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    Armenia e Azerbaigian potrebbero non essere lontane da un accordo di pace

    Bruxelles – Il conflitto più che trentennale tra l’Armenia e l’Azerbaigian potrebbe essere avviato verso una conclusione che, se raggiunta, sarebbe senz’altro storica. Ma rimangono ancora dei problemi irrisolti sulla strada della completa pacificazione tra Yerevan e Baku, a cominciare dall’annosa questione dei confini e dal riarmo di entrambi i Paesi. Così, in un’area dove si intrecciano le influenze politiche e gli interessi strategici di vari attori internazionali, la soluzione duratura che da tempo si ricerca potrebbe non essere ancora a portata di mano. Durante una conferenza stampa lo scorso 31 agosto, il premier armeno Nikol Pashinyan ha annunciato di aver inoltrato a Baku una proposta per la stipula di un trattato di pace che possa mettere fine al conflitto tra i due Paesi del Caucaso meridionale iniziato trentasei anni fa, nel 1988 (ancora prima della dissoluzione dell’Urss) e incentrato intorno alla sovranità contesa sull’area del Nagorno-Karabakh. Dopo varie fasi di guerra, alternate a periodi di relativa stabilità in cui il conflitto è parso congelato, l’Azerbaigian nell’autunno del 2023 ha riconquistato militarmente l’enclave armena entro i propri confini.Stando a quanto anticipato da Pashinyan, la bozza comprenderebbe 17 articoli: su 13 ci sarebbe già un “accordo totale” delle due parti, mentre su altri tre ci sarebbe un “accordo parziale“. Mancherebbe dunque l’accordo su un ultimo punto, ma non è stato spiegato quali siano i temi rimasti irrisolti (anche se non è difficile immaginarlo, come vedremo tra un attimo). La proposta di Yerevan a Baku è, sostanzialmente, di siglare un trattato contenente i punti già concordati, e di lasciare ad una seconda fase di negoziati il resto.Con la firma, ha dichiarato il primo ministro armeno, le due ex repubbliche sovietiche avvierebbero anche formali relazioni diplomatiche, prendendo a modello i negoziati bilaterali che hanno portato, lo scorso dicembre, al rilascio dei prigionieri armeni catturati dall’esercito azero nell’offensiva di pochi mesi prima e più recentemente ad un accordo per la creazione di una commissione mista per la demarcazione dei confini tra i due Paesi. Dopo diversi mesi in cui il processo negoziale sembrava in stallo, si tratta sicuramente di un’iniezione di fiducia per trovare la difficile quadra in una regione che non conosce pace da decenni. Sicuramente, una delle questioni ancora irrisolte ha a che fare con la costituzione armena, che include un riferimento alla riunificazione tra l’Armenia e il Nagorno-Karabakh (la riunificazione è citata in un documento risalente al 1989, a sua volta ripreso dalla dichiarazione d’indipendenza del 1990 cui la carta fondamentale del Paese fa riferimento in un preambolo). Ora, l’Azerbaigian ha ripetutamente chiesto la rimozione di tale riferimento, ma pare che solo lo scorso maggio Pashinyan abbia chiesto all’organo incaricato di rivedere la costituzione (creato nel 2022) di riscrivere interamente la carta, per sottoporla a referendum popolare nel 2027, anche se l’opinione pubblica armena non sembra ancora accettare la perdita definitiva della regione azera.Un’altra annosa questione, che parrebbe essere stata recentemente sciolta (o forse, probabilmente, solo rimandata), è quella del corridoio di Zangezur che Baku richiedeva per connettere l’exclave di Nakhchivan al territorio azero. Secondo alcuni analisti, le autorità azere avrebbero fatto questa concessione a Yerevan proprio in cambio delle citate modifiche costituzionali.Ma sulla strada della pacificazione potrebbe mettersi di traverso anche la corsa al riarmo di entrambi i Paesi. Ad oggi, le forze armate azere vantano una netta superiorità, con Baku che viene rifornita da Turchia, Israele, Pakistan e una serie di Stati europei inclusa l’Italia, mentre Yerevan riceve armi ed equipaggiamenti militari da Francia e India. I governi armeno e azero sostengono pubblicamente di non avere intenzione di attaccarsi a vicenda, ma data la storia martoriata della regione fare previsioni sul futuro è tutt’altro che semplice.Negli ultimi anni, l’Armenia sta cercando di allontanarsi dall’orbita russa e di avvicinarsi all’Ue, con la quale ha approfondito i legami diplomatici, politici e militari. Del resto, Bruxelles ha sempre incentivato il processo negoziale tra i due Paesi, impiegando anche una missione di pace sul confine armeno. Quanto all’Azerbaigian, Baku è diventato uno dei principali partner energetici dei Ventisette dopo l’avvio dell’invasione russa dell’Ucraina (sempre dal Paese caucasico arriva in Italia, peraltro, il gas naturale trasportato dal Tap).

