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    Il vertice dell’UE aggiorna l’agenda per l’Ucraina: ulteriore sostegno militare, ricostruzione e attuazione delle sanzioni

    Bruxelles – Sostegno militare, che deve arrivare fin da subito dagli Stati membri. Sostegno alla ricostruzione, che deve partire dalla strategia della Commissione europea, fermezza sulle sanzioni. I leader dell’UE aggiornano l’agenda politica sull’Ucraina. Le conclusioni adottate dai Ventisette riuniti a Bruxelles non si limitano alla decisione storica di riconoscere lo status di Paese candidato, che avvia un percorso di lungo periodo in termini di riforme e rispetto delle condizioni richieste. C’è soprattutto un percorso per l’immediato, che parte da “ulteriore sostegno militare”.
    I capi di Stato e di governo ribadiscono una volta di più che il blocco a dodici stelle “resta fermamente impegnata a fornirlo” per aiutare l’Ucraina a esercitare “il suo diritto intrinseco all’autodifesa” contro l’aggressione russa e a difendere la propria integrità territoriale e sovranità. Per questo motivo i leader invitano i ministri responsabili a “lavorare rapidamente per un ulteriore aumento del sostegno militare”.
    Sempre nell’immediato, serve non avere indecisioni sul percorso sanzionatorio intrapreso fin qui quale risposta all’aggressione russa. Quindi “proseguiranno i lavori sulle sanzioni, anche per rafforzare l’attuazione e prevenire l’elusione”. In questa ottica i leader invitano “tutti i paesi ad allinearsi” con le sanzioni dell’UE, “in particolare i paesi candidati”, vale a dire Turchia (dal 1999), Macedonia del Nord (dal 2004), Montenegro (dal 2010), Serbia (dal 2012) e Albania (dal 2014), e ovviamente Ucraina e Moldova.

    PM Orbán: We say yes to peace, but say no to more sanctions. Besides the war in Ukraine, the main cause of economic problems are the sanctions. We need peace now, not more sanctions, as the only antidote to war inflation is peace.
    — Zoltan Kovacs (@zoltanspox) June 23, 2022

    L’Ungheria tiene però a precisare che oltre il sesto pacchetto di sanzioni Budapest non intende spingersi. “Sì alla pace, no a più sanzioni”, la posizione espressa da Viktor Orban ai partner. “Oltre alla guerra in Ucraina, la principale causa di problemi economici sono le sanzioni. Abbiamo bisogno di pace ora, non di più sanzioni, poiché l’unico antidoto all’inflazione di guerra è la pace”.
    I leader non sembrano intenzionati a discutere di nuove sanzioni, ma di rendere il più efficaci possibili quelle già concordate. Per questo “dovrebbero essere rapidamente finalizzati i lavori sulla decisione del Consiglio che aggiunge la violazione delle misure restrittive dell’Unione all’elenco dei reati dell’UE“. Questo per l’immediato futuro. Per quello prossimo serve un’Ucraina tutta nuova. Perciò il Consiglio invita “la Commissione a presentare rapidamente le sue proposte sul sostegno dell’UE alla ricostruzione dell’Ucraina, in consultazione con partner, organizzazioni ed esperti internazionali”.
    Non solo ulteriore sostegno militare, dunque. Difesa, determinazione, ricostruzione. Questi gli imperativi che i leader dell’UE si sono imposti per aiutare l’Ucraina.

    I leader danno istruzioni a ministri, commissari europei e Paesi candidati. Ma Budapest frena su nuove restrizioni: “Sì alla pace, no alle sanzioni”

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    Questa volta è un fallimento su tutta la linea. L’UE non riesce a rispettare nessuna promessa ai Balcani Occidentali

