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    Fumata nera per l’accordo di libero scambio Ue-Australia. Per Bruxelles “la porta resta aperta”

    Bruxelles – Non sono bastati cinque anni di lavoro per finalizzare un accordo di libero scambio tra l’Unione europea e l’Australia. A Osaka, in Giappone, per il vertice ministeriale del G7, le negoziazioni tra le parti sono fallite un’altra volta: troppa la distanza su diverse questioni legate all’agricoltura. Per Bruxelles “la porta è ancora aperta”, ma da Canberra traspare pessimismo. Almeno fino alle prossimi elezioni nazionali del 2025.Le aspettative erano alte: il commissario Ue al Commercio, Valdis Dombrovskis, al suo arrivo a Osaka aveva dichiarato che l’accordo era “a portata di mano”. Per superare gli attriti rimasti sul mercato agricolo è volato in Giappone anche il commissario per l’Agricoltura, Janusz Wojciechowski. Ma alla fine Bruxelles non ha ceduto sul nodo rimasto in sospeso: l’Australia vuole un effettivo accesso al mercato europeo per i suoi produttori di carne (soprattutto manzo e montone), l’Ue mette dei paletti. E vuole limitare limitare l’utilizzo da parte degli agricoltori australiani di indicazioni geografiche di prodotti europei.Wojciechowski ha espresso “rammarico” e ha chiarito la posizione dell’Ue: “Per andare avanti, abbiamo bisogno di aspettative più realistiche e di un approccio equilibrato che rispetti pienamente la vitalità dei nostri agricoltori e la sostenibilità del nostro sistema alimentare”. L’esecutivo comunitario, attraverso il portavoce Olof Gill, si dice “pronto a continuare le trattative quando anche gli altri saranno pronti”. Dall’altra parte del tavolo, il ministro per il Commercio australiano, Don Farrell, si è augurato di “poter raggiungere un giorno un accordo che avvantaggi sia l’Australia che i nostri amici europei”. Ma il suo collega, il ministro dell’Agricoltura Murray Watt, in un’intervista all’Australian Broadcasting Corporation (Abc) ha ammesso che bisognerà verosimilmente aspettare le elezioni parlamentari previste nel 2025 prima di riprendere in mano i negoziati.E in effetti, dopo il secondo fallimento in poco più di tre mesi, e cinque anni di lavoro, forse l’accordo di libero scambio va riportato in cantiere. I lavori, iniziati nel 2018, erano stati temporaneamente sospesi nel 2021 a causa delle tensioni tra Australia e Francia su un accordo per la fornitura di sottomarini, che Canberra aveva preferito acquistare da Stati Uniti e Regno Unito. A luglio di quest’anno, il ministro Farrell aveva abbandonato i negoziati a Palazzo Berlaymont a Bruxelles, rientrando in patria insoddisfatto dai vincoli posti all’accesso delle aziende australiani al mercato europeo. Durante l’estate le posizioni non sembrano essere cambiate: per una maggiore integrazione tra i due mercati, che nel 2022 hanno scambiato merci per un valore di oltre 55 miliardi di dollari, bisognerà aspettare ancora qualche anno.
    Falliti i colloqui a Osaka, durante il G7 dei ministri del commercio. All’aria cinque anni di lavoro sull’accordo, il commissario Ue Wojciechowski: “Per avanzare, abbiamo bisogno di aspettative più realistiche e un approccio equilibrato”

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    La Nato stringe i legami con i partner nell’Indo-Pacifico contro le sfide alla “sicurezza globale” da Cina e Russia

