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    Casellati, decana di FI e prima donna alla guida del Senato

    Quasi 30 anni di fedeltà a Silvio Berlusconi e Forza Italia e parecchi record da vantare: prima donna presidente del Senato, tra i più votati con 240 sì su 319 voti e, terza rarità, per sei volte senatrice.
    La carriera di Maria Elisabetta Alberti Casellati intreccia politica e professione da avvocato, che nel tempo l’hanno portata alla carica di sottosegretario alla Giustizia e poi membro laico del Consiglio superiore della magistratura.
    Nata a Rovigo 75 anni fa, le sue origini sono calabresi: da lì venivano il padre, partigiano, e la madre, maestra. Laurea in giurisprudenza e specializzazione in diritto canonico alla Pontificia Università Lateranense, si concentra sulle cause di nullità dei matrimoni davanti alla Sacra Rota.
    Come Angela Merkel, è più nota con il cognome del marito (l’avvocato Gianbattista Casellati) anche se spesso lo affianca al suo. In politica la scintilla per FI scocca subito: scoperta dall’ex governatore veneto Giancarlo Galan, nel ’94 aderisce alla fondazione del partito.
    Nello stesso anno viene candidata per il Polo delle libertà al Senato e vince. Seguono altre elezioni e a più riprese, diventa vicecapogruppo. Paladina delle cause forziste, nel 2013 insieme ad altri parlamentari azzurri è davanti al Palazzo di giustizia di Milano a difesa del Cavaliere imputato nel processo Ruby. O si veste tutta di nero in Aula, come altre colleghe, in segno di “lutto per la democrazia” contro il resto del Senato che il 27 novembre 2013 ‘condanna’ l’ex premier alla decadenza da senatore.
    Il 24 marzo 2018 conquista la presidenza di Palazzo Madama spuntandola in extremis su Paolo Romani, in pole per il centrodestra ma inviso al M5s per una condanna per peculato. All’ultimo però anche i 5 Stelle votano per lei. E’ stata al centro di polemiche nel 2005 per accuse di favoritismo nei confronti della figlia Ludovica, arruolata a capo della sua segreteria, quando era sottosegretaria alla Salute. Note le sue difese della centralità del Parlamento contro l’eccesso di decreti legge, l’impegno a non interrompere l’attività parlamentare nel primo lockdown da covid e il ‘mantra’ sulle opportunità delle donne: “Oggi nessun traguardo ci è più precluso”, disse nel suo primo discorso.

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    Moratti, lady di ferro che ha guidato Rai e Milano

    Prima di lei mai una donna era stata presidente della Rai né sindaco di Milano. Letizia Brichetto Arnaboldi Moratti avrebbe lo stesso primato al Colle, se si realizzasse la suggestione nata quando a dicembre ha incontrato a Roma la presidente di FdI, Giorgia Meloni. Dalla stessa area (allora era An), venne nel 2006 la spinta verso Palazzo Marino, dove ha guidato la città 5 anni, dopo altrettanti da ministro dell’Istruzione del governo Berlusconi, autrice di una riforma della scuola accompagnata da non poche proteste.
    Milanese classe ’49, figlia di un eroe partigiano ‘aristocratico’, a 25 anni manager in campo assicurativo e poi presidente di News Corp Europe del gruppo Murdoch, Moratti nel tempo si distingue per l’aplomb che le vale la fama di donna d’acciaio, di “soave pugno di ferro” diceva l’amico Indro Montanelli. Con fermezza a dicembre nega ambizioni quirinalizie, “focalizzata” sul ruolo di vicepresidente e assessore al Welfare della Lombardia, accettato un anno fa, su sollecitazione di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, dopo essere stata presidente di Ubi Banca. Moratti raddrizza la campagna vaccinale lombarda anti-Covid ma l’idea di legare le dosi al Pil solleva un polverone.
    È invece dell’allora premier Romano Prodi la nomina nel 2007 a commissario per la candidatura di Milano a Expo 2015, fra i principali meriti vantati dall’ex sindaco, accusata dai rivali per il caso derivati e condannata dalla corte dei Conti a rimborsare 591mila euro per le ‘consulenze d’oro’. Sfumato al ballottaggio il secondo mandato in una sfida al veleno contro Giuliano Pisapia, Moratti si dedica a E4Impact, progetto per imprenditori in Africa, e alla comunità di San Patrignano, di cui fu fra i fondatori col marito Gian Marco Moratti, petroliere scomparso nel 2018, da cui ha avuto due figli: Gilda e Gabriele.

