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    Nucleare iraniano, Teheran annuncia nuovi colloqui con gli europei a Istanbul

    Bruxelles – La diplomazia ci riprova. Per la prima volta dalla fine della guerra lampo di Israele contro l’Iran (col supporto determinante degli Stati Uniti), la leadership della Repubblica islamica annuncia colloqui con le controparti europee il prossimo venerdì per discutere del proprio programma nucleare. Già domani, Teheran ospiterà le delegazioni di Cina e Russia per “coordinare” la sua posizione con gli alleati.La conferma ufficiale è arrivata oggi (21 luglio) dal ministero degli Esteri iraniano, guidato da Abbas Araghchi. A seguito dei contatti avvenuti la scorsa settimana tra Araghchi e gli omologhi di Francia, Germania e Regno Unito più l’Alta rappresentante Ue Kaja Kallas, è stato fissato per il prossimo venerdì (25 luglio) un incontro a Istanbul, in Turchia, per riprendere i negoziati sul programma nucleare degli ayatollah. Stando alle indicazioni del portavoce di Araghchi, Esmail Baghaei, i colloqui avverranno al livello dei viceministri degli Esteri.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas (foto: Consiglio europeo)Si tratta del primo faccia a faccia tra le squadre negoziali iraniana ed europee dallo scorso 20 giugno, quando i rispettivi ministri si erano incontrati a Ginevra nel tentativo di salvare la pista diplomatica, mentre sulla Repubblica islamica piovevano già da una settimana le bombe israeliane durante la cosiddetta guerra dei 12 giorni scatenata dal primo ministro di Tel Aviv, Benjamin Netanyahu.Nella capitale elvetica si era cercato di mantenere in vita il Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), l’accordo sul nucleare di Teheran del 2015 di cui fanno parte Francia, Germania e Regno Unito – il formato E3 – più Ue, Cina e Russia. Ma solo un paio di giorni dopo gli Stati Uniti avevano condotto un massiccio bombardamento dei siti atomici iraniani, facendo saltare il banco delle trattative.Gli Usa, che parteciparono allo storico accordo sotto la seconda presidenza di Barack Obama, si sono poi ritirati durante il primo mandato di Donald Trump nel 2018 reintroducendo alcune delle sanzioni sospese per effetto del trattato. Da allora, la Repubblica islamica ha ripreso ad arricchire l’uranio, raggiungendo – almeno secondo le accuse di Tel Aviv e Washington – il livello critico del 60 per cento, dal quale si sarebbe potuta avvicinare rapidamente alla soglia del 90 per cento, cioè quella necessaria a confezionare ordigni atomici.Il presidente statunitense Donald Trump (foto via Imagoeconomica)Dopo la conclusione delle ostilità, mediata dall’inquilino della Casa Bianca in persona, l’Iran ha estromesso dal proprio territorio gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’organo delle Nazioni Unite per il monitoraggio delle attività nucleari. L’Ue, così come l’intero campo occidentale, continua a mantenere la linea per cui l’Iran non deve possedere armi atomiche.Ora, coi colloqui di Istanbul sembra aprirsi un nuovo, timido spiraglio per la ripresa di un’iniziativa diplomatica, anche se per il momento nessuno sembra aspettarsi svolte decisive. L’incontro dovrebbe servire a Teheran per scongiurare l’attivazione del cosiddetto meccanismo snapback, tramite cui gli europei hanno minacciato di far ripartire le sanzioni pre-2015 contro la Repubblica islamica se non si compieranno sostanziali passi in avanti nei negoziati entro la fine di agosto.Nel frattempo, domani arriveranno nella capitale iraniana le delegazioni di Pechino e Mosca, gli alleati più stretti degli ayatollah. “Ci stiamo coordinando costantemente con questi Paesi su come prevenire lo snapback o su come mitigarne le conseguenze”, ha dichiarato Baghaei.In a letter addressed to UNSG @Antonioguterres, the President of the Security Council, EU High Rep Kaja and members of the UN Security Council, I have outlined why the E3 lacks any legal, political, and moral standing to invoke the mechanisms of the JCPOA and UN Resolution 2231…— Seyed Abbas Araghchi (@araghchi) July 20, 2025In una lettera al Segretario generale dell’Onu, António Guterres, Araghchi ha dichiarato che i membri dell’E3 “non hanno alcuna legittimità giuridica, politica o morale per invocare” nuove misure restrittive poiché, ha spiegato, avrebbero “rinnegato i propri impegni” previsti dal Jcpoa, fornendo peraltro “sostegno politico e materiale alla recente aggressione militare illegale e non provocata del regime israeliano e degli Stati Uniti”.Nelle scorse settimane, il ministro degli Esteri iraniano si è detto comunque disposto a intavolare nuove trattative con gli Usa, a patto che vengano fornite a Teheran delle “garanzie” che non si arriverà ad una nuova guerra in caso di ripresa dei negoziati. Ma ha anche sottolineato che per ora non sono in programma contatti tra le rispettive diplomazie. Prima dell’avvio dell’aggressione israeliana, Teheran e Washington avevano avuto cinque round di colloqui, giudicati infruttuosi da Trump.