    Bruxelles – Dal quartier generale della Nato a Bruxelles a Canberra, Seul, Tokyo e Auckland. In una delle due-giorni più importanti per l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord – per l’ingresso ufficiale della Finlandia nell’Alleanza Atlantica e per le discussioni tra i ministri degli Esteri con l’Ucraina sulla velocizzazione della consegna delle armi promesse a Kiev – i 31 alleati si sono confrontati anche con i quattro partner strategici nella regione dell’Indo-Pacifico sulle “sfide per la sicurezza, che sono globali”, come ha precisato il segretario generale, Jens Stoltenberg, accogliendo questa mattina (5 aprile) i rappresentanti di Australia, Corea del Sud, Giappone e Nuova Zelanda prima della sessione ministeriale del Consiglio del Nord Atlantico.
    Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, con i rappresentanti di Australia, Corea del Sud, Giappone e Nuova Zelanda (5 aprile 2023)
    “In un mondo sempre più imprevedibile e insicuro diamo un grande valore al nostro partnariato con l’Indo-Pacifico”, dal momento in cui “quello che succede nella vostra regione ha un impatto su di noi e quello che succede nella nostra regione ha un impatto su di voi“, ha ribadito con forza Stoltenberg ai quattro partner, riprendendo il concetto già espresso ieri (4 aprile) nel punto con la stampa insieme al ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba. Lo dimostra proprio l’invasione russa in Ucraina “con le sue ramificazioni globali”, dall’economia all’energia, fino alla sicurezza alimentare e le sfide per la difesa. Tra queste, anche l’avvicinamento tra Russia e Cina, che di riflesso “rende ancora più importante rimanere vicini come partner di alto valore”, è l’esortazione del segretario generale della Nato. La solidificazione di questo rapporto è iniziata al Summit di Madrid del 29 giugno dello scorso anno, quando “per la prima volta in assoluto i leader dei vostri Paesi hanno partecipato” come ospiti al vertice di alto livello dell’Alleanza Atlantica. A Bruxelles la speranza è che questa collaborazione continui al Summit di Vilnius dell’11-12 luglio.
    Mentre la questione dei rapporti tra Mosca e Pechino sarà al centro del confronto tra la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, della Francia, Emmanuel Macron, e della Cina, Xi Jinping, nel vertice di domani (6 aprile) a Pechino, a margine della ministeriale Nato l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha messo in chiaro che “abbiamo bisogno della Cina per risolvere le sfide globali e per questo puntiamo su un dialogo costruttivo”. Tuttavia, di fronte a quello che per il momento è un impegno insufficiente da parte di Pechino – “in particolare sulla guerra russa in Ucraina, una violazione della Carta delle Nazioni Unite” – i membri della Nato e dell’Unione daranno ancora più impulso al rafforzamento dei rapporti con i quattro partner della regione dell’Indo-Pacifico. Come dimostrato dal vertice di oggi e come sarà fatto “a maggio, con una ministeriale a livello Ue“, ha anticipato lo stesso alto rappresentante Borrell.
    Cina e Russia nel nuovo concetto strategico Nato
    Nel nuovo concetto strategico Nato presentato al Summit di Madrid del giugno 2022 è stata impressa una svolta nell’analisi del contesto geopolitico come non si vedeva dalla fine della Guerra Fredda. Nella nuova era delle relazioni internazionali e della sicurezza sul continente europeo – manifestatasi in particolare con l’avvio dell’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 – la Federazione Russa costituisce “la minaccia più significativa e diretta alla sicurezza degli alleati”, dal momento in cui cerca di stabilire “sfere di influenza e di controllo diretto attraverso la coercizione, la sovversione, l’aggressione e l’annessione”, si legge nel documento. Ma Mosca non è l’unico “attore autoritario” che mette alla prova e sfida gli “interessi, valori e lo stile di vita democratico” degli alleati (da ieri diventati 31 con l’ingresso ufficiale della Finlandia nella Nato).
    Anche “le ambizioni dichiarate e le politiche coercitive” della Repubblica Popolare Cinese sono entrate ufficialmente nei radar dell’Alleanza Atlantica, dal momento in cui Pechino fa uso di “un’ampia gamma di strumenti politici, economici e militari per aumentare la sua impronta globale e proiettare potere”. Se la strategia cinese rimane “poco trasparente” – così come le intenzioni e lo sviluppo militare – quello che però si è reso manifesto nell’ultimo anno è un approfondimento del partenariato tra Pechino e Mosca, come dimostrato anche dalla recente visita del presidente cinese, Xi Jinping, all’omologo russo, Vladimir Putin. Ecco perché tra gli strumenti per affrontare questo nuovo e più instabile ambiente di sicurezza rientra anche la cooperazione stretta con i partner “nuovi ed esistenti” dell’Indo-Pacifico, a partire dai quattro invitati oggi a Bruxelles: “Gli sviluppi in questa regione possono influenzare direttamente la sicurezza euro-atlantica”, specifica il documento di orientamenti generali dell’Alleanza Atlantica.

