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    Borrell avverte Israele, con l’operazione militare a Rafah mette “a dura prova” le relazioni con l’Ue

    Bruxelles – Delle linee rosse che la comunità internazionale ha indicato a Israele nella sua feroce risposta all’attacco terroristico di Hamas, l’ultima è stata quella di non intraprendere alcuna operazione militare a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, dove in questi otto mesi si sono ammassati più di un milione di sfollati palestinesi. Ora che Tel Aviv ha già un piede e mezzo oltre questa linea, arriva l’ennesimo avvertimento dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell: a rischio – se Netanyahu continuerà per la sua strada – ci sono le relazioni stesse tra l’Ue e Israele.In una nota pubblicata oggi (15 maggio), il capo della diplomazia europea ha esortato Israele – a nome dei 27 – a “porre fine immediatamente all’operazione militare a Rafah”. Un’operazione che sta causando “ulteriori interruzioni” nella distribuzione degli aiuti umanitari a Gaza, “nuovi sfollamenti interni, esposizione alla carestia e sofferenza”. Secondo l’Ufficio di coordinamento per gli Affari umanitari delle Nazioni Unite (Ocha), l’offensiva di terra israeliana continua a espandersi, in particolare nella parte orientale di Rafah e intorno ai varchi di Kerem Shalom e Rafah. “A causa delle attuali operazioni militari israeliane e dell’insicurezza”, le rotte terrestri critiche di Kerem Shalom e Rafah – da lì dovrebbe entrare la maggior parte degli aiuti umanitari – “sono state chiuse dal 6 al 10 maggio 2024”, conferma Ocha.Tendopoli sulla spiaggia di Deir el-Balah, nel centro della Striscia di Gaza, in cui si stanno riversando migliaia di sfollati da Rafah (Photo by AFP)Nelle ultime settimane circa 150 mila persone hanno deciso di lasciare Rafah, seguendo l’ordine di evacuazione emanato dalle autorità israeliane verso aree che – come ritenuto dalle Nazioni Unite e sottolineato ancora una volta da Borrell – “non possono essere considerate sicure”. Per l’Alto rappresentante l’offensiva a Rafah è un punto di non ritorno: se Israele dovesse continuare a ignorare gli appelli della comunità internazionale, “ciò metterebbe inevitabilmente a dura prova le relazioni con l’Ue“.Fino ad oggi, il governo di Netanyahu è rimasto sordo a qualsiasi appello – vincolante o meno – delle maggiori istituzioni multilaterali globali. Anzi, le ha attaccate frontalmente: l’ultimo scontro si è consumato dopo la Risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu che consentirà alla Palestina di divenire membro delle Nazioni Unite. Il governo israeliano l’ha respinta, e l’ufficio del primo ministro ha dichiarato che “non permetteremo loro di creare uno stato terrorista dal quale possano attaccarci ancora più forte”. Parallelamente – e non è la prima volta – l’ambasciatore israeliano presso l’Onu ha dichiarato alla radio dell’esercito che l’Onu è diventato “un’entità terroristica“.L’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep BorrellBorrell ha ribadito anche che “Israele deve consentire e facilitare il passaggio senza ostacoli dei soccorsi umanitari per i civili”. Come stabilito dalle misure provvisorie ordinate dalla Corte internazionale di giustizia il 26 gennaio e il 28 marzo per impedire un genocidio a Gaza. Sempre secondo Ocha, nei primi 10 giorni di maggio solo 9 delle 32 missioni di aiuto umanitario nel nord di Gaza sono state agevolate dalle autorità israeliane. Cinque sono state negate, undici sono state ostacolate e sette sono state cancellate a causa di problemi logistici. Allo stesso modo, nel sud della Striscia, Tel Aviv ha facilitato solo 25 delle 46 missioni di aiuto. Nove missioni sono state negate, tre ostacolate e nove sono state cancellate a causa di problemi logistici.Ricordando che, con il lancio di razzi su Kerem Shalom del 5 maggio scorso, anche Hamas è responsabile di aver ostacolato la consegna di aiuti umanitari, Borrell ha rilanciato l’invito “a tutte le parti a raddoppiare gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco immediato e il rilascio incondizionato di tutti gli ostaggi detenuti da Hamas”.

