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    L’iniziativa sull’allargamento Ue del Cese inaugurata sotto gli occhi dei premier di Albania e Montenegro

    Bruxelles – Dopo le promesse, la messa a terra della prima iniziativa di coinvolgimento concreto dei Paesi candidati all’adesione all’Unione Europea. Il Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese) ha lanciato ufficialmente oggi (15 febbraio) l’iniziativa ‘Membri candidati all’allargamento Ue’, per integrare 131 membri della società civile dei nove Paesi candidati all’adesione Ue – Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Macedonia del Nord, Moldova, Montenegro, Serbia, Turchia e Ucraina – nel lavoro consultivo del Comitato per tutto il 2024, diventando la prima istituzione dell’Unione a fare questo passo.

    Da sinistra: il presidente del Comitato Economico e Sociale Europeo (Cese), Oliver Röpke, il primo ministro del Montenegro, Milojko Spajić, il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, e la vicepresidente della Commissione Ue per i Valori e la trasparenza, Vêra Jourová (15 febbraio 2024)“Quando mi sono insediato, l’avevo promesso come una delle prime iniziative”, ha ricordato il presidente del Cese, Oliver Röpke, parlando del coinvolgimento dei Paesi coinvolti nel progetto di allargamento Ue. Dopo il lancio dell’iniziativa nel settembre 2023 e l’invito di inizio gennaio a presentare le candidature, “la risposta è stata enorme, con 567 richieste, questo ha dimostrato quanto è dinamica e attiva la società civile di questi Paesi”.

    A febbraio sono stati scelti 131 membri che ora potranno partecipare a tutto il ciclo dei pareri (gruppi di studio, riunioni di sezione e sessioni plenarie), con una plenaria annuale specifica sulle questioni relative all’allargamento Ue programmata per settembre e la valutazione del progetto a dicembre 2024: da oggi saranno integrati nel Comitato 13 membri dall’Albania, 9 dalla Bosnia ed Erzegovina, 15 dalla Georgia, 16 dalla Moldova, 14 dal Montenegro, 14 dalla Macedonia del Nord, 13 dalla Serbia, 15 dalla Turchia e 22 dall’Ucraina. “È una nuova fase, potete portare una nuova visione nell’Ue“, è l’esortazione del presidente Röpke.  “L’ingresso nell’Ue è l’assicurazione politica contro le minacce degli autocrati”, ha messo in chiaro nel suo intervento la vicepresidente della Commissione Ue per i Valori e la trasparenza, Vêra Jourová, che ha promesso – anche in vista della nuova legislatura europea e come impegno della futura Commissione – che “spingeremo l’integrazione con i Paesi candidati all’adesione Ue ovunque possibile, ci sono molte porte aperte” anche grazie al nuovo Piano di crescita per i Balcani Occidentali.L’iniziativa del Cese è stata presentata a Bruxelles alla presenza dei premier del Montenegro, Milojko Spajić, e dell’Albania, Edi Rama. “Faremo tutto il nostro lavoro in linea come l’approccio basato sul merito, non vogliamo scorciatoie”, ha assicurato il primo ministro montenegrino, ricordando che “siamo stati i primi a portare i rappresentanti della società civile nel processo negoziale” iniziato nel 2012: “La priorità del governo è di implementare le riforme, sfruttando questo momento positivo” iniziato con il nuovo ciclo politico dello scorso anno. “Tutti dovrebbero realizzare che tanto l’Ue è importante per noi, tanto noi siamo importanti per l’Ue”, è l’avvertimento del premier albanese Rama, che ha definito quello del Cese “il primo grande esempio di come dobbiamo vedere il prossimo futuro comune“. Ovvero “essere parte integrante e con diritto di voto”, anche nelle altre istituzioni Ue “a diversi livelli e in diversi comitati”, dal Parlamento alla Commissione, fino al Consiglio dell’Ue. Rama ha definito l’Unione “più consapevole dell’importanza strategica dei Balcani non solo a parole, ma anche nei fatti”, anche se “è triste constatare che serviva Putin per darci una scossa e aprirci gli occhi, ma non possiamo aspettare una nuova invasione, un nuovo disastro” per spingere questo processo.A che punto è l’allargamento UeSui sei Paesi dei Balcani Occidentali che si trovano sul percorso dell’allargamento Ue, quattro hanno già iniziato i negoziati di adesione – Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia – uno ha ricevuto lo status di Paese candidato – la Bosnia ed Erzegovina – e l’ultimo ha presentato formalmente richiesta ed è in attesa del responso dei Ventisette – il Kosovo. Per Tirana e Skopje i negoziati sono iniziati nel luglio dello scorso anno, dopo un’attesa rispettivamente di otto e 17 anni, mentre Podgorica e Belgrado si trovano a questo stadio rispettivamente da 11 e nove anni. Dopo sei anni dalla domanda di adesione Ue, il 15 dicembre 2022 anche Sarajevo è diventato un candidato a fare ingresso nell’Unione e l’ultimo Consiglio Europeo di dicembre ha deciso che potranno essere avviati i negoziati di adesione “una volta raggiunto il necessario grado di conformità ai criteri di adesione”. Pristina è nella posizione più complicata, dopo la richiesta formale inviata alla fine dello scorso anno: dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza da Belgrado nel 2008 cinque Stati membri Ue – Cipro, Grecia, Romania, Spagna e Slovacchia – continuano a non riconoscerlo come Stato sovrano.