    Bruxelles – C’è un limite anche all’ottimismo esibito. E al vertice UE-Balcani Occidentali del 23 giugno 2022 è stato superato abbondantemente. Sia chiaro, non è una questione nuova, né inedita, ma a forza di fare promesse e di non rispettarle, prima o poi ci si deve aspettare che la frustrazione si trasformi in disillusione. Dopo anni di negoziati, incontri bilaterali, vertici di alto livello in cui è stata portata avanti la “prospettiva europea” e l’inevitabile “prospettiva dell’adesione” all’Unione per i sei Paesi balcanici (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), il summit di Bruxelles che avrebbe dovuto imprimere una svolta all’inerzia nel processo di allargamento UE nella regione si è dimostrato un nuovo fiasco. Come quello dello scorso anno in Slovenia, ma più grave, perché è passato un altro anno e perché intanto è scoppiata una guerra sul continente europeo.
    Il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, con il presidente del Consiglio UE, Charles Michel, e della Commissione, Ursula von der Leyen (23 giugno 2022)
    Il fallimento dei Ventisette nei confronti dei Balcani Occidentali si è concretizzato nell’assenza: di progressi su tutti i dossier in agenda, di una dichiarazione conclusiva, di una conferenza stampa al termine del vertice (giustificata dai portavoce del Consiglio con i ritardi della riunione e con l’inizio a stretto giro del vertice dei leader UE). “Sono stati politicamente intelligenti a non presentarsi alla stampa, si sentivano male per quello che è successo dopo essersi spesi tanto, ma c’è qualcosa di guasto nel processo”, ha attaccato il premier albanese, Edi Rama, nel corso di una conferenza stampa congiunta con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier della Macedonia del Nord, Dimitar Kovačevski (che sarebbe dovuta essere parallela a quella dei vertici delle istituzioni comunitarie).
    Oggi si parla di fallimento e non più di fiasco perché gli intensi sforzi degli ultimi mesi per risolvere lo stallo del veto bulgaro all’avvio dei negoziati di adesione all’UE della Macedonia del Nord (e dell’Albania, legata dallo stesso dossier) non hanno prodotto, ancora, nessun risultato concreto. Le speranze di una revoca immediata al veto – che a causa della regola dell’unanimità in Consiglio sta bloccando tutto il processo di adesione – durante il vertice era iniziata a tramontare già ieri, con il voto di sfiducia al governo bulgaro guidato da Kiril Petkov, ma ancora rimanevano delle speranze sul voto favorevole del Parlamento per consegnare in extremis allo stesso primo ministro sfiduciato il mandato di negoziare a Bruxelles lo sblocco dei negoziati sull’adesione di Skopje. Niente di tutto questo è successo e nei confronti di Sofia sono arrivati duri attacchi dai leader balcanici. “Sono passati quasi 18 anni dalla nostra candidatura, ma siamo ancora qui fermi, è un serio problema per la credibilità dell’Unione“, è stato il commento secco del premier macedone, mentre l’omologo albanese ha sottolineato che “anche cambiare nome per la Macedonia non è stato abbastanza [in riferimento all’accordo del 2018 con la Grecia sul cambio di nome in Macedonia del Nord, ndr], pensate se dovessero farlo Francia o Italia per entrare nell’UE”. Secondo Rama, “bisogna dire la verità, la Bulgaria è una disgrazia, ma è solo l’espressione più evidente di un processo di allargamento ormai guasto“.
    Se il biasimo è indirizzato contro Sofia, il “dispiacere” è tutto per l’Unione Europea, “incapace di liberare due ostaggi, che sono anche membri NATO, dalla Bulgaria, proprio nel giorno che chiamano storico”, ha continuato nel suo affondo il premier albanese. “Mentre nel cortile d’Europa c’è la guerra, dentro ci sono 26 Paesi impotenti“, con riferimento alla guerra russa in Ucraina che “ha dimostrato che le minacce non sono teoriche, ma reali”. L’invasione dell’Ucraina ha invece portato “molti problemi” alla Serbia, come ha sottolineato il presidente Vučić: “Non nascondo che c’è stata molta pressione sulla questione del nostro rapporto con la Russia“, in particolare per il non-allineamento alle sanzioni internazionali. Facendo un riferimento implicito alla questione energetica – per cui il Paese si vedrà quasi sicuramente tagliare i rifornimenti di petrolio russo in transito via oleodotto dalla Croazia – il leader serbo ha avvertito che “speriamo di rivederci a dicembre con uno spirito più positivo, ma dovremo superare l’inverno“. Uno strappo sulla questione delle sanzioni è arrivato invece da Tirana: “Non capisco perché Bruxelles voglia spingere così tanto con un Paese che al momento non potrebbe impegnarsi fino a questo punto, senza avere contraccolpi pesanti a livello sociale”, ha dichiarato un po’ a sorpresa Rama, facendo notare che “in Serbia la popolarità di Putin è all’80 per cento, ma Belgrado ha comunque condannato l’aggressione”.
    Un altro fallimento del vertice UE-Balcani Occidentali è stato sul fronte del Kosovo. Per l’ennesima volta non è stato trovato un accordo tra i Paesi membri sulla liberalizzazione dei visti per i cittadini kosovari, nonostante la Commissione abbia già riconosciuto da tempo che Pristina ha soddisfatto tutte le richieste: “Sono ancora in ostaggio, sono l’unico popolo sul suolo europeo che non può muoversi liberamente“, ha riassunto il problema il premier albanese, molto vicino alle posizioni di Pristina: “Ai tempi della Jugoslavia potevano viaggiare anche a Berlino, oggi invece no. È assurdo e impensabile”. Intanto si levano anche malumori sullo stato della Bosnia ed Erzegovina, ferma alla domanda di adesione del 2016, e che proprio oggi senza troppe sorprese sarà sorpassata da destra da Ucraina e Moldova (i leader UE dovrebbero raggiungere l’unanimità sulla concessione dello status di Paesi candidati). Nessun passo avanti sulla proposta di Slovenia, Croazia e Austria di concedere anche a Sarajevo lo status di candidato all’adesione. Per i tre leader balcanici la soluzione al momento è l’iniziativa Open Balkan, “la nostra idea per prenderci cura della nostra regione, senza essere frenati dall’esterno”, come ha rivendicato Vučić. “Ho chiesto il supporto inequivocabile, ma qui a Bruxelles sono divisi anche su quello che facciamo tra di noi“, ha continuato il suo affondo ai Ventisette Rama.
    L’unica prospettiva positiva per la regione al momento rimane la proposta del presidente francese, Emmanuel Macron, di creare una comunità politica europea per rendere più flessibile la cooperazione nel continente europeo e superare la visione binaria dentro/fuori dell’attuale processo di allargamento. “Può essere una piattaforma per il dialogo, ma non può sostituire l’adesione all’UE“, ha precisato il premier Kovačevski, mentre il presidente Vučić ha messo in chiaro che “questa proposta potrebbe essere l’unico modo per noi di essere ascoltati dai nostri colleghi UE”. A riassumere gli umori generali ci ha pensato, di nuovo, il premier Rama: “Dobbiamo supportare l’idea di Macron sugli obiettivi strategici comuni, intanto accettiamo la comunità politica europea per essere insieme nella stessa famiglia, magari nel prossimo secolo saremo anche membri dell’Unione Europea”.

