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    Vertice UE-Africa in Angola: 150 miliardi per lo sviluppo del Continente

    Bruxelles – Al tavolo più di settanta leader, di solito divisi dalla striscia di mar Mediterraneo. Nella capitale dell’Angola, Luanda, si sono riuniti i capi di stato e di governo dell’Unione Europea e della Unione Africana (entità che raccoglie i 55 paesi del continente africano). L’evento celebra i 25 anni di partenariato tra le due entità e ha avuto come focus i finanziamenti comunitari allo sviluppo africano. “In un mondo di conflitti commerciali, una partnership più stretta tra noi inizia dal commercio” ha affermato la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.Il summit non è di quelli semplici, tra i due continenti ci sono secoli di colonizzazione, difficili da dimenticare. Per questo l’Europa si presenta al tavolo cercando in tutti i modi di mostrarsi come un amico e non come un usurpatore. “Vogliamo che Africa ed Europa siano partner per scelta” ricorda von der Leyen, risponde sul tema, Mahmoud Ali Youssouf, presidente della Commissione dell’Unione Africana: “Non è più tempo di essere solo dei fornitori di materie prime”.Il Global Gateway per l’AfricaLa proposta europea gravita intorno ai 150 miliardi del pacchetto d’investimenti Global Gateway. Von der Leyen ne celebra già i primi successi: “Quando lo abbiamo lanciato, puntavamo a investire 150 miliardi di euro in Africa entro il 2027. Finora, abbiamo già mobilitato oltre 120 miliardi di euro”. Gli obiettivi sarebbe quelli di accelerare la transizione verde e digitale oltre a promuovere una crescita sostenibile della sanità e dell’istruzione. Investimenti concreti che hanno l’intenzione di far crescere un continente con enormi problemi strutturali.La ferrovia dei mineraliIl progetto strategico che più fa discutere è poi l’ammodernamento della ferrovia da 1.300 chilometri che si snoda attraverso Zambia, Repubblica Democratica del Congo e Angola fino al porto di Lobito. L’infrastruttura sarebbe essenziale per l’approvvigionamento europeo di materie prime strategiche: uno dei principali obiettivi dei leader europei. Sulla questione si era già portato avanti il commissario europeo per lo sviluppo Jozef Síkela, che due settimane fa aveva annunciato l’impiego per oltre 200 milioni di euro a sostegno della crescita industriale dello Zambia.Il focus principale del pacchetto era il restyling (ad oggi i treni viaggiano massimo a 45 chilometri orari) della ferrovia che porta a Lobito. L’idea è nobile. Rimodellare questa infrastruttura porterebbe a uno sviluppo delle aree circostanti. Il rischio è però la costruzione di una cattedrale nel deserto, utile solo agli interessi europei.L’aspetto storico e simbolico non è però da sottolineare. La costruzione risale alla fine del XIX secolo e ai primi decenni del XX secolo. All’epoca i governi coloniali di Belgio e Portogallo realizzarono la Benguela Railway, capace di collegare le aree minerarie del Katanga (oggi Repubblica Democratica del Congo) al porto di Lobito, in Angola.Von der Leyen ne è consapevole e quando parla dell’argomento usa tatto: “Conoscete tutti questo ambizioso progetto per portare minerali essenziali dallo Zambia e dalla Repubblica Democratica del Congo ai mercati globali. Ma c’è molto di più. Con il lancio del corridoio, abbiamo anche iniziato a collaborare con gli agricoltori proprio qui in Angola”, ricordando come alla fine sia sempre un processo win-win, “le aziende europee hanno fornito formazione – continua la presidente – hanno aiutato le aziende locali ad allinearsi agli standard europei e ad espandere la loro capacità di esportazione”.La ferrovia del Benguela ad oggi esistente capace di collegare Angola e Repubblica Democratica del Congo. L’infrastruttura è stata costruita durante l’epoca coloniale (Fonte Wikipedia)La Cina è la potenza da sfidareNei discorsi di distensione tra Africa ed Europa non viene citato però l’elefante nella stanza: la Cina. L’Angola, sede del summit, ad esempio è il principale debitore di Pechino in Africa. L’ex colonia portoghese deve risarcire circa 46 miliardi di dollari. Gli investimenti cinesi non toccano solo la parte occidentale del Continente. In questi anni i soldi di Pechino hanno coinvolto da nord a sud il continente concentrandosi sul finanziamento di risorse strategiche orientate all’accesso a minerali critici, progetti infrastrutturali, oltre che prestiti diretti agli stati. La Cina, con un passato senza macchia nella regione, è diventata negli anni il principale player nella zona.While the United States has been busy burning bridges, China has been building them.52 out of 54 countries in Africa now trade more with China than the United States. pic.twitter.com/p4GLnAVJs5— Jostein Hauge (@haugejostein) April 3, 2025Le chance dell’UnioneAll’Unione non resta che giocare la carta della prossimità territoriale, visto che come ricordato da von der Leyen: “L’Europa è già di gran lunga il vostro primo partner commerciale. Un terzo del commercio totale dell’Africa avviene con l’Europa, e l’Africa esporta verso l’Europa più del doppio rispetto alla Cina”. La sfida insomma è iniziata. Il divario da colmare però è ancora molto. Si inizierà a capire qualcosa in più quando il summit tra i leader dei due continenti sarà concluso.