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    Cessate il fuoco immediato a Gaza, 25 Paesi (tra cui l’Italia) contro Israele

    Bruxelles – Cessate il fuoco “immediato, incondizionato e permanente”, che consenta alla popolazione civile palestinese di ricevere cure e assistenza del caso e che ponga fine a una politica di Israele considerata come inaccettabile. La comunità internazionale prova a fare pressione sul governo di Tel Aviv in una dichiarazione congiunta firmata da 25 Paesi, 17 Ue (Italia, Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia) e 8 Paesi extra-Ue (Australia, Canada, Islanda, Norvegia, Nuova Zelanda, Regno Unito, Svizzera e Giappone), a cui si aggiunge la commissaria europea le Gestione delle crisi, Hadja Lahbib.Non sfugge l’assenza, tra i firmatari della dichiarazione, di Stati Uniti e Germania. E’ soprattutto il sostegno incondizionato di Washington a permettere di Israele di fare ciò che vuole in tutto il Medio Oriente, persino bombardare Paesi indipendenti e sovrani. C’è però divisione su un tema che continua a infiammare il dibattito, con una vera e propria coalizione internazionale ‘anti-Netanyahu’ che ribadisce il fermo ‘no’ alle intenzioni espansionistiche del governo israeliano. “Ci opponiamo fermamente a qualsiasi iniziativa volta a modificare il territorio o la demografia nei Territori Palestinesi Occupati”, scandiscono i ministri degli Esteri dei 25 Paesi. E’ questo un nuovo monito contro le intenzioni già dichiarate da un anno di nuovi insediamenti, che stavolta potrebbe non limitarsi a un richiamo.Trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente”. Il piano shock che Trump ha esposto a Netanyahu“Siamo pronti a intraprendere ulteriori azioni per sostenere un cessate il fuoco immediato e un percorso politico verso la sicurezza e la pace per israeliani, palestinesi e l’intera regione”, dicono i 25 Paesi, senza specificare azioni o misure. Quello che emerge è una parte di comunità internazionale che di fatto scarica lo Stato ebraico nella veste della sua leadership. “La costruzione di insediamenti in tutta la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, è stata accelerata – denuncia ancora la dichiarazione – mentre la violenza dei coloni contro i palestinesi è aumentata vertiginosamente. Questo deve cessare”.Netanyahu è anche oggetto di censura per le proposte di trasferire la popolazione palestinese in una ‘città umanitaria’, considerate come “totalmente inaccettabili” in quanto “lo sfollamento forzato permanente è una violazione del diritto internazionale umanitario”. Ancora, “il modello di distribuzione degli aiuti del governo israeliano è pericoloso, alimenta l’instabilità e priva i cittadini di Gaza della dignità umana”. In questo contesto è unanime la condanna per “la distribuzione a goccia degli aiuti e l’uccisione disumana di civili, compresi bambini, che cercano di soddisfare i loro bisogni più elementari di acqua e cibo”.

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    L’intesa Ue-Israele sugli aiuti a Gaza è decisamente vaga. E salva gli interessi (e la faccia) dei 27

