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    Alcuni cittadini del Kosovo potranno viaggiare in Schengen e Ue anche con il passaporto serbo

    Bruxelles – Il nord del Kosovo è sempre un luogo delicato per le politiche dell’Unione Europea, e la questione dei visti Schengen non fa eccezione. Perché a pochi mesi dall’entrata in vigore della liberalizzazione dei visti per i cittadini kosovari – dopo un attesa di oltre cinque anni – il Consiglio dell’Unione Europea ha deciso oggi (22 luglio) di dare il semaforo verde al Regolamento che elimina l’esclusione per i titolari di passaporti serbi rilasciati dalla Direzione di coordinamento serba. Ovvero la direzione del ministero degli Affari interni di Belgrado responsabile del rilascio dei passaporti serbi ai cittadini (della minoranza etnica serba) residenti nel Paese che dal 2008 ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza proprio da Belgrado.Kosovska Mitrovica, Kosovo (credits: Armend Nimani / AFP)Il via libera deciso oggi dal Consiglio “garantisce che l’intera regione dei Balcani Occidentali sia soggetta allo stesso regime di visti“, si legge nella nota dell’istituzione Ue, che conclude così l’iter legislativo iniziato nel novembre dello scorso anno dalla Commissione Ue. Il Regolamento entrerà in vigore il ventesimo giorno dalla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Ue, e da allora sarà applicabile in tutti gli Stati membri.È dal dicembre 2009 che i titolari di passaporti serbi sono stati esentati dall’obbligo di visto per i viaggi nell’area Schengen, ma finora non a chi ne possedeva uno rilasciato dall’autorità istituita nell’ambito del dialogo Ue sulla liberalizzazione dei visti con la Serbia. Non si faranno però attendere le polemiche a Pristina per il fatto che, con questa misura, una parte dei residenti in territorio kosovaro non avranno bisogno di passaporti rilasciati dalle autorità centrali di Pristina (che dal primo gennaio 2024 garantiscono lo stesso diritto di viaggio senza visto), ma potranno continuare a fare riferimento a Belgrado e mettere in discussione la sovranità nazionale in un momento storico particolarmente delicato per i due Paesi balcanici.Cosa significa liberalizzazione dei visti SchengenNella pratica la liberalizzazione dei visti per un Paese extra-Ue significa l’esenzione dal dover fare richiesta per ottenere il visto d’ingresso per accedere allo spazio Schengen, ovvero l’area che ha abolito le frontiere interne. I cittadini di questi Stati possono utilizzare semplicemente il proprio passaporto nazionale – senza ulteriori requisiti richiesti – per viaggiare e soggiornare fino a 90 giorni (in un periodo complessivo di 180 giorni) nei Paesi Ue e Schengen.Tutti i cittadini dei Paesi membri Ue possono attraversare liberamente le frontiere interne con la propria carta d’identità – anche quelli che non fanno parte dello spazio Schengen, cioè Cipro, Bulgaria, Irlanda e Romania – così come i cittadini dei territori esterni appartenenti ai 27 Paesi Schengen (Groenlandia, Isole Svalbard, Guyana Francese, Nuova Caledonia e altri territori d’oltremare). All’area che ha abolito le frontiere interne aderiscono anche quattro Stati extra-Ue: Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera. I cittadini di un qualsiasi altro Paese nel mondo solitamente devono fare richiesta di un visto (di lavoro, turistico, di studio), che è l’atto con il quale uno Stato concede a un individuo straniero il permesso di accedere nel proprio territorio. Tuttavia l’Ue ha istituito una politica di visti comune per soggiorni di breve durata, transito nel territorio o negli aeroporti internazionali degli Stati Schengen.Sulla base di una valutazione caso per caso la Commissione può proporre ai co-legislatori del Parlamento e del Consiglio dell’Ue una decisione per la liberalizzazione dei visti Schengen. La valutazione si basa su una serie di criteri pre-stabiliti: migrazione irregolare, ordine pubblico e sicurezza, vantaggi economici (turismo e commercio estero), diritti umani, libertà fondamentali, implicazioni di coerenza regionale e reciprocità. Le nuove decisioni sull’esenzione devono essere adottate da entrambi i co-legislatori, dopo i negoziati bilaterali con il Paese interessato. Qui la lista