“Ringrazio tutti coloro che mi hanno dato il voto e prego di non votare più per me perchè non sono più disponibile”: il 13 maggio del 1999, nello studio di via XX Settembre, Carlo Azeglio Ciampi segue lo spoglio della votazione per l’elezione del presidente della Repubblica. Con lui c’è il giovane direttore generale, il quarantenne Mario Draghi. Il nome del ministro su cui D’Alema, Veltroni e Berlusconi si sono messi d’accordo non ha rivali, ma a metà dello spoglio sembra che le cose si mettano male. Ciampi allora prende un biglietto e scrive una nota da consegnare all’ANSA per annunciare il suo ritiro. “La mia candidatura ha senso solo se si appoggia su una maggioranza larga”, spiega a Draghi mentre butta giù l’appunto. In effetti Ciampi cammina sul filo del quorum: sulla carta avrebbe 892 voti, ma non sta facendo il pieno. Alla fine per lui ci sono 707 voti su 1010: la soglia è superata e Ciampi è eletto alla prima votazione, come Cossiga 14 anni prima.
Al Quirinale arriva così il superministro di Prodi e D’Alema, già governatore della Banca d’Italia e tra il ’93 e ’94 presidente di un governo di emergenza del dopo Tangentopoli. La sua candidatura matura nella primavera del 1999. I due grandi registi dell’operazione sono Walter Veltroni, segretario dei Ds, e il presidente del consiglio Massimo D’Alema: rivali nel partito, ma in questo momento in sintonia sul da farsi. Negli ultimi sette anni, la politica italiana è completamente cambiata: la Dc è scomparsa, il Psi è al lumicino e Berlusconi è sceso in campo.
Dopo la vittoria del centrodestra nel ’94 e il ribaltone che ha mandato a casa il primo governo Berlusconi, il centrosinistra ha vinto le elezioni del 1996 e ha mandato Prodi a palazzo Chigi: ma la sua permanenza è stata breve. A Palazzo Chigi è così arrivato D’Alema, reduce dal tentativo (finito male) della bicamerale e del “patto della crostata” con Berlusconi sulle riforme. Quando si tratta di scegliere il nuovo capo dello Stato, Berlusconi ha un obiettivo irrinunciabile: evitare in tutti i modi che sul Colle salga un nuovo Scalfaro. Il Cavaliere trova orecchie attente in Massimo D’Alema, che governa con una maggioranza risicata e non vuole che la scelta del nuovo presidente della Repubblica avveleni gli animi. Per una volta D’Alema ha dalla sua parte Walter Veltroni: il segretario dei Ds punta a un candidato da far eleggere al primo scrutinio, e insieme a D’Alema pensa subito a Ciampi. Il 5 maggio Veltroni suona al campanello di casa Ciampi in via Anepo, nell’elegante quartiere Trieste, e gli chiede se sia disponibile a farsi candidare, ma non gli nasconde le difficoltà nella maggioranza. Il centrosinistra, infatti, non è per niente unito. A scalpitare è soprattutto il Ppi, guidato in quel momento da Franco Marini: i popolari vogliono che al Quirinale salga un cattolico (più che altro vogliono uno dei loro) e hanno paura di essere messi all’angolo. Ciampi accetta, ma in cuor suo non crede di potercela fare: “Figurati – dice alla moglie Franca – non è mai successo che abbiano chiamato uno fuori dalla politica come me”. I popolari, in allarme per le manovre di Veltroni e D’Alema, lanciano la candidatura di Rosa Russo Iervolino e poi quella di Nicola Mancino, ma nessuna delle due fa breccia. Marini si arrabbia moltissimo con D’Alema: volano parole grosse, ma i Ds non cedono. Intanto l’offensiva in favore di Ciampi va avanti. Qualche giorno prima della convocazione del Parlamento, due emissari di Fini, Altero Matteoli e Luciano Magnalbò, vanno da Ciampi e gli dicono che c’è il via libera. Il 12 maggio, vigilia della votazione, arriva la telefonata di Gianni Letta: “Forza Italia è pronta a votarla, già domani” gli dice il plenipotenziario di Berlusconi. L’ultimo tassello è andato a posto: per Ciampi voteranno tutti i partiti tranne Lega, Rifondazione comunista e franchi tiratori popolari che disperdono i loro voti tra Nicola Mancino e Rosa Russo Jervolino.
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