    Bruxelles – Il coniglio dal cilindro con cui l’Alta rappresentante Ue per gli Affari esteri, Kaja Kallas, ha risparmiato a Bruxelles la figuraccia di non riuscire a imporre sanzioni contro Israele, rischia nel medio termine di mettere ancor più in imbarazzo le istituzioni europee. I termini dell’accordo – o meglio, l’intesa – raggiunta il 10 luglio con Tel Aviv perché si impegni ad un aumento “sostanziale” degli aiuti umanitari a Gaza non sono stati resi noti e i 27 non torneranno sull’argomento almeno fino a fine agosto. Tra il 9 e il 16 luglio,  secondo i numeri riportati dall’Ufficio dell’Onu per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), sono stati uccisi più di 600 cittadini palestinesi nella Striscia.A quanto si apprende, Kallas ha intavolato le discussioni con le controparti israeliane non appena – lo scorso 23 giugno – è stato diffuso il rapporto del Servizio europeo di Azione esterna che certificava il mancato rispetto da parte di Israele dell’Accordo di associazione con l’Ue a causa delle violazioni dei diritti umani a Gaza. Un team di esperti, coordinato dal Rappresentante speciale Ue per il processo di pace in Medio Oriente, Cristophe Bigot, si sarebbe recato due volte in Israele. L’obiettivo: strappare un’intesa che permettesse a Bruxelles di dimostrare il proprio peso e contemporaneamente di non andare avanti sulla strada delle sanzioni contro l’alleato mediorientale.L’Ue avrebbe messo sul tavolo le richieste pervenute da diverse agenzie delle Nazioni Unite (Undp, Wfp, Unicef) e dai partner umanitari. Prima di tutto, l’esclusione della controversa Gaza Humanitarian Foundation dalle operazioni. E poi, le riaperture di diversi varchi – soprattutto nel nord – e corridoi per la distribuzione, l’aumento massiccio di ingressi di convogli con aiuti umanitari e alimenti, la ripresa delle forniture di carburante, la riparazione delle infrastrutture vitali, la protezione degli operatori umanitari.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas, al Consiglio Affari Esteri il 15/07/25 (foto: Consiglio europeo)La stessa Kallas, a margine del Consiglio Affari Esteri del 15 luglio, si è appigliata ai “segnali positivi” che arrivano dalla Striscia per spiegare il congelamento di tutte le dieci misure – economiche e politiche – presentate ai ministri per dare seguito alla revisione dell’Accordo di associazione. “Vediamo entrare più camion e rifornimenti, più varchi aperti e riparazioni alle linee elettriche”, aveva dichiarato il capo della diplomazia Ue.Bruxelles sta monitorando l’attuazione dell’intesa, lavorando attivamente con le agenzie Onu presenti sul campo. Non essendo presente né ai valichi di frontiera né all’interno della Striscia, deve fare affidamento sui loro rapporti, su quelli egiziani e giordani, oltre che su quanto sosterrà di aver fatto Israele stesso. L’intenzione è riferire numeri e avanzamenti nell’attuazione ai Paesi membri ogni due settimane. A quanto si apprende, il primo aggiornamento è previsto per la prossima settimana.I termini dell’intesa restano però off-limits. Prima del 10 luglio, i camion di aiuti umanitari delle Nazioni Unite e delle Ong che entravano a Gaza ogni giorno erano meno di 20. In questi giorni, la media si attesterebbe intorno agli 80. L’accordo tra Kallas e l’omologo israeliano, Gideon Sa’ar, ne prevederebbe una cifra maggiore. Prima del 7 ottobre, ogni giorno entravano a Gaza circa 500 camion carichi di generi alimentari, carburante, aiuti umanitari.Volontari palestinesi fanno la guardia per prevenire assalti su convogli umanitari al valico di Zikim (Photo by Bashar TALEB / AFP)Secondo l’ultimo rapporto pubblicato da OCHA, relativo alla settimana dal 9 al 16 luglio, le autorità israeliane “hanno consentito l’ingresso di due camion di carburante al giorno per cinque giorni alla settimana, attraverso il valico di Kerem Shalom”, nel sud della Striscia. Mentre è stato riaperto, nel nord, quello di Zikim, da dove l’11 e il 12 luglio sarebbero partiti 20 camion al giorno che trasportavano generi alimentari.Lo scorso 12 luglio, diverse agenzie delle Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale della Sanità hanno diffuso un comunicato congiunto in cui sostengono che la carenza di carburante “ha raggiunto livelli critici che minacciano il funzionamento continuo di tutti i servizi essenziali per la sopravvivenza”. E dei 40 camion che hanno attraversato Zikim, la maggior parte sono stati “intercettati da folle disperate”. Dal 13 luglio, sostiene OCHA, “la raccolta dei carichi è stata nuovamente sospesa”.Gocce d’acqua nel deserto, questa sembra essere la massima pressione che può esercitare l’Ue su Israele. Perché, a dire il vero, nessuna delle misure presentate da Kallas per sanzionare Tel Aviv avrebbe in ogni caso raccolto le adesioni necessarie tra i Paesi membri. Di fronte all’insistenza con cui le opinioni pubbliche nazionali chiedono una posizione decisa per il rispetto della legge internazionale, i governi europei hanno acconsentito a compiere un piccolo passo, quello della revisione dell’Accordo di associazione. Ma il passo successivo, quello di imporre sanzioni economiche, è proibitivo: gli interessi delle capitali europee sono enormi, e questo i cittadini non lo sanno.Secondo il Centro di ricerca sulle Multinazionali SOMO, l‘Unione europea è il principale investitore in Israele a livello mondiale, con un volume quasi doppio rispetto agli Stati Uniti. Nel 2023 gli Stati membri dell’Ue detenevano 72,1 miliardi di euro in investimenti esteri in Israele, contro i 39,2 miliardi di euro degli Stati Uniti. E nel 2024, nonostante i crimini perpetrati a Gaza e le violenze nei territori palestinesi occupati, l’Ue ha addirittura aumentato le esportazioni verso Israele di 1 miliardo di euro, raggiungendo un valore di 26,7 miliardi di euro.

