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    Per l’Europa è l’ora delle scelte e della responsabilità

    Il ciclone Trump sta condizionando come non mai il futuro non solo dell’Unione europea, ma dell’Europa nel suo complesso.Sembra emergere un nuovo potere imperiale, capace con un solo “ordine esecutivo” di sovvertire politiche e assetti consolidati, mutare con un semplice tweet (una volta si sarebbe detto “con un tratto di penna”) alleanze e priorità che fino a pochissimo tempo fa avevano accomunato le due sponde dell’Atlantico.Ed è molto probabile quindi che l’ego dell’inquilino della Casa Bianca si sia ulteriormente rafforzato alla sfilata quasi ininterrotta dei leader europei che, dalla periferia dell’impero, si sono presentati alla sua Corte, chi portando tributi, come le terre rare ucraine, chi la promessa di armi e munizioni per ottenere la benevolenza e magari i favori del principe.Non a caso, l’unica che si è presentata a mani vuote, l’Alta rappresentante per la politica estera europea Kaja Kallas, è stata brutalmente rispedita in Europa senza aver potuto incontrare il suo omologo Marco Rubio, col quale pure aveva appuntamento.Chi è andato, poi, ha suscitato le gelosie di chi è rimasto a casa, in un crescendo che marcherà le tappe del debriefing di questa folle settimana a partire dall’incontro di Londra di domenica 3 marzo promosso dal premier britannico Keir Starmer, per finire al Consiglio europeo straordinario del 6 marzo a Bruxelles e preceduto dalle riunioni delle principali famiglie politiche europee.La posta in gioco è alta, nel contesto più ampio delle altre partite lanciate da Trump contro l’Europa, come la guerra dei dazi o il tentativo di promuovere, né più né meno, un “regime change” che possa vedere al potere più sovranisti possibile.Si tratta da un lato di tornare in partita per una soluzione giusta e duratura del conflitto ucraino e dall’altro di gettare finalmente le basi di quell’”autonomia strategica” europea, invocata da anni in special modo da Emmanuel Macron, ma mai veramente perseguita. Premesso che nessun Paese vorrebbe davvero rompere i legami militari e strategici con gli Stati Uniti, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere che il messaggio che giunge da oltreoceano è molto chiaro: aumentate, e di molto, le vostre spese militari, prendete a cuore seriamente la vostra sicurezza, la vostra capacità di difesa, noi non siamo più disposti a farlo al posto vostro.L’impressione è che Starmer – incalzato in casa da un Nigel Farage ringalluzzito dalla sintonia con gli alfieri del movimento Make America Great Again – Macron e il nuovo arrivato Friedrich Merz abbiamo capito più di altri che è giunto il momento, per dirla con Mario Draghi, di “do something”. Anche Ursula von der Leyen, a dire la verità, lo ha compreso benissimo anche perché sa che per lei le porte della Casa Bianca sono per il momento bandite, riducendo ulteriormente il suo già stretto margine di azione, il che non le impedirà di metter sul tavolo, giovedì prossimo, una serie di proposte anche riguardanti lo scorporo delle spese militari dal calcolo dei parametri del Patto di Stabilità che la faranno comunque stare in partita.Ma è sulla partecipazione o meno ai negoziati sulla fine del conflitto e sugli assetti futuri, dell’Ucraina come dei rapporti con la Russia, che si parlerà in primo luogo, al netto delle anime belle che preferirebbero non sporcarsene proprio le mani o confidare nella resurrezione dell’ONU, dove peraltro la settimana scorsa si è visto di tutto e di più al momento del voto di risoluzioni proprio sull’aggressione russa.È il momento delle scelte, ma anche dell’assunzione di responsabilità, anche a costo di doverne poi assumere le conseguenze. Da questo punto di vista, mentre corre voce che gli Stati Uniti avrebbero già comunicato in modo riservato a tutti i Paesi europei la loro intenzione di passare al Regno Unito la leadership del gruppo di contatto per l’assistenza militare all’Ucraina, la notizia che il governo starebbe studiando l’ipotesi di far salire al 2,5 per cento del Pil le spese militari italiane, costituirebbe un ottimo “entry point” per Giorgia Meloni in vista del confronto che avrà con gli altri leader europei nei prossimi giorni.

