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    Tajani frena su possibili sanzioni Ue contro i coloni estremisti israeliani: “Non sono terroristi”

    Bruxelles – Le violenze sistematiche dei coloni israeliani nei territori palestinesi occupati non sono atti terroristici. Non ha alcun dubbio il vicepremier Antonio Tajani, che dalla capitale Ue dice la sua sulla possibilità di vietare l’ingresso nell’area Schengen ai coloni estremisti che si macchiano di violenze contro la popolazione civile palestinese.“Condanno le violenze, ma i coloni non sono un’organizzazione terroristica”, ha dichiarato il ministro degli Esteri a margine del vertice con gli omologhi dei 27 Paesi Ue. La questione è stata portata sul tavolo dei ministri europei – e dell’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell – dal governo belga, pronto a vietare l’ingresso sul territorio nazionale ai coloni che commettono crimini nella West Bank. “Perché questa misura sia efficace, ho chiesto di vietarlo in tutto lo spazio Schengen”, ha spiegato la ministra belga, Hadja Lahbib, citando gli ultimi dati raccolti dall’ufficio di coordinamento per gli affari umanitari dell’Onu (Ocha): “Sette atti violenza al giorno commessi da coloni violenti, una situazione estremamente inquietante”.Dal 7 ottobre, Ocha-Opt ha registrato 331 attacchi di coloni israeliani contro le comunità palestinesi. Con un bilancio di 8 vittime, 35 episodi di violenza con almeno un ferito e 251 episodi in cui sono state danneggiate proprietà della comunità locale. La media settimanale degli attacchi è aumentata da 21 episodi, registrata tra gennaio e settembre 2023, a 36 episodi dopo il 7 ottobre.Ampliamento dell’insediamento israeliano di Har Homa nella Cisgiordania Occupata, 7/12/23 (Photo by AHMAD GHARABLI / AFP)Tajani ha tuttavia rispedito immediatamente al mittente la proposta: “Quella di usare violenza o di aggredire la popolazione palestinese in Cisgiordania è una scelta che non condivido, ma non possiamo equiparare Hamas ai coloni ebrei“, ha chiosato il ministro. Perché l’organizzazione terroristica palestinese “si è macchiata di crimini immondi” che “gridano vendetta”. Hamas ha “cercato la gente casa per casa, ucciso bambini di tre mesi, violentato donne per poi ucciderle e giocare a calcio con i loro seni”.Italia, Francia e Germania hanno indirizzato una lettera a Borrell per esprimere “il loro forte sostegno” all’istituzione di un regime di sanzioni ad hoc per i militanti di Hamas, i gruppi affiliati e i suoi sostenitori, “al fine di stigmatizzare politicamente gli attacchi del 7 ottobre scorso, isolare Hamas a livello internazionale e privarlo del sostegno finanziario e logistico da parte di terzi”. I tre maggiori Paesi del blocco guidano l’azione Ue contro i terroristi palestinesi, ma reagiscono in modo diverso alla proposta belga di sanzionare i coloni israeliani. Idea che oltretutto ha messo sul piatto a Washington anche il segretario di stato americano, Anthony Blinken. “La situazione in Cisgiordiania ci preoccupa, a causa dei troppi casi di violenze commesse da coloni estremisti. La Francia sta riflettendo sull’adozione di misure nazionali“, ha ammesso la ministra degli Esteri Catherine Colonna.

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    9th Western Balkans Civil Society Forum: A clear need for a realistic final date for EU membership