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    Summit Ue-Cina, l’Europa prova a giocare la carta asiatica contro gli Usa di Trump

    Bruxelles – Alla ricerca di cooperazione con la Cina, ma pronti a fare a meno di Pechino se le relazioni non saranno possibili. L’Unione europea intravede nella Repubblica popolare la risposta all’America di Trump, in un vertice bilaterale che arriva in una congiuntura tanto delicata quanto potenzialmente strategica. I presidenti di Commissione e Consiglio europeo, Ursula von der Leyen e Antonio Costa, si recheranno in Asia la prossima settimana (24 e 25 luglio) per cercare di ridefinire relazioni con la Cina nel doppio tentativo di scrivere un nuovo capitolo di scambi commerciali e dotarsi di una leva di pressione per rispondere ai dazi Usa.La missione non è di quelle semplici, e a Bruxelles lo sanno bene. La Cina è un interlocutore scomodo, spigoloso, al cospetto del quale l’Ue si presenta oltretutto in una posizione poco confortevole e ancor meno invidiabile: il Paese è definito chiaramente una minaccia per l’Unione europea, i suoi interessi e la sua sicurezza, ed è stato inserito nella lista dei ‘cattivi’, ma si va a chiedere una sponda per uscire dall’angolo in cui la Casa Bianca ha spinto gli europei.Il freddo riavvicinamento tra Ue e Cina. Von der Leyen: “Rapporto complesso che dobbiamo far funzionare”Ci sono tensioni commerciali tra Bruxelles e Pechino: i dazi europei sull’auto elettrica cinese, la sovra-produzione cinese di acciaio con cui inonda i mercati globali di prodotti a basso costo e che si intreccia con le restrizioni imposte dagli Stati Uniti sullo stesso prodotto. E poi c’è la questione delle reciprocità, regole del gioco che sono ancora troppo diverse. La Cina non permette l’ingresso all’interno del proprio mercato, e distorce quello globale con sussidi pubblici. Ciò nonostante si vuole cogliere l’occasione del 25esimo summit Ue-Cina per provare quanto meno a gettare le basi per un nuovo corso, e dare anche messaggi a Trump.Von der Leyen e Costa andranno a Pechino da Xi Jinping (presidente) e Li Qiang (primo ministro) “con uno spirito positivo e costruttivo”, ammettono a Bruxelles. Del resto non avrebbe senso tenere un summit se le aspettative fossero minime e anche meno di minime. “Non siamo pronti a compromessi su valori, ma siamo pronti a commerciare se ce ne sono le condizioni“, ammettono gli addetti ai lavori a Bruxelles. “Ribadiremo che siamo un partner affidabile”, sottolineano funzionari Ue. L’obiettivo è segnare distanze e differenze con gli Stati Uniti. Certo, reciprocità e nessuna distorsione del mercato restano gli obiettivi da raggiungere, in assenza dei quali l’Ue è pronta a cercare altri mercati. “Diversificazione, e non riduzione dei rischi, è l’approccio da tenere con la Cina” in questo momento.Von der Leyen ora guarda a est: India e Cina come alternativa all’America di TrumpLo dimostra il summit con il Giappone che anticipa quello con la Cina. Von der Leyen e Costa voleranno prima a Tokyo (23 luglio) per discutere di tre argomenti principali di cooperazione: sicurezza e difesa, commercio e sicurezza economica, difesa del multilateralismo e dell’ordine internazionale fondato su regole. Gli ultimi due punti sono sempre in funzione di una risposta alle politiche degli Stati Uniti. Una logica che stride con la visita che seguirà a Pechino. Il summit Ue-Giappone sarà l’occasione per “fare pressione” sulla Repubblica popolare, ammettono a Bruxelles, su temi come ordine mondiale e regionale e divieto di sostegno alla Russia. Cose che non faranno piacere alla leadership cinese, mai favorevole a ingerenze nelle decisioni interne e alla manovre su un quadrante di mondo dove gli interessi del Dragone non sono pochi.Non c’è solo Taiwan nelle mire della Cina, che considera l’isola come parte del Paese. Nel mar cinese meridionale le isole Spratly sono oggetto di contese sino-filippine. De facto nella zona economica esclusiva di Manila,  per le contestazioni di Pechino. L’Ue ha rilanciato il partenariato con le Filippine, senza riconoscere le rivendicazioni territoriali cinesi, e di fatto riconoscendo le ragioni dell’altro. Un altro elemento che può essere usato contro l’Ue.

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    INTERVISTA / Oliver Röpke (Cese): “Dialogo sociale sia condizione necessaria per l’allargamento”