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    I programmi elettorali dei partiti/ 4: Ucraina, Medio Oriente, Cina e pace. I nodi della politica estera dell’Ue

    Bruxelles – È da sempre uno dei temi più caldi sui tavoli delle istituzioni dell’Unione Europea, caldissimo dal febbraio 2022. La politica estera comune tra i Ventisette si ritaglia un ruolo da protagonista nella campagna elettorale in vista del voto del 6-9 giugno per il rinnovo del Parlamento Ue, come emerge da tutti i programmi delle famiglie politiche europee (fatta eccezione per Identità e Democrazia che ha scelto di non adottarne uno comune per i partiti aderenti). Dalla guerra russa in Ucraina, che ha stravolto la concezione di sicurezza e del ruolo dell’Ue nel mondo dopo la pandemia Covid-19, alla crisi nel Medio Oriente e il continuo assedio di Israele alla Striscia di Gaza, senza dimenticare il gigante cinese che non ha mai smesso di preoccupare l’Unione e i suoi Paesi membri. Con una parola che risuona in (quasi) tutti i programmi elettorali, seppur con declinazioni e implicazioni differenti: pace.Il Ppe tra sostegno all’Ucraina e un ministro degli Esteri UeIl Manifesto del Partito Popolare Europeo (Ppe) per le elezioni europee del 2024 esordisce in modo paradigmatico sul fronte della politica estera: “La nostra Europa è al fianco dell’Ucraina“. Rimane centrale la prosecuzione e l’amplificazione del sostegno “politico, economico, umanitario e militare, per tutto il tempo necessario”, nell’ottica che Kiev “deve vincere la guerra”. Dal momento in cui la guerra in Ucraina “è direttamente collegata alla sicurezza europea”, per i popolari europei Kiev dovrebbe di conseguenza “diventare membro dell’Ue e della Nato non appena soddisfa tutti i criteri”. Parallelamente dovrà essere “ulteriormente” rafforzata la portata del regime di sanzioni contro la Russia di Vladimir Putin e contro l’elusione delle stesse sanzioni, “dove e quando necessario”. A questo proposito, sul piano globale il Ppe chiede di “abbandonare il principio dell’unanimità nel campo delle sanzioni dell’Ue contro i regimi totalitari nel mondo”.La presidente della Commissione Europea in carica, Ursula von der Leyen, nominata Spitzenkandidatin del Partito Popolare Europeo al Congresso di Bucarest il 7 marzo 2024 (credits: Daniel Mihailescu / Afp)Ma la proposta più significativa è quella di “sostituire l’alto rappresentante con un ministro degli Esteri dell’Ue, in qualità di vicepresidente della Commissione Europea“, che collaborerebbe “strettamente” con gli omologhi nazionali e con un “Consiglio di sicurezza europeo composto dai leader degli Stati membri dell’Ue e di altri Paesi europei, tra cui “almeno Regno Unito, Norvegia e Islanda”. Breve il passaggio sul conflitto in Medio Oriente – senza alcun riferimento a Israele o alle possibili soluzioni alla crisi – che rimanda solo alle “enormi sfide sulla scena mondiale” e alla “recente instabilità causata dal regime iraniano”. Tra Cina e Taiwan, Russia e Bielorussia, Africa, America Latina, regione mediterranea e Medio Oriente è richiesta una “strategia a lungo termine” e la definizione degli “interessi dell’Europa per avere una politica estera coerente in cui tutti gli Stati membri devono essere considerati e i loro interessi tutelati”. Più corposo il paragrafo su Cipro e la necessità di “superare lo stallo e riprendere i negoziati per porre fine all’occupazione da parte della Turchia”, spingendo per una riunificazione dell’isola “sulla base di una federazione bizonale bicomunale, con parità politica”.Il Pes tra pace e cooperazione internazionale“L’Ue deve parlare con una sola voce nelle questioni di politica estera e passare a decisioni più maggioritarie in alcune questioni politiche“, esordisce così il capitolo sulla politica estera nel Manifesto del Partito del Socialismo Europeo (Pse) per le elezioni europee 2024, senza mettere esplicitamente nero su bianco l’urgenza di abbandonare l’unanimità in Consiglio su alcune questioni (come le sanzioni). Parallelamente al rafforzamento del “ruolo diplomatico e politico dell’Ue sulla scena globale”, i socialisti europei spingono per “risolvere i conflitti di lunga data in tutto il mondo e in Europa, compreso quello di Cipro”, ma sulla questione ucraina non ci sono margini di dubbio: “Manteniamo il nostro incrollabile sostegno all’Ucraina, fornendo assistenza politica, umanitaria, finanziaria e militare per tutto il tempo necessario”, con gli obiettivi finali del “ripristino della sua integrità territoriale” e il raggiungimento di una pace “giusta e sostenibile”.Il commissario europeo per il Lavoro e i diritti sociali, Nicolas Schmit, nominato Spitzenkadidat del Partito del Socialismo Europeo al Congresso di Roma (2 marzo 2024)Per quanto riguarda l’ordine multilaterale e la pace, il Pes si sofferma sul lavoro necessario per “porre fine ai conflitti, all’instabilità e alle tragedie umanitarie in Medio Oriente”, in particolare attraverso una “conferenza di pace internazionale per raggiungere un’equa soluzione a due Stati tra israeliani e palestinesi che rispetti i diritti e i doveri dei due popoli”. Nel frattempo sono richieste iniziative per un cessate il fuoco “sostenibile”. Le relazioni con la Cina richiedono di essere “riequilibrate”, da una parte “promuovendo i nostri valori e proteggendo i nostri interessi” e dall’altra “collaborando ulteriormente per affrontare le questioni globali più urgenti”. L’attenzione è focalizzata anche sulla costruzione di “un nuovo partenariato tra pari” con il Sud globale, un partenariato euromediterraneo “rilanciato” e una “nuova agenda progressista Ue-America Latina”, tutti che includano “un forte sostegno all’Organizzazione internazionale del lavoro”.Renew Europe e l’Alleanza Globale delle DemocrazieDa sinistra, i tre candidati comuni per la campagna Renew Europe Now lanciata a Bruxelles (20 marzo 2024): Sandro Gozi (Pde), Marie-Agnes Strack-Zimmermann (Alde) e Valérie Hayer (Renaissance)In vista delle europee di giugno la politica estera trova spazio anche tra le 10 priorità di Renew Europe. “Oggi i regimi autocratici di tutto il mondo affermano con orgoglio di essere qui per restare, attaccano le democrazie e sono pronti ad affermarsi”, è l’avvertimento dei liberali europei a proposito delle speranze tradite del liberalismo, della democrazia e del libero mercato dopo la Guerra Fredda. Il contrattacco parte da un’unione delle democrazie “per difendere i loro obiettivi comuni al di là degli interessi geografici“. In altre parole – seppur senza maggiori dettagli a riguardo – Renew Europe intende costruire “un’Alleanza Globale delle Democrazie che rafforzi l’influenza globale