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    Quirinale: Salvini, deadline sul Cav? Prima del primo voto

    Matteo Salvini sta perdendo la pazienza. A una settimana dalla prima chiama riprende in mano il pallino del centrodestra ponendo Silvio Berlusconi di fronte a un bivio imposto dalla realtà: o chiarisce entro domenica che ha i numeri o lunedì, quando si comincia a votare, “la Lega, come forza responsabile e di governo, farà una proposta che potrà essere convincente per tanti se non per tutti”.
    Difficile dire se questi toni decisi, insieme ai tanti distinguo sul Cavaliere, ad esempio da parte di Coraggio Italia, facciano salire le quotazioni di Mario Draghi, sempre ammesso e non concesso che la lotta sia solo tra loro due. Altri rumors riferiscono che nei fitti colloqui di queste ore, tra centrodestra e “giallorossi”, sia tornato in auge, per la seconda volta in poche settimane, il nome di Letizia Moratti. Un nome di cui si sta discutendo, ma certamente non l’unico. Fonti del centrosinistra fanno trapelare che della Moratti si potrebbe parlare a patto che sia frutto di una forte convergenza bipartisan. Quindi, in mancanza di accordo, se Berlusconi fosse realmente in campo, il Pd avrebbe in mente alle prime chiame di salire sull’Aventino, mentre i 5S penserebbero di proporre ai dem di votare un candidato di bandiera, come ad esempio Liliana Segre (ma si fanno anche i nomi di Rosi Bindi e Anna Finocchiaro).
    Il Pd, con Enrico Letta, non arretra, però e – in occasione della commemorazione di David Sassoli al Parlamento Europeo – torna a ribadire con forza che “la politica deve sapere guardare oltre: oltre l’apparenza e l’immediatezza. E fare scelte coraggiose”. La cronaca odierna, però, mette in allarme quasi esclusivamente lo stato maggiore azzurro, la cui replica ha un sapore agrodolce. Prima di tutto si cerca di ridurre la portata delle parole del segretario leghista derubricandole a frasi “in linea con gli impegni presi e l’accordo raggiunto alla riunione dei leader del centrodestra di venerdì scorso”. Quindi Forza Italia ribadisce che l’alleanza sarà “unita e saprà esprimere un candidato all’altezza”. Poi la zampata che fa capire quanto il Cavaliere sia determinato ad andare sino in fondo: “Non c’è dubbio – osservano fonti azzurre – che il profilo del presidente Silvio Berlusconi sia quello più autorevole”. Infine, l’ammonimento severo a evitare speculazioni dannose: “Ogni tentativo di creare polemiche o contrapposizioni fittizie, utili sono agli avversari politici, sarà dunque respinto”.
    Appello raccolto al volo da Via Bellerio che diffonde poche righe per calmare gli animi: “respingiamo le letture malevoli: Salvini ha ribadito quanto sta sostenendo da settimane ed è in linea con quello che è stato deciso dopo l’ultimo vertice di centrodestra a Villa Grande”. Vittorio Sgarbi, a caldo, dopo questo batti e ribatti, fa sapere di aver consigliato al Cavaliere una risposta diversa da quella che poi avrebbe dato: “L’ uscita di Salvini è un modo per riprendere la guida del centrodestra, che invece dovrebbe avere Berlusconi, se, una volta tramontata la sua candidatura facesse lui un nome. Gli ho consigliato di fare lui una mossa, magari può essere lui a far uscire di colpo Draghi, o anche Mattarella. Ma dalla nota – conclude il noto critico d’arte – si capisce che Silvio è ancora determinato a voler essere lui il candidato”.
    Quanto al metodo per la raccolta dei voti, difende il suo operato: “Deve essere Berlusconi a chiamare le singole persone, certo non un uomo del suo staff. Non esiste – scandisce Sgarbi – una via alternativa, una via politica, a quella diretta della voce di Silvio”. Nel frattempo, nel centrosinistra, sembra tornare il sereno tra Pd e Iv. “Le cose che dice Enrico Letta sul patto di legislatura se Draghi va al Colle sono ragionevoli” dichiara Matteo Renzi a Radio Leopolda. Quindi il leader di Italia Viva apre anche all’ipotesi di governo dei leader avanzata da Salvini: “Non è probabile ma ha un senso”, dice al Corriere. Infine in serata Giuseppe Conte riunisce i vertici del Movimento, compresi i ministri 5S Stefano Patuanelli, Luigi Di Maio, Fabiana Dadone e Federico D’Incà, per fare il punto a una settimana dal voto. Un modo, trapela tra i pentastellati, scelto da Conte per rispondere alle polemiche interne di chi lo accusa di confrontarsi e decidere con pochi.

