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    Manovra: governo valuta nuovo taglio contributi nel 2022

    Un nuovo intervento di decontribuzione, una tantum, nel 2022. E’ una delle ipotesi al vaglio di governo e maggioranza nel pacchetto di modifiche alla manovra per sfruttare il “tesoretto” generato dal minor costo del taglio delle tasse nel 2022. Resta la volontà di rafforzare l’intervento contro il caro bollette ma le risorse potrebbero andare anche a ridurre il cuneo contributivo. Le principali opzioni sono un taglio dei contributi ai lavoratori con i redditi più bassi (come gli incapienti), o un intervento lato imprese sul Cuaf, il contributo che pagano i datori di lavoro per gli assegni familiari. Possibile un mix di misure.
    Governo e maggioranza al lavoro sui ritocchi al Superbonus: tra le ipotesi di mediazione che si stanno valutando ci sarebbe anche quella di alzare, senza eliminare, il tetto Isee per l’accesso all’incentivo al 110% su case unifamiliari e villette. Il limite potrebbe essere alzato dagli attuali 25mila euro a 40mila euro di Isee. Il nodo rimane quello delle risorse: la misura costerebbe diverse centiania di milioni e andrà valutata la sua compatibilità con l’intero pacchetto di modifiche alla manovra.
    Il premier Mario Draghi dovrebbe tenere domani una riunione con i sindacati alle 17.30 a Palazzo Chigi per discutere della legge di bilancio. E’ quanto apprende l’ANSA da fonti governative.
    Il presidente del Consiglio ha ricevuto a Palazzo Chigi i rappresentanti del gruppo parlamentare delle Autonomie, i senatori Julia Unterberger, Albert Laniece, Dieter Steger, per discutere della legge di bilancio. Con il premier ci sono i ministri dell’Economia Daniele Franco e ai Rapporti col Parlamento Federico D’Incà. Draghi chiude gli incontri con i gruppi di maggioranza sulla manovra. 
    “Gli abbiamo chiesto di rimanere fino al termine della legislatura per non mettere in pericolo tutto il buono che è iniziato e che deve rimanere fino alla fine, fino al 2023. Lui si è messo a ridere, ha sorriso, ma non ha detto niente”. Lo dice Julia Unterberger, presidente del gruppo delle Autonomie, all’uscita da Palazzo Chigi dopo l’incontro sulla manovra con il premier Mario Draghi. “Il presidente Draghi come sempre ci ascolta e ascolta quello che per i nostri territori è importante, l’abbiamo ringraziato per le vaccinazioni che sono andate bene in Italia, per aver chiesto il Green pass sui posti di lavoro e non aver fatto i test gratuiti che fanno la differenza con Austria e Germania”, afferma Unterberger. “Noi leggiamo i giornali in lingua tedesca e da quando c’è Draghi e ha fatto la sua campagna vaccinale l’immagine dell’Italia è molto migliorata, quei giornali parlano di modello italiano e questa cosa a noi fa piacere: gli abbiamo fatto i complimenti e poiché lui è molto simpatico ha subito minimizzato e ha detto grazie”.
    “Noi abbiamo il nostro Casini nel gruppo, è un membro importante: tifiamo per lui”, dice la presidente del gruppo delle Autonomie, all’uscita da Palazzo Chigi dopo l’incontro sulla manovra con il premier Mario Draghi, rispondendo a una domanda sul Quirinale. “Se non avessimo Casini, io personalmente tiferei per una donna”, aggiunge la senatrice.
    Avete chiesto a Draghi di restare al governo fino a fine legislatura? “Non ne abbiamo parlato ma riteniamo che il presidente Draghi stia facendo molto bene nella gestione di partite molto importanti come la legge bilancio ma anche il Pnrr su cui Draghi ha dato un contributo fondamentale”. Così Marco Marin, deputato di Coraggio Italia, risponde a una domanda dopo il colloquio a Palazzo Chigi con Draghi sulla manovra. “C’è la pandemia e la campagna di vaccinazione su cui l’Italia sta andando meglio degli altri Paesi europei: riteniamo che Draghi sia una garanzia fino al 2023 per gli italiani”, sottolinea.
    “Un incontro proficuo e molto franco, in cui abbiamo ribadito al presidente Draghi il nostro pieno sostegno”. Così la ministra Elena Bonetti commenta l’incontro a Palazzo Chigi fra la delegazione di Italia Viva e il presidente del Consiglio, Mario Draghi, cui ha preso parte con Davide Faraone e Maria Elena Boschi. “Non lo nascondiamo, siamo soddisfatti del lavoro che il governo sta portando avanti”, aggiunge. “Abbiamo confermato un sostegno fattivo e concreto e abbiamo aperto ad alcune tematiche strategiche e urgenti”. La manovra pone “temi giusti per la ripartenza e lo sviluppo del Paese”. “Un anno fa – sottolinea Boschi – uscivamo da Palazzo Chigi più preoccupati per il Paese, oggi usciamo molto rassicurati perchè abbiamo un governo autorevole che va nella giusta direzione e ha il nostro appoggio”.
    La delegazione di Liberi e uguali, composta dal ministro della Salute Roberto Speranza, i capigruppo di Camera e Senato Federico Fornaro e Loredana De Petris, e Vasco Errani, relatore al Senato della manovra, è a palazzo Chigi per l’incontro con il presidente del Consiglio Mario Draghi sulla manovra.
    Intanto, per il ministro del Turismo, la variante Omicron del coronavirus “scombina un po”” i piani del settore turistico e obbliga a dover “ancora aspettare” per l’apertura di molti corridoi per i viaggi organizzati all’estero e un aumento delle visite internazionali, per cui, “a questo punto”, in legge di bilancio “di sicuro” un intervento “più corposo verrà previsto”, ha detto a margine dell’assemblea generale dell’Organizzazione Mondiale del Turismo (Omt) a Madrid.