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    La Mongolia non arresta Putin, ma l’Ue non può alzare troppo la voce: servono le materie prime critiche per il Green Deal

    Bruxelles – La guerra russo-ucraina, rispetto di diritto internazionale, Stato di diritto e diritti fondamentali. E poi la partita delle risorse, indispensabile per le ambizioni di motore ‘green’ globale. L’Unione europea ha tanto da guadagnare con nuovi, maggiori, rapporti con la Mongolia e la visita del presidente russo Vladimir Putin crea insofferenze e imbarazzi. Non si può forzare la mano né fare troppo la voce grossa visto gli interessi geopolitici in ballo con Ulan Bator, ma la Commissione europea, attraverso la portavoce Nabila Massrali, non nasconde il disappunto per l’inazione delle autorità mongole.“C’è un mandato di arresto della Corte penale internazionale, e la Mongolia in quanto aderente allo Statuto di Roma ha degli obblighi giuridici“, il commento di Massrali ad una visita che ha permesso al leader russo di giocare la sua partita in senso anti-occidentale ed europeo. Gli accordi per le forniture di gas sono introiti per le casse di Mosca e un modo per aggirare le sanzioni a dodici stelle, mentre l’intesa per le materie prime critiche sono una sottrazione alle ambizioni europee.Rame e terre rare sono tra le risorse che la Mongolia può offrire. Elementi utili al Green Deal dell’Unione europea, schiacciata tra l’esigenza di condannare la Russia di Putin e l’impossibilità di una linea troppo dura nei confronti di un partner strategico che rischia di sfuggire. Perché anche Elon Musk, ha considerato l’ipotesi di andare a produrre in Mongolia le batterie per le sue Tesla elettriche in ragione di quello che si trova nel sottosuolo mongolo. Che offre molto di più del rame. Ci sono litio, nichel e manganese, tutti utili per le batterie, il molibdeno, strategico come componente delle celle solari, e ancora la grafite, necessaria per i transistor, i dispositivi elettronici presenti nei semiconduttori di cui l’Ue ha bisogno per la sua doppia transizione verde e tecnologica.L’accordo di cooperazione Ue-Mongolia è entrato in vigore nel 2017, e l’aggressione russa dell’Ucraina nel 2022 ha indotto il blocco dei Ventisette a dover ridisegnare ogni agenda e la necessità di una diversificazione degli approvvigionamenti. A Bruxelles si sono resi conto che la dipendenza dell’Unione europea da catene di fornitura credibili e sicure per materie prime critiche utili a tradurre in pratica la doppia transizione e gli sforzi della Mongolia per diversificare in modo sostenibile le sue relazioni economiche potrebbero avvicinare i due soggetti, tenuto conto anche delle esigenze europee di affrancarsi dal fornitore cinese.Gli analisti del Parlamento europeo fanno un punto della situazione, in un documento di lavoro che riassume passato, presente, e potenziali scenari futuri: “Mentre la corsa alle materie critiche è in pieno svolgimento e i principali paesi importatori di queste materie prime hanno progettato politiche di riduzione del rischio economico per trovare alternative all’attuale quasi monopolio delle esportazioni della Cina come le terre rare, l’Ue e la Mongolia potrebbero stipulare una partnership sulle materie prime critiche“.Un partenariato di tale tipo e natura sarebbe una formula vincente per entrambi i contraenti. La produzione energetica della Mongolia ad oggi deriva al 95 per cento dal carbone, e il potenziale per le rinnovabili resta non sfruttato. L’Ue può offrire una mano per pulire l’economia mongola, e pulire la propria attraverso quelle risorse che non ha ma che potrebbe ottenere dal partner. Il dilemma tutto europeo è servito. La Mongolia acquista una rilevanza e una valenza tutta nuova in uno scacchiere internazionale sempre più complesso. In questa partita Putin sembra aver giocato d’anticipo, con le autorità di Ulan Bator che non ne hanno disposto l’arresto per un risultato che è una doppia beffa per l’Europa. “La Mongolia ha tutto il diritto di stabilire le proprie relazioni bilaterali”, il punto è proprio questo, e la portavoce della Commissione ne è consapevole tanto è vero che lo ricorda lei stessa. La Mongolia, schiacciata tra Russia e Cina, ha fatto le sue scelte, che non sorridono all’Ue.