dei Paesi a cui è stata concessa la liberalizzazione dei visti Schengen.Le tensioni nel nord del KosovoÈ passato oltre un anno da quando è andato in scena il primo evento che ha aperto uno degli scenari più difficili e violenti per le relazioni tra Serbia e Kosovo. A causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica il 26 maggio 2023 sono scoppiate violentissime proteste, trasformatesi nel giro di tre giorni in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato. La tensione è deflagrata per la decisione del governo di Pristina di far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti il 23 aprile, in una tornata elettorale controversa per la bassissima affluenza al voto.Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, il 29 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)Nel frattempo il 14 giugno è andato in scena un arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi, per cui i governi di Pristina e Belgrado si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine. Bruxelles ha convocato una riunione d’emergenza con il premier kosovaro, Albin Kurti, e il presidente serbo, Aleksandar Vučić, per uscire dalla “modalità gestione della crisi” e solo il 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari. Ma a causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo (ancora in atto, nonostante la tabella di marcia concordata il 12 luglio). La situazione è però degenerata con l’attacco terroristico del 24 settembre nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska. Nella giornata di scontri tra la Polizia del Kosovo e un gruppo di una trentina di uomini armati sono rimasti uccisi un poliziotto e tre attentatori.Gli sviluppi dell’attentato hanno evidenziato chiare diramazioni nella vicina Serbia. Tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska – come confermato da lui stesso qualche giorno dopo l’attacco armato – oltre a Milorad Jevtić, stretto collaboratore del figlio del presidente serbo, Danilo Vučić. A peggiorare il quadro il un “grande dispiegamento militare” serbo lungo il confine amministrativo denunciato dagli Stati Uniti. La minaccia non si è concretizzata, ma l’Ue ha iniziato a riflettere sulla possibilità di imporre le stesse misure in vigore contro Pristina anche ai danni di Belgrado. Ma per il via libera serve l’unanimità in Consiglio e il più stretto alleato di Vučić dentro l’Unione – il premier ungherese, Viktor Orbán – ha posto il veto. Come se non bastasse, prima delle elezioni anticipate in Serbia il 17 dicembre, l’ultimo atto del governo guidato da Ana Brnabić è stato inviare una lettera a Bruxelles per avvertire che le istituzioni serbe non riconoscono il valore giuridico degli impegni verbali presi nel contesto del dialogo Pristina-Belgrado e che non sarà riconosciuta nemmeno de facto la sovranità del Kosovo.L’unica notizia positiva al momento è la risoluzione della ‘battaglia delle targhe’ tra Serbia e Kosovo, grazie alla decisione arrivata tra fine 2023 e inizio 2024 sul mutuo riconoscimento per i veicoli in ingresso alla frontiera. Anche considerati i presupposti non promettenti di quest’anno. Con l’entrata in vigore del Regolamento sulla trasparenza e stabilità dei flussi finanziari e sulla lotta al riciclaggio di denaro e alla contraffazione, dal primo febbraio l’euro è diventato l’unica valuta di cambio e di deposito nei conti bancari: il dinaro serbo può ancora essere scambiato al pari del lek albanese o del dollaro, ma la decisione avrà un impatto su tutti quei servizi pubblici che non si mai adeguati all’adozione dell’euro da parte di Pristina nel 2002 (ancora prima dell’indipendenza). Il 5 febbraio hanno sollevato polemiche a Bruxelles le operazioni di polizia speciale presso gli uffici delle istituzioni temporanee gestite dalla Serbia in quattro comuni del nord del Kosovo (Dragash, Pejë, Istog e Klinë) e presso la sede dell’Ong Center For Peace and Tolerance a Pristina: dal 2008 Belgrado ha continuato a finanziare comuni, aziende, imprese pubbliche, asili, scuole, università pubbliche e ospedali a disposizione della minoranza serba, in modo illegale secondo la Costituzione del Kosovo.Trovi ulteriori approfondimenti sulla regione balcanica nella newsletter BarBalcani ospitata da Eunews