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    Africa sub-sahariana, dall’UE altri aiuti per 143 milioni. Dopo aver buttato oltre 11 miliardi

    Bruxelles – Nuovo pacchetto di aiuti umanitari da 143 milioni di euro per i Paesi dell’Africa sub-sahariana: la Commissione europea prosegue nel suo sforzo di sostegno alla regione, con impegni per ciascuno degli Stati interessati. L’esecutivo comunitario annuncia quindi aiuti da 2,5 milioni di euro per la Repubblica Centrafricana, 8 milioni di euro per la Nigeria, 30 milioni di euro per l’Etiopia, 30 milioni di euro per la Somalia, 35 milioni di euro per Sud Sudan. Si aggiungono inoltre 38 milioni di euro per i Paesi della regione del Sahel (Burkina Faso, Ciad, Eritrea, Mali, Mauritania, Niger, Senegal e Sudan).“Questo finanziamento dimostra il nostro impegno nei luoghi in cui la pressione è crescente e il sostegno è essenziale”, sottolinea Hadja Lahbib, commissaria per la Gestione delle crisi. Una sottolineatura che intende mostrare la natura positiva dell’azione a dodici stelle, criticata però dalla Corte dei conti europea proprio sugli aiuti garantiti all’Africa sub-sahariana in questi anni.Tra il 2014 e il 2020 la Commissione europea ha impegnato oltre 11 miliardi di euro per combattere la fame nell’Africa sub-sahariana, dove nonostante questi sforzi “la situazione non mostra un miglioramento significativo nel tempo”, è la denuncia dei revisori di Lussemburgo contenuta nello speciale rapporto. La Commissione ha dato fin qui soldi senza un criterio, con scarsa attenzione e strategie carenti e inefficaci.E’ convinzione della Corte dei conti europea che nel suo elargire fondi “la Commissione non disponeva di una metodologia chiara e documentata per dare priorità alle regioni e alle comunità più bisognose, il che ha limitato l’efficacia degli interventi”. Inoltre l’impatto a lungo termine del sostegno dell’Ue ha risentito anche di “carenze nell’impostazione dei progetti, di un monitoraggio insufficiente e di difficoltà nell’affrontare le cause profonde dell’insicurezza alimentare”.Insomma, gli aiuti umanitari dell’UE nell’Africa sub-sahariano sono uno spreco di risorse. A distanza di una settimana dalla denuncia dei revisori di conti la Commissione annuncia un nuovo pacchetto da 143 milioni di euro. L’auspicio è che questa volta siano ben spesi.