dell’Ue al fine di promuovere i nostri valori”, sulla base di “partenariati con Paesi che la pensano allo stesso modo”.I Verdi e il contratto di pace per l’Europa“L’invasione russa su larga scala dell’Ucraina è stata un punto di svolta nella storia del nostro continente e del mondo, viola le regole del diritto internazionale, della pace e della sicurezza”, recita il Manifesto del Partito Verde Europeo per le europee 2024, in apertura del lungo capitolo sulla politica estera. Incrollabile la solidarietà verso Kiev – “la lotta del popolo ucraino per la libertà, la pace e l’adesione all’Unione Europea è la nostra lotta” – ma lo sguardo si allarga oltre, ai “dolorosi conflitti infuriano in Medio Oriente, nel Caucaso, nel Sahel e nell’Africa centrale”. L’esortazione all’Ue è di essere “un attore forte”, ma in linea con la sua natura di “progetto di pace”. In questo contesto si inserisce la proposta per il post-elezioni europee di un “contratto di pace” per l’Europa, in cui assume particolare risalto il “nesso clima-sicurezza”, per fare in modo che “la transizione verde dell’Europa sia uno strumento geopolitico e una responsabilità globale” e che gli interventi miliari siano “sempre e solo l’ultima risorsa”.Da sinistra, i due candidati comuni del Partito Verde Europeo nominati al Congresso di Lione (3 febbraio 2024): Terry Reintke e Bas Eickhout (credits: Olivier Chassignole / Afp)Ampio spazio al conflitto in Medio Oriente, per cui i Verdi europei spingono l’Ue verso un “rilancio dei negoziati politici per una soluzione a due Stati, basata su confini sicuri e concordati”, dal momento in cui una pace “duratura” nella regione richiede “risultati negoziali che rispettino il diritto di Israele e della Palestina di esistere come Stati democratici e sovrani e del popolo palestinese di avere una propria casa“. La politica estera nel programma elettorale dei Verdi europei include una forte indicazione a non “compiacersi della dipendenza economica dai regimi autoritari” come la Russia di Putin: “Faremo in modo che l’Europa non commetta di nuovo lo stesso errore con altri regimi bellicosi nel mondo”. Non di poco conto il fatto che subito dopo venga citata la “minaccia rappresentata dalla Cina nei confronti di Taiwan, che mette a repentaglio la pace e la sicurezza internazionale“. In risposta viene richiesta “una politica europea attiva, chiara e comune”, ma senza negare che “l’interdipendenza è un fattore chiave per un sistema internazionale pacifico e per una giusta transizione globale”.Ecr per una politica estera “sfumata”Le parole-chiave per la politica estera del Partito dei Conservatori e Riformisti Europei (Ecr) è “sicurezza”, ma anche “sfumata”. Così recita il capitolo apposito del Manifesto in vista delle elezioni europee di giugno, su uno dei temi più delicati per l’Unione Europea: “Nel gestire le relazioni con la Cina, Ecr assume una posizione sfumata“. Da un parte viene riconosciuta la “necessità di un impegno” anche per “affrontare le violazioni dei diritti umani”, ma dall’altra si vuole “sostenere legami più forti con Taiwan e altri partner affini nella regione del Pacifico”. Nessun riferimento alla guerra russa in Ucraina, trattata nell’ambito della difesa europea, mentre una politica “più assertiva” viene invocata nei confronti dell’Iran, “concentrandoci sui suoi programmi nucleari e sul terrorismo sponsorizzato dallo Stato”. Oltre a una cooperazione più stretta “tra l’Ue, l’Occidente globale e il Regno Unito”, i conservatori europei si distinguono per la “priorità” della “protezione dei cristiani perseguitati in tutto il mondo” e della “difesa della libertà religiosa”, nonostante anche in questo caso rimanga un velo di ambiguità: “Il nostro approccio alla promozione dei nostri interessi comuni è ricco di sfumature”.La Sinistra tra rifiuto della guerra e sanzioni a Russia-Stati Uniti“Pace” è il principio-cardine su cui si basa tutto il capitolo sulla politica estera del Manifesto del Partito della Sinistra Europea verso le europee di giugno. Non di poco conto è la condanna netta all’aggressione militare russa contro l’Ucraina, “che è un crimine secondo il diritto umanitario internazionale”, e la definizione dei “passi immediati” per mettere fine alla guerra: “Il ritorno al tavolo dei negoziati, un cessate il fuoco e il ritiro di tutte le truppe russe dall’Ucraina“. Il sostegno alle sanzioni contro “il complesso militare-industriale russo” offrono un ponte tra il tema della guerra in Ucraina e quella in Medio Oriente: “Chiediamo sanzioni contro il complesso militare-industriale statunitense per aver sostenuto l’aggressione del governo dello Stato di Israele“, oltre a misure restrittive verso Israele. “Un cessate il fuoco immediato, la fornitura di aiuti umanitari alla popolazione di Gaza e il ritiro immediato di Israele da tutti i territori che occupa” sono le richieste della Sinistra europea, che non perde di vista le “altre 22 guerre” in corso nel mondo: “Stiamo vivendo una ‘guerra mondiale a rate’, che potrebbe rapidamente degenerare in un disastro nucleare mondiale”.Lo Spitzenkadidat del Partito della Sinistra Europea nominato al Congresso di Lubiana (24 febbraio 2024), Walter BaierTra le proposte per evitare che l’Europa diventi “l’arena di una nuova guerra fredda e di una corsa agli armamenti” c’è l’inserimento del rifiuto della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali tra i principi fondamentali dell’Ue, “niente nuove armi nucleari” sul continente e l’assunzione della “responsabilità della propria sicurezza in modo autonomo e indipendente dagli Stati Uniti”. Da segnalare anche il sostegno alle “aspirazioni del popolo irlandese a riunire la propria nazione divisa dal colonialismo britannico” e “la fine dell’occupazione turca di Cipro e la riunificazione del Paese”. La politica estera della Sinistra prende in considerazione anche la “cancellazione del contratto sul gas tra l’Ue e l’Azerbaigian“, un’azione contro l’embargo “economico, finanziario e commerciale” ai danni di Cuba, la fine dell’aggressione turca ai danni del popolo curdo e la condanna dell’occupazione del Sahara occidentale da parte del Marocco. Ampio spazio viene riservato infine alle questioni del “co-sviluppo e non dominazione” nelle relazioni con il resto del mondo: “Chiediamo all’Ue di rompere con il suo stile di dominio neocoloniale e di rilanciare su nuove basi le sue relazioni commerciali e finanziarie con il Sud globale”, basate sulla “cancellazione degli accordi di libero scambio” (a livello Ue) e del “debito Covid” (a livello di Stati membri) e sulla “creazione di un Fondo europeo per il co-sviluppo ecologico e sociale, finanziato dalla Bce”.