    Anche nel 2022 il summit tra i leader dell’Unione e dei sei Paesi balcanici si chiude con un nulla di fatto. Ma questa volta i malumori nella regione per lo stallo sono espliciti: “La Bulgaria è una disgrazia, ma è solo l’espressione più evidente di un processo di allargamento ormai guasto”

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    Il Bulgaria il governo Petkov è stato sfiduciato. Appese a un filo le speranze di revoca immediata al veto su Skopje nell’UE

    Bruxelles – Non è ancora un naufragio, ma poco ci manca. Con il voto di sfiducia da parte del Parlamento della Bulgaria al governo guidato da Kiril Petkov, si allontanano le speranze per una revoca immediata del veto di Sofia all’avvio dei negoziati per l’adesione UE della Macedonia del Nord (e dell’Albania), possibilmente già durante il vertice UE-Balcani Occidentali di oggi a Bruxelles.
    Il primo ministro della Bulgaria, Kiril Petkov
    Il voto di sfiducia al governo è arrivato nel tardo pomeriggio di ieri (mercoledì 22 giugno) ed è stata una prima volta nella storia politica della Bulgaria: mai nessun esecutivo era caduto in questo modo. A mettere fine a un’esperienza di governo di soli sei mesi sono stati 123 deputati contro 116, complici le divergenze sul bilancio, la linea dura contro la Russia di Putin e anche la disputa sulla proposta francese di far decadere il veto all’avvio dei negoziati di adesione UE per Skopje, inserendo le richieste bulgare nel quadro degli stessi negoziati. A Bruxelles si temeva che fosse l’esecutivo macedone a rischio (ancora molto probabile) e invece a cadere per primo è stato il governo Petkov, che in questi mesi si è speso per trovare una soluzione alla disputa storico-culturale tra Sofia e Skopje con più decisione rispetto al precedente governo di Boyko Borissov, responsabile del veto nel dicembre 2020.
    A proposito dell’ex-premier Borissov, il suo partito conservatore GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria) prima del voto di sfiducia ha voluto precisare che se tornerà al governo sosterrà la revoca del veto ai negoziati con Macedonia del Nord e Albania, rinfocolando l’ultima fiammella di speranza che il processo di allargamento UE non sia davvero arrivato al capolinea. Ma per i due Paesi che attendono rispettivamente da 17 e 8 anni di ottenere la luce verde all’apertura dei capitoli negoziali con l’Unione, credere ancora solo alle promesse per il futuro non è più sufficiente. Ecco perché la destituzione del governo Petkov in Bulgaria rischia di essere un colpo durissimo non solo per la regione balcanica, ma anche per gli altri 26 Paesi membri dell’UE che puntavano al vertice di oggi per dare uno scossone al processo di allargamento.
    La svolta dei Ventisette rispetto all’attendismo generale è arrivata dopo l’invasione russa dell’Ucraina, con la dimostrazione di cosa potrebbe implicare una destabilizzazione su scala maggiore nella penisola balcanica. Oltre alle decisioni che i leader UE dovranno prendere sulle richieste di adesione di Ucraina, Moldova e Georgia, le speranze della vigilia per il vertice UE-Balcani Occidentali – programmato nella stessa giornata del Consiglio – erano rappresentate da qualche risultato concreto che dimostrasse il nuovo approccio dell’Unione alla politica nella regione.
    L’accordo che Petkov era pronto a trovare con il governo macedone di Dimitar Kovačevski poteva essere la punta di diamante di questa strategia, che potrà ancora realizzarsi solo se il Parlamento bulgaro dovesse dare in extremis allo stesso primo ministro sfiduciato il mandato di negoziare a Bruxelles lo sblocco dei negoziati sull’adesione della Macedonia del Nord. “Esortiamo il Parlamento della Bulgaria e tutti i partiti a rispettare il loro impegno e a mettere la proposta sulla Macedonia del Nord e l’Albania all’ordine del giorno, per approvarla oggi come proposto“, ha esortato in un tweet il commissario europeo per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi: “L’opposizione di GERB di Boyko Borissov ha già dato prova di leadership presentando la proposta sul tavolo”, ha aggiunto il commissario, sottolineando che “abbiamo bisogno che tutti facciano lo stesso, l’UE deve muoversi“.

