insieme agli Stati Uniti possiamo davvero forzare Putin a negoziare seriamente“, ha ripetuto per l’ennesima volta Kallas. Per ora, però, sembra che Bruxelles e Washington non stiano riuscendo a coordinarsi alla grande.Il presidente statunitense Donald Trump (foto: Brendan Smialowski/Afp)Al Congresso si discute molto della proposta, avanzata dal senatore repubblicano Lindsey Graham, di imporre dazi del 500 per cento sulle importazioni da qualunque Paese che continui a commerciare con la Russia, esentando chi sostiene la resistenza di Kiev (come gli Stati Ue). Ma un regime di sanzioni secondarie così drastico potrebbe rivelarsi un boomerang pericoloso per gli stessi States, peraltro impegnati proprio in questi giorni in complessi negoziati con la Cina per disinnescare la guerra commerciale scatenata da Trump un paio di mesi fa.D’altra parte, nemmeno tra i Ventisette pare esserci accordo totale sulla questione sanzioni. Oltre alla consueta opposizione dell’Ungheria di Viktor Orbán, ora sta alzando la voce anche la Slovacchia di Robert Fico. La scorsa settimana, il Parlamento di Bratislava ha approvato una risoluzione che impegna il governo a non appoggiare nuove sanzioni comunitarie contro la Russia. “Se ci sarà una sanzione che ci danneggerà, non voterò mai a favore”, ha dichiarato l’altroieri il primo ministro slovacco.

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    Il Regno Unito impone sanzioni contro due ministri estremisti del governo di Israele

    Bruxelles – Cinque alleati internazionali dell’Unione europea hanno imposto sanzioni contro i due ministri più estremisti del governo di Israele. Regno Unito, Canada, Norvegia, Australia e Nuova Zelanda compiono finalmente un passo che a Bruxelles non è ancora riuscito, nonostante l’ex Alto rappresentante per gli Affari esteri, Josep Borrell, l’avesse suggerito quasi un anno fa.Il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, e il ministro per la Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, sono responsabili di “incitazione alla violenza e di gravi violazioni dei diritti umani dei palestinesi“, sostengono i cinque Paesi che hanno deciso di congelare i beni dei due membri dell’esecutivo di Benjamin Netanyahu e di vietare loro l’ingresso sul territorio nazionale.“La retorica estremista che sostiene lo sfollamento forzato dei palestinesi e la creazione di nuovi insediamenti israeliani è spaventosa e pericolosa. Queste azioni sono inaccettabili“, si legge nella dichiarazione congiunta. I due ministri sono entrambi leader del partito Sionismo Religioso, il cui programma prevede esplicitamente l’annessione della Cisgiordania e il pieno controllo israeliano del territorio compreso tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano. Rifiuta l’idea di uno Stato Palestinese e chiede la cancellazione degli Accordi di Oslo del 1993, con cui Israele e l’allora Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) si impegnarono per un reciproco riconoscimento.Benjamin Netanyahu e Bezalel Smotrich (Photo by RONEN ZVULUN / POOL / AFP)Dall’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, Smotrich e Ben Gvir hanno indurito sempre di più la propria retorica anti-palestinese, arrivando ad affermare il primo che affamare la popolazione di Gaza potrebbe essere giustificabile e il secondo che bisognerebbe espellere i palestinesi dalla Striscia. Ben Gvir ha addirittura lasciato il governo quando è stato pattuito il cessate il fuoco, rientrando a farne parte una volta saltato l’accordo. “Abbiamo discusso ampiamente la questione con il governo israeliano, ma i responsabili delle violenze continuano ad agire con incoraggiamento e impunità“, sostengono Londra, Oslo e gli altri partner.Secondo i dati delle Nazioni Unite, nell’ultimo anno e mezzo sono stati compiuti oltre 1.900 attacchi contro civili palestinesi da coloni israeliani estremisti. “Il governo israeliano deve rispettare gli obblighi che gli incombono in virtù del diritto internazionale e lo esortiamo ad adottare misure significative per porre fine alla retorica estremista, violenta ed espansionista”, prosegue la dichiarazione congiunta. I cinque governi alleati di Tel Aviv sottolineano che “le misure odierne sono rivolte contro individui che, a nostro avviso, minacciano la sicurezza di Israele e la sua posizione nel mondo”.Le risposte dei due ministri non stupiscono: “La Gran Bretagna ha già tentato una volta di impedirci di colonizzare la culla della nostra patria e non glielo permetteremo di nuovo. Siamo determinati a continuare a costruire”, ha scritto su X Smotrich. Mentre Ben-Gvir ha preferito un altro riferimento religioso: “Abbiamo superato il Faraone, supereremo anche il Muro di Starmer”, ha commentato.In chiusura alla dichiarazione congiunta, il riferimento a Gaza: “Le misure odierne si concentrano sulla Cisgiordania, ma ovviamente non possono essere considerate separatamente dalla catastrofe di Gaza“, scrivono i cinque governi, che ribadiscono a Tel Aviv l’opposizione a qualsiasi “trasferimento illegale di palestinesi da Gaza o all’interno della Cisgiordania” e a qualsiasi “riduzione del territorio della Striscia di Gaza”.Salta all’occhio l’assenza di Stati Uniti ed Unione europea dalla decisione congiunta di alcuni dei loro maggiori partner internazionali. Nel regime Ue di sanzioni per violazioni dei diritti umani, sono già presenti nove individui e cinque entità legati alle colonie illegali israeliane nei territori palestinesi occupati. L’idea di aggiungere i due ministri è stata già rilanciata allo scorso Consiglio Affari Esteri da diversi governi – Svezia, ma anche Francia, Spagna, Irlanda e Slovenia -, ma per ora non se n’è fatto nulla. Alla prossima riunione dei ministri degli Esteri dei 27, il 23 giugno, in ballo c’è la possibile revisione dell’Accordo di associazione con Israele a causa di violazioni dei diritti umani. C’è da aspettarsi che, ora che il passo è stato già compiuto da altri, la possibilità di sanzionare i ministri di Netanyahu si faccia più concreta anche a Bruxelles.