    By Andrej Zorko*The 9th Western Balkans Civil Society Forum 2023 was held in a year full of significant milestones for the EU, notably the 50th anniversary of the first enlargement. Since the foundation of the European Community, seven enlargements have taken place, helping the EU to grow to the present number of 27 Member States.During the time after the last enlargement in 2013, with Croatia being the last country to join the Union, a growing awareness on both sides has confirmed that the future of Western Balkans lies with the EU, especially now in the face of current global events.As the EESC noted in its 2021 opinion, the Western Balkans are an integral part of Europe and a geostrategic priority for the EU.The experience of each successive EU enlargement has shown the importance of involving social partners and civil society organisations, recognising their significant role. In the case of the Western Balkan countries, civil society has been promoting the shared European values of peace, security, economic and social prosperity, as well as the need for reforms for a successful enlargement process.There is undoubtedly still much to be done in the field of promoting sustainable development, the rule of law, transparency and fight against corruption. There is still a strong need to solve the problems that affect the younger population. The inclusion of the mentioned stakeholders in the integration process is sure to provide the solutions and policies that will have a high degree of legitimacy and effectiveness and will provide a smoother transition to full EU membership for the Western Balkan countries. For this reason, all the actors must ensure that the involvement of the region in the EU’s existing programmes and the reforms being carried out have a meaningful impact on the quality of people’s lives.Being aware of many challenges still awaiting stakeholders on the path to accession, it is important to also recognise that much has already been accomplished and that the Final Declaration[2] of the 9th Western Balkans Civil Society Forum reaffirms the clear commitment of civil society and the EESC to a common European future. The Declaration’s call for a clear and realistic timeline, in which the region should be ready for accession is a welcome driver in the process. As the EESC has already pointed out, it is also important to set out clear and strict conditions in a tangible way, so that the countries of the region can make progress on the path of reform and progress can be effectively monitored.The inclusion of representatives of the trade unions, employers’ organisations, and civil society organisations of the candidate countries in the work of the EESC in an advisory capacity, has been met with strong approval by all parties. This will not only improve the work of the EESC in taking into account the views of soon-to-be Member State stakeholders, but will also spread first-hand knowledge of the inner workings and processes of social dialogue at EU level across the Western Balkan region, which will speed up the accession process.The 9th Western Balkans Civil Society Forum and its Final Declaration can be considered a success and a stepping stone towards the region successfully joining the EU. There is a clear need for a realistic timeline and a date on which the candidate countries should be ready for accession. A final date would provide a further impetus on the path of integration for both the EU and the governments of the regions to implement the necessary reforms.Even a possible staged accession is a solution to the concerns of some Western Balkan states which are sceptical about 2030 as a target date, announced by the president of the European Parliament at the Bled Strategic Forum.Despite the challenges still to come, and despite the scepticism of some, there is no doubt that the 8th enlargement of the EU is closer than ever. There is also a clear recognition on all sides, about the crucial role the social partners and civil society organisations can play in the process. Setting a target date, which should be realistic for all sides, is essential.There is still some way to go in addressing the problems of young people in the Western Balkans and implementing the necessary policies to meet the Copenhagen criteria of democracy, the rule of law, human rights, and respect for minorities, but with the strong commitments and inclusion of all stakeholders, perhaps the end of that path is finally in sight.*Andrej Zorko, EESC member, President of the Follow-up Committee on Western BalkansExecutive secretary to the presidency of the Association of Free Trade Unions of Slovenia (ZSSS)

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    Il freddo riavvicinamento tra Ue e Cina. Von der Leyen: “Rapporto complesso che dobbiamo far funzionare”

    Bruxelles – Il 24esimo vertice tra Ue e Cina, il primo di persona dal 2019, va in archivio con un nulla di fatto. Rimane la consapevolezza  – nelle parole di Ursula von der Leyen – di un rapporto “complesso che abbiamo la responsabilità di far funzionare“. Le distanze sono troppo profonde per un vero riavvicinamento, il legame troppo forte per spezzare la corda.Dopo mesi di contatti e bilaterali, sul piatto del vertice c’era un’agenda fittissima: l’invasione russa in Ucraina e il conflitto tra Israele e Hamas, i rapporti commerciali da riequilibrare, la cooperazione per l’agenda sul clima. E poi la questione di Taiwan e il rispetto dei diritti umani. Troppi forse, per tornare a Bruxelles con qualcosa di concreto. Nemmeno sul punto più importante: quello dello squilibrio commerciale tra i due partner e rivali.Uno squilibrio diventato “insostenibile”, secondo von der Leyen: il deficit dell’Ue nei confronti del gigante asiatico ha raggiunto i 400 miliardi di euro, dieci volte in più di quanto non fosse solo vent’anni fa. “Se si guarda solo agli ultimi due anni il deficit commerciale è raddoppiato e questo è motivo di grande preoccupazione per molti europei”, ha dichiarato a margine del vertice la presidente della Commissione europea. Nessuna novità, la bilancia commerciale che pende nettamente da una parte è cosa arcinota a Bruxelles così come a Pechino: “Ci aspettiamo che la Cina prenda azioni più concrete per migliorare l’accesso al mercato e agli investimenti per le aziende straniere”, ha dichiarato Charles Michel. Che forse si aspettava che qualche misura potesse essere concordata già oggi.Charles Michel, Xi Jinping e Ursula von der LeyenLa retorica dell’Ue sulla Cina irrita però il presidente della Repubblica Popolare, che l’ha bollata come un atteggiamento “protezionista”. Von der Leyen ha chiarito a Xi Jinping che l’Ue non cerca un improbabile disaccoppiamento dalla Cina, quanto piuttosto di perseguire un approccio di de-risking. Che significa “affrontare le dipendenze eccessive e diversificare le catene di approvvigionamento”. D’altronde – ha fatto notare von der Leyen – la Cina ha da sempre lo stesso approccio, quello dell’autosufficienza.Se sul dossier economico la strada sembra ancora lunga e irta, “la lotta al cambiamento climatico è un’area dove l’Ue e Cina stanno cooperando in modo molto costruttivo”, ha cercato di tamponare von der Leyen. La leader Ue si è congratulata con Xi per aver aderito all’impegno globale sul metano, che prevede di ridurre del 30 per cento le emissioni globali di metano entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020. “È un grande passo avanti, ma sarebbe un messaggio forte da parte della Cina aderire anche all’impegno globale sulle energie rinnovabili”, ha rilanciato von der Leyen. Un impegno a cui nella prima settimana della Cop28 “si sono uniti 125 Paesi.Anche nella corsa per l’agenda sul clima però permangono degli attriti. “Siamo molto preoccupati dell’aumento dell’utilizzo di centrali a carbone in Cina. Sappiamo che uno dei temi più difficili è liberarsi dei combustibili fossili, ma vogliamo che la Cina prenda una posizione forte sull’eliminazione dei combustibili fossili entro il 2050”, ha messo in chiaro von der Leyen. La Cina nel 2023 ha infatti dato il via a decine di nuovi progetti per impianti a carbone.