    Bruxelles – In una fase storica in cui si parla con insistenza di allargamento dell’Unione europea, è importante mettere al centro le componenti della società civile e le parti sociali. E che il cammino verso l’adesione di nuovi Paesi al progetto comunitario sia supportato da strutture efficaci e risorse finanziarie adeguate. È quanto spiega a Eunews il presidente del Comitato economico e sociale europeo (Cese), il sindacalista austriaco Oliver Röpke, durante un’intervista a margine dei lavori della plenaria in corso tra ieri e oggi a Bruxelles.Stamattina (17 luglio) si è tenuto il secondo forum di alto livello sull’allargamento (la prima edizione risale allo scorso ottobre, agli sgoccioli del primo mandato di Ursula von der Leyen al timone dell’esecutivo comunitario), focalizzato sull’importanza di istituzionalizzare un confronto strutturato tra le parti sociali e di creare uno spazio civico solido nella prospettiva dell’espansione del club a dodici stelle già entro la fine del decennio. Stavolta gli ospiti d’onore erano i ministri agli Affari europei di Spagna (Fernando Sampedro), Macedonia del Nord (Orhan Murtezani) e Montenegro (Maida Gorčević).Dialogo sociale e allargamento“Un forte dialogo civile e sociale è il dna del Comitato, dunque è la nostra principale richiesta anche quando si parla di allargamento”, ci spiega Röpke. Quello dell’allargamento, osserva, è un “processo aperto”, che rappresenta “non solo un imperativo geopolitico ma anche una promessa democratica, un impegno morale e sociale“.In effetti, il focus del presidente del Cese sulla società civile non è certo una novità. Così come non lo è l’attenzione verso l’integrazione graduale dei Paesi candidati – Albania, Bosnia-Erzegovina, Georgia, Kosovo, Macedonia del Nord, Moldova, Montenegro, Serbia, Turchia e Ucraina – verso l’Ue. Un approccio che prevede l’estensione a questi Stati di alcune politiche comunitarie (come il roaming o l’area dei bonifici Sepa) e l’introduzione di specifici strumenti di cooperazione (si veda il Piano di crescita per i Balcani occidentali) ancora prima del loro formale ingresso nel club europeo.Il presidente del Comitato economico e sociale europeo, Oliver Röpke (foto: Cese)Nel settembre 2023, pochi mesi dopo essere stato eletto a capo dell’organo consultivo, Röpke ha lanciato l’iniziativa Ecm – acronimo di Enlargement countries members – per coinvolgere i rappresentanti delle parti sociali (cioè lavoratori e datori di lavoro) e della società civile di questi Paesi nei lavori del Comitato. L’idea di fondo, rimarca il presidente, è che “l’integrazione deve chiamare in causa non solo le dirigenze politiche ma anche coloro che portano in ultima istanza il peso delle riforme, cioè la società civile, i lavoratori, i giovani”.Röpke definisce “un successo” l’iniziativa e assicura che rimarrà in piedi anche nel prossimo mandato del Cese, che inizierà il prossimo ottobre. Bisogna tuttavia fare attenzione a non confondere i mezzi coi fini, e a non creare surrogati de facto dell’allargamento: “L’Ecm è uno strumento che deve servire a facilitare l’adesione all’Unione – ammonisce – ma non può finire per sostituirla“, rischiando di lasciare i Paesi candidati in un limbo.Ad ogni modo, incalza il sindacalista, il confronto tra le componenti della società “non è un lusso ma una necessità strutturale per costruire democrazie resilienti prima che questi Stati entrino in Ue”. Al punto che il Comitato ha chiesto all’esecutivo Ue di includere formalmente il dialogo sociale come un criterio di condizionalità nei negoziati di adesione.Come si fa nel concreto a promuovere simili sviluppi? “Naturalmente non c’è un unico modello che vada bene per tutti, ma riteniamo che istituzionalizzare il dialogo sociale e dargli un quadro di riferimento chiaro, ad esempio nell’ottica di rafforzare la contrattazione collettiva, sia fondamentale“, ragiona Röpke. Per esempio, ci racconta non senza una punta di orgoglio, “alcuni Paesi candidati vogliono aggiornare i loro sistemi di dialogo e vogliono costruire qualcosa di simile al Cese“.La 598esima plenaria del Comitato economico e sociale europeo, il 17 luglio 2025 (foto: Cese)Il Comitato propone l’introduzione nei Paesi candidati di “comitati di monitoraggio nazionali“, composti da parti sociali e società civile con l’obiettivo di supervisionare non solo gli sforzi e le riforme pre-adesione ma anche la messa a terra dei vari piani di crescita.Progressi e regressiIl presidente del Cese considera positivamente gli sviluppi in corso. “Vediamo progressi in diversi Paesi“, ci dice, anche se rimane ancora “molto lavoro da fare”. Addirittura, in alcuni casi gli standard sono più elevati che negli Stati Ue. Se prendiamo l’indice relativo alla libertà di stampa, ad esempio, scopriamo che Macedonia del nord e Montenegro vanno meglio di Bulgaria, Cipro, Croazia, Grecia, Italia, Malta, Romania e Ungheria. Oppure, continua Röpke, sulla riforma del sistema giudiziario Paesi come l’Albania stanno facendo “passi da giganti“, per quanto rimangano problemi su altri aspetti come trasparenza e contrasto alla corruzione.Purtroppo, non si registrano progressi dappertutto. In alcuni Stati, riconosce Röpke, “le riforme sono deboli e procedono lentamente, mentre in altri si sono addirittura verificati dei contraccolpi“. È il caso della Georgia, dove da mesi il governo autoritario e filorusso sta reprimendo brutalmente il dissenso democratico, della Serbia di Aleksandar Vučić e della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, dove continua a contrarsi lo spazio civico.Manifestanti protestano contro il governo georgiano a Tbilisi (foto: Sebastien Canaud/Afp)Anche in Ucraina – cui pure il presidente del Cese tiene a ribadire il “pieno sostegno” del Comitato – si registrano dei problemi: “Pure in queste difficili circostanze Kiev deve procedere sulla strada delle riforme“, riflette, “ma abbiamo assistito a sviluppi preoccupanti come l’incarcerazione di diversi leader sindacali negli ultimi mesi”.Il nodo dei finanziamentiOra, è evidente che l’allargamento è risalito prepotentemente nell’agenda di Bruxelles negli ultimi anni. “Ho piena fiducia nella presidente von der Leyen e nella commissaria Marta Kos (la titolare del portafoglio Allargamento, ndr) per portare avanti un processo di allargamento basato sul merito e dargli nuova linfa”, confida Röpke a Eunews, dichiarandosi contento del fatto che tale percorso “sia stato accelerato per alcuni Paesi candidati” – soprattutto Albania, Montenegro e Ucraina – e auspicando che “se questi assolveranno ai loro impegni possano concludere i negoziati entro il 2028“.Del resto, è altrettanto chiaro che perché l’allargamento dell’Unione abbia successo servono risorse adeguate, oltre ad una reale volontà politica da parte dei Ventisette. Il Cese adotterà a breve la propria posizione sulla proposta di nuovo bilancio comunitario (il Qfp 2028-2034) targata von der Leyen e già bocciato dall’Eurocamera, dagli enti regionali e da una parte delle cancellerie.Röpke la considera “una buona opportunità per incorporare i finanziamenti pre-adesione nel bilancio Ue in maniera più strategica”, includendo oltre all’assistenza tecnica anche un più organico sostegno alle riforme nei Paesi candidati. E ribadisce un concetto basilare: “Non può esserci una politica di allargamento credibile senza un supporto finanziario sostenibile e mirato“, ricorda.La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (foto: Dati Bendo/Commissione europea)Sicuramente, aggiunge il sindacalista, “chiediamo di proteggere ed espandere gli stanziamenti già esistenti per le riforme pre-adesione e per il sostegno alla società civile e la cooperazione transfrontaliera nel prossimo Qfp”. Parrebbe muoversi in questa direzione il fondo Global Europe voluto dalla timoniera del Berlaymont. Questo strumento è dotato complessivamente di 200 miliardi di euro, di cui 42,6 da destinarsi specificamente all’allargamento (un aumento del 37 per cento rispetto al budget dell’attuale Qfp, dove i miliardi a disposizione sono 31).Nel complesso, comunque, la valutazione di Röpke è positiva: “Sono contento che sia stato annunciato un bilancio per l’allargamento potenziato e in generale sono soddisfatto della cassetta degli attrezzi contenuta nel fondo Global Europe“, afferma. Ribadendo che, come dichiarato dalla stessa von der Leyen ieri, “non si tratta solo di un obiettivo politico ma di un investimento strategico nella stabilità e nella prosperità del continente“.