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    La saga dell’eurodeputato greco incarcerato in Albania è (forse) giunta alla fine

    Bruxelles – Sembrano infine terminati, o quasi, i guai giudiziari di Fredi Beleri, ex sindaco del comune albanese di Himarë ed eletto come eurodeputato nelle liste greche. Il suo caso era diventato motivo di scontro diplomatico tra i due Paesi, che si sono accusati a vicenda di interferenze nelle indagini e di politicizzazione della giustizia. Dopo oltre un anno dietro le sbarre, il politico albanese di origini elleniche (che ha il doppio passaporto) è stato scarcerato e potrà ora rappresentare i suoi elettori – e la minoranza greca in Albania – al Parlamento europeo. La liberazione di Beleri, festeggiata con un tweet da Manfred Weber, il capo del Partito popolare europeo (Ppe) di cui fa parte Nuova democrazia, è avvenuta nella giornata di lunedì (2 settembre). Come confermato alla stampa dal suo legale, il rilascio è avvenuto con la formula della libertà condizionata, che richiede a Beleri di “mantenere cinque settimane di contatto con il servizio carcerario”. L’ex primo cittadino deve ora scontare altre sei settimane di reclusione prima di estinguere completamente la propria pena, che è stata ridotta dopo la sua elezione a europarlamentare. Beleri è stato incarcerato con l’accusa di compravendita di voti nel maggio 2023, due giorni prima delle elezioni comunali, che poi ha vinto senza però potersi insediare. È stato poi condannato lo scorso giugno con sentenza definitiva a due anni di reclusione, dopo che l’appello ha confermato la condanna in primo grado emessa nel marzo di quest’anno. Una decisione che egli stesso avrebbe intenzione di impugnare di fronte alla Corte europea dei diritti umani (Cedu), con sede a Strasburgo. Per il momento, nella città alsaziana si è già recato in qualità di eurodeputato per la sessione inaugurale della decima legislatura (lo scorso luglio), dopo essere risultato il terzo eletto tra le fila del suo partito per numero di preferenze. Il cinquantaduenne Beleri, dunque, è stato eletto eurodeputato mentre era dietro le sbarre, proprio come successo all’italiana Ilaria Salis che ha ottenuto un seggio da parlamentare europea durante la detenzione a Budapest. Due casi piuttosto inusuali che hanno aperto il giallo relativo alle regole sull’immunità parlamentare dei deputati all’Eurocamera – soprattutto nel caso di Beleri, dato che l’Albania è un Paese extra-Ue. Nel frattempo, ad Himarë sono state ripetute le elezioni comunali lo scorso 4 agosto, vinte da Vengjel Tavo, pure lui di origini greche ed appartenente al partito socialista del premier Edi Rama.Da Atene, il vicepremier Pavlos Marinakis ha commentato la scarcerazione come “sicuramente uno sviluppo positivo”, ma ha aggiunto che “questo non significa che dimenticheremo ciò che è accaduto“. Il governo greco sostiene, come lo stesso Beleri, che il processo intentato dalle autorità albanesi sia politicamente motivato. Accusa respinta al mittente da Tirana, che al contrario critica alla Grecia di interferire nelle sue vicende giudiziarie interne. Ma la disputa diplomatica tra i due Paesi balcanici potrebbe avere conseguenze reali. Il governo conservatore greco, guidato da Kyriakos Mitsotakis (compagno di partito di Beleri), ha infatti minacciato di bloccare i progressi dell’Albania nel suo percorso di adesione all’Ue se Tirana non avesse posto fine a quella che riteneva un’ingiustificata violazione dei diritti politici dell’ex sindaco di Himarë. Per ora, i negoziati per l’ingresso del Paese ex comunista nel blocco non si sono ancora sbloccati.