    We urge 🇧🇬 Parl & all parties to fulfill their engagement & to put the proposal on 🇲🇰 & 🇦🇱 on agenda of Parl for approval today as proposed. Opposition #GERB @BoykoBorissov already showed leadership by putting the proposal on table. We need everybody to do same. EU needs to move.
    — Oliver Varhelyi (@OliverVarhelyi) June 23, 2022

    La mozione di sfiducia all’esecutivo bulgaro è stata presentata da GERB, dopo che il movimento populista fondato dallo showman Slavi Trifonov C’è un popolo come questo (ITN) era passato all’opposizione, accusando Petkov di non aver tenuto conto degli interessi della Bulgaria durante i colloqui con Skopje, sotto la pressione degli alleati dell’UE e della NATO. Oltre a GERB e ITN – fatta eccezione per alcuni fuoriusciti – hanno votato a favore della sfiducia anche i centristi di Movimento per i Diritti e le Libertà (MRF) e i nazionalisti filo-russi di Vazrazhdane. A questo punto, se le consultazioni per la formazione di un nuovo governo non daranno risultati positivi, il presidente della Repubblica, Rumen Radev, dovrà indire nuove elezioni entro due mesi. Nel frattempo, fino a quando non verrà nominato un esecutivo provvisorio o non si troverà una nuova intesa di governo, Petkov rimarrà in carica per svolgere l’ordinaria amministrazione e per tentare di trovare i sei deputati che servono per formare una nuova maggioranza. Tutte opzioni al momento improbabili, per cui ci si aspetta che la Bulgaria si appresti ad affrontare la quarta tornata elettorale dall’aprile dello scorso anno.

    L’esecutivo in carica da soli sei mesi è stato destituito dopo il voto di sfiducia. Il maggiore partito di opposizione GERB promette di sostenere lo sblocco dei negoziati di adesione con Macedonia del Nord (e Albania), mentre si attende il voto del Parlamento sulla proposta

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    Il premier croato Plenković indica all’UE la “cifra storica” del nuovo millennio: “Le nostre democrazie contro le autocrazie”

