Ci sono il pensionato e l’infermiera, il postino e l’ex dipendente comunale. Le seicento anime di Dorohusk, ultimo villaggio prima del confine tra Polonia e Ucraina, sono molto più che una comunità. Sono il primo punto di arrivo di chi fugge dalla guerra, il primo sorriso contro le bombe, il primo abbraccio dopo la tragedia. E così ormai da un mese l’intero paesino si è dato da fare, mettendo a disposizione le proprie professionalità o il proprio tempo. E chi proprio non poteva ha aperto le porte della propria casa ospitando i profughi ucraini.
Il centro operativo è quello che fino ad un mese fa, prima che la Russia cominciasse l’invasione in Ucraina, ospitava il centro culturale cittadino. Un grande casolare bianco immerso nel verde delle campagne che circondano la zona. Nel piazzale esterno sono stati allestiti diversi gazebo, anche con l’aiuto della Caritas locale. Ci sono beni di prima necessità e pasti per tutti. Seduti sulle panchine, in un raro momento di pausa, un’infermiera chiacchiera con i poliziotti che presidiano l’area, mentre due ragazze continuano a ordinare i nomi degli ospiti, districandosi tra le lettere dell’alfabeto cirillico. A Dorohusk si conoscono tutti, sono amici o parenti, e fin dal primo giorno non hanno avuto esitazione nel farsi trovare pronti di fronte all’imminente ondata di profughi.
Proprio il centro culturale, nei primi giorni della guerra, ha ospitato anche esponenti di governo, arrivati sul posto per ringraziare il villaggio, dove continua incessante il flusso di bus e auto con i rifugiati ucraini. A differenza di altre frontiere, infatti, a Dorohusk c’è solo un accesso autostradale, dove i mezzi vengono controllati e poi lasciati passare dalle guardie di frontiera. “Ora la situazione è leggermente diversa rispetto a qualche settimana fa, l’afflusso di persone è diminuito – racconta la direttrice del centro culturale, Renata Lalik – anche se continuano ad arrivare tantissime persone”.
All’interno della sala che un tempo ospitava eventi culturali è stata allestita una mensa, mentre nella hall c’è la zona notte, con una decina di brandine per poter ospitare i rifugiati almeno per un paio di giorni. Tatiana ha 44 anni ed arriva da Kiev. Con lei c’è la mamma Stefania e la loro cagnolina. “Siamo per metà ebree e stiamo cercando di raggiungere Israele – dice la donna, mentre tenta di tranquillizzare il rumorosissimo Chihuahua -. Lì ci sono le mie due figlie. Una di loro, la più grande, si è appena arruolata nell’esercito”. Poi prende il telefonino, scorre tra le foto e mostra orgogliosa le immagini di una 19enne in uniforme. “Sono molto fiera di lei”, confessa mentre bacia lo schermo dello smartphone.
In una piccola casetta di legno all’esterno dell’edificio, allestita da una compagnia telefonica, una coppia di ragazzi riceve una scheda sim, come quelle che vengono distribuite praticamente in tutti i centri d’accoglienza della Polonia.
Ringraziano e vanno via a mangiare un boccone in sala mensa. Nei gazebo rossi, due giovanissimi volontari mettono in ordine gli ultimi pacchi e salutano. Sempre con il sorriso sulle labbra.
“In fondo non abbiamo fatto nulla si strano – il commento del sindaco, Wojtek Sawa -. Abbiamo fatto quello che una città di confine sa fare meglio, accogliere”.
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