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    “Riportate a casa gli ostaggi”: lo sciopero generale in Israele contro Netanyahu

    Bruxelles – Era da prima del 7 ottobre dell’anno scorso, e prima della conseguente guerra nella Striscia di Gaza, che non si vedeva in Israele una protesta così partecipata. Nel weekend, decine di migliaia di persone hanno inondato le strade di Tel Aviv e Gerusalemme, mentre oggi (2 settembre) è in corso il primo sciopero nazionale da un anno e mezzo, che potrebbe essere prolungato. I manifestanti chiedono al primo ministro Benjamin Netanyahu di accettare un accordo con la leadership di Hamas e permettere il rientro degli ostaggi ancora vivi, dopo il rinvenimento di sei cadaveri israeliani nella Striscia. “Domani l’intera nazione si fermerà e si unirà in un grido comune per riportare indietro gli ostaggi”, si legge nel comunicato diffuso domenica (1 settembre) da Histadrut, il sindacato più grande del Paese che rappresenta circa 800mila lavoratori. L’annuncio della mobilitazione, giunto per voce del segretario dell’associazione Arnon Bar-David, è arrivato durante la manifestazione di ieri sera, organizzata nella capitale israeliana dal forum delle famiglie degli ostaggi rapiti durante l’attacco del 7 ottobre. Bar-David si è riservato di valutare un’eventuale estensione dello sciopero oltre la giornata di lunedì.Le proteste di domenica sono state fortemente partecipate anche a causa della notizia, giunta la mattina stessa, del ritrovamento dei cadaveri di sei ostaggi nei tunnel sotto la città palestinese di Rafah, nel sud della Striscia. A Tel Aviv si sono radunate decine di migliaia di persone per chiedere al governo di intensificare gli sforzi negoziali e riportare a casa le decine di ostaggi ancora in vita – il cui numero non si conosce con esattezza, ma che secondo le stime dovrebbero essere circa una settantina. I manifestanti hanno esibito delle bare per sottolineare le responsabilità del governo nella morte degli ostaggi, dato lo stallo nelle trattative con i dirigenti di Hamas che appare motivato più da calcoli politici interni all’esecutivo di Bibi che non da considerazioni pragmatiche. Anche a Gerusalemme, fuori dell’ufficio del premier, si sono raggruppate folle di contestatori. In alcuni casi, soprattutto nella capitale Tel Aviv, si sono registrati scontri con la polizia. Così, dalle 6 locali di questa mattina (le 5 italiane) centinaia di migliaia di lavoratori hanno incrociato le braccia, nello sciopero più ampio realizzato dal marzo 2023, prima dell’inizio delle operazioni militari dell’Idf nella Striscia. L’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv è rimasto bloccato per un paio d’ore in mattinata, mentre i trasporti e i servizi pubblici (incluse le scuole) sarebbero stati fortemente ridotti. Del resto, lo stesso sindaco della capitale, Ron Huldai, ha pubblicamente invitato i dipendenti dell’amministrazione a partecipare allo sciopero. Mentre i negoziati sono sostanzialmente bloccati a causa delle richieste inconciliabili delle due parti, sono partite le vaccinazioni nella Striscia per prevenire l’esplosione di un’epidemia di poliomielite tra i bambini palestinesi. La pausa nei combattimenti, limitata soltanto ad alcune zone e ad una specifica fascia oraria giornaliera, dovrebbe durare tre giorni e permettere la vaccinazione di tutti i bambini sotto i dieci anni di età, che sono oltre 640mila. Un’impresa il cui esito positivo è tutt’altro che scontato.Nel frattempo, continuano le violenze nella Cisgiordania occupata, dove è in corso una grande operazione militare israeliana che ha interessato diverse città e che ha già fatto almeno una quindicina di morti palestinesi. Il tutto dopo che, lo scorso luglio, il governo israeliano aveva spinto ulteriormente sull’acceleratore dell’occupazione illegale nei Territori palestinesi in una mossa che è valsa nuove sanzioni da parte dei Ventisette. L’Alto rappresentante Ue per la politica estera Josep Borrell ha proposto formalmente giovedì scorso (29 agosto) di sanzionare i ministri della Sicurezza (Itamar Ben-Gvir) e delle Finanze (Bezalel Smotrich) in risposta alle posizioni espresse recentemente dai due (entrambi appartenenti a partiti di estrema destra, su cui si regge il governo di Netanyahu) riguardo alla necessità di bloccare la distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia e alla possibilità, giustificabile in termini “morali”, di affamare la popolazione palestinese. 

