Bruxelles – A Benjamin Netanyahu rimane solo il fedele alleato a stelle e strisce. Durante una conferenza a Gerusalemme, a margine dell’incontro con il segretario di Stato americano, Marco Rubio, il premier israeliano ha ammesso che Israele “si trova in una sorta di isolamento” internazionale e che lo Stato ebraico dovrebbe “sviluppare le industrie belliche” e “la capacità di produrre ciò di cui ha bisogno” all’interno dei propri confini.
Se due anni di bombardamenti a tappeto sulla popolazione civile a Gaza non sono bastati, il raid su Doha, capitale del Qatar mediatore nei negoziati di pace, ha definitivamente gettato Tel Aviv in un pesante isolamento diplomatico. Il giorno successivo, “l’amica di lunga data” di Israele, Ursula von der Leyen, ha annunciato che la Commissione europea proporrà di sospendere parzialmente l’accordo di associazione con lo Stato ebraico e di imporre sanzioni contro alcuni ministri del governo di Netanyahu. Oggi i leader di diversi Paesi arabi si sono riuniti a Doha per un vertice di emergenza, per decidere misure concrete in seguito all’attacco israeliano della scorsa settimana.
Un attacco che ha indispettito perfino gli Stati Uniti, che insieme al Qatar stavano cercando di riprendere in mano i già fragilissimi negoziati tra Israele e Hamas per mettere fine al conflitto. Rubio ha dichiarato che Washington “continuerà a incoraggiare Doha a svolgere un ruolo costruttivo”, e ha criticato gli sforzi internazionali per riconoscere lo Stato di Palestina – solo due giorni fa all’Assemblea generale dell’Onu 142 Paesi hanno votato a favore del riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente -, bollandoli come “un ostacolo alla pace”. Alla risoluzione Onu si sono opposti solo in 10, tra cui Stati Uniti, l’Ungheria di Viktor Orban e l’Argentina di Javier Milei.
Se diversi partner – compresi quelli europei – sostengono ancora Israele in virtù di accordi economici di lunga data, gli Stati Uniti sono rimasti ormai gli unici a non essersi smarcati pubblicamente dalla condotta criminale del governo di Netanyahu. A Gaza, ma anche in Cisgiordania e nell’intera regione. Il premier israeliano – su cui pende un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale, a cui aderiscono 125 Stati – ne è ora consapevole: “Avremo sempre più bisogno di adattarci a un’economia con caratteristiche autarchiche“, ha ammesso, focalizzandosi sulle ripercussioni questo potrebbe avere sulle incessanti attività militari israeliane.
Netanyahu ha avvertito la platea: “Potremmo trovarci in una situazione in cui le nostre industrie belliche sono bloccate. Dovremo sviluppare le industrie belliche qui, non solo la ricerca e lo sviluppo, ma anche la capacità di produrre ciò di cui abbiamo bisogno”. Già a metà agosto, il Fondo sovrano norvegese da due trilioni di dollari aveva annunciato di aver venduto un quinto dei suoi asset del Paese. La Slovenia ha sospeso il commercio di armi con Israele, la Spagna ha annunciato che imporrà il divieto di “comprare e vendere armi, munizioni ed equipaggiamento militare” e di “transito nei porti spagnoli di navi con combustibili destinati all’esercito israeliano”. Pochi Paesi, che però rivelano una tendenza. Se l’Unione europea dovesse sospendere l’accordo di associazione in materia commerciale, sarebbe un duro colpo per Tel Aviv.
Il premier respinge però qualsiasi responsabilità, e anzi – secondo quanto riportato dal Times of Israel – ha puntato il dito prima contro gli immigrati musulmani in Europa, che hanno “piegato i governi” in senso anti-israeliano, e poi contro “alcuni Stati” che avrebbero orchestrato una campagna d’odio contro lo Stato ebraico. “Uno è la Cina. L’altro è il Qatar“, ha attaccato frontalmente Netanyahu.
Una “dichiarazione folle”, gli ha risposto il leader dell’opposizione israeliana, Yair Lapid, secondo cui l’isolamento è “il prodotto di una politica sbagliata e fallimentare di Netanyahu e del suo governo”, che sta “trasformando Israele in un paese del terzo mondo”.