    Da sinistra: il primo ministro del Montenegro, Milojko Spajić, e il primo ministro dell’Albania, Edi Rama (15 dicembre 2024)Lo stravolgimento nell’allargamento Ue è iniziato quattro giorni dopo l’aggressione armata russa quando, nel pieno della guerra, l’Ucraina ha fatto richiesta di adesione “immediata” all’Unione, con la domanda firmata il 28 febbraio 2022 dal presidente Zelensky. A dimostrare l’irreversibilità di un processo di avvicinamento a Bruxelles come netta reazione al rischio di vedere cancellata la propria indipendenza da Mosca, tre giorni dopo (3 marzo) anche Georgia e Moldova hanno deciso di intraprendere la stessa strada. Il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha approvato la linea tracciata dalla Commissione nella sua raccomandazione: Kiev e Chișinău sono diventati il sesto e settimo candidato all’adesione all’Unione, mentre a Tbilisi è stata riconosciuta la prospettiva europea nel processo di allargamento Ue. Di nuovo seguendo la raccomandazione contenuta nel Pacchetto Allargamento Ue, il vertice dei leader Ue del 14-15 dicembre 2023 ha deciso di avviare i negoziati di adesione con Ucraina e Moldova e di concedere alla Georgia lo status di Paese candidato.I negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea sono stati invece avviati nel 2005, ma sono congelati ormai dal 2018 a causa dei dei passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura. Nel capitolo sulla Turchia dell’ultimo Pacchetto annuale sull’allargamento presentato nell’ottobre 2022 è stato messo nero su bianco che “non inverte la rotta e continua ad allontanarsi dalle posizioni Ue sullo Stato di diritto, aumentando le tensioni sul rispetto dei confini nel Mediterraneo Orientale”. Al vertice Nato di Vilnius a fine giugno il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha cercato di forzare la mano, minacciando di voler vincolare l’adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica solo quando Bruxelles aprirà di nuovo il percorso della Turchia nell’Unione Europea. Il ricatto non è andato a segno, ma il dossier su Ankara è stato affrontato in una relazione strategica apposita a Bruxelles.

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    L’opposizione russa è sotto torchio in vista delle elezioni del 2024. Ma il Parlamento Ue prova a darle voce

    Bruxelles – C’è una frase che riassume efficacemente il complesso ruolo costruttivo che l’Unione Europea può svolgere nel Paese che da due anni è preso di mira per la guerra di aggressione all’Ucraina: “Il momento migliore per supportare la democrazia in Russia era 20 anni fa, il secondo è ora“. A pronunciare queste parole è la presidente dell’organizzazione non governativa Free Russia Foundation, Natalia Arno, che al Parlamento Europeo ha messo in chiaro la necessità di un sostegno da parte di Bruxelles all’altra faccia della guerra russa in Ucraina: la società civile russa zittita e perseguitata con ancora più intransigenza dal regime di Vladimir Putin.

    L’eurodeputato Tomas Tobé (Ppe)Un confronto tra eurodeputati ed esponenti dell’opposizione russa andato in scena oggi (14 febbraio) all’Eurocamera, per ricordare che “una pace sostenibile in Europa richiede la trasformazione della Russia in una democrazia, e serve una strategia per arrivarci“, ha aperto le discussioni l’eurodeputato del Ppe, Tomas Tobé. L’appuntamento arriva a un mese dalle elezioni presidenziali in Russia, da cui le forze di opposizione democratica sono state completamente escluse (oltre a Putin sono stati autorizzati a correre solo tre candidati comunisti, liberal-nazionalisti e ultra-nazionalisti). “Serve uno scambio regolare con l’opposizione democratica russa e con le persone che si permettono di sfidare il regime autoritario e antidemocratico, anche con grandi rischi personali” – dall’avvelenamento a lunghe pene detentive in colonie di lavoro in Siberia – è l’esortazione dell’eurodeputato francese che ha presieduto la conferenza di oggi.

    La presidente di Free Russia Foundation, Natalia Arno“Putin è arrivato al potere con le bombe sulla Cecenia e un quarto di secolo dopo continua a governare bombardando un Paese sovrano e scatenando la più grande guerra in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale”, è stato l’esordio all’Eurocamera della presidente di Free Russia Foundation. In patria Putin ha reso “la Russia un regime corrotto e sanguinario, con censura, repressione, propaganda e controllo dei media”, una Russia “basata sulla distruzione dello Stato di dritto, sull’intolleranza e sull’ingiustizia”, dove “nessuna elezione dal 2000 a oggi è stata definita libera ed equa dagli osservatori internazionali”. Invasione dell’Ucraina e repressione interna vanno a braccetto, non solo nell’ottica dell’Unione Europea ma anche dell’opposizione a Putin nel Paese: “Da due anni ha catapultato la Russia da un’autocrazia a una dittatura sanguinaria, rafforzando la legislazione repressiva e colpendo la società civile, le opposizioni politiche, i giornalisti indipendenti e gli avvocati per i diritti umani”.