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    La denuncia del premier palestinese Mustafa all’UE: “Nessun governo può sostenere riforme senza entrate”

    Bruxelles – Secondo gli accordi di Oslo tra Israele e l’Autorità Palestinese, da trent’anni Tel Aviv ha la responsabilità di riscuotere le entrate fiscali nei territori palestinesi occupati e consegnarle a Ramallah. Un potere che Israele ha utilizzato diverse volte, trattenendo in parte o in tutto quei soldi. È quello che sta avvenendo da oltre un anno, come denunciato ieri a Bruxelles dal primo ministro palestinese, Mohammad Mustafa: “Nessun governo può sostenere le riforme se gli vengono negate le proprie entrate”, ha affermato a margine di una conferenza incentrata proprio sul percorso di riforme richiesto a Ramallah nell’ambito del piano di pace per Gaza.Al primo incontro del Gruppo di donatori per la Palestina, nella capitale UE, erano presenti una sessantina di delegazioni nazionali. A margine dei lavori, Mustafa ha tenuto una conferenza stampa congiunta con la commissaria europea per il Mediterraneo, Dubravka Šuica. Nonostante l’iniziativa fosse stata costruita da Bruxelles come “una piattaforma” per l’Autorità palestinese per fare il punto sul suo programma di riforme, Šuica ha annunciato che – insieme a Germania, Lussemburgo, Slovenia e Spagna -, la Commissione europea ha firmato “oltre 82 milioni di euro di nuovi accordi di contributo a sostegno finanziario aggiuntivo da parte dei nostri Stati membri”. In totale, l’importo “promesso quest’anno è di oltre 88 milioni di euro, inclusi i contributi precedenti di Finlandia, Irlanda, Italia e Spagna”, ha aggiunto.La Commissione europea, nell’aprile scorso, ha messo sul tavolo un pacchetto da 1,6 miliardi di euro in tre anni per sostenere Ramallah, vincolato ad una serie di modifiche istituzionali e amministrative da lungo tempo richieste all’Autorità palestinese per poter avanzare nella chimerica soluzione dei due Stati. Mustafa ha assicurato che la riforma della governance sta procedendo e il programma di modernizzazione dell’istruzione “è già in fase di attuazione”. Ma d’altra parte, “questi progressi si stanno realizzando parallelamente alla quotidiana pressione fiscale e alle politiche israeliane dirette a indebolire l’Autorità Nazionale Palestinese e la sua capacità di funzionare e fornire al nostro popolo i servizi necessari”.Mohammad Mustafa e Dubravka Šuica in conferenza stampa, a margine dell’incontro del Gruppo dei donatori per la Palestina (20/11/25)La denuncia di Mustafa è inequivocabile: “L’attuale crisi fiscale è motivata politicamente. Il blocco da parte di Israele delle entrate dell’Autorità palestinese minaccia gli stipendi, la continuità dei servizi e la stabilità sia a Gaza che in Cisgiordania”. Si parla di diversi miliardi, di fronte ai quali i contributi raccolti a Bruxelles impallidiscono. “Apprezziamo la solida partnership con l’Unione europea e gli Stati membri contributori, ma abbiamo bisogno di finanziamenti e azioni prevedibili e anticipati per proteggere le relative linee di credito e i limiti di liquidità instabili per quanto riguarda Gaza”, ha aggiunto il primo ministro.Šuica ha indicato che Tel Aviv avrebbe accumulato, da quando nella primavera dello scorso ha interrotto il trasferimento dei fondi palestinesi a Ramallah, “dai tre ai quattro miliardi di euro, una cifra enorme, indispensabile per un’Autorità palestinese solida e stabile”. La commissaria ha assicurato che “tutta la nostra energia diplomatica, tutto il nostro capitale politico, viene investito nel tentativo di spingere Israele a rilasciare queste entrate”.Le sanzioni economiche e politiche a Israele proposte dalla Commissione europea a settembre sono già state infilate in un cassetto dagli Stati membri, incapaci di trovare un accordo e restii sull’alzare la voce con il principale partner mediorientale. Proprio qui sta il paradosso: l’UE “sta investendo molto” nell’Autorità palestinese, “per renderla più forte e farla diventare interlocutore al tavolo non appena la situazione lo consentirà“, ha sottolineato Šuica. Ma nel frattempo, continua a mantenere saldissime relazioni con lo Stato ebraico, colpevole dell’occupazione e dell’oppressione dei territori palestinesi e dei suoi abitanti da decenni.Ora però, tagliata fuori dal piano di pace trumpiano e in secondo piano rispetto al sodalizio incondizionato tra Washington e Tel Aviv, l’UE rivendica un ruolo da “protagonista” perché “stiamo davvero mantenendo in vita l’Autorità nazionale palestinese”.