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    L’Atlantico più largo e l’embrione di una nuova Europa

    Con l’avvento di Giovani XXIII al soglio pontificio, Giovanni Spadolini titolò un suo celebre editoriale “Il Tevere più largo” a significare il prevedibile cambio di paradigma nel rapporto Stato – Chiesa dopo il lungo regno di Pio XII.Inconsapevolmente, Trump ha ripreso il concetto a suo conto, dichiarando che poiché “un vasto oceano” separa gli Stati Uniti dall’Europa il conflitto ucraino è di maggior rilevanza per gli europei che per gli americani, in linea con l’atteggiamento ostile che Trump ha mantenuto sin dall’inizio della sua seconda presidenza e in totale contrasto con lo spirito, se non la lettera, dell’Alleanza Atlantica.Ma tanto è. E così, dopo un’iniziale sbandamento, si stanno moltiplicando in questi giorni le iniziative per far fronte al ciclone Trump, non solo per la sua sostanziale adesione alle tesi russe sull’origine e le responsabilità della guerra in Ucraina e la sua durata, ma anche per il suo obiettivo ultimo, quello di favorire l’emergere di partiti e movimenti “sovranisti” che condividono le parole d’ordine della nuova e impetuosa dirigenza americana e che possano sostituire le attuali “elites” che hanno portato l’Europa alla sua “deriva politica e valoriale”.Tra i primi a muoversi, e provare almeno a sparigliare senza aspettare oltre, sono stati Macron e il premier britannico Starmer, che hanno messo sul tavolo la prospettiva di garantire l’invio di forze militari di “peacekeeping” a condizione che gli Usa continuino a garantire un backstop e che gli europei siano effettivamente coinvolti nelle trattative per una soluzione al conflitto, nonché Antonio Costa che ha pazientemente tessuto i fili per la convocazione di un Consiglio europeo straordinario giovedì 6 marzo, mentre va dato atto a Ursula von der Leyen di aver preso la buona decisione di sottolineare il sostegno UE all’Ucraina trasferendo nel terzo anniversario dell’invasione russa tutta la Commissione a Kiev per un “mini-vertice” con Zelensky in presenza di Pedro Sanchez e altri leader di paesi europei.Il tempo stringe: da qui l’idea, impensabile solo pochi mesi fa, di un fondo comune UE-Regno Unito per la spesa legata ad armamenti e sicurezza europea, definito dal ministro delle Finanze polacco Andrzej Domanski una “rearmament bank”, e di cui i paesi interessati dovrebbero discutere a margine della riunione dei ministri delle finanze del G20 questa settimana a Città del Capo, per preparare il terreno all’incontro dei leader europei a Londra in programma domenica 2 marzo.Al di là delle technicality, il solo fatto che si prenda in esame un simile progetto congiunto la dice lunga sulla volontà di reagire al brusco e repentino incalzare degli eventi. Starmer ha peraltro annunciato l’aumento della spesa militare al 2,5 per cento del PIL entro il 2027, con la possibilità di salire al 3 per cento già nel 2030.Quanto all’incontro dei leader europei di giovedì 6 marzo a Bruxelles, all’ordine del giorno Costa ha inserito la possibile nomina di un inviato speciale Ue per l’Ucraina, facendo propria la proposta avanzata nel corso della conferenza di Monaco sulla sicurezza dal presidente finlandese Alexandre Stubb e dal premier croato Andrej Plenkovic. Se, in questa fase così delicata e convulsa, si decidesse di affidare a una personalità – necessariamente di alto livello – il “cellulare” dell’Unione europea e dei suoi stati membri per parlare a una sola voce del futuro dell’Ucraina con le altre parti coinvolte, questo costituirebbe certamente un passaggio fondamentale, mostrando un’unità di intenti sinora piuttosto labile. Sarà interessante in proposito l’atteggiamento della Germania, nella situazione transeunte in cui si trova, e che naturalmente resta al centro della politica europea.E sarà interessante capire chi di sufficientemente autorevole potrà rivestire un tal ruolo, per le numerose implicazioni economico-finanziarie, oltre che militari e geo-politiche, che il dossier Ucraina comporta.

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    Sull’Ucraina, l’Europa non ha ancora reagito alle mosse di Trump

    Bruxelles – Donald Trump è in carica da appena un mese e ha già sconvolto la politica internazionale. Soprattutto sul dossier della guerra in Ucraina, ha colto alla sprovvista gli alleati europei, escludendoli di fatto dalle trattative per la fine delle ostilità (ma scaricando su di loro la responsabilità del mantenimento della pace). Nel Vecchio continente lo smarrimento è totale.Con timidezza, alcune voci iniziano a levarsi in modo disordinato. Tuttavia non c’è ancora una vera strategia per reagire alle picconate che il presidente statunitense sta sferrando all’impazzata: non solo agli ultimi tre anni di politica estera a stelle e strisce, ma allo stesso ordine internazionale che Washington aveva costruito dopo la Seconda guerra mondiale.Scontro frontale Trump-ZelenskyIn effetti, la gran parte del lavoro Trump l’ha fatta nel giro di una sola settimana. Cioè da quando ha chiamato al telefono l’omologo russo Vladimir Putin senza coordinarsi né col leader ucraino Volodymyr Zelensky né con gli alleati europei (o presunti tali). Sconfessione su tutta la linea dell’approccio del suo predecessore Joe Biden: riabilitazione della Russia dopo tre anni di isolamento diplomatico e porta in faccia all’adesione di Kiev alla Nato, con annessa minaccia di chiudere i rubinetti degli aiuti militari al Paese invaso.L’allora presidente-eletto Donald Trump (sinistra) e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si incontrano alla cerimonia di riapertura della cattedrale di Notre Dame a Parigi, il 7 dicembre 2024 (foto: Ludovic Marin/Afp)Negli ultimi giorni, le relazioni tra la Casa Bianca e la leadership ucraina sono precipitate. Un’escalation verbale che è culminata con l’uomo più potente del mondo (libero e non) che dà del “dittatore” al presidente ucraino, mettendone in dubbio la legittimità democratica. Quest’ultimo, eletto prima della guerra, non è sostituibile fintanto che vige la legge marziale (come detta la Costituzione ucraina). A dargli lezioni di democrazia, l’istigatore dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, scaturito proprio dall’incapacità di accettare l’esito di un’elezione assolutamente democratica e legittima. Del resto, c’è chi sostiene che la ruggine tra i due viene da lontano, dai tempi in cui Trump finì sotto impeachment alla Camera dei deputati.Ma il presidente statunitense non è certo l’unico a trattare in maniera disinvolta quello che dovrebbe essere un alleato. Dopo che Zelensky si è permesso di controbattere alle sparate dei giorni scorsi, il consigliere per la Sicurezza nazionale di Washington Michael Waltz ha suggerito agli ucraini di “abbassare i toni e firmare l’accordo” sulle terre rare proposto dal suo capo (il quale ha preteso i diritti di sfruttamento sul 50 per cento delle risorse minerarie dell’ex