    La relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nella Federazione Russa, Mariana KatzarovaAnche le elezioni sono tali solo per modo di dire. “Non serve la sfera di cristallo per predire quello che succederà: Putin vincerà queste elezioni, rafforzerà il suo potere nel Paese e le considererà una conferma della sua guerra in Ucraina”, ha sintetizzato Arno, ricordando che il voto sarà svolto anche nei territori occupati illegalmente” in Ucraina. Perché – nonostante non si tratti di elezioni libere e gli oppositori politici vengano eliminati anche fisicamente – Putin “vuole legittimazione” dal popolo, come tutti i dittatori. Parole confermate anche dalla relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nella Federazione Russa, Mariana Katzarova: “I leader autocratici che vogliono rimanere in carica, prima zittiscono la stampa e i media liberi, rendendoli strumenti di propaganda, poi la società civile e infine attaccano i Paesi vicini, anche i migliori dittatori del Novecento l’hanno fatto”. Il trend di repressione in Russia “va avanti da vent’anni, ma negli ultimi due si è cristallizzata la totale repressione politica e civile”, una dimostrazione che “le elezioni democratiche non possono funzionare in Paesi dove c’è una dittatura“, ha ricordato Katzarova, esortando i Paesi europei a non ostacolare i russi che fuggono dalla guerra e dai regimi di Russia e Bielorussia: “Dobbiamo difendere tutti, anche chi scappa perché non vuole uccidere o farsi uccidere”. All’orizzonte ci deve essere il futuro comune dell’Ue e della Russia che, anche senza Putin, ormai non è più tutto roseo: “Il regime è fragile e vulnerabile, ma quando cadrà sarà solo l’inizio di un duro processo verso la democrazia, perché ogni guerra è stata accompagnata da attacchi alla società civile”, ha avvertito Arno.

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    Spagna e Irlanda chiedono una verifica degli impegni sui diritti umani previsti dall’accordo di associazione Ue-Israele

    Bruxelles – In una lettera recapitata direttamente alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, i governi di Spagna e Irlanda chiedono di fare luce “con urgenza” sugli obblighi previsti dall’Accordo di associazione Ue-Israele in materia di diritti umani. Perché “considerata la diffusa preoccupazione per le possibili violazioni del diritto internazionale umanitario” a Gaza, per i due premier, Pedro Sanchez e Leo Varadkar, potrebbe esserci margine per rivedere la relazione privilegiata con Tel Aviv.Nel clima di crescente pressione internazionale nei confronti di Israele perché metta fine alle devastanti operazioni militari nella Striscia di Gaza, i due governi europei che dal 7 ottobre si sono mostrati maggiormente sensibili alle sofferenze palestinesi hanno deciso di rompere gli indugi e mettere sul piatto uno strumento che l’Ue potrebbe usare per fare leva su Tel Aviv. Perché l’Accordo di Associazione, in vigore dal 2000, prevede una serie di agevolazioni commerciali che per l’economia di Israele – per cui l’Ue è il primo partner commerciale – sono di vitale importanza.

    Il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez (a destra) e il premier irlandese, Leo Varadkar (Photo by Thomas COEX / AFP)Ma gli accordi di Associazione stipulati dall’Ue nel mondo, non solo quello con Israele, si fondano sui valori comuni condivisi di democrazia e rispetto dei diritti umani, dello Stato di diritto e delle libertà fondamentali. Il momento scelto da Sanchez e Varadkar è pregnante, perché “l’ampliamento dell’operazione militare israeliana nell’area di Rafah rappresenta una minaccia grave e imminente che la comunità internazionale deve affrontare con urgenza”.Dopo aver ricordato le 28 mila vittime dei bombardamenti sulla Striscia di Gaza, i 67 mila feriti e lo sfollamento forzato di quasi 2 milioni di persone, Spagna e Irlanda hanno ricordato inoltre a von der Leyen – che dopo un iniziale supporto infervorato per la causa israeliana ha diminuito progressivamente le proprie uscite sul conflitto – che la Corte Internazionale di Giustizia ha ordinato a Israele di adottare “misure provvisorie per impedire che vengano commessi atti di genocidio” e azioni “immediate ed efficaci per assicurare servizi di base e assistenza umanitaria urgentemente necessari a Gaza”. Dove le Nazioni Unite stimano che il 90 per cento della popolazione si trovi già in una situazione di grave insicurezza alimentare, con il serio rischio di carestia.Niente di più distante dal rischio di catastrofe umanitaria che provocherebbe “l’imminente minaccia di operazioni militari israeliane a Rafah”. Per tutte queste ragioni, il governo socialista spagnolo e quello di centro-destra irlandese hanno chiesto alla Commissione europea di “verificare con urgenza se Israele stia rispettando i suoi obblighi, anche nell’ambito dell’Accordo di associazione Ue-Israele, che fa del rispetto dei diritti umani e dei principi democratici un elemento essenziale delle relazioni”. E di proporre al Consiglio eventuali “misure appropriate da prendere in considerazione“.