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    Von der Leyen: “Non combattiamo i combustibili fossili ma le emissioni, investire in Africa”

    Bruxelles – “Non stiamo combattendo i combustibili fossili, quanto le emissioni che derivano dai combustibili fossili“. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen gioca la carta dell’equilibrismo politico per rilanciare l’agenda della Commissione europea senza scontentare i partner, e uno su tutti, quello statunitense, poco convinto della necessità di modelli produttivi alternativi. Si presenta al G20 in Sud Africaper rilanciare investimenti puliti in Africa, ma senza operare strappi con gli altri partner. Da qui la doverosa precisazione, che non è presa di distanza da chi continua a investire nelle logiche tradizionali, ma necessità di conciliare interlocutori riluttanti con altri più possibilisti.La presidenza Trump con la sua politica muscolare e ‘bulla’ restano un elemento molto presente. Non si tira in ballo in esplicitamente, ma sia von der Leyen sia il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, insistono ripetutamente sulla natura affidabile dell’UE come partner, su come l’UE creda nel regole e nel loro rispetto. Tutte sottolineature volte a far capire che l’Unione europea, a differenza degli Stati Uniti, non procederà mai con colpi di mano. “Siamo qui perché crediamo nel multilateralismo, e nell’ordine fondato sulle regole“, sottolinea Costa, convinto che “cambiamento climatico, disuguaglianza e povertà sono tre questioni principali su cui dobbiamo mobilitare il mondo intero”. A cominciare dall’Africa. E’ soprattutto qui che occorre sviluppare obiettivi e ambizioni europei in termini di sostenibilità.“Lo scorso anno gli investimenti in energia pulita hanno raggiunto i duemila miliardi di euro a livello globale, ma solo il 2 per cento di questi investimenti è stato destinato all’Africa, il continente con il 60 per cento del miglior potenziale solare al mondo”, lamenta von der Leyen, secondo cui “questo non può essere possibile”. Questo è il motivo per cui la campagna ‘Scaling Up Renewables for Africa‘ intende riunire governi, investitori e filantropi per un futuro dell’Africa senza combustibili fossili.Perché, insiste von der Leyen, “la vera questione, quando si parla di cambiamenti climatici, è l’energia“. Nell’UE, rivendica, “negli ultimi venti anni abbiamo ridotto le emissioni [di gas a effetto serra] del 50 per cento, grazie soprattutto ai tagli delle emissioni nell’energia”. Fuori dall’Europa si può ripetere l’esperienza: “Questo potenziale è forte nel continente africano”, ammette la tedesca.L’UE va alla riunione delle principali 20 economie mondiali con un occhio all’Africa tutta. E’ ai Paesi del continente, a iniziare dal Sudafrica presidente di turno del G20, che si guarda per trovare quell’alternativa verde e sostenibile all’America di Trump, che si vuole mettere all’angolo anche per ciò che riguarda l’ordine internazionale. E’ soprattutto ad Africa e Sudafrica che Costa chiede di “impegnarci nella riforma delle istituzioni finanziarie internazionali e nella riforma delle Nazioni Unite affinché riflettano il mondo di oggi, perché il mondo di oggi non è più lo stesso del 1945″. Il nuovo corso nelle relazioni UE-Africa passa dunque per il G20 e le intenzioni con cui l’Europa si presenta all’appuntamento.

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    Ucraina, Kallas minimizza sul piano di pace russo-americano. Ma poco dopo Zelensky conferma: “Ci stiamo lavorando”

