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    Presidenziali Usa, come funziona l’elezione dal risultato imprevedibile

    Bruxelles – Sembra quasi un paradosso, ma forse dice qualcosa sullo stato del mondo di questi tempi. Le presidenziali negli Stati Uniti, cioè le elezioni più importanti del 2024 – un anno elettorale senza precedenti nella storia globale – sono praticamente impossibili da prevedere. La posta in gioco è decisamente alta, soprattutto sullo scacchiere internazionale, ma mai come stavolta il risultato della sfida a due per la Casa Bianca è stato così difficile da anticipare. E si ridurrà tutto, alla fine, alla conquista di pochi Stati in bilico, o addirittura di uno solo. Potrebbe essere decisiva una manciata di voti. Ecco cosa c’è da sapere sul testa a testa tra la candidata democratica e vicepresidente in carica, Kamala Harris, e lo sfidante repubblicano ed ex presidente, Donald Trump, che si sta combattendo oggi (5 novembre) e che avrà enormi ripercussioni per il mondo in generale e per l’Europa in particolare.Come funziona il votoPer cominciare, va ricordato che quelle per la scelta del presidente degli Stati Uniti non sono elezioni dirette ma indirette: i cittadini non votano per il loro candidato preferito, bensì per la lista dei cosiddetti grandi elettori collegata al candidato suddetto. Ciascuno Stato federato dispone di un numero di grandi elettori (detti anche delegati) pari alla somma totale dei suoi rappresentanti al Congresso: il numero dei deputati alla Camera varia in base alla popolazione, mentre ogni Stato ha due senatori. Così, ad esempio, quest’anno la California ha 54 grandi elettori e il Delaware tre. Ci sono inoltre tre rappresentanti per il District of Columbia, il territorio non statale dove ha sede la capitale federale di Washington.Ora, l’assegnazione dei delegati avviene quasi sempre con il sistema winner-takes-all: tutti i grandi elettori di uno specifico Stato vengono ottenuti dal candidato presidente che ottiene la maggioranza semplice nel voto popolare di quello Stato (50 per cento più uno dei consensi). Solo due Stati, il Maine e il Nebraska (quattro e cinque delegati rispettivamente), adottano un metodo proporzionale: i due delegati “territoriali” (cioè quelli in rappresentanza del Senato) vengono ottenuti da chi vince il voto popolare su base statale, mentre gli altri vengono ripartiti tra i vari distretti elettorali in cui si dividono i due Stati.Il collegio elettoraleI grandi elettori sono in tutto 538 e si riuniranno a dicembre formando quello che si chiama Electoral college, letteralmente collegio elettorale, un organo che decide tramite un voto di “secondo livello” chi guiderà la Casa Bianca a partire dal 6 gennaio 2025. Il “numero magico”, cioè la soglia da superare per ottenere la presidenza, è di 270 voti, la maggioranza semplice dei grandi elettori. Nel caso in cui si arrivasse ad un pareggio (entrambi i candidati a 269 voti), a decidere tra i due è la Camera dei deputati, che attualmente è a maggioranza repubblicana.Un simile meccanismo comporta che, tecnicamente, per i candidati presidenti non è tanto importante vincere il voto popolare quanto assicurarsi un numero sufficiente di delegati nell’Electoral college. Per quanto possa sembrare controintuitivo, le due cose non sono necessariamente collegate: vincere il voto popolare su base nazionale (cioè quello dei cittadini in tutti e 50 gli Stati della federazione) non assicura automaticamente la presidenza se non si vincono abbastanza grandi elettori. Nell’ultimo quarto di secolo, per due volte è stato eletto presidente il candidato che aveva perso il voto popolare: nel 2000 con George W. Bush (contro lo sfidante Al Gore) e nel 2016 con Donald Trump (contro Hillary Clinton).Gli Stati in bilicoEcco perché, in questa competizione elettorale, la geografia politica gioca un ruolo determinante. Alcuni Stati sono tradizionalmente democratici (o