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    Quirinale 1971: Natale amaro per Fanfani, arriva Giovanni Leone

    Se la vendetta è un piatto che va consumato freddo, quella di Leone su Fanfani fu freddissima: sette anni per prendersi la rivincita sul politico aretino che con le sue manovre gli aveva sbarrato la strada per il Colle nel 1971. La rivincita è quasi un bis dello spettacolo di manovre andato in scena sette anni prima: identico il periodo, quello di Natale, quasi identico il gran numero di votazioni necessarie per arrivare all’elezione (23, due in piu’ del 1971, record ancora insuperato). In quel dicembre di 43 anni fa bisogna scegliere il successore di Giuseppe Saragat.
    A Piazza del Gesù, il segretario Arnaldo Forlani e i maggiorenti della Dc concordano tutti su un punto: dopo il laico Saragat a salire sul colle più alto deve essere un politico democristiano. Ma la rivendicazione, invece di favorire un clima di concordia, ha l’effetto opposto. Fanfani e Moro, i due “cavalli di razza” del partito, si sono incontrati più volte per stringere un accordo: Fanfani offre a Moro la segretaria del partito in cambio del via libera al Quirinale, ma il suo rivale non è del tutto convinto. L’assemblea dei grandi elettori Dc viene convocata l’8 dicembre, a sole 16 ore dall’inizio delle votazioni in aula. Ha la meglio, a scrutinio segreto, Fanfani. Ma la corsa dell’aretino parte subito con qualche handicap: nella prima gli mancano 40 voti dei grandi elettori Dc, che diventano 55 nel pomeriggio. I franchi tiratori fanno restare Fanfani dietro al candidato unitario delle sinistre, il socialista Francesco De Martino, votato anche dal Pci. La Dc non riesce a unire il fronte dei piccoli partiti di centro. E così Fanfani sperimenta la triste sorte subita da Leone sette anni prima, infilato dai dissidenti Dc che non lo vogliono al Quirinale e dagli alleati che puntano su altre soluzioni. Dalla VII votazione la Dc, sfibrata dagli insuccessi, sceglie di astenersi: un trucco per neutralizzare i franchi tiratori. All’XI votazione la Dc torna a riproporre Fanfani, convinto di aver strappato il consenso dei partitini laici.
    Ma è un nuovo “bagno”: i suoi voti arrivano al punto più alto (393), ma resta dietro De Martino. A Fanfani non resta che annunciare il ritiro. Per altre 12 votazioni la Dc si rifugia in un’umiliante astensione. Il Natale si avvicina e come sette anni prima si rischia il nulla di fatto. Il 22 dicembre, alla XXII votazione, le sinistre abbandonano la candidatura di De Martino e fanno scendere in pista Pietro Nenni: confidano che la Dc prenda atto che senza i voti dei socialisti non si va da nessuna parte.
    Ma la Dc, se vuole mantenere il punto, deve correre ai ripari. Matura in quelle ore la candidatura di Giovanni Leone: Pri e Psdi inseriscono il suo nome in una terna con Paolo Emilio Taviani e Mariano Rumor che però si defilano subito. L’assemblea dei grandi elettori Dc, a scrutinio segreto, deve scegliere tra Leone e Moro. La vittoria, di misura, va a Leone, che riceve la notizia a casa, costretto al letto da una bronchite. Il numero esatto dei voti non si saprà mai perchè gli scrutatori bruciarono subito le schede. Il 23 dicembre, Leone manca il quorum per un solo voto, fermandosi a quota 503. Il giorno dopo, vigilia di Natale, viene eletto con 511 voti: lo votano democristiani, socialdemocratici, repubblicani, liberali e missini. Una maggioranza anomala rispetto a quella che governa il Paese. Tra i suoi primi atti lo scioglimento delle Camere, due mesi dopo la sua elezione. I suoi sette anni al Colle finirono più burrascosamente di quanto non siano cominciati: accusato dalla giornalista Camilla Cederna e dai radicali di essere coinvolto nello scandalo Lockheed (accuse mai provate, anzi la Cederna fu condannata per diffamazione e Pannella gli chiese pubblicamente scusa), fu scaricato dalla Dc e costretto alle dimissioni il 15 giugno 1978, sei mesi prima della scadenza del suo mandato.