    Bruxelles – L’UE non ci sta a farsi mettere da parte da Stati Uniti e Russia sulle trattative per porre fine alla guerra in Ucraina. È il messaggio che il capo della diplomazia comunitaria, Kaja Kallas, aveva appena finito di indirizzare all’alleato a stelle e strisce, all’indomani della pubblicazione sui media internazionali di una fumosa bozza di piano di pace, che sarebbe stata discussa bilateralmente tra Washington e Mosca. Per venire poi clamorosamente presa in contropiede da Kiev, che ha annunciato di essere in possesso del documento e di volerci lavorare con la Casa Bianca.“Affinché qualunque piano abbia successo, dev’essere sostenuto dall’Ucraina e dall’Europa“, ha dichiarato parlando alla stampa al termine del Consiglio Affari esteri di oggi (20 novembre). L’Alta rappresentante ha rimarcato che “il nostro approccio è focalizzato” su nuove misure restrittive, in particolare contro la flotta ombra con cui il Cremlino elude le sanzioni ed esporta il suo greggio all’estero.Secondo quanto riportato ieri, un piano di pace in 28 punti sarebbe stato concordato in linea di principio tra due pesi massimi delle amministrazioni statunitense e russa, Steve Witkoff – il super inviato speciale incaricato da Donald Trump di risolvere tutte le guerre del mondo, dall’Ucraina all’Iran passando per Gaza – e Kirill Dmitriev, influente consigliere del Cremlino.I dettagli non sono ancora chiari, ma sarebbero emersi alcuni elementi che sembrano puntare ad una soluzione relativamente vantaggiosa per Mosca. Vi si menzionano, ad esempio, cruciali cessioni territoriali da parte di Kiev. Come contropartita per fermare l’aggressione, l’invasore otterrebbe l’intera area del Donbass (le due oblast’ di Doneck e Luhansk, ricche di minerali critici e già quasi completamente nelle mani dei russi), manterrebbe il controllo della penisola di Crimea e si ritirerebbe dalle altre due regioni annesse con un referendum farsa nel settembre 2022, cioè Kherson e Zaporizhzhia.Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (foto: Thomas Traasdahl/Afp)Niente congelamento del fronte sull’attuale linea di contatto, dunque, mentre l’Ucraina dovrebbe accettare di dimezzare il proprio esercito e rinunciare a dotarsi di armi a lungo raggio capaci di colpire oltre confine. Ancora, si parlerebbe di una riduzione o interruzione dell’assistenza militare USA, così come verrebbe categoricamente escluso qualunque dispiegamento di truppe occidentali in Ucraina, come previsto dalla coalizione dei volenterosi. Kiev dovrebbe inoltre riconoscere il russo come lingua ufficiale e concedere uno status formale alla Chiesa ortodossa russa.Ma per quanto l’ex premier estone abbia ostentato una serena fermezza – se Mosca volesse davvero la pace, ha detto, “avrebbe accettato il cessate il fuoco incondizionato offerto lo scorso marzo” – le sue parole sono invecchiate male nel giro di appena un’ora. Poco dopo, infatti, Volodymyr Zelensky l’ha clamorosamente smentita, confermando cautamente di aver ricevuto il testo della bozza di accordo.Il presidente ucraino avrebbe “evidenziato i princìpi fondamentali” su cui l’Ucraina vuole incentrare i negoziati, dichiarandosi “pronto ora, come prima, a lavorare in modo costruttivo con la controparte americana, così come coi nostri partner in Europa e nel resto del mondo, affinché si raggiunga la pace“. Kiev e Washington dovrebbero discutere di come migliorare la proposta, e Zelensky potrebbe incontrare Trump già nei prossimi giorni.Il leader ucraino aveva precedentemente bollato come irricevibili simili richieste da parte di Vladimir Putin, e infatti diversi alti funzionari di Kiev hanno parlato del documento come di una “provocazione” che va a tutto vantaggio di Mosca, definendo “inaccettabile” l’accordo russo-statunitense e parlando di una “capitolazione” che svenderebbe la sovranità nazionale.A Bruxelles, l’Alta rappresentante aveva appena descritto come “calma” l’atmosfera della riunione odierna, perché tutti sanno che “i piani di pace non possono funzionare se gli europei e gli ucraini non concordano“.  Per questo, aveva spiegato, i ministri si sono “concentrati a discutere quello che stiamo facendo”: sulle sanzioni che, certifica, hanno avuto un “enorme impatto” sull’economia russa, ma anche sulla protezione delle infrastrutture critiche dal “terrorismo di Stato sponsorizzato dalla Russia“, con riferimento ai recenti sabotaggi sulle ferrovie polacche.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)L’approccio dell’Unione si basa su due punti: “Indebolire la Russia e rafforzare l’Ucraina“, ha ripetuto Kallas. Significa non far mancare a Kiev il sostegno di cui ha bisogno, militare e finanziario. Il tema che tiene banco da mesi, a tal proposito, è quello del prestito di riparazione da circa 135 miliardi di euro che Bruxelles vorrebbe pagare con gli asset russi congelati. Questione scottante, su cui è saltato l’accordo all’ultimo vertice di ottobre e su cui si cercherà nuovamente la quadra al summit di dicembre. Eppure, dice Kallas, oggi “non abbiamo discusso di finanziamenti”, anche se diverse cancellerie hanno sottolineato “l’urgenza di procedere” col prestito e superare le reticenze di alcuni governi, Belgio in testa.Il titolare della Farnesina, Antonio Tajani, è del medesimo avviso di Kallas. Ha ribadito che “l’Europa dovrà essere parte della trattativa“, anche perché bisognerà discutere di come ritirare le sanzioni comminate alla Federazione. “Quando finalmente ci sarà la possibilità di sedersi attorno a un tavolo, lavoreremo tutti per raggiungere la pace“, ha aggiunto, ricordando che “l’Ucraina rappresenta una barriera alla sicurezza per l’Europa”. Sicuramente, dice, dovrà “essere l’Ucraina a decidere sui territori oggi occupati dai russi”. Sul nodo degli asset russi congelati, l’Italia è favorevole ma, ammonisce il vicepremier, “bisogna individuare la corretta base giuridica” poiché in un simile contesto “non si possono commettere errori”.Il suo omologo francese Jean-Noël Barrot ha rimarcato che “la pace non può essere una capitolazione” per Kiev, mentre il polacco Radosław Sikorski ha espresso la speranza “che non sia la vittima ad avere restrizioni alla sua capacità di difendersi, ma che vengano limitate le potenzialità aggressive dell’invasore“. Fuori dal coro, come sempre, la voce ungherese: continuare a sovvenzionare “una mafia di guerra ucraina corrotta” sarebbe impensabile, ha dichiarato Péter Szijjártó riferendosi allo scandalo di corruzione esploso a Kiev negli scorsi giorni.