    Bruxelles – Democrazie contro autocrazie, “questa è la cifra storica del momento in cui viviamo”. Nel suo intervento alla mini-sessione plenaria del Parlamento UE a Bruxelles, il premier della Croazia, Andrej Plenković, è stato particolarmente chiaro nell’illustrare la posizione che l’Unione deve continuare a portare avanti nell’approccio alla guerra russa in Ucraina e sul piano della dimensione esterna: “Siamo all’apice degli standard globali di democrazia, dobbiamo prendere la leadership della difesa e della promozione dei valori fondamentali, soprattutto nei confronti dei nostri vicini”.
    Il primo ministro della Croazia, Andrej Plenković, alla plenaria del Parlamento UE a Bruxelles (22 giugno 2022)
    Considerando lo “stravolgimento dell’ordine internazionale” provocato dall’invasione russa dell’Ucraina, il premier croato ha iniziato la propria analisi dalle cause che l’hanno determinato. “Mosca ha rilevato e interpretato una serie di debolezze dell’Occidente nel contesto generale“, che vanno dall’abbandono dell’Afghanistan “nel modo non più decoroso possibile” alla Brexit, passando dalla svolta politica epocale in Germania e gli appuntamenti elettorali in Francia: “Su scala più grande, la Russia si è comportata nello stesso modo del 2008, quando dopo le Olimpiadi di Pechino ha invaso la Georgia”, in un parallelismo con l’aggressione militare dell’Ucraina iniziata dopo la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi invernali di febbraio, sempre a Pechino.
    Ma nel 2022 “abbiamo assistito a un’enorme mobilitazione internazionale” a favore dell’Ucraina, che come ultimo stadio sta portando i Ventisette – e la Croazia “senza ambiguità” – a sostenere la richiesta di adesione di Kiev all’UE: “C’è una posizione comune sul riconoscimento, che sarà confermata al Consiglio di domani“, ha confermato il premier Plenković. Ma Zagabria è tra gli avanguardisti dell’allargamento dell’Unione: “Sosteniamo anche il conferimento dello status a Moldova e Georgia, perché la scelta di offrire la prospettiva europea è un’evoluzione politica cruciale per l’architettura del nostro continente“, o, in altre parole “una svolta enorme nel dibattito sull’Europa e nei confronti di Paesi che ancora non appartengono all’Unione”.
    E proprio su questo punto il premier della Croazia non ha nascosto che l’UE deve lavorare di più sul piano dell’allargamento ai Balcani Occidentali, in particolare nei confronti della Bosnia ed Erzegovina: “Siamo a favore del riconoscimento dello status di Paese candidato all’adesione anche per Sarajevo, non può essere l’ultima ruota del carro, sarebbe ingiustizia storica“, ha attaccato Plenković. Il tema è delicato e coinvolge direttamente i principi-cardine del processo di adesione all’UE (a cui la Bosnia non si è ancora pienamente allineata). Per questo motivo non sono attesi particolari passi in avanti al vertice UE-Balcani Occidentali in programma a Bruxelles appena prima dell’inizio del Consiglio, anche se la Slovenia – sostenuta da Zagabria – dovrebbe presentare una proposta per allineare Sarajevo a Kiev e Chișinău.
    La spinta in avanti di Zagabria deriva anche dal suo “approccio moderno alla sovranità“, come l’ha definito Plenković, ovvero una politica che mira a “raggiungere i nostri obiettivi nazionali, ma lavorando strettamente insieme ai partner e agli amici europei, superando le difficoltà attraverso la solidarietà comune che ci contraddistingue“. Un approccio che ha permesso a “un Paese che è stato riconosciuto a livello internazionale solo 30 anni fa” di continuare a promuovere “la nostra scelta europea”. È così che la Croazia è riuscita non solo ad aderire all’UE nel 2013, ma anche a “rispettare gli obiettivi economici e finanziari per diventare il 20esimo membro dell’Eurozona“. Dal primo gennaio del 2004 Zagabria riuscirà a realizzare “l’obiettivo di più profonda integrazione”, cioè l’adozione della moneta unica. “Ora attendiamo anche l’ingresso nell’area Schengen”, ha esortato Parlamento e Consiglio il premier croato.
    Nell’ottica della sovranità strategica dell’Unione Europea – un’altra forma di “approccio moderno alla sovranità”, per usare le parole di Plenković – la Croazia può rappresentare “un hub energetico da rafforzare, grazie alla nostra posizione geostrategica”. Zagabria sta potenziando un terminale di gas naturale liquefatto (GNL) “portandolo da 2,9 milioni a 6 milioni di metri cubi, con investimenti che serviranno non solo per la nostra economia, ma potenzialmente anche per Bosnia, Slovenia e Ungheria”. Inoltre, “l’oleodotto nell’Adriatico del Nord potrebbe rifornire anche le raffinerie in Serbia e in Slovacchia”, ha sottolineato il primo ministro croato. Gli investimenti in gasdotti, oleodotti e terminali GNL si iscrivono nella strategia di “diventare indipendenti dalle fonti fossili della Russia, garantendo la sicurezza di approvvigionamento energetico ai nostri cittadini e imprese attraverso reti energetiche europee“, per riprendere a una crisi da cui “nessuno rimarrà immune”, ha concluso il suo intervento il premier Plenković.

    Nel suo intervento alla sessione plenaria del Parlamento Europeo, il primo ministro della Croazia ha esortato l’Unione a “promuovere la leadership anche nella sfera esterna” e a riconoscere lo status di Paese candidato all’adesione a Ucraina, Moldova, Georgia e Bosnia ed Erzegovina

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    Monta il ‘caso Kaliningrad’ a Bruxelles. I leader UE discuteranno delle conseguenze dello stop a export da Mosca