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    Von der Leyen: “Dobbiamo costruire una produzione di difesa di dimensioni continentali”

    Bruxelles – Gli Stati uniti sono grandi amici, possiamo contare su di loro, ma è giunto il momento che l’Europa si doti degli strumenti per difendersi da sola, il futuro è pieno di minacce. E’ l’appello che con grande forza ha lanciato oggi la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel suo discorso di apertura al GLOBSEC Forum 2024 di Praga, il forum sulla sicurezza più importante dell’Europa centrale, come la presidente stessa l’ha definito.Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, per aiutare un Paese la cui prospettiva è l’adesione all’Unione, ha ribadito von der Leyen, “l’Europa ha superato la sua lunga riluttanza a spendere abbastanza per la propria difesa”. “Non sottolineerò mai abbastanza l’importanza del sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina dall’inizio di questa guerra. Ancora una volta – ha sottolineato la politica tedesca -, l’America ha difeso la libertà di tutti gli europei. Provo un profondo senso di gratitudine per questo, ma anche un profondo senso di responsabilità”.Gli Stati Uniti però da tempo stanno cercando di alleggerirsi del carico della difesa dell’Europa, e la situazione potrebbe precipitare se alle elezioni di novembre dovesse vincere Donald Trump. Dunque “proteggere l’Europa è innanzitutto un dovere dell’Europa. E se la Nato deve rimanere il centro della nostra difesa collettiva – ha spiegato von der Leyen -, abbiamo bisogno di un pilastro europeo molto più forte. Noi europei dobbiamo avere i mezzi per difenderci e proteggerci e per scoraggiare eventuali avversari”.Dall’inizio della guerra, “abbiamo già compiuto progressi senza precedenti. Gli Stati membri hanno aumentato la spesa per la difesa, passando da poco più di 200 miliardi di euro prima della guerra a quasi 300 miliardi di euro quest’anno. Anche la nostra industria della difesa si è adeguata alla nuova realtà. Abbiamo riaperto le linee di produzione. Abbiamo piazzato nuovi ordini e ridotto la burocrazia per l’industria, per produrre di più e più rapidamente”, ha ricordato la presidente della Commissione. “Ma questo non basta. La realtà è che anche se gli europei prendono sul serio le attuali minacce alla sicurezza, ci vorranno tempo e investimenti per ristrutturare le nostre industrie della difesa. Il nostro obiettivo – ha sottolineato – deve essere quello di costruire una produzione di difesa di dimensioni continentali”.Secondo la presidente “la sfida è che i piccoli Paesi e le piccole imprese imparino a pensare in grande, davvero in grande. Dobbiamo avere in mente una revisione sistemica della difesa europea. Questa è la responsabilità strategica dell’Europa, a prescindere dall’esito delle elezioni americane del 5 novembre”.Per von der Leyen “all’inizio di questo decennio, molte illusioni si sono infrante in Europa. L’illusione che la pace fosse stata raggiunta una volta per tutte. L’illusione che la prosperità potesse essere più importante per Putin rispetto ai suoi deliranti sogni di impero. L’illusione che l’Europa stesse facendo abbastanza in materia di sicurezza, sia economica che militare”.Dunque, ha concluso la presidente della Commissione “oggi non possiamo permetterci altre illusioni. La seconda metà del decennio sarà ad alto rischio. La guerra contro l’Ucraina e il conflitto in Medio Oriente hanno messo in movimento la geopolitica. Anche in Estremo Oriente la tensione è alta. Noi europei dobbiamo stare in guardia. Dobbiamo concentrare la nostra attenzione sulla dimensione della sicurezza in tutto ciò che facciamo”. Dobbiamo pensare alla nostra Unione come a un progetto di sicurezza intrinseco”.