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    Quirinale 1964: via crucis per Giovanni Leone, ce la fa Giuseppe Saragat

    Con Antonio Segni fuori dai giochi per l’emorragia celebrale che lo aveva colpito nell’agosto del ’64, le funzioni di capo dello Stato – pur davanti all’evidenza dell’impedimento permanente che prevede il decadimento del presidente e una nuova elezione – passano al “supplente” Cesare Merzagora che esercita il suo ruolo per ben quattro mesi. Solo il 6 dicembre, infatti, dalla famiglia Segni arriva una lettera di dimissioni aprendo la partita per l’elezione del successore. La prima seduta del Parlamento viene fissata per il 16 dicembre. Il partito di maggioranza relativa, guidato dal doroteo Mariano Rumor (a palazzo Chigi c’è Aldo Moro), è sempre pronto a dividersi quando si tratta di scegliere l’uomo da mandare al Quirinale. E così fa anche questa volta.
    In pista ci sono Amintore Fanfani, Mario Scelba e Giulio Pastore, ma alla fine, il giorno prima dell’inizio delle votazioni, i gruppi scelgono a scrutinio segreto di puntare sul presidente della Camera Giovanni Leone. Lo sfidante è il socialdemocratico Giuseppe Saragat, che ancora una volta punta sulle crepe nello scudocrociato per raggiungere il traguardo. Sulla carta Leone ha la possibilità di farcela dal quarto scrutinio. Ma i franchi tiratori non gli lasciano spazio: Leone è costretto a una lunga via crucis nella quale i suoi voti fluttuano senza mai avvicinarsi al quorum. Vista la mala parata Leone sarebbe dell’avviso di ritirarsi, ma la Dc non vuole cedere. “Questa è la mortificazione di una Dc stracciata” dice il segretario della Dc Mariano Rumor, sperando in un pentimento dei frondisti . Le votazioni si susseguono inutilmente, mentre si avvicina il Natale. Al ministro calabrese Gennaro Calviani, arrivato a Montecitorio ingessato per un incidente automobilistico, qualcuno dice: “Farai prima a toglierti i gessi che noi ad eleggere il presidente”.
    D’altra parte, anche la candidatura di Saragat non decolla. Dopo le prime votazioni i socialisti passano a votare per il loro segretario Piero Nenni. Anche i comunisti, dopo dodici scrutini in cui votano in blocco per il loro candidato di bandiera Umberto Terracini, spostano i loro voti su Nenni. Se franchi tiratori Dc e seguaci di Saragat si coalizzano Nenni può anche farcela. Leone prende 406 voti al quattordicesimo scrutinio, ma al quindicesimo ridiscende a 386. E’ il momento di gettare la spugna. Ormai siamo arrivati alla vigilia di Natale. Il 25, nonostante il giorno di festa, tutti convocati ma la Dc, per neutralizzare i franchi tiratori, decide di astenersi. Nenni si ferma a quota 349. Piazza del Gesù usa il pugno duro contro due franchi tiratori rei confessi: l’ex sindacalista Carlo Donat-Cattin e il giovane Ciriaco De Mita vengono sospesi per un anno per aver disobbedito alle direttive del partito.
    Piazza del Gesù è in un vicolo cieco: se vuole salvare la faccia la grande balena bianca deve accettare di sostenere Saragat, che dopotutto è un fedele alleato di governo. Decisione sofferta, che prende tutto il giorno di Santo Stefano. Si ricomincia a votare: la Dc prima si astiene, poi comincia a votare per Saragat, ma i socialisti continuano a mettere nell’urna la scheda con il nome di Nenni. Il segretario del Psi incontra Saragat e acconsente a dargli i suoi voti. In quelle stesse ore i socialdemocratici vanno a chiedere i voti anche al segretario del Pci Luigi Longo. La risposta è che Saragat, se vuole averli, deve chiederli pubblicamente. Il fondatore del Psdi se la cava con una dichiarazione in cui auspica la convergenza sul suo nome di “democratici e antifascisti”. Per il Pci è sufficiente. Finalmente, il 28 dicembre, al ventesimo scrutinio, Saragat viene eletto presidente della Repubblica con 646 voti.