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    Il passo indietro di Biden visto da Bruxelles. Borrell: Per le relazioni Ue-Usa “farà una gran differenza chi vincerà le elezioni”

    Bruxelles – Rispetto, per la decisione di Joe Biden e per il processo democratico negli Stati Uniti. Ma con un filo di preoccupazione in più, perché il ritiro del presidente americano dalla corsa per la Casa bianca accresce lo spauracchio di un ritorno di Donald Trump. I ministri degli Esteri dell’Ue si ritrovano a Bruxelles la mattina dopo il passo indietro di Biden e si interrogano sul futuro delle relazioni transatlantiche: a seconda di chi sarà il prossimo presidente a stelle e strisce, per l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, “ci sarà sicuramente una gran differenza”.Per cogliere la portata dell’avvertimento di Borrell, basta dare un occhio ai temi principali in agenda all’incontro di oggi (22 luglio) tra i ministri dell’Ue: il sostegno all’Ucraina e la crisi in Medio Oriente. Due scenari su cui – se dovesse essere eletto a novembre – il tycoon repubblicano ha già dimostrato di poter stravolgere le posizioni dell’asse transatlantico. Senza inoltrarsi nelle relazioni bilaterali tra i due alleati sulle sponde dell’Atlantico, già messe in forte difficoltà durante il primo mandato Trump. “Abbiamo lavorato molto bene con Biden, ma se decide di ritirarsi perché pensa che un altro candidato possa avere più forza per far vincere il Partito Democratico, noi lo rispettiamo”, ha dichiarato Borrell all’ingresso al Consiglio, rispondendo in italiano a una domanda della stampa.Dello stesso tenore il commento della ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock: “Ho grande rispetto per la scelta del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, di anteporre gli interessi del suo Paese ai propri”, ha dichiarato. Berlino sembra essere una delle cancellerie più preoccupate da un eventuale ritorno di Trump alla Casa bianca: secondo il Financial Times, Baerbock avrebbe costituito un ‘gruppo di crisi’ informale per discutere e prepararsi allo scenario che potrebbe materializzarsi dopo il 5 novembre.Ha tagliato corto il ministro degli Esteri francese, Stéphane Séjourné, che ha rassicurato che “non cambierà niente”. Concetto – o augurio – sviluppato e declinato in salsa italiana dal vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani: “Siamo convinti che chiunque sarà il presidente, l’Italia rimarrà un interlocutore privilegiato”, ha dichiarato. Secondo il leader di Forza Italia, e alleato di governo di Salvini e Meloni, “non tocca a noi interferire con la campagna elettorale“, ma “rispettare le scelte che faranno gli americani”.Kamala Harris e Joe Biden (Photo by Brendan SMIALOWSKI / AFP)Non solo rispetto, ma anche “affetto” espresso da José Manuel Albares Bueno, ministro degli Esteri spagnolo, per l’ottantunenne presidente, sulla graticola per i dubbi sulla sua lucidità, e per una “decisione difficile” che dimostra invece “profondità di sguardo e senso dello Stato”. Da Madrid aveva già comunicato “ammirazione e riconoscimento” il primo ministro Pedro Sanchez. In una nota pubblicata su X, il premier socialista spagnolo ha ricordato che con la sua “determinazione e leadership” Joe Biden ha permesso agli Stati Uniti di “superare la crisi economica seguita alla pandemia e al grave assalto al Campidoglio“, il tentativo di insurrezione fomentata proprio da Trump il 6 gennaio 2021. Come a voler sottolineare cosa c’è in gioco, Sanchez ha inoltre definito “esemplare” il sostegno che Washington ha garantito finora all’Ucraina. E che rischia di essere rimesso seriamente in discussione se dovesse vincere il candidato repubblicano.Ma “il ritiro di Biden non significa automaticamente la vittoria di Trump”, ha ricordato Hadja Lahbib, ministra degli Esteri del Belgio. Il sostituto dell’anziano presidente nella corsa alla Casa Bianca sarà nominato solo alla convention del Partito Democratico, in programma a Chicago dal 19 al 22 agosto, ma tutte le attenzioni convergono sulla vice di Biden, Kamala Harris. Nella nota con cui ha comunicato il suo passo indietro, Biden ha fatto sapere che intendere sostenere la candidatura di Harris, la quale ha a sua volta confermato di voler prendere il testimone dal leader democratico. “Auguro tutto il meglio a Kamala Harris, che forse prenderà ora la guida, una donna forte”, ha dichiarato ancora la ministra belga. Il cui endorsement rispecchia verosimilmente la speranza di tutta l’Ue di non avere nuovamente a che fare con The Donald.