blu, dal colore del partito) mentre altri sono roccaforti repubblicane (o rossi). La vera battaglia si combatterà invece in una manciata di Stati che si suole definire “in bilico” (gli swing states), in cui cioè non c’è una netta preferenza per nessuno dei due partiti: si tratta di Arizona (11 delegati), Georgia (16), Michigan (15), Nevada (6), North Carolina (16), Pennsylvania (19) e Wisconsin (10).Attualmente, secondo le ultime proiezioni, Harris dovrebbe già contare con ragionevole certezza su un tesoretto di 226 delegati mentre Trump su un numero che andrebbe da 219 a 230. Ad essere determinanti saranno insomma le “combinazioni” di Stati in bilico che ciascuno dei due candidati potrà portare a casa: se è pur vero che la Pennsylvania, coi suoi 19 grandi elettori, è quello più “succulento”, è anche vero che vincere solo quello non sarà sufficiente se non verranno conquistati anche i delegati di almeno altri due swing states. Uno degli scenari più accreditati in questo momento è quello per cui Trump riesce ad assicurarsi l’Arizona, la Georgia, il Nevada ed il North Carolina, arrivando a 268 delegati, mentre Harris si attesterebbe a 251 conquistando Michigan e Wisconsin. A quel punto, i 19 voti della Pennsylvania sarebbero determinanti per aprire ad entrambi le porte della Casa Bianca.Cosa dicono i sondaggiE qui si aprono i problemi delle previsioni. In nessuno dei sondaggi disponibili si registra un vantaggio netto di un candidato nei sette swing states: nella maggior parte dei casi, il distacco è inferiore ai due punti percentuali, cioè troppo vicino al margine di errore per poter accettare le rilevazioni come affidabili. In Pennsylvania sembrerebbe in leggero vantaggio Trump, ma il testa a testa è così serrato che si parla di una distanza dello 0,3 per cento.C’è anche il caso di un recente sondaggio che darebbe Harris in vantaggio su Trump di quattro punti in Iowa, uno Stato che nelle ultime due elezioni è andato ai repubblicani e che si pensava sarebbe rimasto rosso anche stavolta. Potrebbe trattarsi di un abbaglio (ricordiamo che i sondaggi non sono una scienza esatta, per quanto i modelli che adottano migliorino col tempo), oppure di una dinamica capace di rimettere in discussione anche altri Stati che i due partiti considerano blindati.A livello nazionale, i sondaggi danno Harris in lieve vantaggio, ma si tratta di una distanza dell’1 per cento. Il tycoon newyorkese era davanti all’attuale presidente, Joe Biden, finché quest’ultimo non si è ritirato lo scorso luglio lasciando il posto alla sua vice. Da allora, Harris è rimasta quasi sempre in testa, ma negli ultimi giorni il distacco tra i due candidati si è ridotto.I risultati definitiviAd ogni modo, per sapere chi ha vinto le elezioni dovremo probabilmente aspettare un po’. Gli ultimi seggi chiudono in Alaska e alle Hawaii alla mezzanotte locale, cioè le 6 di mercoledì mattina in Italia. Le prime elaborazioni parziali dei risultati dovrebbero arrivare già intorno alle 2 di notte, ma difficilmente si potrà avere un quadro sufficientemente completo della situazione prima delle 7-8 di mattina. Questo, naturalmente, nel caso in cui l’esito del voto sia chiaro: altrimenti, il conteggio potrebbe prendere ancora più tempo. Nel 2020, ad esempio, ci sono voluti quattro giorni perché Biden fosse proclamato presidente eletto, mentre nel 2000 Bush ha dovuto aspettare un mese prima che il suo sfidante concedesse la sconfitta.Data la crescente polarizzazione dell’elettorato statunitense e la pervasività di fake news e teorie del complotto, c’è da aspettarsi che, se i risultati di quest’elezione non consegneranno una vittoria netta a nessuno dei due candidati, la parte sconfitta rifiuti di riconoscere la vittoria dell’altra e si mobiliti per contestarla: tramite l’avvio di infinte cause legali nel migliore dei casi o, nel peggiore, con una riedizione dell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021.