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    Germania e Regno Unito siglano un accordo di amicizia che le impegna a difendersi a vicenda

    Bruxelles – Ottant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, Germania e Regno Unito hanno siglato oggi (17 luglio) il primo accordo bilaterale della loro storia. Un trattato di amicizia, che impegna le due potenze del continente alla difesa reciproca in caso di crisi e individua diverse aree dove intensificare la cooperazione, in primis l’industria della difesa.Il Kensington Treaty è stato firmato e presentato al pubblico dal premier britannico Keir Starmer e dal cancelliere tedesco Friedrich Merz, in visita a Londra. Dopo la Brexit, Londra ha siglato dichiarazioni d’intenti a livello bilaterale con una sere di Paesi dell’Ue, Italia compresa. Ma una settimana dopo il patto tra Starmer e il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, sulla deterrenza nucleare, l’intesa con focus sulla difesa tra Londra e Berlino completa in qualche modo il triangolo dei trattati tra gli E3, il formato che riunisce Francia, Germania e Regno Unito.Prevede una stretta cooperazione in materia di sicurezza e difesa, compresa la deterrenza nucleare. E un impegno esplicito da parte di Regno Unito e Germania a considerare una minaccia contro uno come una minaccia contro l’altro, dichiarando che i due Paesi “si assisteranno reciprocamente, anche con mezzi militari, in caso di attacco armato“.Keir Starmer e Emmanuel Macron a Londra, il 10 luglio 2025. (Photo by Ludovic MARIN / POOL / AFP)Inoltre, “velocizzeremo la cooperazione sulle armi e l’equipaggiamento militare ad alta tecnologia“, ha dichiarato Starmer in conferenza stampa. Le due parti si sono impegnate a “promuovere campagne di esportazione” per garantire ordini internazionali per le attrezzature che producono congiuntamente, tra cui il jet Eurofighter Typhoon e il veicolo blindato Boxer.L’accordo – anche se in larga parte negoziato dal predecessore di Merz, Olaf Scholz – è in linea con la spinta del neo-cancelliere a discutere l’estensione della deterrenza nucleare franco-britannica al resto dell’Europa. A maggio, Merz e Macron avevano annunciato di voler creare un consiglio di sicurezza franco-tedesco di alto livello. Oggi, l’accordo con Starmer istituisce analoghi dialoghi strategici annuali tra i ministri degli Esteri dei due Paesi.“Non è un caso che io mi trovi qui una settimana dopo la visita di Stato del presidente francese a Londra”, ha dichiarato Merz, sottolineando che “Gran Bretagna, Francia e Germania stanno convergendo nelle loro posizioni sulla politica estera, sulla politica di sicurezza, sulla politica migratoria, ma anche sulle questioni di politica economica”.Starmer ha spiegato che l’accordo definisce “un piano di lavoro pratico” e “17 progetti principali”. Oltre a difesa e sicurezza, Londra e Berlino si impegnano a cooperare nella lotta al traffico di persone migranti, chiodo fisso della nuova amministrazione laburista britannica. Merz avrebbe promesso a Starmer una stretta legislativa in Germania contro le imbarcazioni degli scafisti che alimentano la migrazione irregolare attraverso la Manica, così come Macron ha acconsentito a riaccogliere sul suolo francese persone migranti espulse da Londra. Infine, il trattato di amicizia bilaterale copre prevede un nuovo collegamento ferroviario diretto tra i due Paesi e una maggiore cooperazione negli scambi giovanili.