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    Ue-Palestina, qualcosa si muove. Pronti 400 milioni all’ANP e una strategia a lungo termine in cambio di un piano di riforme entro l’estate

    Bruxelles – La tragedia in corso da oltre nove mesi a Gaza ha riacceso i riflettori sul mai risolto conflitto israelo-palestinese. E sulla soluzione dei due Stati, unica opzione individuata dalla comunità internazionale per raggiungere una pace duratura. Se da un lato c’è Israele che non ne vuole sapere, dall’altro c’è un’Autorità Nazionale Palestinese che deve essere supportata nell’obiettivo di mettere in piedi un vero apparato statale. Oggi (19 luglio) un segnale importante: la Commissione europea e l’ANP hanno firmato una lettera d’intenti che definisce una serie di tappe – e di finanziamenti – per affrontare le “vulnerabilità strutturali esacerbate dalle conseguenze della guerra a Gaza”.Un messaggio importante, quello lanciato dalla neo-presidente della Commissione europea per la seconda volta, Ursula von der Leyen, a 24 ore dalla sua conferma a capo dell’istituzione Ue. Verso l’esterno – in risposta alle accuse piovute in questi mesi sull’intransigente posizione filo-israeliana assunta dalla leader dopo il 7 ottobre -, e verso l’interno, in ascolto dei gruppi politici progressisti (liberali, socialdemocratici e verdi) che l’hanno sostenuta ieri in Parlamento e che chiedono a gran voce un cambio di passo sul ruolo dell’Ue nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese.“Stiamo lavorando a un pacchetto pluriennale molto più ampio per sostenere un’Autorità palestinese efficiente”, aveva annunciato ieri von der Leyen presentando all’Eurocamera le priorità politiche del nuovo mandato. “Con questa strategia congiunta, sosteniamo gli sforzi di riforma dell’Autorità Palestinese. Insieme, stiamo gettando le basi per la stabilità economica e politica in Cisgiordania“, ha aggiunto oggi, presentando l’intesa firmata dal commissario Ue per il Vicinato e l’Allargamento, Olivér Várhelyi, e dal ministro per la Pianificazione e la Cooperazione internazionale dell’ANP, Wael Zakout.Cosa prevede la strategia Ue per l’Autorità Nazionale PalestineseCome primo passo, l’Ue fornirà un sostegno finanziario d’emergenza a breve termine all’Autorità Palestinese per far fronte alle sue esigenze finanziarie più urgenti e sostenere un programma di riforme “sostanziali e credibili”. Un sostegno di 400 milioni di euro, in sovvenzioni e prestiti, che sarà erogato in tre rate tra luglio e settembre 2024, a condizione che vengano compiuti progressi nell’attuazione del programma di riforme dell’Autorità palestinese. Entro fine agosto, il governo di Mohammed Mustafa dovrà riuscire a razionalizzare la spesa pubblica, riducendo le spese ricorrenti di almeno il 5 per cento rispetto all’anno precedente, istituire l’età pensionabile per tutti i lavoratori della Cisgiordania, pubblicare una nuova legge sulla protezione sociale e preparare un piano di riforma dell’istruzione. Tra le azioni preliminari concordate, figura anche l’approvazione di una legge sui pagamenti elettronici e il miglioramento dell’accesso alla giustizia e ai meccanismi di reclamo per i cittadini nei confronti degli enti governativi.Secondo quanto messo nero su bianco nella lettera d’intenti, questo sostegno a breve termine “aprirà la strada a un programma globale per la ripresa e la resilienza della Palestina“. La Commissione ha proposto di istituire una piattaforma di coordinamento dei donatori per la Palestina a partire dall’autunno 2024, fino alla fine del 2026. Nei piani di von der Leyen c’è la presentazione di una proposta legislativa per l’attivazione di questo programma globale all’inizio di settembre. Questo sostegno pluriennale “dovrebbe consentire all’Autorità palestinese di raggiungere l’equilibrio di bilancio entro il 2026 e di garantire in seguito la sua sostenibilità finanziaria a lungo termine”.Bruxelles e Ramallah hanno dedicato qualche riga anche al vicino israeliano, con cui sarà fondamentale che l’ANP migliori le relazioni economiche e finanziarie, in primo luogo “attraverso il regolare pagamento (da parte di Tel Aviv, ndr) delle entrate fiscali dovute all’Autorità Palestinese e la rimozione delle restrizioni all’accesso dei lavoratori palestinesi”. Come sottolineato dall’Alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri, Josep Borrell, “i bisogni sono immensi”. L’assistenza immediata stanziata dall’Ue non basta: “Invitiamo nuovamente Israele a sbloccare urgentemente tutte le entrate fiscali”, ha chiesto Borrell.La Commissione europea ha messo inoltre in chiaro che nessuno dei fondi dedicati all’ANP dovrà finire nelle mani, direttamente o indirettamente, di persone o entità sottoposte a misure restrittive da parte dell’Ue. Nessuna sponsorizzazione del terrorismo, insomma. Perché la chiave per la creazione di uno Stato palestinese è delegittimare l’islamismo radicale di Hamas e della Jihad palestinese rafforzando l’unico interlocutore credibile individuato dall’Occidente, l’ANP. Poi però, ci sarà da fare i conti con Israele, il cui Parlamento ha approvato solo ieri a larghissima maggioranza una legge che vieta la creazione di uno Stato di Palestina.