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    Quirinale 1962: Antonio Segni batte Saragat e la fronda Dc

    “Hai visto che è successo sette anni fa? Questa volta dobbiamo essere prudenti, molto prudenti”. Scottato dall’esperienza del 1955, quando il suo candidato Merzagora era stato silurato in favore di Gronchi, Amintore Fanfani non vuole più commettere errori. Adesso lui è a palazzo Chigi, con un governo che ha il sostegno esterno dei socialisti e Aldo Moro, l’altro cavallo di razza della Dc, ha preso la guida del partito. I due si ritrovano uno di fronte all’altro nello studio di Fanfani a Palazzo Chigi e studiano il da farsi. Qualche mese prima Fanfani, alla guida del governo con un’alleanza che per la prima volta vedeva i socialisti dare il loro appoggio esterno, ha stretto un patto con la corrente moderata dei dorotei: a lui la certezza di continuare a guidare il governo, alla destra Dc la candidatura del loro esponente più autorevole, Antonio Segni, un sardo di famiglia aristocratica, vecchio esponente dei popolari di Sturzo, tra i fondatori della Dc e autore dell’importante riforma agraria approvata dai governi De Gasperi.
    Ma a ridosso dell’inizio delle votazioni, i giochi si riaprono. Moro nello studio di Fanfani, spiega come la vede: la Dc candida Segni, Pri e socialdemocratici candidano Saragat, che avrà anche i voti di socialisti e comunisti; nessuno ottiene la maggioranza e entro pochi giorni si arriverà al candidato vero. Quale? Nei suoi diari Fanfani resta nel vago (“non si e’ parlato di me”) ma il suo nome circola su tutti i giornali. Tanto è insistente il tam tam che Gronchi chiama Fanfani e gli chiede di smentire ufficialmente tutte le voci.
    Il politico aretino non ci casca: “Ma io non posso smentire quello che non esiste”, gli risponde serafico. La partita è doppiamente complicata perchè, facendo conto sulle divisioni della Dc, il capo dei socialdemocratici Giuseppe Saragat si è candidato con non poche possibilità di successo. Si arriva così all’assemblea dei gruppi della Dc del 30 aprile: Segni vince ma non stravince. Alla prima votazione del 2 maggio il candidato della Dc prende 333 voti (una settantina in meno rispetto al totale dei parlamentari dc) ma è comunque in testa. I primi tre scrutini non riservano sorprese. Dal quarto in poi Saragat viene votato da comunisti e socialisti e si avvicina pericolosamente: 354 per il candidato Dc 321 per il socialdemocratico. I socialisti di Nenni provano a sparigliare proponendo di far ritirare tanto Segni quanto Saragat e di puntare su un terzo uomo a scelta tra Leone e Merzagora. Ma Moro non vuole mandare all’aria la fragile unità del partito e Fanfani intima ai franchi tiratori di rientrare nei ranghi. Il 6 maggio incontra Segni a casa del figlio Mariotto.
    Patto siglato e strada (quasi) spianata per Segni: il settimo scrutinio termina con il candidato Dc a solo 4 voti da raggiungimento del quorum. L’ottavo registra un incidente: Sandro Pertini, vedendo il deputato della Dc Azara che non avendo ancora ritirato la scheda prende quella del suo vicino dove c’è già scritto il nome di Segni, grida all’imbroglio e fa lasciare l’aula a tutti i deputati del Psi. Votazione annullata. Subito viene indetto il nono scrutinio. Ultime frenetiche ore: i comunisti “tentano” il presidente della Camera Leone promettendogli tutti i loro voti, ma lui rifiuta di prestarsi al gioco. Segni viene eletto con 443 voti, superando di poco il quorum. Determinanti risultano i 46 voti del movimento sociale e dei monarchici. Ma quella di Segni al Colle sarà una permanenza breve: dopo soli due anni, il 7 agosto del 1964, il presidente dovette drammaticamente lasciare il Quirinale, colpito da un’emorragia cerebrale che lo lascerà muto e immobilizzato fino alla morte, sopravvenuta nel 1972. Il malore di Segni arrivò durante un tesissimo incontro con Saragat e Moro. Qualcuno, anni dopo, ipotizzò che Segni fosse stato accusato da Saragat di avere tentazioni golpiste e che avesse perso i sensi durante il diverbio. Ricostruzione che non ha però mai avuto conferme.