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    Sul cessate il fuoco a Gaza Borrell sta con il segretario generale dell’Onu. Silenzio dai leader Ue

    Bruxelles – A due mesi dall’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre e dall’inizio della furiosa risposta israeliana, il segretario generale dell’Onu gioca un’altra carta dal suo mazzo e rilancia l’appello per un cessate il fuoco umanitario. Un appello condiviso immediatamente dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell.António Guterres si è aggrappato alla Carta delle Nazioni Unite e all’articolo 99, che prevede che il Segretario generale possa richiamare l’attenzione del Consiglio di Sicurezza su qualunque questione che a suo avviso costituisca una minaccia per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. In una lettera al presidente di turno dell’organo di governo dell’Onu, l’ecuadoregno José Javier de la Gasca Lopez Dominguez, Guterres ha condannato ancora il “ripugnante atto di terrore di Hamas”, prima di elencare i numeri che descrivono il dramma della Striscia di Gaza. Più di 15 mila morti, di cui il 40 per cento minori. Oltre metà della case distrutte. L’80 per cento dei 2.2 milioni di palestinesi di Gaza sfollati. E solo 14 ospedali su 36 ancora parzialmente funzionanti. “Non c’è nessun posto sicuro a Gaza”, ha commentato Guterres.Una foto di Gaza dal confine con Israele, 6/12/23 (Photo by JACK GUEZ / AFP)Una situazione che “sta rapidamente deteriorando in una catastrofe” e che secondo il diplomatico portoghese è ormai sull’orlo del “collasso umanitario“. Quanto basta per poter invocare – per la prima volta da quando è alla guida delle Nazioni Unite – l’articolo 99. “Mi aspetto che presto l’ordine pubblico crolli definitivamente a causa della condizioni disperate. Potrebbe presentarsi una situazione ancora peggiore, con malattie epidemiche e un aumento di pressione nei paesi vicini per uno sfollamento di massa”, ha spiegato Guterres lanciando il disperato appello ai membri del Consiglio di Sicurezza perché chiedano alle parti in conflitto un cessate il fuoco umanitario.Perché la richiesta di Guterres sarà oggetto di una risoluzione e di un voto dei 15 membri – permanenti e non – del Consiglio di Sicurezza. “Chiedo ai Paesi membri dell’Ue e ai like-minded partners (partner con la stessa visione, ndr) di sostenere l’appello”, ha rilanciato immediatamente l’Alto rappresentante Ue. Oltre ai membri permanenti -Stati Uniti, Cina, Francia, Russia e Regno Unito-, siedono attualmente al Consiglio di Sicurezza Onu Albania, Brasile, Ecuador, Gabon, Ghana, Giappone, Malta, Mozambico, Svizzera e Emirati Arabi Uniti. A loro la responsabilità di modificare l’appello per “pause umanitarie urgenti ed estese” contenuto nella risoluzione del 15 novembre in una formula più decisa. Quella del “cessate il fuoco”.I ministri degli Esteri dei 27 “preoccupati” per le violenze dei coloni in CisgiordaniaPiù o meno lo stesso dibattito lo avranno i ministri degli Esteri dell’Ue e Josep Borrell il prossimo 11 dicembre, quando si riuniranno a Bruxelles per il Consiglio Affari Esteri. Come ribadito dal portavoce del Servizio europeo di Azione Esterna, Peter Stano, sarà lì che i 27 decideranno se sia venuto il momento di chiedere anche dall’Ue la fine delle ostilità, visto l’immane numero di vittime civili del conflitto. In agenda ci sarà anche un altro punto importante: la possibilità di introdurre un regime di sanzioni per i coloni israeliani implicati in atti di violenza nella West Bank. Come già annunciato dagli Stati Uniti e dal primo ministro del Belgio, Alexander De Croo.La corda potrebbe essersi spezzata con la demolizione da parte di gruppi di coloni della scuola del villaggio di Zamuta, che era stata costruita grazie a fondi comunitari. Una distruzione “intollerabile”, ha commentato il commissario Ue per la Gestione delle Crisi, Janez Lenarcic. “La violenza dei coloni contro le comunità palestinesi deve fermarsi”, è il commento di Borrell. Dopo centinaia di demolizioni di strutture finanziate dall’Ue in Cisgiordania, quella di Zamuta è forse il punto di non ritorno.