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    Presidenziali Usa: Trump contro Harris, e l’Europa nel mezzo

    Bruxelles – La corsa per le presidenziali statunitensi è ormai giunta all’ultimo miglio. La data fatidica del 5 novembre si fa sempre più vicina, e nell’Unione europea aumenta di giorno in giorno l’apprensione per l’esito di quello che è forse il voto più rilevante di questo anno elettorale senza precedenti nella storia globale. A Bruxelles, la vittoria di Donald Trump è vissuta come un pericolo da scongiurare a ogni costo, mentre se venisse eletta Kamala Harris tutte le cancellerie (o quasi) dei Ventisette tirerebbero un sospiro di sollievo. Su quasi tutti i temi di interesse europeo le priorità dell’ex presidente repubblicano e della sua sfidante democratica si pongono in sostanziale opposizione. Quali potrebbero essere dunque i risvolti per l’Europa (e soprattutto l’Ue) nel caso di una vittoria dell’uno o dell’altra contendente?Politica esteraSicuramente, uno degli ambiti nei quali si misurano distanze siderali tra i due candidati è quello della politica estera. Per quanto riguarda la guerra in Ucraina, ad esempio, Trump ha ripetuto più volte che intende, a modo suo, mettere fine al più presto al conflitto. Secondo le indiscrezioni, il tycoon newyorkese intenderebbe proporre al presidente ucraino Volodymyr Zelensky di cedere alla Russia almeno una parte delle regioni occupate, probabilmente alcune aree del Donbass e la Crimea, in cambio della cessazione delle ostilità. Se Washington decidesse di interrompere dall’oggi al domani il sostegno militare e finanziario a Kiev, sarebbe difficile per gli europei continuare a difendere l’ex repubblica sovietica.L’effetto che il disimpegno statunitense dall’Ucraina avrebbe sulla sicurezza del Vecchio continente – cui Trump non sembra essere particolarmente interessato – è difficilmente calcolabile ma sarebbe senza dubbio estremamente negativo per gli alleati transatlantici, che solo di recente (anche di fronte alla prospettiva di un secondo mandato dell’ex presidente) hanno iniziato a prendere più seriamente la questione della cosiddetta autonomia strategica.Un’amministrazione Harris si porrebbe invece su una linea di continuità con le scelte prese dal presidente uscente Joe Biden: Congresso permettendo, il supporto all’Ucraina verrebbe garantito almeno nel medio periodo. La vicepresidente democratica uscente ha esplicitamente criticato come “arrendevoli” le posizioni del rivale, rifiutando qualunque negoziato bilaterale con Mosca che escluda Kiev.Riguardo allo scacchiere mediorientale le differenze tra Harris e Trump potrebbero essere più sfumate, data la tradizionale solidità dell’alleanza tra Washington e Tel Aviv. Tuttavia, è verosimile che una Casa Bianca guidata dall’ex presidente garantirebbe allo Stato ebraico un appoggio virtualmente incondizionato (va ricordato che fu Trump l’architetto dei cosiddetti accordi di Abramo del 2020 per la normalizzazione dei rapporti diplomatici nella regione), finendo per esacerbare ancora di più le divisioni tra i Ventisette sulla crisi regionale in corso.La sfidante democratica potrebbe tentare di mettere alle strette (si fa per dire) il premier israeliano Benjamin Netanyahu, anche se, ormai, quest’ultimo appare più una scheggia impazzita (disposto a colpire addirittura i caschi blu dell’Onu) che un partner affidabile. Ma il Medio Oriente è un tassello troppo importante per la politica estera statunitense perché qualunque presidente abbandoni l’alleato storico al proprio destino.Il futuro della NatoLa guerra d’Ucraina si intreccia poi con la questione relativa al futuro della Nato: da tempo, Trump denuncia quello che definisce un impegno insufficiente da parte degli alleati del Vecchio continente (alcuni dei quali non hanno ancora raggiunto il target del 2 per cento del Pil da destinare alle spese militari), e ha polemicamente invitato il presidente russo Vladimir Putin a invadere i Paesi europei che non fanno la propria parte. Nemmeno il Congresso sembra dormire sonni tranquilli, dato che ha recentemente adottato una legge in cui si mette nero su bianco che per ritirare gli Usa dall’Alleanza non basta un decreto presidenziale ma serve l’approvazione parlamentare.Nei fatti, comunque, se Trump volesse ridimensionare la partecipazione statunitense alla Nato non