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    Quirinale 1955: ancora franchi tiratori, passa Giovanni Gronchi

    L’elezione del 1948 era stato solo l’antipasto. Le lotte intestine nella Dc salgono di intensità nel 1955, l’anno in cui arriva al Quirinale Giovanni Gronchi sull’onda di una vera e propria congiura di palazzo. L’elezione di questo toscano di Pontassieve, fondatore del partito popolare ed ex aventiniano, ha del rocambolesco.
    De Gasperi non c’è più, è morto da un anno: la Dc è nelle mani di Amintore Fanfani, cattolico di idee quasi socialiste in economia ma tradizionalista in fatto di religione; contro di lui è schierata la corrente di destra “Concentrazione democratica” di Andreotti e Gonella. Einaudi è stato un ottimo presidente, ma alla scadenza del settennato, nessun partito chiede che venga rieletto. Lui ci rimane un po’ male, ma si adegua. E si prepara a occuparsi a tempo pieno alla sua tenuta agricola di Dogliani, dove produce un ottimo barolo. Fanfani, spalleggiato dal presidente del consiglio Scelba, punta sul presidente del Senato Cesare Merzagora, ex banchiere, ateo dichiarato ma eletto come indipendente nelle liste della Dc. Spera che in virtù di queste caratteristiche Merzagora venga considerato con favore dalle sinistre. Ma si illude: Togliatti e Nenni pensano ad altre mosse per rientrare in gioco. Ma anche la destra Dc non vuole Merzagora. Una mattina, Andreotti va da Merzagora nel suo studio e gli fa il seguente discorso: “Presidente, non si candidi e converga invece su Einaudi. Se Einaudi non ce la dovesse fare sarebbe lei il candidato naturale, e tutti la voterebbero”. Alla fine anche la destra Dc dice sì alla sua candidatura. Ma era un sì falso.
    Andreotti e compagni avevano già deciso di tradire il candidato di Fanfani nel segreto dell’urna. Il 28 aprile, alla prima votazione, Merzagora subisce una cocente sconfitta. Nel pomeriggio le cose peggiorano: Merzagora è stabile ma Gronchi incrementa mentre tutte le opposizioni scelgono la scheda bianca, come per far sapere che sono pronte a entrare nella partita. I presagi della mattina si trasformano in un incubo serale per Fanfani, quando al terzo scrutinio Gronchi scavalca Merzagora (281 contro 245). E’ la fine del suo candidato. Si assiste in quelle ore a una incredibile (con il senno di poi) saldatura tra la destra democristiana di Andreotti e la sinistra di Nenni e Togliatti, che decidono di sostenere Gronchi. Comunisti e socialisti vogliono essere determinanti nella scelta del capo dello Stato, ma danno vita a una alleanza paradossale, visto che qualche anno dopo Gronchi sarà l’ artefice della nascita del governo Tambroni, appoggiato da Dc e missini. Ma allora, in quell’aprile del 1955, il toscano Gronchi era un fautore dell’apertura a sinistra, era amico del presidente dell’Eni Enrico Mattei e aveva posizioni da neutralista anti-Nato. Fanfani prova a giocarsi le ultimissime carte, ma sa che l’impresa è disperata.
    A mezzanotte va da Gronchi con il vertice della Dc e gli chiede di rinunciare. Gronchi si arrabbia: “E allora perchè mi avete fatto eleggere presidente della Camera? Mi ritiro solo se il partito dice ufficialmente che sono totalmente idoneo”. Fanfani va al letto con un brutto presentimento. La mattina dopo la situazione precipita: Gronchi, che doveva farsi sentire in mattinata, è sparito e non risponde al telefono. Si fa vivo solo alle 11 e un quarto e dice che non ha alcuna intenzione di fare il passo indietro che gli è stato chiesto. Ai direttivi dei gruppi Dc Fanfani è costretto a cedere su tutta la linea: e nel pomeriggio del 29 aprile Gronchi viene eletto con la schiacciante maggioranza di 650 voti su 833. Lo votano i parlamentari della maggioranza, socialisti e comunisti, ma non Saragat, per il quale è un pericoloso populista (lo chiama “il Peron di Pontedera”). Nel suo discorso di insediamento Gronchi non fa nulla per smentire al sua fama di quasi marxista. Chiede che “le masse lavoratrici” entrino nella macchina dello Stato e dice che bisogna fermare lo strapotere delle multinazionali. Socialisti e comunisti lo acclamano, l’ambasciatrice americana Claire Luce lascia platealmente la tribuna degli ospiti, Scelba, seduto al banco del governo, non batte le mani, e il comunista Pajetta per sfotterlo gli fa portare da un commesso un bicchiere di Cynar, l’amaro antistress.