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    “Aumenti significativi” della Nato nella difesa collettiva in risposta a Trump: “Non minare la deterrenza”

    Bruxelles – Dopo la prima reazione sdegnata, la risposta della Nato alle minacce di Donald Trump di non voler difendere gli alleati che non spendono abbastanza nella difesa è tutta nei dati. “Oggi posso annunciare gli ultimi dati sugli investimenti nella difesa, da quando abbiamo preso l’impegno nel 2014 gli alleati europei e il Canada hanno investito più di 600 miliardi di dollari aggiuntivi“, ha reso noto il segretario generale dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, Jens Stoltenberg, durante la conferenza stampa pre-ministeriale Difesa a Bruxelles: “La Nato è stata in grado di prevenire attacchi agli alleati per oltre 70 anni, e questo perché è sempre stato comunicato in ogni momento e in modo chiaro che siamo pronti a difenderci”, è l’avvertimento a chiunque diventerà il nuovo presidente degli Stati Uniti, ribandendo che “l’idea che un attacco a un alleato provocherà la risposta di tutta l’Alleanza è una deterrenza credibile“.

    Il segretario generale della Nato, Jens StoltenbergUna deterrenza che – seguendo le parole di Stoltenberg – si traduce in un “aumento senza precedenti” degli investimenti in questo settore (lo scorso anno “pari all’11 per cento”) da parte dei Paesi membri dell’Alleanza, in attesa dei dati del 2024: “Quest’anno mi aspetto che 18 alleati spenderanno il 2 per cento del Pil nella difesa, nel 2014 erano solo 3“, ha anticipato il segretario generale della Nato. Per quanto riguarda più specificamente i 29 Paesi membri europei, sempre quest’anno sono previsti “380 miliardi di dollari spesi nella difesa“, che complessivamente parlando raggiungono “per la prima volta”” il famoso target del 2 per cento del Pil. Stoltenberg non ha fornito la lista degli alleati che si allineeranno all’obiettivo concordato nel 2014, ma ha esortato a continuare il lavoro: “Molti di loro hanno ancora strada da fare, perché a Vilnius [all’ultimo vertice Nato del 2023, ndr] abbiamo concordato che tutti dobbiamo farlo, e questa è la soglia minima“.Se i dati sono la maniera più concreta per rispondere alle minacce di Trump – secondo cui Washington potrebbe disinteressarsi da un’eventuale aggressione russa – Stoltenberg non ha evitato di approfondire il tema di fronte alle insistenti domande della stampa prima dell’inizio del vertice dei ministri della Difesa Nato in programma oggi (15 febbraio). “Non dobbiamo minare la deterrenza della Nato su cui stiamo investendo, anche nel modo in cui comunichiamo“, anche per “non lasciare spazio a Mosca per errori di calcolo e malintesi sulla nostra risolutezza nel difenderci”, ha spiegato il segretario generale dell’Alleanza: “Fino a quando saremo uniti dietro questo messaggio, preverremo attacchi a ogni alleato e manterremo la pace”, ma al contrario “ogni suggerimento che non ci proteggeremo, ci mette tutti a rischio“. Una questione di non secondaria importanza nemmeno per Washington: “Gli Stati Uniti non hanno mai combattuto una guerra da soli senza gli alleati Nato, dalla Corea all’Afghanistan, e l’unica volta in cui siamo ricorsi al’articolo 5 è stato per un attacco agli Stati Uniti“, non ha risparmiato una stoccata al membro più importante dell’Alleanza Stoltenberg, ricordando che “più sono preoccupati dalla Cina, più hanno bisogno di una Nato forte”.Le parole di Trump sulla NatoA scatenare il polverone di polemiche sono state le parole durissime di Trump contro gli altri 30 alleati della Nato, quando sabato (10 febbraio) nel corso di un comizio in South Carolina ha ricordato i suoi anni da presidente degli Stati Uniti: “Uno dei leader di un grosso Paese ha chiesto ‘Se non paghiamo e veniamo attaccati dalla Russia, ci proteggerete?’, e io ho risposto ‘Non avete pagato, non vi proteggeremo. Li incoraggerei [i russi, ndr] a farvi quello che diavolo vogliono”. Una prospettiva inquietante in vista di una eventuale ri-elezione di The Donald alla Casa Bianca e dello scetticismo dilagante dei repubblicani al Congresso nel fornire ulteriore sostegno militare e finanziario a Kiev, alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina dal 24 febbraio 2022 e dei rischi di una futura estensione del conflitto in Europa. È per questo che non si sono fatte attendere le reazioni dei leader delle istituzioni comunitarie e dei Paesi membri Ue.

    “L’Alleanza transatlantica ha sostenuto la sicurezza e la prosperità di americani, canadesi ed europei per 75 anni, le dichiarazioni avventate sulla sicurezza della Nato e sulla solidarietà dell’articolo 5 servono solo agli interessi di Putin, non portano maggiore sicurezza o pace al mondo”, è quanto messo in chiaro dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, che invoca allo stesso tempo “la necessità per l’Ue di sviluppare ulteriormente e con urgenza la propria autonomia strategica e di investire nella propria difesa”, mantenendo “forte la nostra Alleanza”. Anche il primo ministro belga e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Alexander De Croo, ha ribadito che “la nostra più grande risorsa di fronte a Putin è la nostra unità, e l’ultima cosa che dovremmo fare è comprometterla”. Secco il commento dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, a quella che definisce “una sciocca idea” come “tante ne vedremo e sentiremo durante la campagna elettorale” statunitense: “La Nato non può essere un’alleanza militare à la carte, che dipende dall’umore del presidente degli Stati Uniti“, perché “o esiste o non esiste”. Il ministro della Difesa della Polonia, Władysław Kosiniak-Kamysz, ha avvertito che “nessuna campagna elettorale è una scusa per giocare con la sicurezza dell’Alleanza”, mentre il ministero degli Esteri della Germania ha pubblicato su X il motto “uno per tutti e tutti per uno”, ricordando che “la Nato tiene al sicuro più di 950 milioni di persone, da Anchorage a Erzurum”.