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    Ue-Israele, è alta tensione. Borrell contro la decisione della Knesset: “Se non vogliono due Stati, cosa vogliono?”

    Bruxelles – Ue-Israele, le relazioni si complicano vieppiù e i malumori a dodici stelle nei confronti dello Stato ebraico aumentano. La decisione della Knesset, il parlamento israeliano, di dire ‘no’ alla nascita di uno Stato palestinese irrigidisce le posizioni di un’Europa che invece alla soluzione a due Stati continua a puntare. “Se vogliamo costruire la pace, una pace sostenibile, dobbiamo offrire una soluzione politica e un orizzonte politico anche per il popolo palestinese“, enfatizza l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, a margine dei lavori della Comunità politica europea: “Purtroppo la Knesset ha votato contro questo, contro lo Stato palestinese. Ebbene, se non vogliono la soluzione dei due Stati, cosa vogliono?“Borrell non digerisce l’orientamento dello Stato ebraico. I numeri lasciano poco spazio alle illusione di un’Ue che deve fare i conti con un partner che non intende sentire ragioni. Il parlamento di Tel Aviv ha respinto con 68 voti contro 9 la creazione di uno Stato palestinese, anche nel quadro di un accordo negoziato con Israele. “Qual è la loro soluzione?”, insiste un più che contrariato Borrell. “Se rifiutano questa soluzione”, quella di due Stati, “devono proporre un’altra soluzione”. E dunque, chiede polemicamente, “quali sono i loro piani per i milioni di palestinesi che vivono nei territori occupati?”A preoccupare l’Alto rappresentante dell’Ue è l’assenza di alternative, che vuol dire che Israele lavora per fare dei territori palestinesi l’estensione dello Stato ebraico. Esattamente l’opposto di ciò per cui lavora, da sempre, la Commissione europea. La Comunità politica europea diventa quindi il momento per fare un punto. “Spero che questo argomento venga discusso”.

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    La decima legislatura Ue si apre con la condanna condivisa alle “palesi violazioni dei Trattati” di Orbán