    Bruxelles – Sotto le pesanti minacce del Cremlino di ritorsioni “pratiche, più che diplomatiche” contro la Lituania, si alza l’allarme nell’Unione Europea sulla questione dello stop alle esportazioni di Mosca per le merci colpite dalle sanzioni internazionali dirette verso l’exclave russa di Kaliningrad. Come fanno sapere fonti UE, il caso sarà portato sul tavolo dei Ventisette, che si riuniranno domani (giovedì 23 giugno) a Bruxelles per il Consiglio Europeo.
    Secondo quanto riferito dalle stesse fonti, il transito verso Kaliningrad di carbone, metalli, legno, cementi, tecnologie avanzate e altre merci sottoposte a misure restrittive “è nella lista delle sanzioni”, ma deve essere tenuta in considerazione la “continuità territoriale con la Russia”. Per questo motivo la Commissione Europea è stata invitata a “fornire un aggiornamento delle linee-guida alla Lituania nelle prossime 24 ore”, mentre dovranno essere “studiati tutti i dettagli” prima delle discussioni tra i capi di Stato e di governo dell’UE, anche per quanto riguarda la “chiara” solidarietà alla Lituania sulle minacce russe: “Alcune delegazioni hanno espresso la volontà di non entrare nel merito” del caso, hanno precisato funzionari europei.
    Nel frattempo, dalla Commissione sono arrivate chiare indicazioni su quanto sta succedendo tra la Lituania e l’exclave russa di Kaliningrad (con le merci in transito dalla Bielorussia, alleata di Mosca). Come spiegato in un lungo thread su Twitter dal portavoce dell’esecutivo comunitario, Eric Mamer, la posizione del gabinetto von der Leyen è chiara: “La Lituania sta attuando le misure restrittive dell’Unione Europea imposte all’unanimità alla Russia dal Consiglio negli ultimi mesi”. Non si tratta di un blocco a tutte le merci in arrivo dalla Russia (a cui Kaliningrad appartiene politicamente) – considerato che “l’approvvigionamento dei beni essenziali non è ostacolato” – ma l’applicazione “dopo un breve periodo di transizione” delle sanzioni contro “specifiche esportazioni russe”, ha puntualizzato Mamer.
    Tutto questo significa che la Lituania “deve applicare controlli aggiuntivi sul transito stradale e ferroviario attraverso il territorio dell’UE”, che siano “mirati, proporzionati ed efficaci”. Tali controlli si baseranno su “una gestione intelligente del rischio, per evitare l’evasione delle sanzioni e consentire al contempo il libero transito” dei beni non soggetti alle sanzioni internazionali. Come spiegato dal portavoce, la Commissione rimane “in stretto contatto” con le autorità lituane e fornirà “ulteriori indicazioni man mano che procederemo” con l’analisi della situazione e delle minacce in arrivo dal Cremlino

    In view of the frequent questions related to the transit of goods through Lithuania towards Kaliningrad, here a thread on the Commission’s position. (1/6)
    — Eric Mamer (@MamerEric) June 22, 2022

    Dopo le minacce di ritorsioni dal Cremlino, la questione del divieto di transito sul territorio della Lituania alle merci sottoposte alle sanzioni arriverà sul tavolo del Consiglio. La Commissione precisa che “non è ostacolato l’approvvigionamento di beni essenziali”

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    Serbia e Kosovo hanno raggiunto a Bruxelles un’intesa per l’attuazione degli accordi in ambito energetico

    Bruxelles – Piccoli passi di disgelo sulla strada del dialogo Pristina-Belgrado facilitato dall’UE. I negoziati a livello tecnico condotti oggi (martedì 21 giugno) a Bruxelles tra i capi-negoziatori di Kosovo, Besnik Bislimi, e Serbia, Petar Petković, hanno prodotto un’intesa per una tabella di marcia che fissa obiettivi specifici per l’attuazione degli Accordi sull’energia del 2013 e del 2015, finora attuati solo parzialmente.
    Come rilevato dal Servizio per l’azione esterna dell’UE (SEAE), l’importanza di questa intesa sulla roadmap per l’energia riguarda il fatto che i due accordi siglati da Serbia e Kosovo presentavano “elementi rilevanti ancora in sospeso”. Dopo mesi di tensione tra Pristina e Belgrado, questo primo – parziale – gesto di riavvicinamento è considerato da Bruxelles “un passo avanti nella normalizzazione delle relazioni, a beneficio di tutti i cittadini“, che dovrebbe dare la spinta per “compiere progressi in tutte le altre attività di attuazione ancora in sospeso”. Tra queste c’è anche quella relativa alla creazione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, vale a dire una comunità di municipalità kosovare a maggioranza serba a cui dovrebbe essere garantita una maggiore autonomia, e che al momento Pristina non vuole riconoscere (non rispettando così l’accordo del 2013).