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    La premier estone Kallas nella lista dei ricercati del Cremlino. Per l’Ue è “una medaglia al valore”

    Bruxelles – Una “medaglia al valore” per il supporto “inflessibile” in difesa dei “principi su cui è stata fondata l’Unione Europea”. Riassume così la solidarietà dell’Unione verso la prima ministra estone, Kaja Kallas, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, dopo la notizia arrivata in giornata (13 dicembre) sull’inserimento della leader del Paese baltico nella lista dei ricercati internazionali della Russia. “Non ci faremo intimidire dai guerrafondai del Cremlino”, ha messo in chiaro Michel a nome dei Ventisette.

    Da sinistra: il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la prima ministra dell’Estonia, Kaja KallasÈ la prima volta che un capo di Stato o di governo viene inserito nella black list dei ricercati internazionali della Russia. Decisione motivata dal portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, per gli “atti ostili contro la nostra memoria storica”, vale a dire per la distruzione di monumenti dedicati alla ai soldati sovietici dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Dal 24 febbraio 2022 Kallas si è ritagliata un ruolo di irreprensibile leader al fianco di Kiev – tra i più decisi al tavolo dei 27 leader Ue – e potrebbe essere in lizza per succedere al norvegese Jens Stoltenberg come nuova segretaria generale della Nato. Da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina, la premier dell’Estonia (supportata nelle sue azioni dalla conferma alle urne lo scorso anno) ha ordinato la rimozione di centinaia di monumenti di epoca sovietica costruiti fino alla dichiarazione d’indipendenza del Paese nel 1991.“La mossa della Russia non sorprende, questa è l’ennesima prova che sto facendo la cosa giusta: il forte sostegno dell’Ue all’Ucraina è un successo e danneggia la Russia“, ha commentato la stessa premier Kallas in un post su X (subito ricondiviso dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen). “Nel corso della storia la Russia ha nascosto le sue repressioni dietro le cosiddette forze dell’ordine, lo so dalla storia della mia famiglia”, ha continuato la premier estone, facendo riferimento al mandato di arresto del Kgb per la deportazione della nonna e della madre in Siberia ai tempi dell’Unione Sovietica: “Il Cremlino spera ora che questa mossa serva a mettere a tacere me e altri, ma non sarà così, al contrario continuerò a sostenere con forza l’Ucraina” e “l’aumento della difesa dell’Europa”.

    La prima ministra dell’Estonia, Kaja Kallas (credits: Raigo Pajula / Afp)Parole di solidarietà sono arrivate anche da Madrid: “La mossa di Putin è un’altra prova del tuo coraggio e della leadership dell’Estonia nella difesa della democrazia e della libertà”, si è schierato al fianco di Kallas il premier spagnolo, Padro Sánchez. Così come l’ex-premier del Belgio (tra il 1999 e il 2008), Guy Verhofstadt: “Come persona inserita nella lista nera della Russia dal 2015, benvenuta Kaja Kallas, è un onore essere riconosciuto come un fermo oppositore dello Stato terrorista russo”, ha commentato sarcasticamente l’eurodeputato liberale, sottolineando però con forza che “inserire un leader dell’Ue in carica su una lista di ricercati deve tradursi in sanzioni Ue più severe e in passi reali verso un’Unione di difesa”.Messaggio simile a quello espresso anche dal partito europeo Alde – a cui aderisce il Partito Riformatore Estone di Kallas – che ribadisce come “i liberali non si tireranno indietro” nella lotta “per la libertà in Europa”. Facendo riferimento al post della leader di Tallin, l’eurodeputato di Italia Viva e vicepresidente del gruppo di Renew Europe al Parlamento Ue, Nicola Danti, ha messo in chiaro che “le sue parole sono le parole di tutti noi” e che “Kallas è una donna coraggiosa, una vera europeista e un riferimento” per il gruppo liberale a Bruxelles.

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    Lazzarini da Bruxelles fa il punto della situazione a Gaza. E avverte: “Senza finanziamenti Ue, l’Unrwa in negativo già a marzo”

    Bruxelles – Gli 82 milioni di euro che la Commissione europea dovrebbe versare nelle casse dell’Unrwa a inizio marzo sono fondamentali perché l’Agenzia possa continuare a operare in soccorso ai profughi palestinesi. È fredda e semplice matematica: se diversi donatori non avessero deciso in fretta e furia di sospendere pagamenti per 450 milioni di dollari, l’Unrwa avrebbe potuto resistere fino a fine luglio. Ma ora l’Agenzia, che solo per saldare gli stipendi spende 60 milioni al mese, rischia di andare in rosso di 30-40 milioni già nel mese di marzo.I numeri sono stati snocciolati ai ministri dell’Ue – e alla stampa internazionale – dal commissario generale dell’Agenzia per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi, Philippe Lazzarini. Invitato a Bruxelles per la riunione informale dei ministri dello sviluppo dei 27, Lazzarini ha fatto il punto sulla drammatica situazione a Gaza – con l’imminente operazione israeliana a Rafah – e sulle contromosse avviate dall’Agenzia dopo le accuse sul presunto coinvolgimento di 12 membri del suo staff negli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre.