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    Quirinale 1948: Luigi Einaudi, battesimo dei franchi tiratori

    “Che cosa? Io presidente della Repubblica? Ma non dite sciocchezze!”. Luigi Einaudi, dopo le elezioni del 18 aprile 1948, quelle stravinte dalla Dc e perse dal Fronte Popolare socialcomunista, sa bene che il suo nome circola come possibile candidato alla presidenza della Repubblica. Ma se qualcuno prova domandargli qualcosa diventa sgarbato e lo liquida in poche battute.
    La scelta del nuovo capo dello Stato è il primo atto che deve compiere il nuovo Parlamento, dove la Dc e i suoi alleati hanno una maggioranza a prova di bomba. E’ tempo di eleggere il primo vero presidente della Repubblica. Democristiani e comunisti ormai sono ai ferri corti: inimmaginabile pensare a un accordo dopo che per tutta la campagna elettorale la Dc ha spiegato agli italiani che se avessero vinto i comunisti sarebbero arrivati i cosacchi a piazza San Pietro e i comunisti dicevano che avrebbero cacciato De Gasperi a calci nel sedere. De Gasperi da’ quindi ordine di votare Sforza. Pensa di poterlo eleggere se non subito almeno alla quarta votazione. Le cose però si mettono subito male.
    La mattina del 10 maggio, quando termina la prima votazione, De Gasperi capisce che le elezioni del 18 aprile hanno sì sconfitto il Pci, ma hanno anche sancito la divisione della Dc in gruppi contrapposti: Sforza riceve solo 353 voti, mentre De Nicola, che pure ha rinunciato a candidarsi per la riconferma, lo supera con 396 voti. Chi ha tradito? Tutti i sospetti vanno in direzione della sinistra democristiana di Dossetti e La Pira, che non amano Sforza soprattutto per la sua fama di anticlericale e libertino: al ministro i seguaci di Dossetti avevano rimproverato di avere l’abitudine di girare nudo per casa turbando le monache che abitavano di fronte. Quel 10 maggio del 1948 segna la data di nascita dei franchi tiratori, che influenzeranno negli anni a venire quasi tutte le elezioni presidenziali. Il segretario Dc, però, non molla. Al secondo scrutinio Sforza avanza fino a 405 voti. De Nicola arretra a 336. Ma la fronda non è debellata. Tanto vale lasciar perdere.
    De Gasperi invia Giulio Andreotti, Attilio Piccioni e Guido Gonella a dare a Sforza la ferale notizia. Il ministro accoglie la delegazione in vestaglia e monocolo mentre prepara il suo discorso di insediamento: sulla scrivania c’è un foglio sul quale c’è scritto “Signori senatori, signori deputati…”. “Eccellenza, non so come dirlo, ma la Dc non può più sostenere la sua candidatura”, balbetta Andreotti. Sforza corruga la fronte, ma dissimula la delusione con grande eleganza: “Per carità, capisco benissimo, meglio così..”. Ma il tempo stringe e bisogna trovare rapidamente un’alternativa. All’una di notte si riunisce la direzione Dc. Molti discorsi, ma poca sostanza: la riunione si scioglie senza che si sia arrivati a decidere niente.
    Restato da solo con Andreotti, De Gasperi decide di rompere gli indugi: “A questo punto non ci resta che Einaudi”. La candidatura del vecchio e autorevole senatore liberale sembra a De Gasperi l’unica in grado di ricompattare la Dc e la maggioranza. Alle quattro di notte sarà proprio Andreotti a comunicare a Einaudi che sarà il nuovo candidato al Colle. “Per me va bene. Però c’è un grave inconveniente. Sono zoppo: come farò a passare in rassegna le truppe durante le parate?” chiede il senatore. “Non si preoccupi , potrà farlo in automobile”, è la risposta del giovane politico romano. E cosi’ l’11 maggio, dopo un terzo scrutinio andato a vuoto, con 518 voti su 883, lo stimatissimo economista piemontese, antifascista storico ma monarchico convinto (almeno fino al referendum costituzionale), diventa il primo presidente eletto della neonata Repubblica Italiana.