    Good news from the #Brussels-led 🇽🇰 – 🇷🇸 #Dialogue.
    After the year of tensions, we’ve a concrete Action Plan on the implementation of 2013 Energy provisions that will facilitate the energy situation in North of Kosovo. Full trust in @MiroslavLajcak to keep up with the progress. https://t.co/WBV0vPVRFr
    — Viola von Cramon (@ViolavonCramon) June 21, 2022

    L’ottimismo di Bruxelles non è ingiustificato, dal momento in cui l’intesa sull’energia siglata tra Serbia e Kosovo riguarda proprio uno dei punti più controversi del rapporto tra i due Paesi balcanici: la fornitura di elettricità alle municipalità a maggioranza serba in Kosovo. L’accordo garantisce a Elektrosever (società di proprietà serba stabilita in Kosovo e soggetta alla legge kosovara) di operare nelle quattro municipalità settentrionali, “aprendo la strada verso la fine dell’attuale pratica non trasparente e non regolamentata“. Il segretariato della Comunità dell’Energia sarà incaricato di monitorare l’attuazione tecnica dell’accordo commerciale tra Elektrosever e KEDS, la società kosovara di distribuzione dell’energia. Dal 2008 – dopo la dichiarazione d’indipendenza unilaterale del Kosovo dalla Serbia – queste quattro municipalità hanno goduto di un regime non legale di gratuità dalle bollette dell’energia elettrica, il cui deficit è stato coperto fino al 2017 dai contribuenti del resto del Paese e che ha aperto la strada fino all’inizio di quest’anno a un’intensa attività di estrazione di criptovalute.
    Particolare soddisfazione per l’accordo tra Serbia e Kosovo sulla tabella di marcia per l’energia è stata espressa dall’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, al termine di una conversazione telefonica con il premier kosovaro, Albin Kurti, e con il presidente serbo, Aleksandar Vučić: “Si tratta di un grande e importante passo in avanti nel dialogo facilitato dall’UE e porterà a risultati concreti per tutti i cittadini”, ha ribadito Borrell, dicendosi “fiducioso” di continuare a lavorare sui prossimi obiettivi dell’intesa tra i due Paesi.

    Spoke to @avucic and @albinkurti to congratulate them on reaching an agreement on the energy roadmap today.
    This is a big & important step forward in the EU-facilitated Dialogue and will deliver concrete results for all citizens. We look forward to continue working on next steps https://t.co/5r2jS0SX8n
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) June 21, 2022

    Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini

    All’interno del dialogo facilitato dall’Unione Europea, i capi-negoziatori di Pristina e Belgrado hanno concordato la tabella di marcia che specifica anche obblighi e diritti per la fornitura di elettricità alle quattro municipalità settentrionali del Kosovo a maggioranza serba

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    Cos’è la Grande Muraglia Verde contro i cambiamenti climatici in Africa che l’UE finanzierà con il Global Gateway

    Bruxelles – Oltre 8 mila chilometri che attraversano da ovest a est il continente africano, dal Senegal a Gibuti, passando da altri 18 Paesi delle regioni del Sahara, del Sahel e del Corno d’Africa: una Grande Muraglia Verde contro la desertificazione, gli effetti dei cambiamenti climatici e l’insicurezza alimentare. L’Unione Europea sostiene dal primo giorno l’iniziativa per affrontare le più urgenti minacce che incombono in Africa – siccità, carestie, conflitti, migrazioni – e ora, attraverso la sua strategia globale per lo sviluppo di infrastrutture e interconnesioni sostenibili, è pronta a porre “un altro mattone nel muro verde” con finanziamenti e sostegno economico.
    Il progetto approvato dalla Conferenza dei capi di Stato e di governo della Comunità degli Stati del Sahel e del Sahara nel giugno del 2005 in Burkina Faso e nato ufficialmente due anni più tardi si pone l’obiettivo di attraversare per il verso della larghezza l’intero continente africano, da ovest a est, ripristinando 100 milioni di ettari di terreno degradato, sequestrando 250 milioni di tonnellate di carbonio dai terreni e creando 10 milioni di posti di lavoro verdi nelle aree rurali entro la fine del decennio. Una volta completata, la Grande Muraglia Verde sarà “la più grande struttura vivente del pianeta, tre volte più grande della Grande Barriera Corallina”, come si legge nella presentazione del progetto guidato dall’Unione Africana.
    Nel suo sforzo di combattere cambiamenti climatici e desertificazione, la Grande Muraglia Verde contribuirà direttamente anche agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) 2030 delle Nazioni Unite. A 15 anni dal via libera, è stato completato circa il 15 per cento del progetto, con risultati tangibili almeno in 11 Paesi che hanno aderito, dalla Mauritania all’Etiopia, dal Mali al Sudan, passando dalla Nigeria, il Chad, il Niger e l’Eritrea. La barriera verde svolgerà anche un ruolo cruciale nel garantire al continente africano la sicurezza alimentare messa ancora più a rischio dal blocco russo delle esportazioni di cereali dall’Ucraina, e su questo punto l’Unione Europea è toccata direttamente.
    Oltre a mobilitare 600 milioni di euro per rafforzare la produzione locale nei Paesi vulnerabili, in aggiunta al pacchetto già annunciato di 3 miliardi di euro per la sicurezza alimentare globale, la Commissione UE è pronta a mobilitare la sua strategia per le infrastrutture sostenibili Global Gateway per alzare il “baluardo contro l’insicurezza alimentare e il cambiamento climatico”. Lo ha messo in chiaro la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, nel suo intervento di apertura delle Giornate europee dello sviluppo 2022 questa mattina (21 giugno). Spiegando che Bruxelles “aiuterà a completare il progetto di milioni di ettari per un’alimentazione sostenibile nel continente”, la leader della Commissione ha sottolineato con forza che “la soluzione sul medio e lungo termine è la produzione e la resilienza in loco”. Sul breve termine, invece, l’Unione “sta lavorando duro con l’Ucraina per garantire le esportazioni di grano e con i Paesi più vulnerabili nel mondo per combattere la crisi alimentare” determinata dall’attacco del Cremlino “contro la produzione agricola e il commercio di cereali” dai porti nel Mar Nero, “che sta causando l’insicurezza alimentare soprattutto in Africa”.