    Membri dell’Unrwa distribuiscono farina nel sud di Gaza (Photo by SAID KHATIB / AFP)Anche qui, a parlare sono i numeri: secondo le stime dell’Unrwa ormai il 5 per cento della popolazione gazawi è rimasta uccisa, ferita o dispersa in questi quattro mesi di assedio israeliano. Cento mila persone, su un totale di circa 2 milioni. E pesanti “sacche di malnutrizione, con rischio di carestia”, soprattutto nel nord della Striscia, dove sarebbero rimaste 300 mila persone e dove l’Unrwa non è più riuscita a inviare convogli umanitari dal 20 gennaio. Lazzarini ha inoltre raccontato che ieri a Rafah per la prima volta lo staff “non ha potuto operare con un minimo di protezione” e che i propri veicoli per la distribuzione di generi alimentari sono stati presi d’assalto, perché ormai non esiste più nemmeno la polizia locale.Ma, da quando le autorità israeliane hanno accusato membri dell’Unrwa di complicità con Hamas, gli ostacoli al lavoro dell’Agenzia si sono moltiplicati: “Gli appaltatori hanno ricevuto istruzioni di non inviare il cibo perché serve all’Unrwa, le esenzioni sull’Iva sono state revocate, le banche locali hanno deciso di congelare i conti, i visti non sono più concessi su base giornaliera”, ha elencato Lazzarini. Tutto questo sulla base di accuse che finora non sono state supportate da alcuna prova. “Abbiamo chiesto e chiediamo la piena collaborazione delle autorità israeliane per condividere le prove“, ha ribadito il commissario generale dell’Unrwa, che per cercare di salvaguardare l’Agenzia aveva immediatamente licenziato i dipendenti coinvolti e avviato un’indagine interna.Ora le indagini sono più di una: c’è quella dell’Oios, il massimo organo investigativo delle Nazioni Unite, e la commissione di revisione indipendente guidato dall’ex ministra degli Esteri francese, Catherine Colonna. Dagli esiti di quest’ultima, che esaminerà tutti i meccanismi interni di gestione dei rischi, le questioni relative al comportamento del personale e alle affiliazioni politiche, le misure preventive e investigative dell’Agenzia, dipendono molti dei fondi che garantiscono la sopravvivenza stessa dell’Unrwa. Perché se l’indagine dell’Onu “durerà tutto il tempo necessario”, il team guidato da Colonna dovrebbe presentare alcune osservazioni preliminari già a meta marzo e il rapporto finale entro il 20 aprile.Il Commissario Generale dell’Unrwa, Philippe Lazzarini, al Consiglio informale Sviluppo a Bruxelles (Photo by Kenzo TRIBOUILLARD / AFP)Molti dei Paesi che hanno sospeso i finanziamenti – Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito, Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Svizzera, Norvegia, Finlandia, Romania e Giappone – hanno espresso la volontà di aspettare i risultati della revisione prima di riprendere eventualmente gli impegni con l’Unrwa. Ma l’Ue ha in programma l’esborso di 82 milioni per il 2024 a inizio marzo. Lazzarini ne ha discusso con il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, che avrebbe chiesto alcune garanzie sul reclutamento dello staff di Unrwa, sul rafforzamento del meccanismo interno di supervisione e sul controllo del personale. C’è stato un “impegno reciproco perché l’esborso avvenga”, ha dichiarato il commissario generale svizzero.L’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, pur ammettendo i “diversi approcci da parte degli Stati membri”, ha sottolineato che alcuni Paesi hanno deciso di aumentare il sostegno all’Unrwa proprio perché in una situazione di difficoltà. Come la Spagna, che ha annunciato oggi l’esborso di ulteriori 3 milioni per l’Agenzia. Borrell, ricordando che spetta sempre a chi accusa dimostrare la colpevolezza dell’accusato, ha voluto chiarire un punto fondamentale. Bisogna “garantire la responsabilità individuale, non punizioni collettive“. Cioè: se anche quei 12 su 30 mila dipendenti fossero riconosciuti implicati nell’attentato di Hamas, a rimetterci non potranno essere le 5,6 milioni di profughi palestinesi a Gaza, in Cisgiordania, in Siria, in Libano e in Giordania che sopravvivono solo grazie all’assistenza dell’Unrwa.