    Prima della sessione ministeriale del Consiglio del Nord Atlantico il segretario generale Jens Stoltenberg ha accolto i rappresentanti di Australia, Corea del Sud, Giappone e Nuova Zelanda: “Quello che succede nella vostra regione ha un impatto su di noi e viceversa”

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    L’Ue al lavoro per un nuovo accordo con l’Australia sulle materie prime

    Bruxelles – Al G20 in corso a Bali, le istituzioni Ue hanno incontrato questa mattina (16 novembre) in un bilaterale il primo ministro australiano, Anthony Albanese: Ursula von der Leyen e Charles Michel, presidenti della Commissione e del Consiglio europeo, hanno colto l’occasione del summit indonesiano per rinsaldare i legami con Canberra in materia economica e di politiche climatiche.
    “Benvenuto il Framework Agreement con l’Australia, nuova pietra miliare nelle nostre relazioni”, ha twittato Michel: a 5 anni dalla sua firma, il 21 ottobre scorso è entrato in vigore il nuovo accordo tra Ue e Australia, volto a intensificare la collaborazione su una serie di asset, dalla politica estera all’economia, dallo sviluppo sostenibile alla ricerca e innovazione, da energia e trasporti alla pesca marittima. I tre leader hanno ribadito tutte queste intenzioni a Bali, aggiungendo una ferma condanna all’invasione russa in Ucraina, poche ore dopo l’allarme per i missili caduti in territorio polacco, parzialmente rientrato dopo le conferme che si trattava di razzi ucraini lanciati per intercettare un attacco russo.

    Good meeting among like-minded partners.
    🇪🇺🇦🇺 are aligned in our response to Russia’s war and we share an interest to cooperate in the Indo-Pacific.
    We agreed to intensify negotiations on an ambitious trade agreement.
    We will also work on a new partnership on raw materials.
    — Ursula von der Leyen (@vonderleyen) November 16, 2022

    “Un bell’incontro tra due partner che la pensano allo stesso modo”, ha scritto in un tweet von der Leyen, annunciando di essere al lavoro con le autorità australiane per un nuovo accordo sulle materie prime. Nel contesto della crisi energetica e della diversificazione dalle fonti russe, l’Ue “riconosce il ruolo che l’Australia può svolgere per la stabilità dei mercati mondiali di gas, attraverso il suo costante approvvigionamento all’Indo-Pacifico”, si legge nel comunicato stampa congiunto.
    Canberra è il maggiore esportatore di gas naturale liquefatto (LNG) al mondo, con una capacità di 87.6 milioni di tonnellate all’anno. Per questo “le due parti approfondiranno gli scambi su questi temi, anche relativamente al piano REPowerEu”, che annovera tra i propri obiettivi anche la costruzione di nuove partnership affidabili per le forniture di gas e LNG.
    Forte la comunione di intenti anche nella lotta ai cambiamenti climatici. Da Sharm el Sheik, dove è ancora in atto la conferenza delle Nazioni Unite sul clima, a Bali, il messaggio dei tre leader non cambia: Bruxelles e Canberra rimangono “profondamente impegnati per la piena attuazione dell’accordo di Parigi” e per “raggiungere le zero emissioni nette entro il 2050”.  In vista del meeting tra l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico e l’Ue, che si terrà a Bruxelles il prossimo 14 dicembre, von der Leyen e Michel hanno ribadito al primo ministro australiano la volontà di avere un ruolo importante nell’Indo-pacifico, “per lo sviluppo sostenibile e la transizione verde” dell’intera regione.

    A un mese dall’entrata in vigore del nuovo Framework Agreement con Canberra, i vertici Ue hanno incontrato a Bali il primo ministro australiano, Anthony Albanese: al centro del dialogo la condanna all’invasione russa, le relazioni nell’Indo-pacifico e le fonti energetiche. L’Australia è infatti il primo esportatore al mondo di gas LNG

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    UE e Australia rimandano i colloqui commerciali, pesa il caso dei sottomarini