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    L’Ue estende il sostegno commerciale all’Ucraina per un altro anno

    Bruxelles – La sospensione dei dazi all’importazione e delle quote sulle esportazioni ucraine verso l’Unione Europea sarà prorogata per un altro anno, a seguito dell’adozione odierna da parte del Consiglio e del voto del 23 aprile del Parlamento europeo.Le misure tengono conto anche delle preoccupazioni delle parti interessate dell’Ue e contengono un meccanismo di salvaguardia rafforzato. Esso consente di adottare rapidamente misure correttive in caso di gravi perturbazioni del mercato dell’Ue o dei mercati di uno o più Stati membri. Inoltre, alle uova, al pollame, allo zucchero, all’avena, al mais, alle semole e al miele si applica un freno di emergenza che scatterà automaticamente se i volumi delle importazioni raggiungeranno la media annuale delle importazioni registrate tra il 1° luglio 2021 e il 31 dicembre 2023.

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    “Sono la presidente della Macedonia”. La neo capa di Stato cancella metà nome del Paese e riaccende le tensioni diplomatiche con Atene

    Bruxelles – Sono bastati pochi giorni dal trionfo alle urne per i nazionalisti in Macedonia del Nord e già il delicato equilibrio diplomatico messo in piedi nel 2018 ha subito un grosso scossone, provocando dure reazioni nella regione balcanica, e profonda perplessità a Bruxelles, sulla serietà del nuovo establishment politico nel rispettare gli impegni assunti a livello internazionale per raggiungere l’obiettivo dell’adesione all’Unione Europea. Perché nel discorso inaugurale della neo-eletta presidente macedone, Gordana Siljanovska-Davkova, non è mai comparso il nome costituzionale del Paese concordato con la Grecia nel 2018 – Macedonia del Nord, appunto – in linea con l’opposizione dura dei nazionalisti di Vmro-Dpmne all’Accordo di Prespa.La bandiera con il Sole di Verghina, simbolo della dinastia reale macedone (Armend Nimani / Afp)“Rispetterò la Costituzione e le leggi, proteggerò la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza della Macedonia” e “dichiaro che svolgerò la carica di presidente della Macedonia in modo coscienzioso e responsabile”, così ha giurato ieri (12 maggio) la prima presidente donna nella storia poco più che trentennale della Macedonia (oggi del Nord) indipendente dal 1991. L’assenza di “Nord” non è un dettaglio di poco conto, tutto al contrario. La Macedonia del Nord è un Paese candidato all’adesione Ue dal 2005, ma il suo percorso è stato ostacolato fino al 2018 dalla Grecia per la contesa identitaria sull’uso del nome della patria di Alessandro Magno: sia Skopje sia Atene lo rivendicano come parte esclusiva della propria storia ed eredità culturale. Solo con gli Accordi di Prespa firmati il 12 giugno 2018 dagli allora primi ministri greco, Alexis Tsīpras, e macedone, Zoran Zaev, la Repubblica di Macedonia è diventata Repubblica della Macedonia del Nord e ha rinunciato a utilizzare il Sole di Verghina – simbolo della dinastia reale macedone – ricevendo in cambio da Atene il riconoscimento della lingua macedone e il via libera all’adesione di Skopje alla Nato e all’Unione Europea.Da sinistra: gli allora primi ministri della Grecia, Alexis Tsīpras, e della Macedonia del Nord, Zoran Zaev, in occasione della firma dell’Accordo di Prespa (12 giugno 2018)Quanto andato in scena ieri a Skopje è stato un primo assaggio – tanto temuto quanto in realtà atteso – dopo la travolgente vittoria elettorale di Vmro-Dpmne mercoledì scorso (8 maggio) non solo alle presidenziali, ma anche alle legislative, in cui la coalizione guidata dai nazionalisti si è fermata a soli tre seggi dalla maggioranza assoluta nella futura Assemblea parlamentare. Sia per le posizioni intransigenti mostrate nel corso degli ultimi anni sia per la retorica inasprita nel corso della campagna elettorale, ci si aspetta un aumento della tensione diplomatica tra Skopje e i vicini regionali con cui sono ancora latenti delicate questioni nazionaliste, in primis con la Grecia. Dopo che l’ambasciatore greco in Macedonia del Nord ha lasciato in protesta la cerimonia di insediamento di Siljanovska-Davkova, il ministro degli Affari Esteri greco, Georgios Gerapetritis, ha condannato apertamente il gesto della neo-presidente macedone, definendolo “una flagrante violazione dell’Accordo di Prespa e della Costituzione del nostro Paese vicino“. Il ministro del gabinetto guidato da Kyriakos Mītsotakīs ha anche reso noto che il testo ufficiale del giuramento faceva riferimento al Paese come ‘Macedonia del Nord’ e, di conseguenza, la scelta di definirlo solo ‘Macedonia’ è stata intenzionale: “I progressi nel percorso europeo dipendono dalla piena attuazione dell’Accordo di Prespa e principalmente dall’uso del nome costituzionale del Paese”.La neo-presidente della Macedonia del Nord, Gordana Siljanovska-Davkova (credits: Robert Atanasovski / Afp)Un principio condiviso in tutta l’Unione, in particolare dai leader delle istituzioni Ue. “Affinché la Macedonia del Nord possa continuare il suo percorso di successo verso l’adesione all’Ue, è fondamentale che il Paese prosegua sulla strada delle riforme e del pieno rispetto degli accordi vincolanti, compreso l’Accordo di Prespa”, ha messo in chiaro la numero uno della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, dopo essersi congratulata con la prima presidente della Repubblica donna del Paese balcanico. Lo stesso ha fatto il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ancora più duro nel commentare la scelta “molto deludente” di Siljanovska-Davkova: “L’Ue ricorda