repubblica sovietica), definendolo “la migliore” garanzia di sicurezza per Kiev. Il leader ucraino aveva già declinato l’offerta sostenendo che non può “vendere” il proprio Paese.Una nuova Jalta?Presa in mezzo al fuoco amico è rimasta anche l’Europa. Le prove tecniche di disgelo tra Washington e Mosca andate in scena a Riad hanno gelato, invece, le cancellerie del Vecchio continente. Non solo perché, dopo tre anni in cui hanno ripetuto che non si decide nulla sull’Ucraina senza di loro – e senza Kiev – sono effettivamente state messe all’angolo da Trump, che considera Putin il suo unico interlocutore.Ma anche perché, rendendo esplicito il disimpegno degli Stati Uniti dall’Europa, il tycoon ha sostanzialmente privato l’intero continente del principale garante della sua sicurezza. La cui architettura andrà ora ridisegnata da capo, per la prima volta dal 1945. Una nuova Jalta, 80 anni dopo l’originale. Con la differenza che, stavolta, l’Europa non ha nessun Winston Churchill da mandare al tavolo.La debole risposta europeaE proprio l’iconico leader britannico è stato tirato in ballo da uno dei pochi che, seppur con toni cauti e circostanziati, hanno avuto il coraggio di solidarizzare con Zelensky. “Un leader democraticamente eletto“, lo ha descritto Keir Starmer, l’attuale inquilino di Downing Street, secondo cui è “perfettamente ragionevole” sospendere le elezioni in tempo di guerra, come fatto appunto da Churchill.Il primo ministro britannico Keir Starmer (foto via Imagoeconomica)Il primo ministro volerà verso la capitale Usa “la prossima settimana”, per cercare di riaprire un canale di dialogo con la Casa Bianca. E per mettere sul tavolo l’ipotesi di una forza d’interposizione anglo-francese in Ucraina per monitorare la linea di un eventuale cessate il fuoco a condizione che venga fornita una “copertura americana”. A Washington dovrebbe recarsi anche Emmanuel Macron, che negli scorsi giorni ha organizzato in fretta e furia nella capitale transalpina due vertici non ufficiali tra leader europei (uno lunedì e uno ieri) per coordinare una reazione al terremoto Trump. Obiettivo mancato.Ieri sera, era stato il cancelliere tedesco uscente Olaf Scholz a bollare come “sbagliate e pericolose” le insinuazioni del presidente Usa, mentre anche altri leader scandinavi hanno preso le difese di Zelensky (la premier danese Mette Frederiksen, quello svedese Ulf Kristersson e quello norvegese Jonas Gahr Støre). Assordante, invece, il silenzio di Giorgia Meloni, costretta ad una difficile opera di equilibrismo tra il convinto sostegno all’Ucraina (che le ha permesso di rendersi presentabile in Europa negli ultimi anni) e il ruolo di “ponte e pontiera” tra le due sponde dell’Atlantico, reclamato per sé dalla premier in virtù della vicinanza politica con Trump.Territorio inesploratoPer il momento, il Segretario generale della Nato Mark Rutte getta acqua sul fuoco. L’ex premier olandese si è detto “un po’ irritato” dell’atteggiamento dei leader europei che si sono lamentati per non essere stati coinvolti nei negoziati. Il suo suggerimento: “Organizzatevi, trovatevi a un tavolo, qualunque cosa questo tavolo comporti esattamente”. Il plauso è per l’iniziativa dell’Eliseo. “L’importante”, dice, “è che in qualche modo in Europa si discuta di come organizzare le garanzie di sicurezza in Ucraina”. Rutte ammette che i tempi non saranno brevi, ma è “felice che almeno si sia smesso di piagnucolare e si sia iniziato ad agire, a mettersi d’accordo“. Un inizio poco promettente, ben distante dal genere di “elettroshock” auspicato dal presidente francese solo pochi giorni fa.Stiamo entrando in un territorio inesplorato. E nessuno sa come muoversi. Manca a Bruxelles una figura dalla statura politica sufficientemente alta per confrontarsi con Trump. L’Alta rappresentante Kaja Kallas, cui pure i Trattati sembrerebbero affidare un ruolo del genere, è ammutolita da giorni sulla questione. Ancora più scandaloso se si considera che era stata nominata in quanto “falco” sull’Ucraina.Il Segretario generale della Nato Mark Rutte alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, il 14 febbraio 2025 (foto: Nato via Imagoeconomica)Il presidente del Consiglio europeo António Costa sarebbe in contatto costante con i capi di Stato e di governo dei Ventisette per organizzare un summit d’emergenza (il prossimo sarebbe in calendario per il 20 marzo). Stando a quanto riportato da funzionari comunitari, ne verrà convocato uno solo quando ci sarà una ragionevole sicurezza di ottenere dei risultati (e tanti auguri a mettere d’accordo anche Ungheria e Slovacchia, che hanno peraltro lamentato l’esclusone dai vertici di Parigi).A livello Ue, sta venendo messo a punto il 16esimo pacchetto di sanzioni contro il Cremlino, mentre la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock ha annunciato un piano monstre di aiuti militari per l’Ucraina che varrebbe addirittura 700 miliardi di euro, una cifra mai sborsata prima d’ora né da Washington né da Bruxelles (né dalle due insieme).Kiev al centro dell’azioneMa per il momento è un liberi tutti. Oltre alle visite di Starmer e Macron negli Stati Uniti, ci sarà quella di Costa e del capo dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen a Kiev il prossimo 24 febbraio, per celebrare il terzo anniversario dell’invasione russa su larga scala. Dalla Commissione ci si limita a osservare che “Zelensky è stato legittimamente eletto in elezioni libere, corrette e democratiche” e che “l’Ucraina è una democrazia, la Russia di Putin no“. Ovvietà, si direbbe, ma di questi tempi meglio essere sicuri.Nella capitale ucraina, intanto, è atterrato ieri Keith Kellogg. Sulla carta, è l’inviato speciale della Casa Bianca per la crisi russo-ucraina, ma sembra che Trump lo stia mettendo in secondo piano rispetto ad un altro inviato speciale (nonché suo compagno di golf), Steve Witkoff, che però si dovrebbe occupare di Medio Oriente. I maligni dicono che Kellogg sarebbe stato tenuto alla larga in quanto inviso ai russi. Witkoff è l’artefice dello storico accordo tra Israele e Hamas di metà gennaio, e pare avrà un ruolo cruciale anche nei negoziati col Cremlino, che non a caso sono iniziati proprio in Arabia Saudita.Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (sinistra) accoglie a Kiev l’inviato speciale per la crisi russo-ucraina degli Stati Uniti, Keith Kellogg, il 20 febbraio 2025 (foto: Sergei Supinsky/Afp)“Ho affermato la volontà dell’Ucraina di raggiungere la pace attraverso la forza e la nostra visione per i passi necessari”, ha commentato il ministro degli Esteri di Kiev Andrii Sybiha dopo aver incontrato Kellogg. Che in questo momento sta ancora parlando con Zelensky, mentre è stata annullata la conferenza stampa congiunta inizialmente prevista al termine del bilaterale. A inizio settimana, il presidente ucraino aveva incontrato ad Ankara il suo omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, che vorrebbe proporsi come mediatore al posto dei sauditi.