    Bruxelles – Il ministero del Commercio australiano ha confermato che i colloqui per il raggiungimento di un accordo commerciale con l’Unione europea sono stati rimandati. Il ministro Dan Tehan ha affermato che il meeting è stato spostato di un mese e si terrà il prossimo novembre alla presenza di Valdis Dombrovskis
    La notizia segue le tensioni tra Australia e Paesi europei scaturite in seguito alla nascita di AUKUS. Il partenariato strategico tra Washington, Canberra e Londra aveva portato alla cancellazione di una commessa della francese Naval Group per la costruzione di una flotta di sottomarini per l’Australia – valore stimato intorno ai 40 miliardi di euro.
    La Commissione aveva scelto di prendere le parti del Governo francese, che aveva ritirato i suoi ambasciatori in Australia e negli Stati Uniti. In quell’occasione la presidente Ursula von der Leyen aveva messo in dubbio la possibilità di proseguire nei colloqui commerciali con il governo australiano.
    La crisi tra Francia e Stati Uniti si è un poco alleggerita, in seguito ad una telefonata tra Emmanuel Macron e Joe Biden. L’Eliseo ha disposto di far rientrare l’ambasciatore a Washington, ma si è rifiutata di fare altrettanto per il suo rappresentante in Australia.
    La Commissione ha chiarito che la volontà di rimandare i colloqui non è una rappresaglia per gli avvenimenti dello scorso mese. Tehan si è invece rifiutato di rispondere in merito all’influenza della questione dei sottomarini sulla decisione di spostare l’evento.

    I colloqui per il raggiungimento di un accordo si terranno a novembre. Per la Commissione non si tratta di una rappresaglia, mentre il Ministro australiano si è rifiutato di commentare sull’influenza di AUKUS nella scelta

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    Aukus: siglato patto di sicurezza trilaterale. L’Europa resta ai margini

    Dopo che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al vertice di Arraiolos ha invocato una politica estera, di sicurezza e di difesa comune per fare sentire la voce europea nel mondo e dopo che Silvio Berlusconi ha chiosato lo stesso concetto al vertice di Roma del PPE chiedendo la fine del voto all’unanimità in politica estera l’Unione Europea rimane ancora a guardare. Che cosa? L’attivismo degli (alleati) americani. 
    Dopo il ritiro delle truppe dall’Afghanistan Joe Biden, l’attuale Presidente degli USA, si lancia a capofitto in una nuova strategia per limitare l’espansionismo cinese ed insieme a Boris Johnson, il Primo Ministro britannico, e Scott Morrison, il Primo Ministro dell’Australia, sigla un patto di sicurezza trilaterale denominato Aukus che esclude ancora una volta l’Unione Europea dallo scenario internazionale dell’indo-pacifico. 
    L’Aukus – acronimo dei tre paesi firmatari Australia, Regno Unito e Stati Uniti d’America – permetterà agli anglo-americani di fornire tecnologie militari a Canberra per la costruzione di sottomarini nucleari. I nuovi armamenti, secondo diversi analisti, serviranno per difendere gli interessi commerciali australiani nonché per difendere Taiwan dalla minaccia cinese. Nel complesso l’accordo di difesa ha un valore simbolico perchè mira a bloccare tempestivamente la volontà di potenza della Repubblica Popolare Cinese e permette agli Stati Uniti di rinnovare la propria presenza nell’area pacifica. 
    In questo clima di tensione che ricorda la guerra fredda, rimane esclusa, come detto, l’Unione Europea. O meglio, i ventisette paesi che ne fanno parte, dato che è difficile parlare di una politica estera comune e univoca europea. Ogni paese europeo ha suoi interessi strategici da perseguire, a partire dalla Francia che ha perso, nei confronti dell’Australia, una commessa da cinquanta miliardi di euro per la costruzione di dodici sottomarini nucleari. Siamo ancora lontani dalla tanto agognata sovranità europea.
    Per altro, citando l’ambasciatore francese a Roma Christian Masset, nella vicenda non si è visto l’America is back ma la continuazione dell’America first. In un momento in cui le relazioni inter-statali continuano ad essere dominate da un certo tasso di anarchia internazionale, l’Unione Europea è in totale confusione e sta ancora aspettando spiegazioni da Washington. Potenzialmente arriveranno presto, auspicabilmente al G20 di Roma.

    Questo contributo è stato pubblicato nell’ambito di “Parliamo di Europa”, un progetto lanciato da
    Eunews per dare spazio, senza pregiudizi, a tutti i suoi lettori e non necessariamente riflette la
    linea editoriale della testata.