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    Su Israele Borrell continua a predicare nel deserto. Agli Usa: “Se credete che i morti siano troppi, smettete di vendere armi”

    Bruxelles – Di fronte all’immobilismo atlantico nei confronti della tragedia in corso a Gaza, l’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell – che su Israele è la più critica voce fuori dal coro nelle istituzioni europee  – punzecchia gli Stati Uniti: “Se credete che il numero di morti sia troppo alto, forse potete fare qualcosa“, ha dichiarato oggi (12 febbraio) dalla capitale europea.Non solo un appello generico a “fare qualcosa di più che esprimere preoccupazione”, che Borrell ha rivolto anche ai Paesi dell’Ue. La critica a Joe Biden è più specifica: “L’Ue non fornisce armi a Israele. Altri lo fanno“, ha precisato. Secondo i dati più recenti, pubblicati a dicembre 2023 dal Sole 24 Ore, da Washington arriva circa il 70 per cento delle armi utilizzate dalle Forza di difesa israeliane (Fdi). Da Bruxelles nessun supporto militare, ma non si può dire lo stesso dei Paesi membri: il secondo fornitore di armi per Tel Aviv è la Germania (24 per cento dell’arsenale israeliano), seguita dall’Italia (5,6 per cento).Questa mattina, al suo arrivo al vertice informale dei ministri dello Sviluppo dell’Ue a Bruxelles, Borrell è sembrato nuovamente molto duro su Israele. “Anche il presidente degli Stati Uniti, che sono i maggiori sostenitori di Israele, ha detto ieri che le operazioni non sono più proporzionate e che il numero di persone uccise è diventato insopportabile (28 mila, secondo il ministero della Salute di Hamas, ndr). Penso che sia una frase sempre più comune da parte di molti, in tutto il mondo”, ha attaccato il capo della diplomazia europea. Che “spera che il mondo intero prenda atto” della situazione nella Striscia di Gaza: quasi 2 milioni di persone che vengono bombardate costantemente senza poter fuggire.Una moschea distrutta dai bombardamenti israeliani a Rafah, 11/2/23 (Photo by MOHAMMED ABED / AFP)A far infuriare l’Alto rappresentante è la nuova operazione che le Fdi hanno lanciato a Rafah, al confine con l’Egitto, dove in questi 4 mesi di conflitto si sono progressivamente ammassati tutti gli sfollati di Gaza. “Netanyahu ha chiesto l’evacuazione di circa 1,7 milioni di persone, senza dire dove queste persone potrebbero essere evacuate”, ha sottolineato Borrell. Che è il punto sollevato anche da Biden nell’ultima telefonata con il premier israeliano: prima dell’operazione a Rafah, Israele avrebbe dovuto “garantire la sicurezza della popolazione con un piano credibile di evacuazione”.Ma il governo guidato da Netanyahu rimane sordo a qualsiasi richiesta della comunità internazionale e prosegue a testa bassa per la sua strada verso la “completa smilitarizzazione di Gaza”. Per ora, l’operazione lanciata a Rafah avrebbe causato oltre 100 vittime palestinesi, e portato alla liberazione di 2 ostaggi israeliani. Anche l’avvertimento dell’Egitto, secondo cui gli aiuti umanitari non riusciranno più a entrare nella Striscia dal valico di Rafah in caso di attacchi massicci israeliani, è rimasto inascoltato.Al vertice informale anche il commissario generale dell’Unrwa, Philippe LazzariniA Bruxelles è arrivato anche Philippe Lazzarini, il commissario generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite sotto accusa per il presunto coinvolgimento di alcuni membri dello staff negli attacchi di Hamas a Israele del 7 ottobre. “Una cosa è certa per me: l’Unrwa oggi svolge un lavoro insostituibile, che nessun altro potrebbe”, ha immediatamente messo in chiaro Borrell. Che ha nuovamente provocato Israele, che finora non ha presentato alcuna prova a corredo delle proprie accuse: “Le accuse devono essere verificate. La presunzione d’innocenza vale sempre, anche per l’Unrwa”. Ma c’è di più: “Non è un segreto che il governo israeliano voglia sbarazzarsi dell’Unrwa. Non ora, ma da molti anni, perché credono che in questo modo si libereranno del problema dei rifugiati palestinesi”, ha affermato l’Alto rappresentante Ue.

    Josep Borrell con il commissario generale dell’Unrwa, Philippe Lazzarini (Photo by Kenzo TRIBOUILLARD / AFP)Quasi una supplica, quella di Borrell, almeno a quei Paesi dell’Ue che hanno deciso troppo presto di interrompere i fondi all’Agenzia Onu per il Soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi. “Aspettiamo che l’indagine abbia luogo“, ha ripetuto due volte. Di indagine in corso ce n’è più di una: quella interna lanciata dallo stesso Lazzarini, quella avviata dal massimo organo investigativo delle Nazioni Unite (Oios), oltre al gruppo di revisione indipendente guidato dall’ex ministra francese, Catherine Colonna.L’Ue per ora sta temporeggiando, affermando che “per ora non c’è stata alcuna sospensione dei fondi”, dal momento che non sono previsti pagamenti all’Unrwa fino alla fine di febbraio. Ma difficilmente nel giro di due settimane le indagini saranno concluse, e a Bruxelles dovranno scegliere da che parte stare. Una scelta che Borrell ha già ben chiara in mente: “L’indagine prenderà il tempo necessario, ma nel frattempo le persone devono poter continuare a mangiare”.