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    Gentiloni, un nobile dalla sinistra extraparlamentare al vertice Ue

    Lunga esperienza politica e basso profilo: è il pedigree di Paolo Gentiloni Silveri, che dai primi passi nella sinistra extraparlamentare e nel movimento ecologista è poi passato ad incarichi di prima linea a livello locale e nazionale: prima ministro degli Esteri del governo Renzi, poi presidente del Consiglio e poi il salto in Europa con il ruolo di primo piano nella commissione Ue guidata da Ursula Von der Leyen.
    Nato 67 anni fa a Roma, laureato in Scienze politiche, giornalista professionista e sposato con l’architetto Emanuela Mauro, Gentiloni vanta origini nobili: un suo antenato siglò l’omonimo patto che agli inizi del ‘900 segnò l’ingresso dei cattolici nella politica italiana. Abbandonati gli ardori di gioventù quando milita nella sinistra extraparlamentare, si avvicina poi al movimento ecologista di Legambiente, stringendo una decennale amicizia con Ermete Realacci e Chicco Testa e diventando fino al 1993 direttore del mensile ‘La nuova Ecologia’. In quegli anni si lega a Francesco Rutelli, di cui diventa portavoce quando Rutelli viene eletto sindaco di Roma nel ’93 vincendo contro Gianfranco Fini.
    Entra in Parlamento nel 2001 con la Margherita, di cui è tra i fondatori e nel 2006, nel secondo governo Prodi, diventa ministro delle comunicazioni. Quando si fonda il Partito Democratico dalla fusione dei Ds e della Margherita, Gentiloni è in prima linea anche se fedele al suo carattere pragmatico e antiretorico. Nel 2014 viene nominato da Renzi ministro degli Esteri al posto di Federica Mogherini, chiamata a guidare la diplomazia Ue. Dopo le dimissioni di Renzi per la sconfitta al referendum istituzionale, Gentiloni viene scelto in tempo record da Sergio Mattarella nuovo presidente del consiglio e resta in carica dal 14 dicembre 2016 fino a fine legislatura nel marzo 2018.

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    Marta Cartabia, la prima donna a ‘rompere il vetro di cristallo’ alla guida della Consulta

