Bruxelles – Non si fermano gli scontri armati in Sudan, nemmeno dopo l’annuncio di un possibile cessate il fuoco temporaneo in occasione dell’Eid al-Fitr, la festività della religione islamica che segna la fine del Ramadan. Nella capitale Khartum e negli altri centri urbani del Paese anche oggi (21 aprile) si stanno verificando combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf), inclusi raid aerei sulle abitazioni civili. Dopo quasi una settimana di scontri si contano oltre 350 morti e più di tremila feriti, oltre a quasi ventimila profughi in fuga verso il Ciad.
È per questo motivo che l’Unione Europea, in concerto con i partner internazionali, sta cercando di spingere sugli sforzi di mediazione per raggiungere una tregua in Sudan: “I combattimenti devono terminare per lasciare spazio al dialogo e alla mediazione”, è l’esortazione dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che ha ricordato il ruolo dell’Unione nel sostenere una “una cessazione immediata delle ostilità, che dovrebbe servire come primo passo verso un accordo di cessate il fuoco permanente da negoziare con urgenza”. In questo contesto sono viste positivamente le iniziative collettive regionali e internazionali, “compresi quelli delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana, dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) e della Lega degli Stati Arabi”, considerate “essenziali” per riportare il Sudan “sulla via della pace e della stabilità” e per rispettare le “aspirazioni della popolazione sudanese a un futuro pacifico, stabile e democratico”.
Una proposta di tregua era arrivata ieri sera (20 aprile) dal capo delle forze paramilitari, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, ma l’esercito regolare guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan non ha risposto, rifiutando ogni dialogo con quelli che vengono considerati i responsabili per l’inizio degli scontri armati. “L’Unione Europea e i suoi Stati membri condannano fermamente i combattimenti in corso”, ha ricordato l’alto rappresentante Borrell, scagliandosi contro atti che mettono a rischio sia “gli sforzi per ripristinare la transizione verso un governo democratico a guida civile”, sia la “stabilità regionale”. Oltre alle vittime civili, Bruxelles condanna le violazioni del diritto internazionale: il riferimento è all’attacco all’ambasciatore Ue in Sudan, Aidan O’Hara, presso la sua residenza e al clima di insicurezza generale per volontari e operatori di organizzazioni non governati e di agenzie Onu nel Paese. “C’è bisogno di un’azione forte dell’Europa perché si fermi la violenza“, ha esortato dall’emiciclo del Parlamento Europeo il capo-delegazione del Pd, Brando Benifei.
Cosa sta succedendo in Sudan
L’esplosione delle violenze nella capitale Khartum e nel resto del Paese è iniziato lo scorso 15 aprile. A fronteggiarsi sono l’esercito regolare del Sudan, comandato dal generale al-Burhan (dal 2021 anche presidente del Paese), e le forze paramilitari da 100 mila membri guidate dal generale Dagalo (vicepresidente del Sudan). L’esercito regolare ha il controllo dell’aviazione e sta bombardando le basi Rsf, che a loro volta sta facendo largo uso di artiglieria nei centri abitati.
Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati da qualche giorno in violenti combattimenti armati.
Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur (iniziata nel 2003) furono accusati di genocidio: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, furono accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si trasformarono autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e allacciando i rapporti con il gruppo mercenario russo Wagner.