l’importanza di continuare ad attuare gli accordi giuridicamente vincolanti, compreso l’accordo di Prespa con la Grecia”. Dal Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) è arrivata una forte esortazione al prossimo governo guidato dai nazionalisti: “Hanno a disposizione un nuovo inizio per dimostrare che sono impegnati nel percorso di adesione Ue“, ha spiegato oggi (13 maggio) alla stampa il portavoce Peter Stano, rifiutandosi però di “speculare su cosa succede se non rispetteranno gli impegni”. In altre parole, se Bruxelles deciderà di bloccare i negoziati di adesione avviati nell’estate del 2022 dopo tre anni di attesa.Perché nel frattempo si teme anche un’escalation nei rapporti con la Bulgaria, negli ultimi anni il vicino più problematico per Skopje su questioni di natura puramente identitaria. “La prospettiva europea della Macedonia del Nord dipende dalla rigorosa attuazione dei trattati internazionali di cui è parte, nonché dal quadro negoziale approvato dal Consiglio europeo nel luglio 2022, che non sarà rivisto”, ha già messo in chiaro il presidente bulgaro, Rumen Radev. Era il 9 dicembre 2020 quando si registrava in Consiglio Affari Generali lo stop della Bulgaria all’avvio dei negoziati di adesione Ue con Skopje, tenuti in stallo per oltre un anno e mezzo fino alla svolta dell’estate 2022. Solo grazie all’iniziativa del presidente francese, Emmanuel Macron, prima il Parlamento bulgaro ha revocato il veto e poi anche quello macedone ha dato l’approvazione all’intesa: con la firma del protocollo bilaterale tra Sofia e Skopje si è sbloccata definitivamente la situazione e si è potuti arrivare alla prima conferenza intergovernativa il 19 luglio 2022.

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    Orbán stende il tappeto rosso per “l’amico di lunga data” Xi Jinping. Cina e Ungheria firmano 16 accordi di cooperazione

    Bruxelles – Si conclude tra le sventolanti bandiere cinesi di Budapest il tour europeo di Xi Jinping. Dopo il trilaterale con Emmanuel Macron e Ursula von der Leyen a Parigi e la visita in Serbia, il presidente della Cina è ospite oggi (9 maggio) dell’amico “di lunga data” ungherese. Per l’occasione del 75esimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Pechino e Budapest (e della festa dell’Europa, per uno strano scherzo del destino) il primo ministro Viktor Orbán e Xi firmeranno 16 accordi di cooperazione, che inaugurano una nuova fase dei rapporti tra il gigante asiatico e il suo più stretto alleato nell’Unione europea.Il premier cinese e la moglie, Peng Liyuan, sono stati ricevuti in mattinata dal presidente ungherese Tamas Sulyok nel palazzo presidenziale, per poi dirigersi – accompagnati lungo il percorso da centinaia di persone che sventolavano bandiere cinesi e ungheresi – alla volta del castello di Buda, dove hanno sfilato su un tappeto rosso mentre risuonavano gli inni nazionali. Alla cerimonia hanno partecipato numerosi funzionari dei due Paesi, tra cui il primo ministro Orbán.Bandiere cinesi e ungheresi davanti al Castello di Buda a Budapest (Photo by Attila KISBENEDEK / AFP)Gli accordi – annunciati nei giorni scorsi dal governo ungherese – riguardano un ampio ventaglio di settori: dalle infrastrutture ferroviarie e stradali, all’energia nucleare e all’automobile. Budapest attira da anni numerose aziende cinesi e grandi progetti di produzione di veicoli elettrici e batterie. Investimenti per decine di miliardi di euro, di cui l’opposizione ungherese ha denunciato l’opacità dei contratti, l’impatto ambientale delle fabbriche e la corruzione. Investimenti che arricchirebbero lo stretto “circolo di Orbán”.Secondo i dati dell’Observatory of Economic Complexity (Oec), nel 2022 il surplus commerciale della Cina con l’Ungheria è stato di quasi 8 miliardi di dollari: Budapest ha importato beni dalla Repubblica Popolare per un valore di 10,5 miliardi (il 6,88 per cento del totale delle importazioni, seconda solo alla Germania), mentre l’export verso la Cina si è fermato a 2,89 miliardi di dollari. Una forbice in costante aumento negli ultimi anni che – sommata alla serie di contratti miliardari che Orbán ha firmato con Pechino – è stata definita dall’Ispi “una trappola del debito” con la Cina.Ma il legame sempre più stretto con la Cina fa parte della politica perseguita da Orbán fin dal 2010, che guarda a Est e fa l’occhiolino a Mosca oltre che a Pechino. Sul conflitto in Ucraina, la posizione di Orbán è molto più vicina a quella della Cina rispetto a quella dell’Unione europea, come dimostrano i recenti scontri tra gli altri 26 e l’Ungheria sulle sanzioni al Cremlino e sul fondo per l’Ucraina. In un editoriale pubblicato sul quotidiano ungherese filogovernativo Magyar Nemzet prima del suo arrivo, Xi Ha elogiato i 75 anni di relazioni diplomatiche in cui “Cina e Ungheria sono rimaste buone amiche e hanno imparato l’una dall’altra”, proponendo “una maggiore fiducia politica reciproca” e la guida congiunta della “cooperazione regionale e il mantenimento della giusta direzione delle relazioni Cina-Europa” al fine di “unire le forze per affrontare le sfide globali”.Dichiarazioni zuccherine che ricalcano quelle di pochi giorni fa a Belgrado tra il presidente cinese e l’omologo serbo, Aleksandar Vučić. Anche in quell’occasione, i due leader hanno siglato un totale di 28 accordi e protocolli d’intesa dalle infrastrutture alla cultura, dallo sport alla tecnologia. Accordi che non possono non impensierire Bruxelles, non proprio in linea con la richiesta di una maggiore cooperazione per “evitare incomprensioni” che von der Leyen e Macron hanno rivolto a Xi nella prima tappa del suo tour europeo.