avrebbe bisogno di abbandonarla: basterebbe semplicemente, in caso di attivazione del famigerato articolo 5 della Carta nordatlantica (per cui, in caso di attacco ad uno Stato membro, tutti gli altri dovrebbero “adottare le misure che ritengono necessarie per proteggere l’alleato attaccato”), non fornire una risposta militare ma semplicemente supporto diplomatico o civile. Da mesi, nella sede della Nato a Bruxelles, le alte sfere degli altri 31 Paesi membri stanno escogitando piani su come mantenere funzionale l’organizzazione (la cui guida è da poco passata nelle mani dell’ex premier olandese Mark Rutte) anche nel caso di una rielezione del candidato repubblicano.Politica commercialeLa politica commerciale è invece una materia in cui le differenze tra Harris e Trump potrebbero non essere così marcate come si crede. Durante il suo primo mandato, quest’ultimo ha preso alla sprovvista i partner europei con un’agenda (eloquentemente soprannominata America first) di feroce protezionismo, imponendo tariffe doganali elevate sulle importazioni dall’estero e mettendo in crisi il principio alla base del commercio internazionale, cioè l’apertura dei mercati.Se con la Cina c’è stata una vera e propria guerra dei dazi, nemmeno i Ventisette si sono vissuti tranquillamente la presidenza Trump, a cominciare dalla Germania (che letteralmente sopravvive grazie all’export). Il candidato repubblicano ha recentemente ventilato l’idea di reintrodurre tasse del 10 per cento su tutti i prodotti esteri in entrata negli States, provocando un certo panico al di là dell’Atlantico. Un’altra tecnica che l’ex presidente potrebbe adottare è quella di colpire con dazi mirati solo determinate tipologie di merci, creando così una dinamica di rivalità e competizione interna in Europa, secondo la vecchia tattica del divide et impera.D’altra parte, una presidenza democratica significherebbe il mantenimento di normali rapporti commerciali con l’Europa e con il resto del mondo, ma le scelte di Harris si porrebbero verosimilmente in continuità con quelle del suo predecessore. Il quale, partendo dall’eredità dell’era Trump, ha espanso l’arsenale di armi economiche in funzione anti-cinese e ha stimolato la produzione interna con l’Inflation reduction act (Ira), che a Bruxelles è stato visto come un gesto di concorrenza sleale – tanto che ha fatto da base di partenza per le riflessioni, incluse quelle del report di Mario Draghi, sul rilancio della competitività europea e sulla necessità di una strategia industriale comune.Cooperazione internazionaleIl ritorno del trumpismo, che nella sua essenza (non solo economica) è isolazionista e protezionista, avrebbe dei riflessi anche nei rapporti internazionali degli Usa, il che a sua volta produrrebbe inevitabili ricadute anche sull’Ue. Non è un mistero che l’ex presidente nutra poco rispetto per il multilateralismo, che dipinge più spesso come una camicia di forza che non come un’opportunità.Una differenza fondamentale tra i due candidati è proprio l’approccio verso gli alleati e più in generale i partner internazionali: per Harris si tratta di risorse potenzialmente fondamentali, per Trump di pesi morti o addirittura sanguisughe di cui sbarazzarsi. Stesso dicasi per le istituzioni multilaterali: la prima, in continuità con il suo attuale capo, punterebbe a farne uso e, eventualmente, riformarle, mentre il secondo preferisce ignorarle se non direttamente eliminarle.Per citare un tema in cui la cooperazione internazionale è centrale, il tycoon è convintamente ostile agli sforzi multilaterali in ambito climatico e ambientale. Nel 2020 ha fatto ritirare gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi del 2015, che ha definito “un disastro”, e ha promesso che se verrà rieletto continuerà su questa strada, annullando il rientro del Paese nel trattato (voluto da Biden all’inizio della sua presidenza) e magari andando anche oltre.Sul versante energia, una presidenza Trump 2.0 riporterebbe poi in auge (ancora di più) l’approvvigionamento energetico tramite i combustibili fossili, il che andrebbe evidentemente contro agli obiettivi che Bruxelles si è imposta con il Green deal. Harris dovrebbe invece puntare più decisamente sulle fonti rinnovabili, potenzialmente coinvolgendo l’Europa e altri partner globali nel percorso verso il definitivo phasing out degli idrocarburi.