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    Crosetto: “Bene un Commissario alla difesa, ma vanno anche riviste le regole per la spesa degli Stati”

    Bruxelles – Per il ministro italiano alla Difesa Guido Crosetto è un bene che l’Unione europea abbia iniziato ad occuparsi più seriamente di difesa, anche creando un nuovo portafoglio dedicato nella prossima Commissione. Le questioni strategiche sono diventate centrali in questa fase storica, ha dichiarato il titolare del dicastero ai margini del Consiglio informale a Bruxelles. Ma per centrare gli obiettivi di spesa fissati dall’Europa e dalla Nato è necessario rivedere le regole di bilancio comunitarie, che impediscono agli Stati membri di mettere in campo le risorse necessarie. “Ho letto” che la presidente eletta dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen “nominerà un commissario europeo per la Difesa: la cosa non può che farmi piacere”, ha dichiarato il ministro ai giornalisti in uscita dalla riunione con gli omologhi dei Ventisette. L’incontro di oggi chiude la due giorni di informali – ieri (29 agosto) si sono visti i titolari degli Affari esteri – nota come Gymnich, che segna la ripresa dei lavori dopo la pausa estiva. In uno strappo alla regola, i meeting si sono tenuti a Bruxelles anziché a Budapest (capitale del Paese che detiene la presidenza di turno dell’Ue) come forma di sanzione al governo ungherese, il cui leader Viktor Orbán ha indispettito Commissione e cancellerie per i suoi disinvolti tour “diplomatici” tra Ucraina, Russia, Cina e Stati Uniti. Crosetto si augura anche “che la sottocommissione Difesa diventi una commissione permanente anche all’interno del Parlamento europeo“, sostenendo che “se è così rilevante costruire la difesa del futuro per ogni Paese europeo, per l’Europa intera, allora bisogna adeguarsi e quindi ridare uno spazio che la difesa non ha avuto in questi anni, soprattutto quella europea”. Data la centralità acquisita dal tema in questo periodo, ha ribadito il ministro, è necessario che il blocco si attrezzi con adeguate strutture politiche. Ma soprattutto, ha insistito, è fondamentale che venga adeguato anche il quadro normativo che determina lo spazio di manovra finanziaria degli Stati membri. Crosetto ha chiesto all’Ue di “decidere” tra il rigore di bilancio e la spesa militare, ora che inizia un nuovo ciclo istituzionale fino al 2029: “Se la difesa è fondamentale in questa fase che stiamo vivendo”, ha spiegato, “l’Europa deve decidere se escludere le spese della difesa” dal Patto di stabilità e crescita (Psc), quello che elenca i vincoli che i Ventisette devono rispettare (come rapporto debito/Pil al 60 per cento e quello deficit/Pil al 3 per cento). A decidere sul budget per la difesa, nelle parole del ministro, non è il ministro della Difesa ma quello dell’Economia e delle finanze, che “non decide in base alla situazione di sicurezza nel mondo, ma in base ai vincoli che arrivano dall’Unione europea”.  E ha avvertito: “Se questo non accade non riusciremo ad assumerci gli impegni che l’Europa stessa vuole assumersi”, sottolineando che il Segretario generale aggiunto della Nato Angus Lapsley “mi ha dato ragione”. Lo stesso funzionario dell’Alleanza, ha continuato Crosetto, “ha detto che all’Alleanza non basterà più il 2 per cento” del Pil nazionale da destinare alle spese militari, ma “si andrà al 2,5 per cento o al 3 per cento“. Nel caso italiano, dove attualmente non si riesce a centrare nemmeno il target del 2 per cento fissato dall’Alleanza atlantica, la difesa andrà adeguata “alle nuove sfide e al nuovo mondo”: e per farlo, occorrono risorse che solo il Mef può gestire, ma finora ha avuto le mani legate da Bruxelles.

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    Ucraina, tensione Borrell-Tajani: “Ridicolo non permettere a Kiev di attaccare”