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    L’Ue sul filo del rasoio

    Di Ian LesserL’Europa non è stata colta di sorpresa. I circoli politici all’interno e all’esterno dell’Ue si stanno preparando da tempo per una potenziale vittoria di Donald Trump.La preoccupazione attuale, tuttavia, è diversa da quella del 2016, quando l’attenzione era rivolta alla gestione di Trump come personalità politica. La questione persiste, ma ora ci sono altre questioni più preoccupanti.In primo luogo, è probabile che le differenze commerciali e regolamentari esistenti nell’Atlantico impallidiscano di fronte alle sfide poste dalle tariffe proposte da Trump. C’è la prospettiva di una guerra commerciale aperta degli Stati Uniti con la Cina, con implicazioni negative per l’Europa. Con ogni probabilità, questo protezionismo si estenderà all’UE. Il ritorno di Trump alimenterà il nazionalismo economico, già in crescita su entrambe le sponde dell’Atlantico. L’Europa, già alle prese con una crescita lenta e una competitività in calo, non ha carte forti in questo gioco.In secondo luogo, Trump farà sicuramente molta più pressione sull’Europa per quanto riguarda la condivisione degli oneri della difesa. È improbabile che si concretizzino gli scenari più estremi di un ritiro americano dalla Nato o di un completo disimpegno dalla sicurezza europea. Ma la prospettiva di un più rapido allontanamento degli Stati Uniti dall’Europa in termini di sicurezza è scoraggiante anche per coloro che vedono con favore una maggiore autonomia strategica europea. Questo obiettivo, tuttavia, rimane in gran parte aspirazionale. La capacità dell’Europa di compensare i cambiamenti nella posizione e nella credibilità della difesa americana è lontana, nella migliore delle ipotesi, molti anni. Su una serie di questioni di politica internazionale vicine agli interessi europei, dall’Iran alla sicurezza energetica, Bruxelles e Washington non saranno sulla stessa pagina.In terzo luogo, il contrasto con gli anni di Biden sarà probabilmente più pronunciato nell’atteggiamento di Washington verso l’Ue stessa. L’amministrazione uscente vedeva il blocco come un interlocutore chiave su una serie di questioni di politica internazionale, non solo sul commercio. C’è stata una relazione particolarmente stretta tra la Casa Bianca e la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il suo gabinetto. Si tratta di un fatto insolito. Le precedenti amministrazioni statunitensi, indipendentemente dal partito, erano generalmente meno entusiaste, preferendo un impegno bilaterale con i principali alleati europei. Una seconda amministrazione Trump probabilmente inquadrerà le relazioni con l’Europa in termini bilaterali, con i singoli Stati e i singoli leader, alcuni dei quali saranno abbastanza a loro agio con l’esito delle elezioni statunitensi. Bruxelles potrebbe essere emarginata.Questo commento è stato originariamente pubblicato sul sito del German Marshall Fund of the United States.

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    Da progetto di pace a promotrice di guerra, l’Ue assiste anche l’esercito di Albania e Benin

    Bruxelles – C’era una volta l’Unione europea progetto di pace, che proprio per questo venne insignita del premio Nobel appositamente dedicato. Storia di tempi non lontani, eppur remoti. La bella Ue di una volta non c’è più, smarrita e cambiata sotto i colpi di un presente incerto, molto diverso, tanto diverso anche per quel progetto di pace di cui cambia toni, narrativa e retorica. Per garantire la pace servono le armi, e mentre l’Europa rilancia l’industria bellica definita industria della difesa, arma il resto del mondo. Questo indicano i finanziamenti a Benin e Albania approvati dal Consiglio dell’Ue.Due decisioni separate e distinte, ma uguali nella natura. Con un assegno da 5 milioni di euro a favore del Benin, lo strumento per la pace dell’Ue, “le forze armate del Benin saranno dotate di un aereo militare multiuso“, fa sapere il Consiglio. Mentre con l’aiuto economico da 13 milioni di euro per l’Albania “le forze terrestri albanesi riceveranno veicoli corazzati leggeri multiuso“. In entrambi i casi si offre anche disponibilità per addestramento e formazione tecnica. Prepararsi al peggio, insomma, nel non immediato parallelismo con uno degli slogan e imperativi del mondo orwelliano: “la guerra è pace”. Analogie non immediate anche perché la versione a dodici stelle è che si vogliono sicurezza e difesa, non guerra, ma le sfumature lessicali solo in parte nascondono un’Europa sempre più in versione 1984 che 2024.Ma nell’anno in corso sempre più venti di guerra soffiano sul vecchio continente, deciso ad arginare con fermezza quelle crisi su cui l’Europa proprio esente da colpe non è. I leader dell’Ue non hanno saputo (o voluto) ascoltare gli avvertimenti che arrivavano dalla Russia, e non hanno saputo (o voluto) risolvere per davvero, in modo credibile e concreto, al netto di parole e dichiarazioni di circostanza, una questione senza fine come quella arabo-israeliana. Nel mondo improvvisamente cambiato il progetto di pace non serve più, o più semplicemente non basta più. Avanti con fornitura di armi, munizioni e nuovi comandanti per le forze armate in giro per il mondo.Oltre ai nuovi finanziamenti per Benin e Albania, gli ultimi della serie, operazioni militari Ue con tanto di contributo economico, risultano attive in Mozambico, Repubblica centrafricana, Somalia, Togo, Ghana e Costa d’avorio, Bosnia-Erzegovina e Ucraina (gestita in Belgio). E’ la nuova Unione europea, quella del nuovo corso. L’Ue raccontata fino a poco tempo fa non c’è più. C’era una volta. Adesso è un’altra storia.