    E’ consapevole di aver “rotto un vetro di cristallo” quando è diventata la prima donna alla guida della Corte Suprema nel 2019 e ora c’è chi non esclude che Marta Cartabia possa conquistare anche il Colle più alto, diventando la prima presidente della Repubblica. Ministro della Giustizia del governo Draghi, è stata protagonista a pochi mesi dal suo insediamento di una difficile e lunga mediazione con le forze di maggioranza per poter incassare la riforma del processo penale e civile, considerati tra i pilastri del Piano di ripresa e resilienza italiano.
    Originaria della provincia di Milano, sposata con tre figli, l’attuale Guardasigilli appartiene alla schiera dei tecnici dell’esecutivo: giurista cattolica, allieva di Valerio Onida e professoressa ordinaria di Diritto costituzionale, è arrivata alla Corte Costituzionale, di cui è appunto diventata nel dicembre 2019 la prima donna presidente, nel 2011 (a solo 48 anni) chiamata da Giorgio Napolitano. Può contare sulla stima del presidente Mattarella, maturata nel comune lavoro come giudici delle leggi. I due sono stati anche vicini di casa alla foresteria della Consulta. A volte cenavano al ristorante, “un po’ come studenti fuorisede”, ha raccontato lei stessa in un’intervista. Alla Consulta è stata relatrice di importanti sentenze su questioni delicate e divisive: prima di tutte quella sui vaccini, con la quale la Corte ha stabilito che l’obbligo non è irragionevole. Altro impegno, quello per migliorare la vita dei detenuti: dagli incontri con i detenuti ha imparato che “ogni storia e ogni uomo ha alle spalle qualcosa di unico, per questo la pena non deve dimenticare l’unicità di ciascuno”.
    Cartabia era da poco tornata alla vecchia passione dell’insegnamento e della ricerca, quando le è stato chiesto di guidare il ministero di Via Arenula con l’obiettivo di accelerare la modernizzazione del sistema giudiziario del Paese, da molti considerato uno degli ostacoli principali negli investimenti.

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    Draghi il civil servant e il destino del Colle

    Si svolge nel segno di Mario Draghi l’elezione del tredicesimo presidente della Repubblica. Una carriera da civil servant al ministero del Tesoro, la guida di Banca d’Italia in anni complicati, poi lo storico ‘Whatever it takes’ pronunciato da presidente della Banca centrale europea, per salvare l’euro dalla crisi del debito sovrano.
    Già nel 2015 si fa il suo nome per la successione a Giorgio Napolitano. Lui, da Francoforte, si sfila: “Non voglio essere un politico”.
    Quando lascia la Bce, nel 2019, glielo domandano di nuovo: andrà al Quirinale? “Chiedete a mia moglie”, sorride. E sembra quasi un’apertura. Arriva prima però la chiamata di Sergio Mattarella alla presidenza del Consiglio. La pandemia e l’instabilità politica complicano tutto, ma Draghi a inizio 2022 è ancora in cima ai papabili.
    Chi nel passato cerca indizi o premonizioni, ricorda che il 13 maggio 1999 c’è Draghi al fianco di Carlo Azeglio Ciampi ad assistere in tv allo spoglio per il Quirinale: Ciampi viene eletto al primo scrutinio, il futuro di Draghi è di là da venire.
    Romano, romanista, classe 1947, perde entrambi i genitori quando è ancora adolescente. Va a scuola dai gesuiti, si laurea alla Sapienza nel 1970 con il keynesiano Federico Caffè, poi il Mit di Boston.
    Le sue idee sono ispirate al “liberalismo sociale”. La carriera di “Super Mario”, con una sola parentesi nel privato ai vertici di Goldman Sachs, annovera la direzione esecutiva della Banca Mondiale, la direzione generale del Tesoro negli anni ’90, la nomina a governatore di Bankitalia dopo le dimissioni di Antonio Fazio, la presidenza Bce negli anni della crisi finanziaria. A febbraio 2021 Draghi accetta di guidare un governo di unità nazionale: vaccini e ripresa economica, al centro del programma. Scrive il Recovery plan, presiede un G20 all’insegna del multilateralismo, insiste sul sovranismo europeo, a Greta assicura impegno per il clima. “Non è importante ciò che vuoi diventare ma quel che sei”, risponde ai ragazzi che lo interrogano sul futuro. Nel suo potrebbe esserci il Quirinale, Draghi non lo nega: “Io sono un nonno al servizio delle istituzioni”.