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    Gaza, avvocati e giuristi di Jurdi chiamano Commissione e Consiglio Ue a “rispondere della loro inazione”

    Bruxelles – L’inazione può essere un reato. Per questo, oggi Commissione europea e Consiglio dell’Unione europea vengono chiamati a rispondere delle “proprie responsabilità” a Gaza. A farlo è JURDI – Giuristi per il Rispetto del Diritto Internazionale – associazione che, fondata nel 2024, riunisce avvocati, magistrati, professori, giuristi e altri esperti di diritto internazionale, con l’obiettivo di promuovere il rispetto e l’applicazione del diritto internazionale nel contesto del conflitto israelo-palestinese. Dopo aver inviato, lo scorso maggio, due lettere di diffida a Commissione e Consiglio Ue per “non aver adempiuto al proprio obbligo di prevenire il genocidio a Gaza”, oggi Jurdi ha annunciato di aver intentato un ricorso davanti la Corte di Giustizia dell’Ue contro le due istituzioni per “grave e prolungata inazione di fronte alle violazioni del diritto internazionale nei Territori Palestinesi Occupati”. Secondo il team di Jurdi, “nonostante le notifiche formali del 12 e 15 maggio 2025 e la valanga di prove che documentano un genocidio in corso a Gaza, non sono state avviate sospensioni degli accordi di cooperazione, misure restrittive o verifiche di emergenza“. E “non è stata intrapresa alcuna azione per interrompere il flusso di finanziamenti e i trasferimenti di tecnologia militare, in diretta violazione del diritto internazionale ed europeo“.Tutto ciò ha delle conseguenze, per Jurdi. “La Commissione europea, sebbene autorizzata ad agire da sola, è rimasta passiva”, scrive l’associazione. “Tale inazione impegna la responsabilità giuridica delle istituzioni europee in relazione agli articoli 2, 3, 21, 29 e 215 Trattato sul funzionamento dell’Ue; all’accordo di associazione Ue-Israele; e agli obblighi imperativi del diritto internazionale (jus cogens)”. In particolare, per Jurdi, sono stati violati quattro principi fondamentali del diritto internazionale pubblico, applicabili all’Unione: l’obbligo di prevenire il genocidio, a partire dalla soglia del rischio plausibile; il dovere di porre fine agli ostacoli all’autodeterminazione del popolo palestinese; il divieto di riconoscimento o di assistenza a una situazione illegittima, come un’occupazione prolungata; l’obbligo di garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario, in particolare di fronte a crimini di guerra e crimini contro l’umanità. A ciò si aggiunge “una chiara violazione del Trattato sul commercio delle armi (ATT)“, di cui tutti gli Stati membri dell’Ue sono firmatari, “e della Posizione Comune 2008/944/PESC che vieta i trasferimenti di armi in caso di evidente rischio di utilizzo per commettere gravi violazioni del diritto umanitario”, mentre “diversi Stati membri hanno continuato a fornire armi a Israele, senza alcuna risposta da parte delle istituzioni europee“, spiegano gli avvocati e giuristi.Sono queste le basi su cui oggi l’associazione chiede alla Corte di Giustizia di constatare formalmente questa inadempienza e di ordinare alle istituzioni dell’Ue di sospendere la cooperazione con Israele, di adottare sanzioni mirate e di adempiere al loro dovere di prevenzione. “Quando le istituzioni sanno, possono e non fanno nulla, si parla di complicità passiva“, ha affermato il presidente di Jurdi, Patrick Zahnd. “Ci auguriamo che la Corte rispetti la legge, nient’altro che la legge”, ha osservato.E proprio alla legge stanno facendo ricorso anche altre associazioni di avvocati e giuristi che chiedono ai propri Paesi di rispondere dell’inazione, o della complicità. E’ il caso dei Paesi Bassi, dove il Centro di ricerca sulle multinazionali SOMO e altre nove organizzazioni della società civile palestinese e olandese stanno facendo causa ai Paesi Bassi “per il ruolo svolto nel facilitare le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele, tra cui l’occupazione illegale del territorio palestinese e il plausibile genocidio commesso contro il popolo palestinese a Gaza”: una delle richieste della causa, che è ora in fase di appello, è l’interruzione dell’esportazione verso Israele di cani addestrati per le torture. L’udienza d’appello del caso dovrebbe svolgersi questa estate. Ed è anche il caso del Belgio, dove il collettivo Droit pour Gaza ha diffidato lo Stato per la sua inazione a Gaza: Bruxelles ha “obblighi e responsabilità di fronte al genocidio attualmente in corso nella Striscia di Gaza” e, se non risponderà entro otto giorni, i querelanti intraprenderanno un’azione legale.Giustamente, anche Pilato verrebbe chiamato oggi a rispondere.