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    L’estrema destra europea ha una visione distorta dei rapporti tra Unione Europea e Serbia (e Russia)

    Bruxelles – Viktor Orbán non è solo. Il più stretto alleato della Serbia di Aleksandar Vučić, il primo ministro che sta creando più problemi per l’unità dei Ventisette – e lo stesso che sta mettendo i bastoni fra le ruote di Bruxelles all’introduzione di misure contro Belgrado per il non rispetto degli impegni assunti per la normalizzazione dei rapporti con il Kosovo – sta trovando buona compagnia nello schieramento di estrema destra al Parlamento Europeo. Destabilizzazione, ingerenze, tentativi di ricreare “una nuova Maidan”. Sono le accuse lanciate da alcuni esponenti del gruppo Identità e Democrazia (Id) all’indirizzo non della Russia o della Cina, ma contro l’Unione Europea, dopo il risultato quantomeno controverso delle elezioni anticipate del 17 dicembre scorso in Serbia.(credits: Andrej Isakovic / Afp)Le insinuazioni avanzate in particolare da due eurodeputati francesi di Rassemblement National sono state senza dubbio la nota più frizzante del dibattito di questa settimana alla sessione plenaria del Parlamento Ue a Strasburgo a proposito della situazione in Serbia dopo le elezioni di dicembre (il voto sulla risoluzione è previsto per alla sessione di febbraio). Tutti i gruppi politici, compreso quello dei Conservatori e Riformisti Europei, si sono ritrovati d’accordo sul fatto che si sono registrate “gravi irregolarità e compravendita di voti” – come affermato dal croato Ladislav Ilčić (Ecr), anche se animato da ragioni puramente nazionalistiche – e che “i cittadini serbi meritano riforme europee e risultati concreti” (Vladimír Bilčík, Ppe), con critiche poco velate a Commissione e Consiglio sulla “reazione molto morbida” per la necessità di “pragmatismo a sostegno della stabilocrazia nel Paese, che però non porta ai risultati previsti” (Klemen Grošelj, Renew Europe). Tutti eccetto gli eurodeputati francesi intervenuti nell’emiciclo di Strasburgo a nome del gruppo Id, che hanno espresso il proprio dissenso con parole più controverse del previsto.“L’ideologia motiva questo dibattito, qual è il vostro problema? La vittoria di Vučić e la sconfitta dei vostri alleati politici di opposizione? È per questo che l’Ue cerca di destabilizzare la Serbia?“, ha attaccato il francese Jean-Lin Lacapelle (Id), accusando le istituzioni comunitarie di “ingerenze nella politica serba, perché ogni Paese è sovrano e indipendente, fino a quando le sue scelte democratiche non vi piacciono”. Ancora più esplicito il connazionale Thierry Mariani: “Sono preoccupato perché questa regione ha bisogno di riappacificazione, mentre questo dibattito farà sì che l’opposizione continui a smuovere le acque”. Fino alla chiusura più sibillina: “Vorrei capire qual è la ragione dietro questa discussione, stimolare una seconda Maidan?” Il riferimento è a uno dei fattori che ha scatenato la crisi tra la Russia e l’Ucraina nel 2013, e che per Kiev e Bruxelles è considerato il primo momento di espressione della volontà popolare di seguire la prospettiva europea per il Paese oggi invaso dall’esercito russo.Le parole dei due eurodeputati di estrema destra – e in particolare il riferimento alla “seconda Maidan” con accezione negativa – evidenziano non solo la visione distorta dei rapporti tra Ue e Serbia secondo una parte specifica dello spettro politico europeo, ma anche una strizzata d’occhio alla Russia di Vladimir Putin che non è mai stata rinnegata (ma diventata solo meno esplicita dopo lo scoppio della guerra in Ucraina). Parlare di “destabilizzazione” del sistema di potere del presidente Vučić da parte delle istituzioni comunitarie è fuorviante per due ragioni. In primis perché non fattuale: la Serbia è un Paese candidato dall’adesione all’Unione Europea, i cui impegni sanciti dai Trattati Ue (compreso il rispetto dei principi dello Stato di diritto messo in discussione dallo svolgimento delle ultime elezioni) sono stati sottoscritti volontariamente da Belgrado. In secondo luogo perché – ammesso e non concesso che a Bruxelles ci sia un disegno di pressioni illecite contro la Serbia – i meccanismi democratici dell’Unione consentono al premier Orbán di opporsi in sede di Consiglio all’introduzione delle misure “temporanee e reversibili” in discussione da mesi a Bruxelles (le stesse che invece sono in atto nei confronti del Kosovo) nonostante il via libera di tutti gli altri Paesi membri.Ancora più preoccupante è la visione dei rapporti alla luce del ruolo della Russia nella regione. In particolare va considerato il fatto che la Serbia di Vučić è l’unico partner dell’Unione che rivendica il non-allineamento alla Politica estera e di sicurezza comune, soprattutto sulle sanzioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina (nemmeno a livello di principio) e che fino a oggi non ha mai voluto allontanarsi eccessivamente dal legame con il Cremlino. Al contrario, nonostante riceverà un pacchetto di sostegno energetico da Bruxelles pari a 165 milioni di euro, nel maggio 2022 Vučić ha siglato un’intesa con Putin per tre anni di gas russo a condizioni favorevoli. Per il Cremlino la Serbia è una sorta di testa di ponte nei Balcani Occidentali, tanto che Bruxelles continua a sollevare preoccupazioni sulla possibile destabilizzazione russa della regione dopo l’attacco armato all’Ucraina. A proposito di Ucraina, getta una luce inquietante il parallelismo fatto dai due eurodeputati di Rassemblement National tra il supporto di Bruxelles alle “legittime manifestazioni di piazza” a Belgrado (come le ha definite il commissario per la Giustizia, Didier Reynders) e a quelle del 2013 di Euromaidan. La critica nemmeno troppo velata di sostenere le richieste dei manifestanti – serbi oggi come ucraini allora – di maggiore trasparenza elettorale e contro le violazioni dello Stato di diritto è una potenziale cassa di risonanza della propaganda del Cremlino secondo cui le