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    L’ambasciatore di Israele in Italia: la soluzione “due popoli due Stati” è tra quelle possibili, ma Ue e Usa non tentino di imporre nulla

    Roma – Nei rapporti con Gaza “abbiamo tentato tutte le strade possibili”, ma alla fine la risposta militare all’attacco del 7 ottobre “non l’abbiamo scelta noi”. Mentre il conflitto tra Israele e Hamas è in uno dei suoi momenti più duri, abbiamo parlato con l’ambasciatore d’Israele in Italia Alon Bar, per capire, in particolare, quali sono i rapporti con i Paesi europei e, soprattutto quale può essere la strada da seguire nel “dopo Gaza” e che ruolo può avere l’Unione Europea, che non deve, spiega il diplomatico, tentare di “imporre” le sue soluzioni, ma deve avviare un dialogo aperto con tutti gli attori nella Regione.Eunews: Ambasciatore Bar, lei rappresenta Israele in Italia, conosce bene però la realtà europea più in generale. Che rapporti ha Israele con l’Europa?Bar: Siete una Regione amica, un importante partner politico, economico, scientifico e culturale per Israele. Abbiamo grandi relazioni commerciali, tanto che abbiamo anche adottato la gran parte delle regole interne dell’Unione Europea e partecipiamo a moltissimi strumenti UE. Le relazioni non sono le stesse con ogni Paese dell’Unione, è una realtà complessa, ma in generale, al di là delle relazioni commerciali, condividiamo molti valori politici e culturali, come la democrazia, lo stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e delle leggi internazionali.E.: In particolare con le istituzioni dell’Unione Europea quali sono le relazioni?B.: In questo momento difficile abbiamo trovato prevalentemente molta solidarietà e comprensione nel Parlamento europeo e nel Consiglio. Con la Commissione abbiamo avuto grande solidarietà, ma anche qualche disaccordo, abbiamo visto alcune dichiarazioni di Borrell (Josep Borrell, l’alto rappresentante per la Politica estera, ndr) molto critiche nei confronti di Israele, che però non necessariamente riflettono le posizioni di numerosi Stati Membri. Ci sono alcuni Paesi, come Spagna e Irlanda, che sembrano essere più solidali con le posizioni dei palestinesi, ma in generale posso affermare che c’è un dialogo e che lavoriamo per trovare intese positive.E.: E con l’Italia, qual è lo stato delle relazioni, come giudica le posizioni del governo, del Parlamento, e anche della società civile?B.: Abbiamo ottime relazioni con il governo, che ha mostrato grande solidarietà, sia da parte del primo ministro Giorgia Meloni sia da importanti ministri come Antonio Tajani o Guido Crosetto, che la settimana scorsa è andato in visita in Israele. Abbiamo trovato comprensione anche da parte di molti altri ministri, che hanno mostrato sostegno verso Israele anche partecipando alla recente manifestazione contro l’antisemitismo. Anche in Parlamento troviamo solidarietà, ed in Senato è stata approvata una mozione importante che condanna l’attacco di Hamas e le uccisioni compiute, lo riconosce come responsabile delle morti di civili israeliani e civili di Gaza usati come scudi umani, e riconosce il diritto di autodifesa di Israele. Vediamo anche critiche nei confronti di Israele nel vostro Paese, ovviamente, ma in generale devo dire che le relazioni sono molto buone.E.: Una domanda che in molti si fanno, dando le risposte più diverse, è perché Hamas abbia scatenato l’attacco del 7 ottobre, così violento, di dimensioni enormi. Lei che spiegazione ha?B.: Non esiste una ragione che possa giustificare quanto commesso da Hamas. E non è mio compito capire perché hanno fatto questa scelta. Stiamo parlando di terroristi fondamentalisti