    dall’inviato a Strasburgo – La prima risoluzione approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento Ue nella decima legislatura è in linea di continuità con quella appena conclusasi, ma con una sfumatura nuova. Dalla destra conservatrice ai Verdi, passando per tutti i gruppi della maggioranza centrista (popolari, socialdemocratici e liberali), è “costante” il sostegno all’Ucraina invasa da quasi due anni e mezzo dalla Russia, ma anche la condanna condivisa alle “palesi violazioni dei Trattati e della politica estera comune dell’Ue” da parte del primo ministro dell’Ungheria, Viktor Orbán, che tra il 5 e l’8 luglio si è recato in visita “in maniera non coordinata e inaspettata” in Russia e in Cina.La presidente del gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D), Iratxe García Pérez (17 luglio 2024)“La Russia ha intenzionalmente perpetrato atrocità sistematiche e su larga scala nei territori occupati e ha inoltre attaccato indiscriminatamente zone residenziali e infrastrutture civili, il cui esempio più recente è il bombardamento dell’ospedale pediatrico Okhmatdyt”, è quanto messo nero su bianco nella risoluzione firmata da tutti e cinque i gruppi parlamentari e approvata oggi (17 luglio) con 495 voti a favore, 137 contrari e 47 astenuti. La condanna ai “crimini di guerra e crimini contro l’umanità” compiuti dal regime di Vladimir Putin è il filo rosso che porta direttamente al j’accuse sulle “missioni di pace” del primo ministro ungherese: “All’indomani della cosiddetta missione di pace del primo ministro ungherese la Russia ha attaccato l’ospedale pediatrico Okhmatdyt a Kiev, il che ha dimostrato l’irrilevanza dei presunti sforzi di Orbán, che sono stati recepiti con scetticismo dalla leadership ucraina”.La risoluzione mette in chiaro il fatto che “il primo ministro ungherese non può pretendere di rappresentare l’Ue quando ne viola le posizioni comuni” e chiede che “a tale violazione seguano ripercussioni per l’Ungheria”, Paese membro che fino al 31 dicembre detiene la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. “Nessuno deve negoziare con Putin al posto dell’Ucraina”, è l’attacco del polacco Andrzej Halicki (Ppe), a cui a fatto eco la presidente del gruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D), Iratxe García Pérez, rincarando la dose contro il nuovo gruppo di estrema destra (terzo per numero di membri) al Parlamento Ue: “Siamo testimoni della connivenza dell’estrema destra anche in quest’Aula con il regime di Putin, il capo del gruppo dei falsi Patrioti [per l’Europa, ndr] lo ha incontrato per denigrare l’Ue, per proclamare che ha un piano di pace che nessuno conosce e per promuovere l’espansionismo russo”.Il presidente del gruppo dei Patrioti per l’Europa (PfE), Jordan Bardella (17 luglio 2024)Di “falsi patrioti” parla anche il tedesco Sergey Lagodinsky (Verdi/Ale), mentre la presidente del gruppo di Renew Europe, Valérie Hayer, ha denunciato la “missione di pace autoproclamata, utilizzando l’Ue senza alcun mandato”. Non si schiera a favore della risoluzione il gruppo della Sinistra perché, secondo il co-presidente Martin Schirdewan, “serve una trattativa ma l’Ue non ha preso alcuna iniziativa, l’invio di ulteriori armi non porterà alla fine della guerra“. La strenua difesa dell’operato di Orbán è arrivata dal presidente di Patrioti per l’Europa, Jordan Bardella, e da quello del gruppo ancora più a destra Europa delle Nazioni Sovrane, René Aust. Il primo ha concesso che quella della Russia è “una guerra di aggressione illegale e ingiustificata”, ma ha contrattaccato, sostenendo che “la condanna a Orbán mette a rischio l’unità europea, non si può accusare l’Ungheria per mantenere contatti di pace”. Il secondo ha chiesto “un cambio di strategia”, perché “il momento è maturo per le trattative di pace e sono grato a Orbán per essersi preso la responsabilità anche se c’è resistenza”.Il nodo della prima risoluzione al Parlamento UeSe la condanna a Orbán ha unito i cinque gruppi dai conservatori ai Verdi, lo stesso non si può dire su un punto particolarmente delicato della risoluzione, vale a dire il paragrafo 5. Più precisamente la specifica secondo cui il Parlamento Ue “sostiene fermamente l’eliminazione delle restrizioni all’uso dei sistemi di armi occidentali forniti all’Ucraina contro obiettivi militari sul territorio russo“. Su questo punto si è verificata una spaccatura nel voto, dove – per ragioni diverse – la quasi totalità degli eurodeputati del Partito Democratico ha votato contro il passaggio che sostiene l’uso delle armi occidentali per colpire obiettivi miliari in Russia (in quanto la formulazione potrebbe intendere anche, per assurdo, il ministero della Difesa di Mosca), come i Verdi Leoluca Orlando, Cristina Guarda e Benedetta Scuderi, ma soprattutto come gli 8 esponenti leghisti di Patrioti per l’Europa (che non da oggi hanno un’impostazione filo-russa) e gli 8 membri del Movimento 5 Stelle. A proposito del gruppo della Sinistra, Domenico Lucano e Ilaria Salis si sono astenuti sulla questione, così come tutti gli eurodeputati di Fratelli d’Italia.Bocciati tutti gli emendamenti, è rimasto il testo originale senza modifiche, sostenuto infine dalla totalità dei membri di Fratelli d’Italia, di Forza Italia e del Partito Democratico (fatta eccezione solo per Marco Tarquinio e Cecilia Strada, astenuti). Contrari, inevitabilmente, gli eurodeputati della Lega, ma anche quelli del Movimento 5 Stelle e i due eletti per Alleanza Verdi/Sinistra (il gruppo della Sinistra si è spaccato con un terzo a favore e un altro terzo astenuto), e soprattutto i tre Verdi italiani, gli unici a schierarsi contro la risoluzione spinta dal loro stesso gruppo per le implicazioni dei passaggi sull’invio delle armi e sulla spesa da parte degli Stati membri di “almeno lo 0,25 per cento del Pil annuo” per sostenere “militarmente” l’Ucraina.

