Bruxelles – Il Darfur torna nei radar dell’Unione Europea, ancora una volta per il rischio di un genocidio. Quando la guerra civile in Sudan sta per arrivare al suo terzo mese dall’inizio dei combattimenti tra l’esercito regolare e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf), da Bruxelles si alza l’allarme sulla situazione in una delle regioni dell’Africa orientale più tormentate degli ultimi vent’anni. “L’Unione Europea è particolarmente preoccupata per le notizie di attacchi su larga scala contro i civili, anche sulla base dell’etnia, in particolare nel Darfur“, è la denuncia dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, riferendosi a “notizie terribili di diffuse violenze sessuali e di genere, uccisioni mirate, sfollamenti forzati e costante armamento delle milizie”.
La risposta a quesi tre mesi di guerra civile – che al momento non accenna ad arrestarsi – da parte della Commissione Ue è non solo un nuovo stanziamento di 190 milioni di euro in assistenza umanitaria (che ha raggiunto nei primi sei mesi del 2023 oltre 250 milioni), ma anche una costante pressione diplomatica. Nonostante l’azione sul campo sia resa ancora più difficile dall’assenza di corpo diplomatico Ue nel Paese da fine aprile. “Condanniamo fermamente il continuo rifiuto delle parti in conflitto di cercare una soluzione pacifica“, ha attaccato Borrell, esortandole ancora una volta ad arrivare a un cessate il fuoco “duraturo” da raggiungere “senza indugio” per garantire la protezione della popolazione. Di fronte alla realtà di una guerra che non si ferma e di continue violazioni degli accordi per un cessate il fuoco, l’alto rappresentante Ue chiede almeno di “facilitare la fornitura di assistenza umanitaria e a garantire un accesso sicuro, tempestivo e senza ostacoli alle operazioni umanitarie“.
La guerra civile iniziata nella capitale Khartum si è espansa in questi mesi a macchia d’olio, con l’apertura di fronti di battaglia soprattutto in Darfur a ovest e nel Kordofan meridionale, al confine con il Sud Sudan: “In tali gravi circostanze garantire la protezione dei civili e prevenire ulteriori atrocità deve essere la nostra prima priorità”, è l’esortazione dell’alto rappresentante Ue ai Ventisette e a tutta la comunità internazionale. Il rischio è un ulteriore aggravamento della situazione umanitaria e migratoria, con “milioni di sudanesi costretti a fuggire dal conflitto” che si sono rifugiati nei Paesi circostanti: “L’Ue elogia gli Stati della regione per la loro costante accoglienza e apprezza l’assistenza umanitaria e gli sforzi di pace”. Ma ci sono anche due novità nell’appello di Bruxelles da considerare con attenzione: “Sosteniamo la raccolta di prove sulle gravi violazioni dei diritti umani e siamo pronti a considerare l’uso di tutti i mezzi a disposizione, comprese le misure restrittive” per mettere fine al conflitto. Una minaccia che al momento non trova altro riscontro nell’azione esterna dell’Unione né nelle discussioni dei 27 ministri degli Esteri, ma che potrebbe diventare uno strumento sempre più importante se la guerra dovesse continuare ancora per mesi e con l’intervento di attori esterni. La Russia – con o senza il gruppo mercenario Wagner – in testa.
La guerra civile in Sudan e Darfur
La guerra civile in Sudan è iniziata lo scorso 15 aprile, con lo scontro armato tra l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (dal 2021 presidente del Paese) e le forze paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo (vicepresidente del Sudan). Due anni fa, nell’ottobre del 2021, i generali al-Burhan e Dagalo avevano unito le forze per rovesciare il breve governo democraticamente eletto di Abdalla Hamdok e instaurare una dittatura militare. Lo stesso al-Burhan è stato in precedenza a capo del Consiglio sovrano del Sudan, l’organo che nel 2019 aveva preso il posto del Consiglio militare di transizione dopo la deposizione del dittatore Omar al-Bashir (in carica dal 1993). I due generali avevano promesso di continuare la transizione democratica fino alle elezioni previste per il 2023, governando attraverso il Consiglio Sovrano. L’alleanza è durata fino a dicembre del 2022, quando le pressioni internazionali hanno spinto la giunta militare a restituire il potere a un’amministrazione civile e sciogliere le Rsf per integrarle all’interno dell’esercito regolare. Dagalo si è opposto e gli scontri prima politici si sono trasformati in guerra civile.
Le Rsf sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba che nel corso della guerra del Darfur hanno preso parte al genocidio nell’area occidentale del Paese: in quel momento Dagalo era a capo dei Janjawid ed è stato accusato di crimini contro l’umanità. Anche i vertici dell’esercito regolare, di cui al-Burhan è principale esponente, sono stati accusati di genocidio nel Darfur. Dopo la guerra le Rsf si sono trasformate autonomamente in un esercito di frontiera, senza perdere potere militare e senza mai farsi assorbire nelle strutture statali. La Cnn ha anche riportato di un supporto militare da parte del gruppo mercenario russo Wagner e di finanziamenti reiterati da parte del generale libico Khalifa Haftar nei mesi precedenti allo scoppio della guerra. Nel corso dell’ultimo mese di guerra civile i combattimenti si sono concentrati soprattutto nel Darfur, dove il governatore Khamis Abakar è stato rapito e ucciso lo scorso 14 giugno per aver accusato le Rsf di genocidio in atto (di nuovo) contro la popolazione della regione.