proteste popolari europeiste sono frutto di manipolazione delle potenze occidentali e richiedono un intervento più o meno diretto della Russia.Le tensioni in Serbia dopo le elezioni anticipateDa sinistra: il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán (credits: Andrej Isakovic / Afp)Nonostante le grandi aspettative della vigilia da parte della coalizione ‘La Serbia contro la violenza’, il Partito Progressista Serbo si è imposto nuovamente alle elezioni anticipate con il 46,67 per cento dei voti, staccando di 23 punti percentuali proprio l’opposizione unita che si è piazzata al secondo posto. A fronte delle frodi e delle numerose azioni illecite alle urne, migliaia di persone sono scese in piazza rispondendo all’appello dei partiti e movimenti che avevano tradotto in istanze politiche (europeiste) le proteste di piazza contro il clima che ha portato alle sparatorie di maggio. Anche la missione di osservazione elettorale guidata dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) – a cui hanno partecipato anche alcuni membri del Parlamento Europeo – ha rilevato “l’uso improprio di risorse pubbliche, la mancanza di separazione tra le funzioni ufficiali e le attività di campagna elettorale, nonché intimidazioni e pressioni sugli elettori, compresi casi di acquisto di voti”. Dopo quasi un mese dalle elezioni anticipate continuano le proteste contro i brogli del partito al potere, in particolare a Belgrado.Proprio nella capitale la situazione rimane ancora tesa e non è da escludere che si possano ripetere le elezioni amministrative la cui vittoria è stata rivendicata dal Partito Progressista Serbo: il partito guidato a Belgrado dal filo-russo Aleksandar Šapić ha conquistato 49 seggi (su 110), che però non sarebbero abbastanza per controllare l’Assemblea cittadina solo con il supporto del partito nazionalista di estrema destra russofila ‘Noi, voce del popolo’ di Branimir Nestorović. La coalizione ‘La Serbia contro la violenza’ ha denunciato che oltre 40 mila persone arrivate dalla Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina) hanno votato a Belgrado senza essere formalmente registrate come residenti e ha chiesto l’annullamento del risultato delle urne, parlando esplicitamente di “furto elettorale”. La stessa denuncia è arrivata dall’eurodeputata e membro della delegazione parlamentare Viola von Cramon-Taubadel (Verdi/Ale): “Abbiamo assistito a casi di trasporto organizzato di elettori dalla Republika Srpska e di intimidazione dei votanti”.Le proteste di piazza dell’opposizione serba a Belgrado (credits: Miodrag Sovilj / Afp)A questo si aggiunge il caso che Bruxelles “sta seguendo da vicino” (parole della dalla portavoce della Commissione Ue responsabile per la politica di vicinato e l’allargamento, Ana Pisonero) sulle violenze subite dal leader del Partito Repubblicano di opposizione, Nikola Sandulović, prelevato dai servizi segreti serbi il 3 gennaio e duramente picchiato durante la detenzione per aver reso omaggio alla tomba di Adem Jashari, uno dei fondatori dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uçk). Membri dell’Agenzia serba per le informazioni sulla sicurezza (Bia) avrebbero sequestrato e torturato Sandulović, poi detenuto nella prigione centrale di Belgrado senza accesso a cure mediche indipendenti. Tra le persone responsabili per le violenze ci sarebbe anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska (il principale partito che rappresenta la minoranza serba in Kosovo e controllato da vicino dal presidente Vučić) che tra l’altro ha già ammesso di aver organizzato l’attacco armato nel nord del Kosovo a fine settembre dello scorso anno. L’ex-capo dell’intelligence serba (dimessosi due mesi fa), Aleksandar Vulin, ha riferito di aver personalmente ordinato l’arresto di Sandulović, ma l’avvocato della difesa ha puntato il dito contro il presidente Vučić.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Un progetto geopolitico minato dall’interno. Perché l’Ue deve cambiare passo sull’allargamento

    Bruxelles – Il futuro è un passo, ma in mezzo c’è l’ostacolo di un Consiglio Europeo a oggi ostaggio delle decisioni di un solo leader, il premier ungherese Viktor Orbán. La situazione evidenzia non solo l’importanza dell’allargamento Ue sul piano geostrategico – in particolare dopo lo scoppio della guerra russa in Ucraina – ma soprattutto le difficoltà attuali dell’Unione di portare a compimento le promesse decennali ai Paesi candidati realizzando contemporaneamente una riforma interna per non snaturare l’Unione con il potenziale ingresso di 10 nuovi Stati membri nel futuro a medio/lungo termine.La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (8 novembre 2023)La necessità di focalizzarsi con più serietà sulla questione dell’allargamento Ue è emersa con urgenza dopo i fatti del 24 febbraio 2022 e con le richieste di Ucraina, Moldova e Georgia di aderire all’Unione. L’offensiva russa ha dimostrato i rischi di un continente in balia di un progetto imperialista da parte del Cremlino, che sarebbe interessato sia all’annessione degli ex-Paesi sovietici, sia alla destabilizzazione con una guerra ibrida a quello che rappresenta da sempre il buco nero dell’integrazione europea: i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia), che in varie forme e a diversi stadi si sono tutti già incamminati da anni sulla strada dell’adesione all’Ue. In altre parole, il progetto di “pace, democrazia e stabilità sul continente” rappresentato dall’Unione Europea – come continuano a ripetere tutti i leader delle istituzioni comunitarie – non può concretizzarsi se i Paesi che hanno fatto richiesta di aderire continueranno a essere ignorati, dal momento in cui la frustrazione di politici e cittadini (a stragrande maggioranza europeisti) li spingerà a cercare supporto in regimi autocratici come quello russo. Il mancato allineamento della Serbia alle misure restrittive contro Mosca e il secessionismo serbo-bosniaco contro Sarajevo sono stati un chiaro