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    Guardian: Missili europei venduti a Israele usati per uccidere bambini a Gaza

    Bruxelles – Secondo un esclusiva del Guardian, il più grande produttore europeo di missili, MBDA, vende componenti chiave per le bombe che sono state spedite a migliaia in Israele e utilizzate in numerosi attacchi aerei in cui, secondo le ricerche, sono stati uccisi anche bambini palestinesi e altri civili. Questa compagnia europea fa parte di un gruppo composto dalla più grande azienda di difesa britannica BAE Systems, la francese Airbus e l’italiana Leonardo.Con l’aumentare delle preoccupazioni sulla misura in cui le aziende europee potrebbero trarre profitto dalla devastazione della Palestina, un’inchiesta del Guardian, in collaborazione con le redazioni indipendenti Disclose e Follow the Money, ha esaminato la catena di approvvigionamento della bomba GBU-39 e i modi in cui è stata impiegata durante il conflitto.MBDA possiede uno stabilimento negli Stati Uniti, che produce le “ali” che vengono montate sul GBU-39, prodotto da Boeing. Esse si dispiegano dopo il lancio, consentendo alla bomba di essere guidata verso il suo obiettivo.I ricavi della società statunitense MBDA Incorporated passano attraverso MBDA UK, con sede in Inghilterra, che poi trasferisce gli eventuali profitti al gruppo MBDA, con sede in Francia. L’anno scorso l’azienda ha distribuito dividendi per quasi 350 milioni di sterline (400 milioni di euro) ai suoi tre azionisti.A settembre, il ministro degli Esteri britannico, David Lammy, ha sospeso alcune licenze di esportazione di armi verso Israele, citando il rischio di “gravi violazioni” del diritto umanitario internazionale. Lammy ha dichiarato che la mossa era volta a colpire “articoli che potrebbero essere utilizzati nell’attuale conflitto a Gaza”.Utilizzando informazioni di fonte aperta e analisi di esperti di armi, l’indagine del Guardian ha verificato 24 casi in cui le GBU-39 sono state impiegate in attacchi che hanno causato la morte di civili. Ognuno di essi includeva bambini tra le vittime. Molti degli attacchi sono avvenuti di notte, senza preavviso, in edifici scolastici e tendopoli dove si rifugiavano le famiglie sfollate. Alcuni sono stati esaminati dalle Nazioni Unite e dal gruppo umanitario Amnesty International, che li ha segnalati come sospetti crimini di guerra.Casi verificati nel 2023, suggeriscono che l’esercito israeliano ha aumentato drasticamente l’uso delle GBU-39 nel 2024. Uno degli attacchi più devastanti è avvenuto nella notte del 26 maggio 2024, quando i jet hanno bombardato il Campo della Pace Kuwait 1 a Rafah, scatenando un incendio che ha messo a fuoco file di tende. Un bambino e una donna sono stati decapitati dai frammenti di esplosivo, ha riferito Amnesty. Il ministero della Sanità di Gaza ha contato 45 morti e 249 feriti.“I GBU-39 sono stati usati spesso per colpire scuole e aree in cui altre persone si rifugiano”, ha affermato Trevor Ball, associato all’Armaments Research Services, che riceve alcuni finanziamenti dall’Ue.Degli attacchi verificati, 16 erano contro scuole. Sebbene gli edifici non funzionino più come strutture educative, sono diventati luoghi di rifugio per la popolazione sfollata della Palestina. Gli altri attacchi hanno colpito tendopoli, case di famiglia e una moschea durante le preghiere del mattino.Nonostante le parole forti e le minacce di ulteriori sanzioni dopo la rottura del cessate il fuoco da parte di Israele a marzo, e le conclusioni delle Nazioni Unite secondo cui: “i metodi di guerra a Gaza sono compatibili con il genocidio, i leader europei non hanno preso ulteriori provvedimenti per impedire alle imprese di armamenti nazionali di trarre profitto”.In un rapporto del mese scorso, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, ha esaminato i profitti delle imprese derivanti dal conflitto. La relatrice ha concluso che: “Il presente rapporto mostra perché il genocidio condotto da Israele continua: perché è redditizio per molti”.