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    L’UE sanziona il numero due delle RSF per le atrocità in Sudan. E chiede lo stop alla consegna di armi

    Bruxelles – L’Unione europea batte un colpo sul conflitto in corso in Sudan e sulle “gravi e continue atrocità perpetrate dalle Forze di sostegno rapido (RSF)”: i ministri degli Esteri dei 27 hanno adottato oggi misure restrittive nei confronti di Abdelrahim Hamdan Dagalo, numero 2 dell’esercito che si oppone alla capitale Khartoum. Nessun taglio però con gli Emirati Arabi Uniti, che alimentano la mattanza rifornendo di armi – anche quelle che Abu Dhabi compra dall’UE – le RSF e le altre milizie ribelli. “Esortiamo tutti gli attori esterni ad adottare le misure necessarie per porre fine alla vendita o alla fornitura di armi e materiale connesso a tutte le parti”, è l’appello di Kaja Kallas, Alta rappresentante per gli Affari esteri UE.Dopo la terribile conquista di El Fasher, a fine ottobre, da parte delle RSF, i riflettori sulla guerra civile in Sudan si sono riaccesi. Diciotto mesi di assedio alla città capoluogo del Darfur settentrionale, segnati da attacchi deliberati contro i civili, uccisioni per motivi etnici, esecuzioni sommarie, violenze sessuali e di genere sistematiche, hanno risvegliato le coscienze della comunità internazionale. Nel conflitto, scoppiato due anni e mezzo fa, sono rimaste uccise 50 mila persone e oltre 14 milioni di civili sono stati sfollati.L’Alta rappresentante per gli Affari esteri, Kaja Kallas, in conferenza stampa (20/11/25)L’UE si è detta “pronta a imporre ulteriori misure restrittive a tutti gli attori responsabili della destabilizzazione del Sudan e dell’ostacolo alla sua transizione politica”. Nel gennaio del 2024, l’Unione aveva già predisposto sanzioni per sei entità responsabili della produzione e approvvigionamento di armi per le parti in conflitto.In una nota a nome dei 27 Paesi membri, Kallas ha annunciato che Bruxelles “intensificherà il sostegno alla documentazione e alle indagini“, svolte in particolare dalla Corte penale internazionale e dalla missione internazionale indipendente di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite, “sui crimini commessi dalla RSF, dalla SAF (Le Forze armate sudanesi) e dai loro associati”.Pochi giorni fa, l’ambasciatore sudanese presso l’UE aveva avvertito del rischio che armi di fabbricazione europea stessero finendo sui campi di battaglia e alimentando le atrocità della guerra civile. Secondo diversi report, gli Emirati Arabi Uniti starebbero foraggiando le RSF con armi vendute ad Abu Dhabi anche da Paesi europei. A margine della riunione, Kallas ha confermato che “tutti i ministri intervenuti oggi hanno fatto riferimento a chi sostiene le parti in guerra”. I 27 avrebbero concordato “di avviare un’azione diplomatica nei confronti di quei Paesi”.Nella nota, il capo della diplomazia europea ha aggiunto: “Esortiamo tutti gli attori esterni ad adottare le misure necessarie per porre fine alla vendita o alla fornitura di armi e materiale connesso a tutte le parti, in conformità con l’embargo sulle armi stabilito dalle risoluzioni 1556 e 1591 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”.