    E’ difficile parlare di una politica estera comune e univoca europea

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    Covid, Cina rifiuta l’indagine sull’origine della pandemia. Appello dal mondo della scienza: “Cambi idea”

    Bruxelles – La Cina dice ‘no’ al piano dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) di avviare una seconda fase di un’indagine sull’origine del Coronavirus ed ecco che il mondo della scienza si mobilita per convincere Pechino a cambiare idea. Unione europea, Australia, Stati Uniti e Giappone: l’appello arriva da qui, con la commissaria per l’Innovazione e la Ricerca, Mariya Gabriel, a farsi portavoce per Bruxelles insieme alla dottoressa capo scienziato australiano, Cathy Foley, a Eric Lander, Direttore dell’Ufficio per le politiche scientifiche e tecnologiche statunitense nominato da Joe Biden, al dottor Ueyema Takahiro, Membro Esecutivo del Consiglio per la Scienza, la tecnologie e l’innovazione del Giappone e a Matsumoto Yoichiro e Kano Mitsunobu, consiglieri per il ministro degli Esteri giapponese.
    Insieme chiedono a Pechino di “riconsiderare la decisione di non impegnarsi nella proposta dell’OMS di portare lo studio sulle origini del COVID alla fase successiva. La partecipazione della Cina è di importanza critica per il mondo”, si legge nella lettere pubblicata dalla commissaria bulgara.

    I join Dr. Cathy Foley, 🇦🇺 Chief #Scientist; 🇺🇸 @EricLander46; Dr. UEYEMA Takahiro, Executive Member, Council for #Science, #Technology, and #Innovation of 🇯🇵; and Drs. MATSUMOTO Yoichiro and KANO Mitsunobu, S&T Advisors to the 🇯🇵 Foreign Minister on the below letter 👇 pic.twitter.com/VLNGiaNnkY
    — Mariya Gabriel (@GabrielMariya) July 27, 2021

    L’OMS questo mese ha proposto una seconda fase di studi sulle origini del coronavirus in Cina, con analisi dei laboratori e dei mercati nella città di Wuhan, dove il primo focolaio è stato osservato ormai più di un anno fa, chiedendo trasparenza alle autorità cinesi. Una proposta che trova il consenso delle sette più grandi economie al mondo del G7 che un mese fa chiedevano una nuova “indagine trasparente e decisiva” per capire il perché dello sviluppo del virus, che da oltre un anno attanaglia l’Europa e il mondo. Non è difficile immaginare che si voglia smentire chi sostiene la tesi di una fuga del virus dal laboratorio cinese di Wuhan, da dove la pandemia ha avuto inizio, secondo l’OMS le indagini già compiute in Cina erano ostacolate dalla mancanza di dati grezzi nei primi giorni di diffusione del virus e per questo è necessario approfondire.
    “Non accetteremo un tale piano di tracciamento delle origini poiché, in alcuni aspetti, ignora il buon senso e sfida la scienza”, ha detto ai giornalisti Zeng Yixin, vice ministro della Commissione nazionale per la salute (NHC). Pechino si oppone a una politicizzazione di questa analisi, in altri termini. Secondo Reuters, Zeng avrebbe ribadito la posizione della Cina secondo cui alcuni dati non potrebbero essere completamente condivisi a causa di problemi di privacy. “Speriamo che l’OMS riesamini seriamente le considerazioni e i suggerimenti degli esperti cinesi e tratti veramente lo studio dell’origine del virus COVID-19 come una questione scientifica e si liberi delle interferenze politiche”.