il cui obiettivo dichiarato nella Carta fondativa è distruggere Israele e gli ebrei. Hanno usato i soldi arrivati dalla solidarietà degli organismi internazionali e di Israele per Gaza per finanziare i loro attacchi, che vanno avanti da anni. Sono persone molto crudeli, che vogliono trasformare il territorio israeliano e quello palestinese in un califfato islamico.E.: Israele, uno Stato che vanta di appartenere al consesso degli Stati democratici, non aveva un’altra via per rispondere all’attacco del 7 ottobre?B.: Per quindici anni abbiamo provato di tutto. Siamo completamente usciti da Gaza, il loro confine con l’Egitto era aperto, decine di migliaia persone da Gaza venivano ogni giorno a lavorare in Israele, abbiamo provato a difenderci dai missili con il sistema Iron Dome e dalle penetrazioni fisiche con una barriera. Ma Hamas ha sempre preferito la strada dell’attacco militare, del lancio dei missili.Noi non abbiamo scelto questo tipo di risposta, negli anni, in particolare negli ultimi 15, abbiamo tentato ogni via alternativa di convivenza, ma non ha funzionato.Ora l’emergenza è eliminare la capacità di Hamas di attaccarci da Gaza. In questo sforzo noi facciamo tutto il possibile per distinguere i civili dai terroristi di Hamas, mentre questi ultimi non solo non fanno distinzioni, ma usano i civili di Gaza, compresi donne e bambini, come scudi umani per proteggere se stessi, si nascondono nelle le scuole, anche quelle dell’ONU, negli edifici degli organismi internazionali come l’UNRWA, negli ospedali, nelle moschee, tra la gente. E noi dobbiamo fermare la violenza di Hamas, che ha ucciso, mutilato, decapitato, stuprato e preso in ostaggio civili israeliani inermi. Non abbiamo altro obiettivo che questo.E.: Questo momento di guerra finirà. Cosa succederà dopo, ed in particolare, quale ruolo può avere l’Unione Europea nel futuro, quando si arriverà al momento della ricostruzione di Gaza?B.: Il punto di partenza è che l’Unione Europea ci deve consultare, noi israeliani come anche gli altri attori della regione – i Paesi arabi – e i rappresentanti dei palestinesi, ovviamente. L’obiettivo deve essere la ricostruzione di una Gaza che non sia una minaccia per Israele. Se l’Unione Europea è disponibile a partecipare a questo sforzo, noi saremmo molto lieti di cooperare con essa. Ma l’Unione europea non deve pensare che i suoi 27 membri possano decidere cosa succederà qui, e pretendere di imporlo né a noi né ai palestinesi. Bisogna che si avvii un dialogo nel quale non si imponga nulla a nessuno. Per questo l’Ue deve riconquistare la sua credibilità nella disponibilità a lavorare in coordinamento con noi, e diventerà un partner importante per creare un nuovo regime per una Gaza che viva in pace e che non abbia come obiettivo di essere una minaccia per Israele.E.: L’Unione ha ribadito la sua posizione dei “due popoli e due Stati”. Lei cosa ne pensa di questo obiettivo?B.: Il dibattito sulla questione è aperto in Israele. Alcuni dei nostri politici sono a favore, altri contro. Indubbiamente, noi non vogliamo controllare Gaza, e riteniamo debba esservi istituita un’amministrazione civile con la quale poter dialogare. Certamente non può essere con Hamas che si discute, anche perché loro sono contrari alla soluzione dei “due popoli due Stati”.Noi non possiamo accettare soluzioni imposte dagli Stati Uniti o dall’Unione Europea, ma quella due “due popoli e due Stati” è certamente una di quelle possibili. Dobbiamo parlarne, dobbiamo avere un confronto che possa portare a dei progressi. Una volta eliminato il pericolo costituito da Hamas e istituito un ambiente sicuro, sarà più facile fare progressi.