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    Casini, il democristiano da 38 anni in Parlamento capace di dialogare con tutti

    Tra i tanti possibili candidati al Quirinale, Pier Ferdinando Casini, classe 1955, bolognese e democristiano doc, è certamente quello ad avere il profilo più “politico”.
    Eletto nel Parlamento italiano nel lontano 1983 vi rimarrà nei 38 anni successivi sino a oggi. Con due legislature europee e l’elezione a Presidente della Camera, tra il 2001 e il 2006, di fatto è il solo a poter vantare questo invidiabile record di longevità politica. Due matrimoni e due separazioni alle spalle, quattro, figli, gentile e sempre elegante, ha sostenuto tantissimi governi, praticamente tutti dagli anni ’80 a oggi, eccezion fatta per il governo Dini e quelli della stagione dell’Ulivo.
    Negli ultimi sei mesi si è limitato a pochissimi comunicati stampa: uno per felicitarsi della liberazione di Patrick Zaky, un altro per rendere omaggio a Desmond Tutu, infine un messaggio di cordoglio per la morte del fratello di Ignazio La Russa. Su tutto il resto silenzio assoluto, in piena coerenza con la sua vecchia scuola politica.
    Dirigente del movimento giovanile Dc, consigliere comunale della sua città, Bologna, quindi, ad appena 28 anni, con 30mila preferenze, entra a Montecitorio. E’ il più stretto collaboratore di Arnaldo Forlani, che, da segretario del partito, lo inserirà nel 1989 nella Direzione Nazionale. Ma anche dopo il crollo del muro è protagonista anche della cosiddetta Seconda Repubblica. Di fronte alla diaspora democristiana, sceglie di guidare il centro che guarda a destra, a Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, creando il Ccd. Nel 2002 fonda l’Udc. Solo le settimane prossime diranno se questo affascinante Highlander della politica italiana ce la farà a salire sul Colle più alto. A suo favore la profezia di Umberto Bossi dopo Natale: “Volete sapere come andrà a finire? Dovrebbe farcela Casini”, parola dell’ex Braveheart lumbard.

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    Berlusconi, il Quirinale un antico sogno dopo una vita di successi e cadute

    Silvio Berlusconi in cuor suo lo sogna da sempre. Una volta, era il 2014, l’ha anche ammesso pubblicamente: “Ho la profonda convinzione che sarei il migliore presidente della Repubblica”.
    Altre volte, il Cavaliere ha usato uno dei suoi cavalli di battaglia, il presidenzialismo, per provare a coronare il progetto: siccome in Parlamento una maggioranza per diventare Capo dello Stato non c’è – è il ragionamento – meglio cercarla nel Paese. Negli anni, il pensiero per il Quirinale non è mai venuto meno.
    Quando nel 2013 attacca Monti, Fini, Casini e il loro “centrino”, lo fa per recriminare: senza di loro avremmo Gianni Letta al Colle. A lungo, infatti, ha usato il suo braccio destro come schermo dei suoi sogni. Lo spartiacque è appunto il 2013, quando subisce la condanna in via definitiva. Da allora l’ex premier cova la riscossa. In questi ultimi mesi punta sulla disgregazione della galassia grillina e sul gruppo Misto per raccogliere i voti che gli mancano. Comunque vada, si chiuderà un cerchio. Aperto con la discesa in campo nel 1994. Il Cavaliere, patron del Milan che proviene delle imprese, rivoluziona lo stile e il linguaggio della politica, ridisegna i poli e apre la stagione della Seconda Repubblica.
    Una traiettoria non certo lineare: la vittoria del giugno ’94, la caduta, la “traversata nel deserto”, la nuova vittoria nel 2001, la sconfitta nel 2006, la rivincita del 2008, l’apice del consenso, il predellino, la sfida finale con Fini, il collasso dei titoli di Stato nel 2011, la smacco della risata di Merkel e Sarkozy, la resa a Mario Monti, la condanna nel processo Mediaset, i servizi sociali, l’ennesimo ritorno nel 2018, il limbo durante il governo giallorosso e il Covid che lo costringe in ospedale.
    E adesso che Berlusconi ha raggiunto la soglia degli 85 anni accarezza l’idea del Quirinale. Sembra crederci davvero l’ex premier. Difficile prevedere cosa potrebbe accadere nel caso non dovesse riuscirci: c’è chi pensa che possa scagliarsi sul governo. Oppure, fedele a una strategia limata durante 28 anni in politica, tirare la corda fino a un attimo prima che si spezzi, infine sfilarsi e indicare lui il successore Mattarella.