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    In Macedonia del Nord i nazionalisti si prendono tutto. E il percorso di adesione Ue è ancora più scivoloso

    Bruxelles – È una vittoria schiacciante, senza appello e su due fronti. I nazionalisti in Macedonia del Nord hanno trionfato sia alle elezioni presidenziali sia alle elezioni legislative per il rinnovo dell’Assemblea parlamentare e ora sono pronti a tornare a governare dopo otto anni all’opposizione. Un risultato che potrebbe però avere contraccolpi pesanti non solo per la polarizzazione politica all’interno del Paese balcanico, ma anche per i rapporti già fragili con alcuni vicini nella regione e per i progressi di Skopje nel percorso verso l’adesione all’Unione Europea.La neo-presidente della Macedonia del Nord, Gordana Siljanovska-Davkova (credits: Robert Atanasovski / Afp)Il ballottaggio delle presidenziali andato in scena ieri (8 maggio) ha visto una prima volta nella storia poco più che trentennale della Macedonia (oggi del Nord): la candidata dei nazionalisti di Vmro-Dpmne, Gordana Siljanovska-Davkova, si è imposta sul capo di Stato uscente e candidato dell’ormai ex-partito al governo Unione Socialdemocratica di Macedonia (Sdsm), Stevo Pendarovski,con il 65,14 per cento delle preferenze e diventerà la prima presidente donna del Paese dal 12 maggio. La carica è perlopiù cerimoniale, ma per la prossima capa dello Stato la sua elezione rappresenta “un passo avanti per i diritti delle donne, sarò al loro fianco”. Tuttavia la vittoria dilagante sembra piuttosto legata a un segnale di risposta degli elettori alla frustrazione per i casi di corruzione nel Paese e per il continuo stallo della Macedonia del Nord nel percorso di adesione all’Unione Europea, anche dopo l’avvio del negoziati inter-istituzionali nel luglio 2022.A dimostrarlo è il risultato delle elezioni legislative svoltesi in parallelo al ballottaggio delle presidenziali. Quando ormai è stata scrutinata la quasi totalità delle schede elettorali, la coalizione guidata dai nazionalisti di Vmro-Dpmne ha conquistato il 43,23 per cento dei voti e potrà contare su 58 seggi all’Assemblea nazionale, tre in meno rispetto alla soglia minima per la maggioranza parlamentare. Tracollo dei socialdemocratici, scesi al 15,36 per cento delle preferenze dopo otto anni di governo e superati in termini di seggi parlamentari anche dalla coalizione guidata dal principale partito della minoranza albanese Unione Democratica per l’Integrazione (19 a 18). Il leader dell’Sdsm ed ex-premier, Dimitar Kovačevski, ha non solo definito il risultato “un duro colpo” per il partito, ma ha anche annunciato l’intenzione di dimettersi dalla presidenza una volta trovato un sostituto. A questo punto i nazionalisti dovranno impegnarsi in colloqui con i partiti più piccoli entrati all’Assemblea per andare alla ricerca di una coalizione che sostenga il nuovo esecutivo.Il leader di Vmro-Dpmne, Hristijan Mickoski (Armend Nimani / Afp)L’incognita più grande per il futuro della Macedonia del Nord riguarda però l’atteggiamento che i futuri ministri (e presumibilmente il capo dell’esecutivo) di Vmro-Dpmne terranno nei confronti di Grecia e Bulgaria nell’ambito del percorso di adesione all’Unione Europea, considerato il fatto che dalla nascita della Repubblica i motivi di tensione con i vicini regionali sono stati tutti causati da questioni nazionaliste. La Macedonia del Nord è un Paese candidato all’adesione Ue dal 2005, ma il suo percorso è stato ostacolato fino al 2018 dalla Grecia, per la contesa identitaria e sul cambio del nome del Paese balcanico: solo con gli Accordi di Prespa firmati il 12 giugno 2018, la Repubblica di Macedonia è diventata Repubblica della Macedonia del Nord e ha potuto accedere alla Nato (in attesa dell’ingresso Ue). Ma il leader di Vmro-Dpmne e indiziato principale per diventare il nuovo premier, Hristijan Mickoski, si è sempre rifiutato di riconoscere il nuovo nome. Al momento dalla Grecia non ci sono reazioni, ma non è da escludere che possano riemergere vecchie tensioni tra Atene e Skopje sull’uso del nome della patria di Alessandro Magno.La questione più grave per le tempistiche dell’adesione Ue per la Macedonia del Nord può invece coinvolgere un altro Paese membro Ue, la Bulgaria. Era il 9 dicembre 2020 quando si registrava in Consiglio Affari Generali lo stop della Bulgaria all’avvio dei negoziati di adesione Ue con Skopje, tenuti in stallo per oltre un anno e mezzo fino alla svolta dell’estate 2022. Grazie all’iniziativa del presidente francese, Emmanuel Macron, prima il Parlamento bulgaro ha revocato il veto e poi anche quello macedone ha dato l’approvazione all’intesa: con la firma del protocollo bilaterale tra Sofia e Skopje si è sbloccata definitivamente la situazione e si è potuti arrivare alle prime conferenze intergovernative per Macedonia del Nord (e Albania, legata dallo stesso dossier) il 19 luglio 2022, dopo un’attesa lunga quasi tre anni. Ma per aprire il primo Cluster dei negoziati di adesione Ue sono necessarie non solo tutta una serie di riforme – dal settore giudiziario alla gestione appalti pubblici, dalla lotta alla corruzione alla riforma della pubblica amministrazione – ma soprattutto emendamenti alla Costituzione a proposito delle minoranze nel Paese, in primis quella bulgara.