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    Ue e Cina tentano un riavvicinamento, 7 e 8 dicembre il summit bilaterale a Pechino

    Bruxelles – Conflitto russo-ucraino, questione medio-orientale, ma soprattutto commercio. Unione europea e Cina tentano un riavvicinamento e una normalizzazione dei rapporti bilaterali attraverso il 24esimo meeting congiunto, il primo in formato fisico dal 2019. I presidenti di Consiglio e Commissione Ue, Charles Michel e Ursula von der Leyen, insieme all’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, tentano di convincere presidente e primo ministro della Repubblica popolare ad avare un ruolo di primo piano innanzitutto sulle questioni di stretta attualità.La guerra tra Russia e Ucraina è la principale di questi temi. Gli europei, spiegano fonti Ue ben informate, vorrebbero che la Cina utilizzasse la propria influenza per fermare Vladimir Putin e le sue operazioni militari. Si nutre cauto ottimismo, alimentato dalla consapevolezza che a Pechino questa guerra non piace perché non fa comodo. Una situazione che però sin qui non ha visto una posizione decisa né una condanna.“Non abbiamo ancora una prova di sostegno militare diretto in questa guerra, e vediamo che l’export cinese di tutta una serie di beni che possono essere usati in prima linea si riduce, e questo è positivo”, il ragionamento a Bruxelles, dove però si guarda con una certa attenzione alle relazioni bilaterali Ue-Cina, in particolare in ambito commerciale.L’Ue non vuole scontri con la Cina, ma la delegazione Ue si presenta a Pechino con un’inchiesta aperta contro i sussidi statali alle auto elettriche ‘made in China‘ che può voler dire, potenzialmente, anche dazi contro i prodotti cinesi. Una decisione, quella di Bruxelles, che potrebbe anche irrigidire gli interlocutori Xi Jinping (presidente) e Li Qiang (primo ministro), ma che nell’ottica a dodici stelle serve a ribadire una posizione di determinazione. Qui il messaggio che si intende recapitare è la necessità di maggiore equilibrio.L’Ue ha una bilancia commerciale in forte squilibrio nei confronti della Cina, e una delle ragioni sono le restrizioni all’ingresso del mercato cinese poste dal partito. “Se ci sono barriere agli investimenti diventa difficile vedere investimenti diretti dell’Ue”, riassumono, in estrema sintesi, le fonti europee. Si vuole da parte cinese la fine di pratiche sleali per una concorrenza vera e basate sulle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Ferma restando, per l’Unione europea, la necessità di ridurre quelle dipendenze da materie prime e catene di approvvigionamento che pongono questioni di stabilità, oltre che di competitività.Non sarà facile, perché “i cinesi sono un po’ nervosi sul concetto di derisking“, ossia la riduzione della dipendenza economica dalla Repubblica popolare. “Vedono che la loro presenza sul nostro mercato potrebbe ridursi”, così come la forza della loro leva geopolitica nei confronti dei Ventisette. Difficile immaginare concessioni. L’Ue comunque ci prova.Le premesse non sembrano delle migliori. Come da tradizione la Cina mostra una certa allergia a conferenze stampa, infatti non sono previste previste. Ma, a meno di cambi di rotta dell’ultimo momento, non è prevista neppure una dichiarazione congiunta. “Non ci è stato chiesto di averne una”, ammettono a Bruxelles. Gli europei non danno l’impressione di aver insistito chissà quanto, e certamente non ottengono documenti di fine lavoro sottoscritti dalla leadership cinese. “Avere questo dialogo Ue-Cina è una buona occasione per affrontarli tanti temi”, spiegano a Bruxelles. Già è tanto che Michel e von der Leyen siano accolti a Pechino.
    Xi Jinping e Li Qiang ricevono Michel e von der Leyen. E’ il primo meeting ‘di persona’ dal 2019. Sul tavolo la guerra in Russia ma soprattutto le relazioni commerciali

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    A Gaza riprendono le ostilità e i bombardamenti israeliani. L’Ue chiede all’Iran un “lavoro attivo” per la de-escalation