    Bruxelles – Sulla guerra russa in Ucraina, adesso è strappo Ue-Italia e tensioni tra l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, e il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Il primo non gradisce la linea del secondo, e ne critica le argomentazioni. Negare, come ha fatto Tajani, la possibilità di utilizzo delle armi degli alleati su suolo russo è una logica considerata come ipocrita. “Penso sia ridicolo dire che consentire di colpire all’interno del territorio russo significhi essere in guerra contro Mosca”, sostiene Borrell all’inizio della riunione informale dei ministri della Difesa, tornando sulle dichiarazioni di Tajani di ieri. Il ministro degli Esteri ha detto che l’Unione non è in guerra contro la Russia per spiegare il ‘no’ del governo all’eliminazione delle restrizioni sull’utilizzo delle armi occidentali, e l’Alto rappresentante insiste nel bacchettare il partner: “Non siamo in guerra contro Mosca, penso sia ridicolo dirlo. Stiamo sostenendo l’Ucraina“. Ecco il distinguo operato da Borrell, per replicare alle affermazioni non gradite dell’Italia. “L’Ucraina – continua Borrell – viene attaccata dal territorio russo e, secondo il diritto internazionale, può reagire attaccando i luoghi da cui viene attaccata. Quindi, non c’è nulla di strano in questo”. Dall’Italia dunque dichiarazioni inaccettabili e posizioni incomprensibili. Resta fermo per gli Stati membri il diritto di scegliere, questo Borrell né lo nega né lo mette in discussione. “E’ chiaro che questa è una cosa che spetta a ciascuno di loro”, anche perché quella estera e di difesa “non è una politica dell’Ue”. Quindi, a Tajani che lo accusava di parlare a titolo personale, replica: “Come Alto rappresentante devo avere opinioni personali se voglio spingere il consenso tra gli Stati membri”. Le riunioni informali aprono un solco tra il governo Meloni e l’Ue.

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    Medio Oriente, Borrell formalizza la richiesta di sanzioni per i ministri di Israele. “Decideranno gli Stati, ma il processo è avviato”

    Bruxelles – Josep Borrell non molla, al contrario insiste. L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue vuole mandare un messaggio, chiaro e diretto: c’è un’Unione europea che non è più disposta a sostenere le ragioni di Israele di fronte a una risposta all’aggressione di Hamas che ha passato il limite del tollerabile. L’idea di sanzionare i ministri israeliani per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, e delle Finanze, Bezalel Smotrich, diventerà una proposta formale e ufficiale.“Ho deciso di proporre l’inclusione dei due ministri israeliani nella lista Ue delle sanzioni”, annuncia al termine della riunione informale dei ministri degli Esteri. “Ovviamente spetterà ai ministri decidere, come sempre, il processo sarà avviato“. La proposta con ogni probabilità sarà affossata dagli Stati. L’unanimità richiesta per approvare le sanzioni non c’è, vista la contrarietà dichiarata dell’Italia, ma non solo. L’idea non piace all’Ungheria di Orban, e neppure alla Germania. Ma Borrell vuole comunque inviare un messaggio al governo di Benjamin Netanyahu.Non vengono messe in discussione le ragioni dello Stato ebraico. “L’attacco di Hamas ha dato origine a una guerra, e la guerra ha dato origine a una situazione drammatica dal punto di vista umanitario”, dice sintetizzando in estrema sintesi gli avvenimenti dal 7 ottobre 2023 in poi. Ma si scaglia contro la reazione di Israele, e una condotta che a Bruxelles viene vista come irresponsabile. “Dichiarazioni sulla costruzione di una sinagoga dentro una moschea suggeriscono una radicalizzazione della situazione” da parte israeliana, aggiunge in conferenza stampa. Una presa di distanze da Ben-Gvir, che ha dichiarato di voler costruire un luogo di culto ebraico laddove sorge la mosche di Al-Aqsa, a Gerusalemme.E’ l’ultimo atto di una giornata iniziata con un attacco frontale di Borrell nei confronti di Israele. Ai Ventisette chiedeva di condannare l’operato dell’amministrazione Netanyahu, bollata come “inaccettabile”, e di non prevedere tabù nei confronti di un alleato storico considerato dall’Alto rappresentante come non più difendibile. Finora l’Ue si era espressa contro i coloni estremisti, decretando sanzioni restrittive nei loro confronti, ma è la prima volta che prende corpo l’iscrizione nella lista nera di esponenti di governo israeliano. Con ogni probabilità la linea Borrell non passerà, ma adesso Tel Aviv è avvisata: il sostegno senza ‘se’ e senza ‘ma’ dell’Europa è rimessa in discussione.E’ questa un’altra incrinatura dei rapporti tra Europa e Israele, dopo che Belgio e Slovenia hanno sostenuto l’azione legale del Sudafrica, che ha trascinato lo Stato ebraico davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, con l’accusa di crimini di genocidio nei confronti dei palestinesi.