È proprio qui che potrebbe cascare il palco con un governo nazionalista in Bulgaria. Mickoski ha promesso di mantenere una linea dura sulle questioni linguistiche e storiche, quelle puramente identitarie su cui si è bloccato tutto a Bruxelles da dicembre 2020 a luglio 2022: “Non voteremo modifiche costituzionali sotto dettatura bulgara né ora né in futuro“, è la minaccia del leader di Vmro-Dpmne. Nell’ultimo anno e mezzo il governo guidato dai socialdemocratici ha tentato di emendare la Costituzione per riconoscere la minoranza bulgara, ma non ha mai trovato i numeri necessari per far approvare la mozione all’Assemblea nazionale (per cui sono necessari almeno i due terzi dei deputati). Nemmeno dopo questa tornata elettorale emergerà una maggioranza sufficiente e l’unica speranza per i macedoni è che l’aspra retorica nazionalista di Vmro-Dpmne si affievolisca nei prossimi mesi, favorendo accordi di compromesso dietro le quinte come successo nel 2018 per far passare a livello costituzionale gli Accordi di Prespa. Anche su questo scenario aleggia un’incognita minacciosa, ovvero quella della campagna elettorale in Bulgaria, che il 9 giugno andrà a elezioni anticipate per la sesta volta in tre anni. Il rischio è che il risultato di ieri alle urne in Macedonia del Nord inasprisca la retorica nazionalista anche a Sofia, rendendo di nuovo il rapporto tra i due Paesi un tema di scontro politico in grado di frenare il percorso di Skopje verso l’Unione Europea.

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    Il presidente serbo Vučić mantiene ambiguità verso la linea Ue anche sui rapporti con la Cina

    Bruxelles – Un rapporto “d’acciaio” che “nessuno potrà spezzare”. Non quello tra la Serbia e l’Unione Europea, ma tra la Serbia e la Cina. Sono queste le parole scelte dal presidente serbo, Aleksandar Vučić, per accogliere l’omologo cinese, Xi Jinping, oggi (8 maggio) a Belgrado, nel suo tour europeo che lo ha portato anche a Parigi e infine a Budapest. Una tappa carica di simbolismo per le relazioni tra Serbia e Cina – ricorre il 25esimo anniversario dal bombardamento Nato di Belgrado che colpì anche l’ambasciata cinese – i cui toni hanno evidenziato ancora una volta la distanza di Vučić dalla linea che l’Unione a cui vorrebbe aderire sta cercando (a fatica) di tenere nei confronti di Pechino.Da sinistra: il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, a Belgrado il 7 maggio 2024 (credits: Elvis Barukcic / Afp)“La Cina non ha mai voltato le spalle alla Serbia, sono stati al nostro fianco anche 25 anni fa, siete sempre i benvenuti nella vostra seconda casa”, è stata l’accoglienza con tutti gli onori al presidente cinese da parte del leader serbo, facendo riferimento ai bombardamenti Nato nella primavera del 1999 condannati da Pechino. Un atteggiamento che non cela completamente una buona dose di provocazione nei confronti dell’Unione Europea, dalla politica estera alla politica economica. “Come piccolo Paese dobbiamo affrontare pressioni che provengono da diverse parti a causa della politica autonoma che portiamo avanti, ti chiediamo sostegno”, è la richiesta di Vučić a uno dei Paesi che più creano preoccupazioni a Bruxelles, con implicito riferimento al non-allineamento sulle sanzioni Ue contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina. Negli ultimi due anni il presidente serbo ha dovuto fare l’equilibrista per non diventare il paria in Europa – con un’opposizione totale alla linea dura dell’Ue contro il Cremlino – ma allo stesso tempo per non trovarsi costretto a recidere il legame con Mosca adottando le sanzioni internazionali. Ed è proprio grazie alla sponda cinese (e alla stessa ambiguità di Pechino verso la Russia) che Vučić riesce a ritagliarsi uno spazio di manovra altrimenti insostenibile, dimostrando al contrario l’immobilità dell’Ue nel prendere contromisure.Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, a Mosca (4 dicembre 2019)Un altro tema su cui la Serbia trova il sostegno della Cina è senza dubbio quello della sovranità territoriale e del non-riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo (dichiarata unilateralmente nel 2008), nonostante Bruxelles sia impegnata da oltre 10 anni nella mediazione di un difficilissimo dialogo per la normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Pristina. “I due Paesi sostengono fermamente i reciproci interessi, sulla base di solidi rapporti politici”, ha confermato Xi Jinping: “La Cina appoggia la Serbia nella difesa della sua indipendenza e nel suo corso di sviluppo“. Anche su questo fronte per il leader serbo risulta più sostenibile continuare a ostacolare quanto negoziato a livello diplomatico con Bruxelles, mentre l’Unione sembra incapace di reagire con la stessa rigidità assunta nei confronti di Pristina. Per Pechino la carta di scambio è il riconoscimento di Taiwan come parte integrante della Cina, questione non particolarmente spinosa a Belgrado: “Siamo amici fedeli”, ha confermato Vučić a proposito di un altro tema di distanza dalla cautela che invece sta cercando l’Unione Europea (sempre ricordando che la Serbia è un Paese