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    Nuove sanzioni Ue nei confronti di coloni israeliani in Cisgiordania

    Bruxelles – Seconda tornata di sanzioni Ue ai coloni israeliani responsabili di “gravi e sistematiche” violazioni dei diritti umani contro i palestinesi in Cisgiordania. Cinque persone e tre entità, che si aggiungono alle precedenti quattro persone e due entità prese di mira lo scorso 19 aprile.Il Consiglio dell’Ue li ha inseriti nel regime globale di sanzioni dell’Ue in materi di diritti umani, che prevede il congelamento dei beni sul territorio europeo e il divieto di fornire fondi o risorse economiche a loro beneficio. Oltre al divieto di mettere piede sul suolo dell’Ue.Tra i cinque responsabili di abusi del “diritto di ognuno a godere del più alto standard raggiungibile di integrità fisica e mentale, del diritto alla proprietà, del diritto alla vita privata e familiare, della libertà di religione o di credo e del diritto all’istruzione”, il colono israeliano Moshe Sharvit e la sua “Fattoria di Moshe” nella Valle del Giordano, da cui Sharvit si è reso protagonista di violenze e minacce nei confronti dei residenti palestinesi delle comunità di pastori vicine al suo avamposto in Cisgiordania. Molestie fisiche e verbali che si sono intensificate dal 7 ottobre 2023.Figurano poi Zvi Bar Yosef e il suo avamposto non autorizzato noto come “Fattoria di Zvi” in Cisgiordania, da cui sono partiti atti di violenza ripetuti contro i palestinesi dei villaggi di Jibya, Kaubar (Kobar) e Umm Safa, Baruch Marzel, che chiede apertamente una pulizia etnica dei palestinesi, Ben-Zion “Bentzi” Gopstein, fondatore e leader dell’organizzazione estremista Lehava, e Isaschar Manne, fondatore dell’avamposto non autorizzato Manne Farm nelle colline meridionali di Hebron.Le designazioni di oggi includono anche Tzav 9, un gruppo israeliano di attivisti violenti fondato nel gennaio 2024, che blocca regolarmente i camion degli aiuti umanitari che consegnano cibo, acqua e carburante a Gaza. Le azioni di Tzav 9 includono proteste violente, attacchi contro camion di cibo e distruzione di alimenti.

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    Da progetto di pace a promotrice di guerra, l’Ue assiste anche l’esercito di Albania e Benin

    Bruxelles – C’era una volta l’Unione europea progetto di pace, che proprio per questo venne insignita del premio Nobel appositamente dedicato. Storia di tempi non lontani, eppur remoti. La bella Ue di una volta non c’è più, smarrita e cambiata sotto i colpi di un presente incerto, molto diverso, tanto diverso anche per quel progetto di pace di cui cambia toni, narrativa e retorica. Per garantire la pace servono le armi, e mentre l’Europa rilancia l’industria bellica definita industria della difesa, arma il resto del mondo. Questo indicano i finanziamenti a Benin e Albania approvati dal Consiglio dell’Ue.Due decisioni separate e distinte, ma uguali nella natura. Con un assegno da 5 milioni di euro a favore del Benin, lo strumento per la pace dell’Ue, “le forze armate del Benin saranno dotate di un aereo militare multiuso“, fa sapere il Consiglio. Mentre con l’aiuto economico da 13 milioni di euro per l’Albania “le forze terrestri albanesi riceveranno veicoli corazzati leggeri multiuso“. In entrambi i casi si offre anche disponibilità per addestramento e formazione tecnica. Prepararsi al peggio, insomma, nel non immediato parallelismo con uno degli slogan e imperativi del mondo orwelliano: “la guerra è pace”. Analogie non immediate anche perché la versione a dodici stelle è che si vogliono sicurezza e difesa, non guerra, ma le sfumature lessicali solo in parte nascondono un’Europa sempre più in versione 1984 che 2024.Ma nell’anno in corso sempre più venti di guerra soffiano sul vecchio continente, deciso ad arginare con fermezza quelle crisi su cui l’Europa proprio esente da colpe non è. I leader dell’Ue non hanno saputo (o voluto) ascoltare gli avvertimenti che arrivavano dalla Russia, e non hanno saputo (o voluto) risolvere per davvero, in modo credibile e concreto, al netto di parole e dichiarazioni di circostanza, una questione senza fine come quella arabo-israeliana. Nel mondo improvvisamente cambiato il progetto di pace non serve più, o più semplicemente non basta più. Avanti con fornitura di armi, munizioni e nuovi comandanti per le forze armate in giro per il mondo.Oltre ai nuovi finanziamenti per Benin e Albania, gli ultimi della serie, operazioni militari Ue con tanto di contributo economico, risultano attive in Mozambico, Repubblica centrafricana, Somalia, Togo, Ghana e Costa d’avorio, Bosnia-Erzegovina e Ucraina (gestita in Belgio). E’ la nuova Unione europea, quella del nuovo corso. L’Ue raccontata fino a poco tempo fa non c’è più. C’era una volta. Adesso è un’altra storia.