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    UE preoccupata da un ritorno di Trump. “Importante che UE e USA lavorino insieme”

    Bruxelles – L’avanzata di Donald Trump preoccupa l’Unione europea. L’ex presidente degli Stati Uniti e candidato repubblicano per la Casa Bianca alle presidenziali di novembre, vince il confronto elettorale (caucus) in Iowa con i concorrenti di partito, ergendosi a sfidante principale dei democratici. Si profilano scenari che a Bruxelles generano timori per le relazioni trans-atlantiche. “Nell’attuale situazione geopolitica è importante che l’Ue e gli Stati Uniti continuino a lavorare fortemente insieme, che è il modo migliore di affrontare le sfide”, ragiona Valdis Dombrovskis, commissario per il Commercio e un’Economia al servizio delle persone, al termine dei lavori del consiglio Ecofin.La passata stagione trumpiana nel Vecchio continente ha lasciato strascichi. Guerra commerciale a colpi di dazi, minacce e ricatti al ‘made in’ per mancati acquisti di prodotti Usa, tensioni in materia di difesa con diverse visioni sulla NATO e il suo futuro. Si teme all’orizzonte un ritorno ad un passato a cui si è lavorato, con l’attuale amministrazione, per liberarsene. Cinque anni passati a ricostruire una relazione rimessa in discussione, come dimostra l’accordo sui dazi per l’acciaio, con il rischio di dover ricominciare tutto daccapo. Un ritorno eventuale di Trump impone le riflessioni del caso. “E’ chiaro che dobbiamo rafforzare noi stessi“, sottolinea ancora Dombrovskis.L’Europa deve sapere essere unita, avverte anche Guy Verhofstadt, ex premier belga, oggi deputato europeo. Politico di lungo corso, avverte: “I Repubblicani inviano un messaggio al mondo: la democrazia lotta per la sopravvivenza”. Con Trump alla testa degli Stati Uniti “finestra chiusa anche per l’Europa”.Congratulations to @realDonaldTrump on the landslide Iowa caucuses victory!— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) January 16, 2024A dispetto del nome, però, l’Europa mostra meno compattezza. Tra gli Stati membri Ungheria e Italia fanno complimenti e tifo per Trump. Il primo ministro di Bupadest, Viktor Orban, saluta la vittoria in Iowa con sul profilo X, dove pubblica la foto dell’esponente repubblicano corredata dalla scritta “una vittoria attesa da tempo”, con tanto di immagine di mani che applaudono. Il leader della Lega e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, sfoggia il suo inglese per esprimere le personali “congratulazioni a Donald Trump per la schiacciante vittoria del caucus dell’Iowa”.Per un’Europa che guarda oltre Atlantico con preoccupazione ce n’è dunque un’altra che osserva con tutt’altro punto di vista. Da spiegare, però. Perché sulla partita della  sostenibilità, dove pure l’Italia ha molto da dover fare e anche di più da perdere, la concorrenza USA rischia di pesare, non poco, su percorso di riforme e rilancio dell’economia. Il Green Deal è in tutto e per tutto una sfida geopolitica agli Stati Uniti, che a questa sfida hanno risposto con misure protezionistiche quali l’Inflation Reduction Act. Se l’attuale presidente, il democratico Joe Biden, è ‘l’amico’ dell’UE, le preoccupazioni su Trump potrebbero non essere proprio del tutto infondate.