    Bruxelles – Nove giorni, e la tregua nella Striscia di Gaza è già finita. “Le ostilità sono riprese a Gaza e vediamo che il bilancio delle vittime civili, già molto alto, continua ad aumentare“, si è rammaricato l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, commentando gli intensi bombardamenti israeliani ricominciati venerdì scorso (primo dicembre) e che da ieri (3 dicembre) si sono estesi anche alla parte meridionale della Striscia, dove sono entrati per la prima volta i carri armati di Tel Aviv.Il capo della diplomazia Ue esprime forte preoccupazione per quanto in atto negli ultimi tre giorni nella Striscia di Gaza, conscio dei rischi a cui si sta andando incontro. “Dobbiamo evitare qualsiasi ricaduta regionale, la soluzione può essere solo politica incentrata su due Stati“, ha sottolineato Borrell nel corso di uno scambio telefonico con il ministro degli Affari esteri dell’Iran, Hossein Amir-Abdollahian, esortando Teheran a “usare la sua influenza e a lavorare attivamente per evitare un’ulteriore escalation nella regione”. Parole che arrivano a pochi giorni dal vertice ministeriale della Nato, in cui proprio l’Iran è stato avvertito di “tenere a freno” i suoi delegati di Hamas e Hezbollah che operano nella regione contro Israele.Ancora più duro è stato poi lo stesso alto rappresentante Ue nel suo intervento al 25esimo Forum Ue-Ong per i diritti umani: “Quella di Hamas è stata una carneficina, ma quella a cui stiamo assistendo ora è un’altra carneficina“. Alcuni partecipanti hanno iniziato a lasciare la sala dopo le parole di Borrell, che non ha però fatto alcun passo indietro: “Probabilmente ho detto qualcosa di scomodo, ma le Nazioni Unite hanno affermato chiaramente che quanto successo è stato riconosciuto come tale, mentre quello che sta succedendo ne è un altro caso”. La motivazione è semplice e parte dal numero di vittime: “Nessuno sa quante siano, qualche stima dice 15mila, ma temo che sotto le macerie delle case distrutte ce ne siano molte di più, con un alto numero di bambini”, e la comunità internazionale “non può accettarlo”. In altre parole, “un orrore non può giustificare un altro orrore“.La fine della tregua a GazaDa sinistra: l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il primo ministro palestinese, Mohammad Shtayyeh, a Ramallah il 17 novembre 2023 (credits: Nasser Nasser / Pool / Afp)Nel corso della tregua iniziata nella notte tra il 21 e il 22 novembre e andata in frantumi dopo nemmeno dieci giorni, Hamas ha rilasciato 110 ostaggi detenuti a Gaza in cambio di 240 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Ma ora si tornano a contare non più i prigionieri liberati ma solo le persone uccise dai bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza. Dall’inizio della guerra il bilanci è salito a circa 15 mila vittime palestinesi, prevalentemente nella parte settentrionale della lingua di terra di 40 chilometri per 9. Da ieri però l’esercito israeliano ha intensificato i bombardamenti e lanciato un’operazione di terra a nord di Khan Younis, città palestinese con annesso campo profughi nella parte meridionale della Striscia. L’incursione è stata preceduta da ordini di evacuazione alla popolazione palestinese in diversi distretti della città, dove già centinaia di migliaia di persone si erano rifugiate dopo essere fuggite dai combattimenti nel nord della Striscia nelle prime fasi della guerra.“Il modo in cui Israele esercita il suo diritto all’autodifesa è importante, è imperativo che rispetti il diritto internazionale umanitario e le leggi di guerra“, ha ribadito con forza l’alto rappresentante Borrell, richiamandosi a quanto già affermato a più riprese sulla necessità di non violare il diritto internazionale: “Questo non è solo un obbligo morale, ma anche legale”. Così come fatto nel corso della missione nella regione a pochi giorni dall’inizio della tregua, il capo della diplomazia dell’Unione ha fatto riferimento anche alla “crescente violenza in Cisgiordania, dove secondo le Nazioni Unite dal 7 ottobre sono stati uccisi 271 palestinesi“, più del doppio di tutti quelli uccisi dai coloni o dall’esercito israeliano dall’inizio dell’anno. Tornando al conflitto a Gaza, Borrell ha poi ricordato che la tregua che ha permesso il rilascio degli ostaggi ma anche la consegna di aiuti umanitari alla popolazione civile di Gaza “non è sufficiente” da sola, dal momento in cui “le pause umanitarie dovrebbero essere riprese, ma lavorando contemporaneamente per una soluzione politica globale per tutti i territori palestinesi”. Quella soluzione per “due popoli, due Stati” che per l’Unione Europea è ormai un caposaldo e su cui ha elaborato una base di  sei condizioni – “tre sì e tre no” – su cui provare a impostare il dialogo nella regione.
    Dal primo dicembre è finita la tregua temporanea, con le operazioni miliari che si sono estese anche nel sud della Striscia. L’alto rappresentante Ue, Josep Borrell: “Quella di Hamas è stata una carneficina, ma quella a cui stiamo assistendo ora è un’altra carneficina”

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    La Cop28 dell’Ue si apre con lo sforzo per il prezzo globale del carbonio: “Ridurre le emissioni, promuovendo la crescita”