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    Quirinale 1946: il 'tentennante' Enrico De Nicola

    Il primo capo dello Stato è non solo “provvisorio” ma anche parecchio tentennante. All’alba della Repubblica, nel 1946, quando la Costituzione ancora non c’è ma il popolo italiano ha già scelto la Repubblica, bisogna mettere in cima alle istituzioni una figura che le guidi e rappresenti l’Italia fino al termine dei lavori della costituente. Al governo ci sono Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, ancora alleati. Dopo il referendum del 2 giugno che ha fatto vincere la Repubblica, le funzioni di capo provvisorio dello Stato sono andate a De Gasperi, nella sua qualità di presidente del consiglio. Ma bisogna presto eleggere un presidente “vero” che affianchi De Gasperi e diriga l’attività dello Stato postfascista. Il clima di collaborazione tra democristiani, comunisti e socialisti dà al governo una maggioranza solida, ma al momento di scegliere il capo dello Stato le strade si dividono. Sulle prime la Dc punta sul vecchio liberale Vittorio Emanuele Orlando, già presidente del consiglio in epoca prefascista, mentre Togliatti pensa al filosofo Benedetto Croce, che però risponde picche con una lettera in cui dice di sentirsi “inadeguato”.
    Andare allo scontro in aula non è possibile: l’Italia non può permettersi una divisione già agli albori della Repubblica. Togliatti lo sa bene e acconsente a incontrare De Gasperi insieme ai socialisti Pietro Nenni e Giuseppe Saragat. I quattro entrano in una stanza di Montecitorio e ne escono un’ora dopo con l’accordo in tasca su De Nicola: è un galantuomo, è liberale (quindi non fa ombra a nessuno dei partiti maggiori) è meridionale (così si riequilibra la geografia dei vertici dello Stato, dove sono quasi tutti del Nord) ed è monarchico (così i dieci milioni di italiani che hanno votato per il re al referendum del 2 giugno si sentiranno rappresentati). Non c’è che da comunicare la notizia al diretto interessato, che è a casa sua a Torre del Greco. Ma c’è un piccolo problema: De Nicola è noto per la sua indecisione nell’accettare gli incarichi. Passa da un sì a un no nello spazio di poche ore. Il prefetto che va a comunicargli la notizia riceve come risposta un “no grazie”. Poi comincia il tira e molla. De Nicola ci pensa e ci ripensa, pone come condizione che la maggioranza che lo eleggerà sia praticamente unanime. Lo stallo si protrae per qualche giorno e induce il Giornale d’Italia a lanciare un accorato appello: “Onorevole De Nicola decida di decidere se accetta di accettare!”.
    Il 28 giugno del 1946 arriva la sospirata elezione: l’assemblea costituente lo elegge capo provvisorio dello Stato con 396 voti su 501. Oltre a De Nicola hanno raccolto voti la candidata dell’Uomo qualunque, la baronessa Ottavia Penna di Buscemi, e il candidato dei repubblicani Cipriano Facchinetti. E’ stato deciso che il presidente dovrà risiedere al Quirinale: ma lui, dopo la cerimonia iniziale (alla quale arriva con un’ora e mezzo di ritardo viaggiando da solo su una millecento nera e portandosi dietro una valigia di cuoio) non ci pensa minimamente: da buon monarchico rifiuta di sistemarsi “nel palazzo dei papi e dei re” e prende alloggio a Palazzo Giustiniani. La sua indole di eterno dubbioso lo porta a dimettersi dall’incarico il 25 giugno 1947. Nella notte De Gasperi lo convince a non insistere: il giorno dopo l’assemblea costituente lo rielegge nuovamente, questa volta con una votazione quasi unanime, 405 voti su 431 votanti.
    Appena insediatosi rinuncia immediatamente all’assegno di 12 milioni di lire al quale aveva diritto e, anche nelle occasioni solenni, continua a usare un vecchio cappotto rivoltato. Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il primo gennaio 1948, il suo titolo ufficiale si trasforma in quello di presidente della Repubblica: sempre da palazzo Giustiniani e sempre con il suo cappotto continua a esercitare il mandato fino al maggio di quell’anno. Poi toccherà a Luigi Einaudi.