candidato all’adesione).E poi c’è la politica economica e commerciale, proprio uno dei due temi di “interesse vitale” per l’Unione Europea al centro del vertice trilaterale di lunedì (6 maggio) a Parigi tra il presidente cinese, l’omologo francese, Emmanuel Macron, e la numero uno della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. “La Serbia e la Cina stanno passando da avere relazioni strategiche al futuro comune dei nostri due Paesi, è la più alta forma di cooperazione e sono orgoglioso di aver potuto firmarla oggi”, ha esultato Vučić, parlando della Dichiarazione congiunta siglata oggi per il rafforzamento del partenariato strategico globale tra Pechino e Belgrado: “Traccia la direzione per lo sviluppo delle relazioni nostre bilaterali”. I due leader hanno siglato un totale di 28 accordi e protocolli d’intesa dalle infrastrutture alla cultura, dallo sport alla tecnologia – compreso uno sull’acquisto di nove treni elettrici per le ferrovie del Paese balcanico, mentre l’alta velocità Belgrado-Budapest sarà completata entro il 2026 con il sostegno cinese – e la cui traiettoria non può non impensierire Bruxelles: “La Serbia diventa il primo Paese europeo con il quale costruiremo una comunità per un futuro comune“, ha aggiunto il presidente cinese.Per concludere la carrellata di dichiarazioni sibilline, se non di vere e proprie provocazioni nei confronti dell’Unione Europea, il presidente Vučić ha voluto anche sottolineare che la Cina “è il nostro principale investitore e il secondo partner commerciale”, con le esportazioni da Belgrado verso Pechino che sono “aumentate di 140 volte negli ultimi dieci anni, e con l’Accordo di libero scambio [dell’ottobre 2023, ndr] potremo esportare quasi il 95 per cento dei prodotti che produciamo senza dazi”. Il leader serbo si è però dimenticato di ricordare il valore commerciale di questo rapporto e della differenza abissale con quanto in ballo con i Ventisette: se nel 2022 la Cina muoveva 5,8 miliardi (in euro) tra esportazioni (4,7) e importazioni (1,1), nello stesso anno la Serbia importava 21,39 miliardi ed esportava 17,69 miliardi nell’Ue, per un totale di 39,08 miliardi di euro (più di sei volte rispetto a Pechino).Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    C’è l’accordo Ue sui profitti dei beni congelati russi. Il 90 per cento sarà destinato all’assistenza militare per l’Ucraina

    Bruxelles – L’Ue ha trovato l’accordo che permetterà di strappare circa 3 miliardi di euro all’anno al Cremlino e recapitarli sotto forma di assistenza militare all’Ucraina. Gli ambasciatori dei 27 hanno dato il via libera alla proposta messa sul tavolo lo scorso 20 marzo dall’Alto rappresentante Ue Josep Borrell di utilizzare interamente i proventi dei beni congelati alla Russia per sostenere la resistenza di Kiev. Il 90 per cento attraverso la fornitura di attrezzature militari, il 10 per cento per la futura ricostruzione dell’Ucraina.Da febbraio 2022, nei Paesi Ue sono immobilizzati asset e riserve della Banca centrale russa per un valore di circa 210 miliardi di euro. Che, a seconda dei tassi di interesse, frutteranno i circa 3 miliardi di profitti all’anno che l’Ue ha individuato per dare vigore al proprio sostegno militare a Kiev. La proposta prevede che i proventi – escludendo uno 0,3 per cento che sarà usato per pagare la gestione dell’operazione da parte delle società di clearing che detengono gli asset russi congelati – siano destinati per il 90 per cento circa all’assistenza militare all’Ucraina attraverso il Fondo europeo per la Pace, mentre il restante 10 per cento andrà a rimpinguare la fetta di budget Ue dedicato alla ricostruzione del Paese. E per sostenere e incrementare le capacità dell’industria della difesa di Kiev.Questa ripartizione varrebbe per il 2024, mentre negli anni successivi – nel momento in cui cambiassero le priorità – il regolamento garantirà una certa flessibilità e potrà essere rivisto e modificato dal Consiglio dell’Ue. La prima revisione sarebbe già prevista il 1 gennaio 2025. “Non potrebbe esserci simbolo più forte e utilizzo migliore per quei soldi che rendere l’Ucraina e tutta l’Europa un posto più sicuro in cui vivere”, ha esultato con un post su X la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.Per poter assicurare una solida base legale alla proposta, l’Ue ha precisato più volte che i profitti in questione non sono di proprietà della Russia, ma dei depositari dei titoli, le società di clearing che detengono riserve e attività della Banca centrale russa. Primo fra tutti il gruppo belga Euroclear, che detiene circa 190 miliardi degli asset russi immobilizzati dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. La società di clearing con sede a Bruxelles si era inizialmente opposta all’utilizzo dei proventi, ma a quanto si apprende “le entrate fiscali generate in Belgio da questi profitti inattesi continueranno ovviamente a essere destinate al 100 per cento all’Ucraina”. Fonti diplomatiche rassicurano che “non c’è nessuna inversione di rotta”.L’accordo c’è, ora – per garantire risorse aggiuntive all’Ucraina già “prima dell’estate” – manca solo l’approvazione formale del Consiglio dell’Ue in una delle prossime riunioni ministeriali.