    Il progetto guidato dall’Unione Africana punta a creare una barriera naturale di 8 mila chilometri contro la desertificazione e per garantire la sicurezza alimentare nella regioni del Sahara e del Sahel. L’UE metterà “un altro mattone nel muro verde” con la sua strategia globale

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    Sefcovic: “Non abbiamo rapporti diretti con le autorità delle Isole Falkland”

    Bruxelles – I liberali in Parlamento europeo ripropongono la questione delle isole Falkland, territori d’oltremare britannici ma rivendicate da sempre dall’Argentina. La Brexit ha messo a nudo tutta una serie di questioni irrisolte, come quella di Gibilterra, e l’europarlamentare di RE, Jordi Cañas, invita la Commissione europea ad affrontarne uno in particolare ora che il Regno Unito non è più membro dell’Ue. Con tanto di interrogazione parlamentare, l’esponente liberale chiede se l’Ue intende avviare trattative commerciali separate con l’arcipelago del sud America visto che l’accordo di recesso non riguarda le Falklands, un aspetto che ha rilanciato le mire argentine e prodotto più di qualche attrito tra Bruxelles e Londra.
    Adesso arriva il nuovo intervento di matrice Ue in una questione ancora molto delicata per il Regno Unito. Cañas ricorda che le isole oggetto di interrogazione parlamentare sono oggetto di contenzioso. “L’Argentina chiede la restituzione del territorio per esercitare un’effettiva sovranità su di esso”, una controversia “riconosciuta dalle Nazioni Unite”.
    Sarà per questo che la risposta fornita da Maros Sefcovic è di quelle che chiarisce che si preferisce la via del quieto vivere. “La Commissione “non ritiene necessario chiedere un’autorizzazione al Consiglio per avviare negoziati con il Regno Unito su un accordo commerciale preferenziale per le Isole Falkland (Malvinas), e non ha avviato alcun dialogo con il Regno Unito al riguardo”, fa sapere il commissario per la Relazioni inter-istituzionali, che di fatto prende una posizione chiara nella mai superata questione delle isole al largo della Patagonia. La risposta, che include in nome in lingua spagnola dello stesso arcipelago, riconosce che effettivamente c’è una questione.
    Allo stesso tempo, però, Sefcovic, nel ricordare che l’accordo commerciale e di cooperazione tra l’Unione europea e la Comunità europea dell’energia atomica, da una parte, e il Regno Unito, dall’altra, “non si applica a nessuno dei territori d’oltremare che intrattengono relazioni speciali con il Regno Unito (compreso il Isole Falkland (Malvinas)”, riconosce dunque il legame con Londra, ed è per questo motivo che “la Commissione non ha rapporti diretti con le autorità delle Isole Falkland“.
    Di fronte a nuove pressioni che arrivano dal Parlamento europeo, in sostanza, l’esecutivo comunitario fa sapere di non essere disposta a intervenire laddove si preferisce mantenere le distanze. “La Commissione non ha un dialogo specifico con il Regno Unito sulle Isole Falkland (Malvinas)“, continua ancora Sefcovic, precisando che del tema si parla con il governo Johnson. ‘Las Malvinas son argentinas’, dicono gli argentini e tutti quelli che sposano questa impostazione. Per la Commissione, però, fa fede Londra, che nel 1982 ha anche combattuto una guerra con l’Argentina per confermare la propria sovranità.

    Il commissario per le Relazioni inter-istituzionali risponde a un’interrogazione in materia e chiarisce la linea dell’esecutivo comunitario sul tema del Territorio d’Oltremare britannico