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L'effimera parabola di Liz fra gaffe e retromarce

Il cancelliere dello Scacchiere più effimero da oltre 50 anni; il ministro dell’Interno durato meno da oltre un secolo; e il capo del governo di Sua Maestà costretto a gettare la spugna dopo il mandato più breve dell’intera storia britannica. Sono i numeri umilianti che sintetizzano la parabola di Liz Truss, leader Tory e premier del Regno Unito fattasi da parte dopo appena 45 giorni di permanenza a Downing Street.

Un’avventura nata fra le perplessità di molti. E degenerata in ultimo sotto le macerie di un fallimento di leadership da manuale: con poche, pochissime attenuanti. Un flop ormai atteso che, come spesso succede – ‘Guai ai vinti!’ -, scatena l’irrisione (oltre all’allarme) di oppositori, commentatori e media, ben più di quanto riesca a generare compassione: sino alle beffe di chi infierisce nel paragone fra Liz e una lattuga (a sottolineare una sopravvivenza politica più corta dell’esistenza fugace dell’ortaggio); o trasforma number 10 a colpi di meme in un residenza libera, “perfette per brevi permanenze” nello stile del circuito di Airbnb.

Difficile trovare del resto alibi alla 47enne ambiziosa quanto poco carismatica ex ministra lanciatasi quest’estate con piglio caparbio, da improbabile erede del mito della defunta lady di ferro Margaret Thatcher, nella sfida per la successione a Boris Johnson. Partita vinta alla fine di misura, nel ballottaggio con il più pragmatico ex cancelliere Rishi Sunak, grazie al voto della maggioranza di nicchia degli iscritti del Partito Conservatore, dopo essere sempre rimasta indietro negli scrutini preliminari fra i colleghi deputati. E vinta, col sostegno dei tabloid della destra più populista, all’insegna di avventurosi slogan iperliberisti e illusioni brexiteer raccolte in opuscoli dai titoli tonitruanti come ‘Britain Unchained’.

Slogan di cui oggi non resta che polvere, per una premiership durante la quale Truss si è distinta per le gaffe, le inversioni a u, l’incapacità di comunicare con efficacia o credibilità alla nazione. Confermando tutti i dubbi di chi ne aveva intuito i limiti già nell’unico anno trascorso prima dell’arrivo a Downing Street alla testa di un dicastero top, quello degli Esteri: suggellato da atteggiamenti di fermezza ferrea nella linea dura contro la Russia per la guerra in Ucraina, ma anche da evidenti carenze diplomatiche e figuracce vere e proprie come quelle fatte di fronte ai tranelli preparati contro di lei dalla vecchia volpe Serghei Lavrov nell’unica visita a Mosca pre-invasione. Il tutto sullo sfondo di una biografia non certo priva di successi nella vita pubblica, eppure intessuta di giravolte inopinate: dalla militanza giovanile nella corrente anti-monarchica del partito europeista dei LibDem, all’adesione alla parrocchia Tory post-thatcheriana; dall’arrivo in Parlamento e al governo su posizioni relativamente moderate (e contrarie alla Brexit prima del referendum del 2016), alla conversione a beniamina di molti degli alfieri della destra interna più oltranzista ed euroscettica durante la corsa al dopo-BoJo.

Premesse sfociate in un percorso non molto più rassicurante al timone dell’esecutivo, ultimo dei 15 primi ministri dei 70 anni di regno di Elisabetta II; dove in appena sei settimane – nate sotto la stella nera dello scossone epocale della morte della regina 96enne ad appena due giorni dal suo insediamento e proseguita con l’ascesa al trono di un re, Carlo III, arrivato ad accoglierla in udienza dopo i primi passi falsi al suono d’un irrituale sospiro di preoccupazione ‘Dear, oh dear’ – si è ritrovata nella condizione di dover sacrificare a razzo due dei ministri ed alleati più importanti (i falchi Kwasi Kwarteng e Suella Braverman, sostituiti dai più cauti Jeremy Hunt e Grant Shapps); ma soprattutto a subire da una settimana all’altra lo smantellamento di un pacchetto fiscale di tagli di tasse in deficit sbandierato all’esordio come stimolo cruciale alla “crescita”, salvo essere travolto nello spazio d’un mattino dalla rovinosa reazione dei mercati in favore di strategie diametralmente opposte di ritorno verso forme di austerity.

Il segno di una confusione che ha finito per alienarle rapidamente il sostegno di gran parte di un lacerato e sempre più anarchico gruppo parlamentare di maggioranza. Fino alla resa improvvisa, annunciata ora quasi con sollievo per accomodarsi fra le note a margine dei libri di storia. Forte di un solo record, quello della permanenza minima sulla poltrona che fu fra i tanti di Winston Churchill: nettamente inferiore ai 119 giorni concessi dal fato al carneade George Canning, morto in carica dopo 4 mesi scarsi di mandato nel lontano 1827. 
   


Source: http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/politica_rss.xml

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