campanello d’allarme.C’è da riconoscere che la spinta all’allargamento Ue non è solo una questione di rispetto delle promesse o anti-Russia, ma è diventata anche una vera e propria priorità dell’Unione sul piano politico ed economico. Lo dimostra in primis la serie di pacchetti da miliardi di euro in investimenti diretti e indiretti a sostegno di tutti i partner più stretti – da quelli per la sopravvivenza finanziaria dell’Ucraina a quello di crescita economica per i Balcani Occidentali, oltre al supporto contro la crisi energetica. E poi non va dimenticato il nuovo obiettivo al 2030 annunciato a fine agosto dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, che ha fornito (anche in modo controverso) una data entro cui tutti siano pronti per l’allargamento Ue, dentro e fuori l’Unione. Seppur contestando implicitamente la definizione di un obiettivo temporale in un processo “basato sul merito”, anche la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha fatto un passo in avanti nel suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione a settembre, collegando in modo esplicito il processo di allargamento Ue alla riforma dei Trattati su cui si fonda l’Ue.Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel (28 agosto 2023)È qui che si entra nel ventre molle dell’Unione, quello di un processo che rigeneri l’Unione rendendola all’altezza delle sfide future. Sulla base di una proposta franco-tedesca particolarmente articolata, i 27 leader Ue hanno iniziato al Consiglio informale di Granada a discutere di un’agenda strategica in tre punti – priorità future, sistema decisionale e modalità di finanziamento comune – che inevitabilmente tiene insieme allargamento Ue e riforma del Trattati. Oltre alle discussioni servirebbe ora un’azione urgente, perché le richieste di adesione sono già sul tavolo e richiedono una risposta immediata. Tra le altre cose, la riforma interna non potrebbe prescindere dall’abbandono dell’unanimità e del diritto di veto in Consiglio, perché non è immaginabile un’Unione a 32 (con i candidati che hanno già avviato i negoziati di adesione), a 35 (con anche quelli che hanno ricevuto lo status di Paese candidato) o 37 (con tutti dentro, compresi Kosovo e Georgia), in cui un solo Paese può tenere in stallo tutto il sistema decisionale comune.La riforma dovrà però essere concordata da tutti gli attuali membri dell’Unione ed è questo il punto in cui al momento tutto il palco rischia di cadere. Per questioni di fondi da redistribuire tra più Paesi (soprattutto quelli di coesione e dell’agricoltura) e consapevolezza che senza il diritto di veto il peso di ogni singola capitale vale meno (in altri termini, verrebbe meno la possibilità di ‘ricattare’ Bruxelles per ottenere qualcosa in cambio dell’unanimità), alcuni tra i Ventisette non mostrano alcun interesse ad allinearsi a questa ambizione comunitaria, da cui dipende lo stesso processo di allargamento Ue. In particolare l’Ungheria di Orbán ha scelto una posizione apertamente ostruzionista nei confronti dell’avvio dei negoziati di adesione all’Ucraina e al proseguo del finanziamento a Kiev, come una sorta di vendetta per il congelamento di quasi 30 miliardi di euro in fondi Ue per il mancato rispetto dello Stato di diritto. Il rischio concreto ora è che non solo non arrivi il via libera del Consiglio Europeo in programma domani e dopodomani (14-15 dicembre) ai negoziati con l’Ucraina, ma che tutto il processo di allargamento Ue si incagli nella settimana più decisiva degli ultimi anni.A che punto è l’allargamento UeSui sei Paesi dei Balcani Occidentali che hanno iniziato il lungo percorso per l’adesione Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre dello scorso anno anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione, mentre Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue – Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia – continuano a non riconoscerlo come Stato sovrano.Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio 2022 dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada. Il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha approvato la linea tracciata dalla Commissione nella sua raccomandazione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Nel Pacchetto Allargamento Ue 2023 la Commissione ha raccomandato al Consiglio di avviare i negoziati di adesione con Ucraina e Moldova – anche con la Bosnia ed Erzegovina quando sarà raggiunta la conformità ai criteri di adesione – e di concedere alla Georgia lo status di Paese candidato.I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è stato affrontato in una relazione strategica apposita a Bruxelles.Come si aderisce all’Unione EuropeaIl processo di allargamento Ue inizia con la presentazione da parte di uno Stato extra-Ue della domanda formale di candidatura all’adesione, che deve essere presentata alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Per l’adesione all’Unione è necessario prima di tutto superare l’esame dei criteri di Copenaghen (stabiliti in occasione del Consiglio Europeo nella capitale danese nel 1993 e rafforzati con l’appuntamento dei leader Ue a Madrid due anni più tardi). Questi criteri si dividono in tre gruppi di richieste basilari che l’Unione rivolge al Paese che ha fatto richiesta di adesione: Stato di diritto e istituzioni democratiche (inclusi il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze), economia di mercato stabile (capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale) e rispetto degli obblighi che ne derivano (attuare efficacemente il corpo del diritto comunitario e soddisfare gli obiettivi dell’Unione politica, economica e monetaria).Ottenuto il parere positivo della Commissione, si arriva al conferimento dello status di Paese candidato con l’approvazione di tutti i membri dell’Unione. Segue la raccomandazione della Commissione al Consiglio Ue di avviare i negoziati che, anche in questo caso, richiede il via libera all’unanimità dei Paesi membri: si