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    Sul tavolo per il futuro di Gaza la carta dell’UE si chiama Autorità Palestinese

    Bruxelles – Domani (20 novembre) si terrà a Bruxelles la prima riunione del Gruppo di donatori per la Palestina, un’iniziativa annunciata da Ursula von der Leyen a settembre e che ora – alla luce della risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU sul piano di pace per Gaza – acquisisce una nuova centralità. La conferenza non raccoglierà nuovi impegni finanziari, né si concentrerà sulla ricostruzione della Striscia. Sarà invece, spiegano funzionari europei, una “piattaforma per l’Autorità Palestinese”.Ramallah potrà fare il punto sul suo percorso di riforma, elemento chiave per un futuro passaggio di consegne nel governo di Gaza e per la fondazione di uno Stato palestinese. “Finora l’Autorità Palestinese (AP) non ha avuto la possibilità di esprimersi”, sottolineano a Bruxelles. Il piano trumpiano è stato partorito senza coinvolgere Ramallah, così come la risoluzione ONU redatta da Washington e avallata dai Paesi arabi.In questo passaggio, previsto nel penultimo dei 20 punti del piano di pace, l’Unione europea rivendica un ruolo centrale, forte di un “partenariato unico” con l’AP, consolidato lo scorso aprile con un pacchetto da 1,6 miliardi di euro in tre anni vincolato all’attuazione di una serrato programma di modifiche istituzionali, amministrative, finanziarie. La riforma dell’Autorità Palestinese “è un esercizio in comproprietà”, rivendicano fonti UE, e Bruxelles è “il miglior attore per accompagnare l’AP in questo processo”.Il premier palestinese, Mohammad Mustafa, terrà una conferenza stampa congiunta con la commissaria UE per il Mediterraneo, Dubravka Suica. Sono attese a Bruxelles una sessantina di delegazioni, “tra le 20 e 25” a livello di ministri. Israele non è tra gli invitati, e “ci sono indicazioni che non avrebbero partecipato”, ammette un funzionario UE. D’altronde, nonostante il sostegno di massimo ribadito da Benjamin Netanyahu al piano di pace, persiste la “riluttanza” di Tel Aviv per il ruolo dell’Autorità Palestinese. Non è stata invitata nemmeno Francesca Albanese, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati, a Bruxelles in questi giorni per una serie di eventi. Ma Albanese incontrerà la Commissione europea “a livello della DG Mena (la direzione generale per il Medio Oriente, il Nord Africa e il Golfo, ndr)”, ha annunciato un funzionario.Il voto sul piano per Gaza al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Photo by ANGELA WEISS / AFP)L’Unione europea, contemporaneamente, cerca di sviluppare la sua azione su altri binari. È presente nel centro di coordinamento civile-militare (CMCC), istituito in Israele e guidato dagli Stati Uniti, che si occupa di supervisionare il piano di pace e darne seguito. Della struttura fanno parte 200 funzionari – “quasi tutti militari”, spiegano le fonti -, incluso un team UE di 10 persone, con un diplomatico di alto livello, Christian Berger, del Servizio europeo di Azione esterna.Bruxelles tiene viva la possibilità di rilanciare le due missioni già dispiegate in passato nella regione: EUBAM Rafah, con cui facilita il transito di persone e merci al valico meridionale tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, e EUPOL COPPS, l’operazione di addestramento delle forze di polizia palestinesi in Cisgiordania. L’UE punta ad allargare il mandato dei quest’ultima missione, per poter formare “almeno 3 mila” poliziotti della Striscia: “Sarà necessario stabilizzare Gaza con una forte forza di polizia – spiega un funzionario -, ci sono 7 mila poliziotti a Gaza, che sono ancora pagati dall’Autorità nazionale palestinese e, tra questi, circa 3mila potrebbero essere addestrati”. L’addestramento verrebbe effettuato fuori dall’exclave palestinese: “Stiamo discutendo con alcuni Paesi vicini”, confermano le fonti.Su altri due punti cruciali del piano di Trump, che dovranno prendere forma in questa “fase due”, molti dettagli restano ancora ignoti. Le Forze di Stabilizzazione Internazionale, il contingente militare che dovrà garantire la tenuta del cessate il fuoco e la sicurezza a Gaza in un primo momento, non faranno capo alle Nazioni Unite. E del Peace Board, l’organo che amministrerà fino al passaggio di consegne con l’Autorità Palestinese, l’unico nome che si conosce è quello di Trump, che lo presiederà. “Per il momento non ne facciamo parte, ma nessuno ne fa parte”, precisano le fonti. E “ovviamente pensiamo l’UE dovrebbe farne parte, dato il contributo che possiamo apportare al piano”.