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    Dl Fisco in Aula al Senato. Arriva un fondo per i genitori separati

    Si è conclusa la discussione generale sul dl fisco in Aula al Senato. La presidenza di Palazzo Madama ha informato che, come concordato in conferenza dei capigruppo, il seguito dell’esame del provvedimento rinviato a domani. Il governo sul dl fisco sta preparando un maxiemendamento su cui dovrebbe porre la questione di fiducia Il Senato è convocato alle 9.30, con all’ordine del giorno la discussione dei documenti pervenuti dalla giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, sulle elezioni contestate in Campania, Puglia, nella circoscrizione estero e sulla questione del seggio vacante in Veneto, a cui seguirà proprio l’esame del dl fisco.
    nella notte il via libera nella delle Commissioni Finanze e Lavoro del Senato al decreto fiscale. Tra le modifiche approvate la mini-proroga per le cartelle e la possibilità di cumulo tra assegno di validità e reddito da lavoro. Il provvedimento è ora in discussione in Aula. Il testo passerà quindi alla Camera per la seconda lettura e l’ok definitivo.
    L’emendamento della Lega a prima firma Matteo Salvini per l’istituzione di un fondo per genitori separati entra nel dl fiscale approvato nella notte dalle commissioni Finanze e Lavoro. “È stato, finalmente e definitivamente, approvato in Commissione il mio emendamento per aiutare i genitori separati messi in crisi dalle conseguenze del Covid: riceveranno un aiuto economico fino a 800 euro al mese per pagare l’assegno di mantenimento a figli o ex coniugi, in caso di difficoltà economiche. Dalle parole ai fatti”, afferma il leader della Lega Matteo Salvini.
    LA MISURA – I genitori lavoratori, separati o divorziati, che hanno smesso di ricevere l’assegno di mantenimento perché l’altro genitore è stato condizionato dalla crisi legata al Covid, otterranno un contributo fino a un massimo di 800 euro mensili. È quanto prevede il dl fisco con un emendamento della Lega, a prima firma di Matteo Salvini, che istituisce un fondo da 10 milioni di euro per il 2021. Secondo quanto previsto dal provvedimento, il beneficio vale nel caso in cui il genitore inadempiente, a causa della pandemia, abbia smesso di lavorare o abbia ridotto la propria attività dall’8 marzo 2020 per almeno 90 giorni o con una contrazione di almeno il 30% del reddito rispetto a quello percepito nel 2019. Il fondo, che viene istituito presso il Ministero dell’economia e delle finanze per essere successivamente trasferito al bilancio autonomo della Presidenza del Consiglio, garantirà assegni fino a 800 euro al mese, per un massimo di mensilità stabilite con un decreto del presidente del Consiglio da approvare entro 60 giorni dall’entrata in vigore del dl fisco. Il decreto definirà anche i criteri e le modalità per la verifica dei presupposti e l’erogazione dei contributi.
    Bene l’approvazione dell’emendamento alla delega fiscale che ripristina l’assegno di invalidità per gli invalidi parziali che lavorano: è “una buona notizia”, afferma il ministro del Lavoro, Andrea Orlando. “Correggiamo un’ingiustizia. Manteniamo la promessa fatta a famiglie e associazioni che lottano per l’inclusione”, scrive su Fb.
    Stretta sull’Imu per le prime case: un emendamento al dl fisco approvato nelle commissioni Finanze e Lavoro al Senato stabilisce che l’esenzione vale solo per un’abitazione a famiglia anche qualora una delle due case si trovi in un altro comune. Contrariamente a quanto attualmente previsto i due coniugi non potranno più scegliere di risiedere in due case in comuni differenti e non pagare così l’Imu. Si tratta – viene spiegato – di una norma che risponde a una sentenza della Cassazione ancora più restrittiva che stabiliva il pagamento dell’Imu per entrambe le abitazioni qualora i coniugi fossero residenti in due immobili diversi.