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    Lo sdegno di Bruxelles alle minacce di Trump sulla Nato: “Se gli alleati non si difendono, tutti a rischio”

    Bruxelles – La corsa per le presidenziali degli Stati Uniti ora inizia a preoccupare seriamente Bruxelles, e non solo l’Unione Europea. Con le ultime minacce dell’ex-presidente Donald Trump – in corsa per diventare il candidato repubblicano alle elezioni 2024 per la Casa Bianca – è tutta la Nato a ritrovarsi in un incubo che negli ultimi anni di presidenza democratica di Joe Biden sembrava essere ormai alle spalle. “Qualsiasi indicazione che gli alleati non si difenderanno a vicenda mina tutta la nostra sicurezza, compresa quella degli Stati Uniti, e mette i soldati americani ed europei a maggior rischio”, ha denunciato il segretario generale dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, Jens Stoltenberg, rispondendo alle minacce di Trump secondo cui Washington non dovrebbe difendere da un’aggressione russa gli alleati che non spendono abbastanza per la difesa.

    Da sinistra: il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e l’ex-presidente degli Stati Uniti, Donald Trump (14 novembre 2019)Il punto di rottura si è registrato sabato (10 febbraio), quando nel corso di un comizio in South Carolina Trump ha usato parole durissime contro gli altri 30 alleati della Nato, ricordando i suoi anni da presidente degli Stati Uniti: “Uno dei leader di un grosso Paese ha chiesto ‘Se non paghiamo e veniamo attaccati dalla Russia, ci proteggerete?’, e io ho risposto ‘Non avete pagato, non vi proteggeremo. Li incoraggerei [i russi, ndr] a farvi quello che diavolo vogliono”. Una prospettiva inquietante in vista di una eventuale ri-elezione di The Donald alla Casa Bianca e dello scetticismo dilagante dei repubblicani al Congresso nel fornire ulteriore sostegno militare e finanziario a Kiev, alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina dal 24 febbraio 2022 e dei rischi di una futura estensione del conflitto in Europa. È per questo che non si sono fatte attendere le reazioni sdegnate non solo di Stoltenberg, ma anche dei leader delle istituzioni comunitarie e dei Paesi membri Ue, a pochi giorni dal vertice dei ministri della Difesa Nato in programma giovedì (15 febbraio) e dalla Conferenza sulla sicurezza di Monaco tra venerdì e domenica (16-18 febbraio) che vedrà questi temi sul tavolo delle discussioni.

    “L’Alleanza transatlantica ha sostenuto la sicurezza e la prosperità di americani, canadesi ed europei per 75 anni, le dichiarazioni avventate sulla sicurezza della Nato e sulla solidarietà dell’articolo 5 servono solo agli interessi di Putin, non portano maggiore sicurezza o pace al mondo”, è quanto messo in chiaro dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, che invoca allo stesso tempo “la necessità per l’Ue di sviluppare ulteriormente e con urgenza la propria autonomia strategica e di investire nella propria difesa”, mantenendo “forte la nostra Alleanza”. Anche il primo ministro belga e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Alexander De Croo, ha ribadito che “la nostra più grande risorsa di fronte a Putin è la nostra unità, e l’ultima cosa che dovremmo fare è comprometterla”. Secco il commento dell’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, a quella che definisce “una sciocca idea” come “tante ne vedremo e sentiremo durante la campagna elettorale” statunitense: “La Nato non può essere un’alleanza militare à la carte, che dipende dall’umore del presidente degli Stati Uniti“, perché “o esiste o non esiste”. Il ministro della Difesa della Polonia, Władysław Kosiniak-Kamysz, ha avvertito che “nessuna campagna elettorale è una scusa per giocare con la sicurezza dell’Alleanza”, mentre il ministero degli Esteri della Germania ha pubblicato su X il motto “uno per tutti e tutti per uno”, ricordando che “la Nato tiene al sicuro più di 950 milioni di persone, da Anchorage a Erzurum”.“Mi aspetto che, indipendentemente da chi vincerà le elezioni presidenziali, gli Stati Uniti rimarranno un alleato della Nato forte e impegnato“, ha riassunto il segretario generale della Nato Stoltenberg: “Qualsiasi attacco all’Alleanza sarà affrontato con una risposta unita e decisa”. Al centro della questione ci sono due temi: gli investimenti nazionali nella difesa e l’articolo 5 della Nato. Nel 2014 gli alleati hanno concordato l’obiettivo di spendere almeno il 2 per cento del Pil nel settore della difesa e della sicurezza, anche se diversi Paesi membri dell’Alleanza (Italia compresa) non si sono ancora allineati a questo target. L’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico afferma che un attacco contro un alleato è un attacco contro ogni componente dell’Alleanza e che, di conseguenza, ognuno dei 31 Paesi Nato “assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata”. In altre parole si tratta di una clausola di mutua difesa collettiva, che può essere attivata (ma non necessariamente o in modo obbligatorio) nel caso di un’aggressione a un componente della Nato. “Se il mio avversario riuscirà a riconquistare il potere, sta dicendo chiaramente che abbandonerà i nostri alleati in caso di attacco da parte della Russia e permetterà a quest’ultima di ‘fare quello che diavolo vuole’ con loro”, è stato l’affondo dell’attuale presidente Usa e candidato democratico anche per il 2024, Joe Biden.