    Bruxelles – Si aprono con un chiaro messaggio della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, le due settimane di Cop28 dell’Unione Europea: “C’è un modo per ridurre le emissioni, promuovendo al contempo l’innovazione e la crescita, ed è mettere un prezzo al carbonio“. Il primo intervento a margine della sessione plenaria della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (dal 30 novembre al 12 dicembre) da parte della numero uno dell’esecutivo comunitario si è concentrato su una delle principali priorità della missione Ue a Dubai, a partire dall’obiettivo-cardine della Conferenza stessa: “Se vogliamo mantenere il riscaldamento globale al di sotto del punto critico di 1,5 gradi, dobbiamo ridurre le emissioni globali”.All’evento di alto livello di questa mattina (primo dicembre) sui mercati del carbonio insieme al Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca Mondiale e Organizzazione mondiale del commercio (Omc) alla Cop28 di Dubai, la presidente von der Leyen non ha usato giri di parole per descrivere i motivi per cui bisogna spingere su un sistema di tariffazione del carbonio: “È uno strumento guidato dal mercato, il messaggio è chiaro: inquini? Devi pagare un prezzo. Vuoi evitare il pagamento? Innova e decarbonizza”. In altre parole o innovazione o “un prezzo equo a chi inquina pesantemente”, con i ricavi ottenuti che possono essere reinvestiti nella lotta al cambiamento climatico. Secondo le parole di von der Leyen si tratta di uno degli strumenti “più potenti, collaudati e affidabili”, che sono già stati messi in piedi da diversi governi in tutto il mondo: Canada, Cina, Nuova Zelanda, Kazakistan, Zambia.L’Unione Europea ha introdotto nel 2005 il suo sistema di scambio quote di emissioni – il mercato del carbonio Ets – e questi 18 anni forniscono un esempio concreto sulle possibilità e i risultati nell’obiettivo di “eliminare il carbonio”. Da quando è stato introdotto il sistema di tariffazione a livello comunitario le emissioni coperte sono diminuite di quasi il 40 per cento e contemporaneamente sono stati raccolti oltre 175 miliardi di euro di entrate (destinate “esclusivamente” ad azioni per il clima e innovazione anche nei Paesi in via di sviluppo), secondo i dati forniti dalla presidente della Commissione Ue. L’obiettivo ora è quello di “aiutare un numero sempre maggiore di Paesi a creare e completare i loro mercati nazionali del carbonio”. Aumentare la quota di Paesi allineati a un sistema di tariffazione globale permetterà “una più rapida riduzione delle emissioni, creerà condizioni di parità per il commercio internazionale e raccoglierà maggiori entrate per l’azione per il clima, anche nei Paesi in via di sviluppo”.Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente dello Zambia, Hakainde Hichilema, alla Cop28 di Dubai (primo dicembre 2023)A oggi si contano 73 strumenti di tariffazione del carbonio, che però coprono “solo il 23 per cento delle emissioni globali“, ha avvertito von der Leyen, appellandosi al motivo che ha portato i leader del mondo alla Cop28: “Dobbiamo dare impulso a questo movimento globale”. Per questa ragione è necessario il supporto delle tre organizzazioni internazionali, in particolare per spingere i crediti di carbonio volontari, in modo da far affluire capitale privato: “Gli investitori hanno anche bisogno di certezze e per questo motivo servono standard comuni per i progetti che riducono le emissioni e migliorino la biodiversità”, è l’esortazione di von der Leyen.Gli altri impegni Ue alla Cop28“Questa Cop può fare la storia, la scorsa primavera l’Unione Europea ha lanciato un appello per triplicare le energie rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030“, è il messaggio congiunto lanciato dai leader dell’Unione (insieme alla presidente von der Leyen anche il numero uno del Consiglio Ue, Charles Michel) a Dubai. “Più di 110 Paesi hanno già aderito” e ora si punta a “includere questi obiettivi nella decisione finale della Cop, in questo modo si invia un messaggio forte sia agli investitori che ai consumatori”. Per Bruxelles “non c’è dubbio, il futuro dell’energia sarà pulito, conveniente e di origine nazionale” e da qui parte l’impegno concreto sul Fondo per perdite e danni su cui è stata trovata l’intesa per l’operatività proprio alla Cop28: “A oggi Team Europe ha contribuito per oltre 270 milioni di dollari – 245 dai Paesi membri e 25 dal budget Ue – dobbiamo portare i fondi a disposizione velocemente“, ha annunciato von der Leyen, ricordando anche i “quasi 30 miliardi di dollari” di contributo dell’anno scorso per i finanziamenti sul clima.Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, alla Cop28 di Dubai (primo dicembre 2023)“Questo vertice non è solo una conferenza, è un esame di coscienza, per fare il punto sulla situazione globale dopo gli accordi di Parigi”, ha aggiunto nella sua parte di intervento il presidente Michel. “Nessun continente può sfuggire alla tragedia del cambiamento climatico” e se “la scienza, la conoscenza e la ragione ci stanno portando a conoscere la diagnosi”, le soluzioni per mantenere l’obiettivo di 1,5 gradi sono compito della politica: “Dobbiamo liberarci al più presto della nostra dipendenza dai combustibili fossili, che stanno mettendo a rischio il nostro futuro comune”. Michel ha fatto riferimento al Green Deal per parlare dell’impegno dell’Unione a questo proposito, con “pacchetti di misure per trasformare radicalmente il nostro paradigma di sviluppo economico“.E infine c’è l’impegno dell’Unione sul nuovo Club del Clima. “Sta crescendo, ora siamo 36 membri provenienti da ogni angolo del pianeta, con esigenze diverse ma aspirazioni comuni”, è stato il messaggio di von der Leyen: “Costruire un futuro più pulito e prospero per i nostri cittadini e far progredire la decarbonizzazione delle nostre industrie”. L’idea del Club del Clima era nata in seno al G7, ma ora “sta diventando un centro di conoscenza unico nel suo genere”, con tutti i membri che insieme rappresentano oltre il 30 per cento delle emissioni globali: “Qualsiasi cosa decideremo insieme sarà un potente vettore di cambiamento globale“. Ecco perché ora la strada verso la decarbonizzazione passerà dal “rafforzare i nostri legami con i partner che condividono le nostre idee in tutto il mondo”, ha spiegato lo spirito del Club del Clima von der Leyen, parlando dei partenariati messi in piedi dall’Ue. Da quelli sull’idrogeno con Paesi dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia, “che hanno un potenziale immenso per produrre energia pulita, trasformarla in idrogeno pulito e distribuirla al mondo”, a quelli per le materie prime critiche “da fornitori affidabili, in modo sostenibile”.
    A Dubai la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha definito le linee di collaborazione con Fondo monetario internazionale, Banca Mondiale e Organizzazione mondiale del commercio per “dare impulso” a più sistemi di tariffazione: “Strumento guidato dal mercato”