    “La partecipazione di Pechino alle indagini è di cruciale importanza per il mondo”, scrivono la commissaria europea Mariya Gabriel insieme a scienziati o consiglieri scientifici di Stati Uniti, Australia e Giappone per convincere il governo. La Cina parla di strumentalizzazione politica delle indagini in corso da parte dell’OMS, che invece lamenta la mancanza di dati grezzi nei primi giorni di diffusione del virus a Wuhan

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    Clima, Pechino segue l’UE e lancia il suo mercato del carbonio

    Bruxelles – Poche ore dalla presentazione a Bruxelles del nuovo meccanismo europeo di aggiustamento del carbonio alle frontiere (CBAM) e la Cina ha lanciato il proprio mercato del carbonio, che probabilmente sarà il più grande al mondo. I primi scambi di quote di emissioni – che per ora riguardano solo l’energia elettrica – si sono svolti venerdì 16 luglio, coprendo oltre 2mila produttori di elettricità in oltre 4 miliardi di tonnellate all’anno”, ha fatto sapere in una nota l’agenzia di stampa ufficiale cinese. Lo strumento cinese, però, è stato già criticato a livello internazionale per il suo livello di prezzo relativamente basso: 52,78 yuan (sono circa 8 dollari) per tonnellata di carbonio durante la prima transazione, contro i 47 euro (55 dollari) di media attualmente stimati nell’UE. 
    Pechino è il principale produttore al mondo di gas serra e il presidente cinese Xi Jinping ha fissato per la Cina l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060, un decennio dopo rispetto agli obiettivi fissati dall’Unione Europea. Secondo i piani di Pechino il mercato del carbonio sarà esteso ai produttori di cemento e alluminio a partire dal 2022. La notizia è accolta con favore da Bruxelles, dove si tenta di dar vita a una alleanza globale sul prezzo del carbonio che potrebbe essere stabilita alla prossima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite, la COP26 in programma a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre sotto la presidenza di Boris Johnson.
    “La Commissione Europea continua a sostenere la Cina nello sviluppo di un sistema nazionale di scambio delle emissioni efficace ed efficiente che contribuisca all’attuazione degli obiettivi climatici cinesi”, ha scritto su twitter il vicepresidente esecutivo per il Green Deal, Frans Timmermans.

    Today I congratulated China on starting its national emission trading market. The @EU_Commission continues to support China in developing an effective and efficient nationwide emissions trading system that contributes to implementing the Chinese climate objectives.
    — Frans Timmermans (@TimmermansEU) July 16, 2021

    Il nuovo CBAM dell’UE è una delle dodici proposte legislative avanzate la settimana scorsa dalla Commissione UE nel pacchetto Fit for 55. Dare un prezzo alle emissioni di CO2 importate in UE dovrebbe avere proprio questo scopo: indurre gli altri partner globali a introdurre misure climatiche altrettanto stringenti. “Una misura di diplomazia climatica”, dice Bruxelles. Se tutti avessero un meccanismo di scambio di quote di emissioni simile all’ETS europeo non ci sarebbe bisogno di un dazio sulle importazioni. Il CBAM non è ancora operativo (non lo sarà prima del 2026) ma già fa discutere. Se la Cina si sta adeguando all’idea di un ETS cinese, la misura non è stata accolta altrettanto bene in Australia. “L’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno ora è che vengano messe in campo ulteriori misure protezionistiche”, ha detto il ministro del commercio australiano Dan Tehan, all’indomani della presentazione da parte di Bruxelles. A detta del ministro, l’Europa starebbe “imponendo unilateralmente la propria visione a tutti gli altri Paesi”.
    L’argomento entra nel vivo anche negli Stati Uniti, l’altro grande partner che l’UE vuole portare sulla stessa strada. Il partito democratico del presidente statunitense Joe Biden ha proposto, nel giorno della presentazione da parte della Commissione europea (14 luglio), un’analoga carbon tax alle frontiere negli Stati Uniti. Il New York Times scrive che ancora non sono noti i dettagli della potenziale tassa statunitense, e dunque non è ancora certo se sia simile all’iniziativa europea. Da quando Biden è salito alla Casa Bianca a gennaio, Bruxelles ha avviato il dialogo con gli USA su questo argomento ed evitare possibili frizioni commerciali con un partner appena ritrovato. L’inviato speciale Usa per il clima, John Kerry, si è detto in più di una occasione “preoccupato” per i piani di Bruxelles, affermando che il meccanismo di aggiustamento del carbonio dovrebbe essere solo una soluzione di “ultima risorsa”.

    Parte l’Ets del primo produttore al mondo di CO2, anche se non mancano le critiche per il prezzo delle emissioni più basso rispetto a quello europeo. Timmermans: “Pronti a sostenere la Cina nello sviluppo di un sistema nazionale per l’attuazione degli obiettivi climatici cinesi”