possono così aprire i capitoli di negoziazione (in numero variabile), il cui scopo è preparare il candidato in particolare sull’attuazione delle riforme giudiziarie, amministrative ed economiche necessarie. Quando i negoziati sono completati e l’allargamento Ue è possibile in termini di capacità di assorbimento, si arriva alla firma del Trattato di adesione (con termini e condizioni per l’adesione, comprese eventuali clausole di salvaguardia e disposizioni transitorie), che deve essere prima approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio all’unanimità.Per i Balcani Occidentali è previsto un processo parallelo – e separato – ai negoziati di adesione all’Unione, che ha comunque un impatto sull’allargamento Ue. Il processo di stabilizzazione e associazione è finalizzato ad aiutare i partner balcanici per un’eventuale adesione, attraverso obiettivi politici ed economici che stabilizzino la regione e creino un’area di libero scambio. Dopo la definizione di un quadro generale delle relazioni bilaterali tra l’Unione Europea e il Paese partner, la firma dell’Accordo di stabilizzazione e associazione offre la prospettiva futura di adesione.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    9th Western Balkans Civil Society Forum: A clear need for a realistic final date for EU membership

    By Andrej Zorko*The 9th Western Balkans Civil Society Forum 2023 was held in a year full of significant milestones for the EU, notably the 50th anniversary of the first enlargement. Since the foundation of the European Community, seven enlargements have taken place, helping the EU to grow to the present number of 27 Member States.During the time after the last enlargement in 2013, with Croatia being the last country to join the Union, a growing awareness on both sides has confirmed that the future of Western Balkans lies with the EU, especially now in the face of current global events.As the EESC noted in its 2021 opinion, the Western Balkans are an integral part of Europe and a geostrategic priority for the EU.The experience of each successive EU enlargement has shown the importance of involving social partners and civil society organisations, recognising their significant role. In the case of the Western Balkan countries, civil society has been promoting the shared European values of peace, security, economic and social prosperity, as well as the need for reforms for a successful enlargement process.There is undoubtedly still much to be done in the field of promoting sustainable development, the rule of law, transparency and fight against corruption. There is still a strong need to solve the problems that affect the younger population. The inclusion of the mentioned stakeholders in the integration process is sure to provide the solutions and policies that will have a high degree of legitimacy and effectiveness and will provide a smoother transition to full EU membership for the Western Balkan countries. For this reason, all the actors must ensure that the involvement of the region in the EU’s existing programmes and the reforms being carried out have a meaningful impact on the quality of people’s lives.Being aware of many challenges still awaiting stakeholders on the path to accession, it is important to also recognise that much has already been accomplished and that the Final Declaration[2] of the 9th Western Balkans Civil Society Forum reaffirms the clear commitment of civil society and the EESC to a common European future. The Declaration’s call for a clear and realistic timeline, in which the region should be ready for accession is a welcome driver in the process. As the EESC has already pointed out, it is also important to set out clear and strict conditions in a tangible way, so that the countries of the region can make progress on the path of reform and progress can be effectively monitored.The inclusion of representatives of the trade unions, employers’ organisations, and civil society organisations of the candidate countries in the work of the EESC in an advisory capacity, has been met with strong approval by all parties. This will not only improve the work of the EESC in taking into account the views of soon-to-be Member State stakeholders, but will also spread first-hand knowledge of the inner workings and processes of social dialogue at EU level across the Western Balkan region, which will speed up the accession process.The 9th Western Balkans Civil Society Forum and its Final Declaration can be considered a success and a stepping stone towards the region successfully joining the EU. There is a clear need for a realistic timeline and a date on which the candidate countries should be ready for accession. A final date would provide a further impetus on the path of integration for both the EU and the governments of the regions to implement the necessary reforms.Even a possible staged accession is a solution to the concerns of some Western Balkan states which are sceptical about 2030 as a target date, announced by the president of the European Parliament at the Bled Strategic Forum.Despite the challenges still to come, and despite the scepticism of some, there is no doubt that the 8th enlargement of the EU is closer than ever. There is also a clear recognition on all sides, about the crucial role the social partners and civil society organisations can play in the process. Setting a target date, which should be realistic for all sides, is essential.There is still some way to go in addressing the problems of young people in the Western Balkans and implementing the necessary policies to meet the Copenhagen criteria of democracy, the rule of law, human rights, and respect for minorities, but with the strong commitments and inclusion of all stakeholders, perhaps the end of that path is finally in sight.*Andrej Zorko, EESC member, President of the Follow-up Committee on Western BalkansExecutive secretary to the presidency of the Association of Free Trade Unions of Slovenia (ZSSS)