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    Il Mercosur agita l’Europarlamento: il ‘no’ dei servizi al parere della Corte di giustizia scatena l’ira dei deputati

    Bruxelles – Accordo di libero scambio UE-Mercosur, la questione della compatibilità giuridica con i trattati dell’Unione europea provoca una battaglia tutta politica in seno al Parlamento europeo. La richiesta di verifica dell’intesa siglata a fine 2024 non verrà inoltrata alla Corte di giustizia europea perché i servizi dell’Eurocamera non ritengono sussistano le condizioni per farlo. Così denunciano i componenti del gruppo parlamentare informale sul Mercosur, che criticano quelle che definiscono “un’ingerenza politica all’interno dell’amministrazione del Parlamento europeo per facilitare l’adozione di un accordo commerciale”.A scoperchiare il vaso di Pandora i parlamentari Krzysztof Hetman e Céline Imart (PPE), Chloé Ride e Jean-Marc Germain (S&D), Benoît Cassart e Ciaran Mullooly (Renew), Majdouline Sbai e Saskia Bricmont (Verdi), Manon Aubry e Lynn Boylan (laSinistra). Sono loro a far sapere che i servizi del Parlamento non hanno voluto chiedere alla Corte di giustizia le verifiche dei testi dell’accordo commerciale “poiché il Consiglio non aveva ancora presentato la richiesta di approvazione del Parlamento”. Secondo gli europarlamentari però nella procedura prevista dall’articolo 218 del Trattato sul funzionamento dell’UE, “non si fa alcun riferimento al fatto che un’istituzione sia vincolata a un’altra per chiedere tale parere” ai giudici di Lussemburgo.Non finisce qui. Secondo il gruppo informale Mercosur la richiesta di 145 parlamentari non può essere scavalcata dai funzionari. E’ vero che la possibilità per la commissione parlamentare competente o almeno un decimo dei membri che compongono il Parlamento di proporre un parere alla Corte di giustizia sulla compatibilità di un accordo internazionale con i Trattati è prevista dall’articolo 117 del Regolamento del Parlamento europeo, ma “in ogni caso – denunciano gli esponenti dei gruppi parlamentari – la prerogativa del Parlamento conferita dai Trattati non può essere limitata da un’interpretazione delle nostre norme interne, poiché queste ultime sono inferiori nella gerarchia delle norme“.C’è poi poiché il precedente relativo all’adesione dell’Unione europea alla convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Il 4 aprile 2009 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione chiedendo un parere alla Corte di giustizia dell’UE sulla compatibilità con i Trattati, prima che il Consiglio inviasse i documenti relativi alla procedura di approvazione. Insomma, per gli europarlamentari “non vi è alcuna base giuridica per giustificare” la negazione di chiedere un parere alla Corte. Il Mercosur dunque divide il Parlamento, e scatena una battaglia tutta interna all’istituzione.