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    L’eurodeputato condannato in Albania arriva a Strasburgo. Giallo sull’immunità parlamentare

    dall’inviato a Strasburgo – La partita tra Grecia e Albania si sposta a Strasburgo, nell’Aula del Parlamento Europeo. Alla sessione inaugurale del 16-19 luglio ci sarà anche Fredi Beleri, sindaco di etnia greca del comune albanese di Himarë condannato a due anni di carcere per compravendita di voti alle elezioni comunali del maggio 2023, ma risultato il terzo candidato più votato in Grecia alle elezioni europee del 9 giugno tra le fila del partito al potere Nuova Democrazia. La giustizia albanese gli ha concesso di partecipare ai lavori dell’istituzione Ue di questa settimana, ma richiedendo il suo ritorno in carcere per scontare il resto della pena in Albania subito dopo la fine della sessione plenaria.Da sinistra: il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, e il primo ministro della Grecia, Kyriakos Mitsotakis (credits: Adnan Beci / Afp)Secondo quanto riportano i media greci, Beleri ha lasciato questa mattina (15 luglio) il carcere in Albania grazie a un permesso di cinque giorni, viaggiando per Tirana prima di volare ad Atene e di lì a Strasburgo. Potrà così partecipare alla votazione per l’elezione della presidenza del Parlamento Ue e delle cariche di vertice domani (16 luglio) e per quella sulla conferma di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione Europea giovedì (18 luglio), ma dovrà rimanere in contatto costante con la polizia albanese prima di tornare in carcere già questo fine settimana. “Il rispetto del diritto di voto e di essere eletti è un elemento chiave di qualsiasi Stato di diritto“, ha commentato il vicepresidente (greco) della Commissione Ue responsabile per lo Stile di vita europeo, Margaritis Schinas.Secondo quanto previsto dal regolamento interno del Parlamento Europeo, i suoi membri godono dell’immunità dai procedimenti giudiziari, anche se le accuse riguardano reati commessi prima della loro elezione. Tuttavia il ‘Protocollo 7’ fa esplicito riferimento all’applicazione dell’immunità sul territorio dei Paesi membri dell’Unione e, nel caso di Beleri, non ci sono appigli nonostante l’elezione a eurodeputato, in quanto sta scontando la pena per un reato commesso in Albania, Paese extra-Ue. Il verdetto della Corte d’appello speciale albanese dello scorso 25 giugno ha confermato la condanna di primo grado di marzo e ha tolto a Beleri la carica di sindaco di Himarë (il 4 agosto si terranno nuove elezioni nel paese). Dopo che sarà entrato ufficialmente in carica domani, il neo-eurodeputato molto probabilmente presenterà ricorso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nei prossimi mesi.Il caso Beleri tra Grecia e AlbaniaIl caso Beleri era già emerso come un punto di attrito anche ai tavoli europei nel corso della cena informale tra i vertici delle istituzioni Ue e i leader dei Balcani Occidentali, Ucraina e Moldova andata in scena ad Atene a fine agosto dello scorso anno. A quell’appuntamento mancava solo il premier albanese, Edi Rama, non invitato proprio a causa delle tensioni tra Grecia e Albania per la detenzione del sindaco eletto di Himarë, che non ha mai potuto giurare in quanto detenuto in carcere da due giorni prima delle elezioni del 14 maggio con l’accusa di compravendita di voti (anche lo sfidante e primo cittadino in carica, Jorgo Goro, è finito in carcere per corruzione). Da quel momento è iniziato un braccio di ferro diplomatico tra il governo di Kyriakos Mitsotakis e il governo Rama, il primo accusato da Tirana di voler influenzare un’indagine indipendente su una figura associata all’insurrezione armata della minoranza greca in Albania nel 1994, il secondo sospettato da Atene di “violazione dei diritti umani” e di processo “politicamente motivato”.Da sinistra: il primo ministro dell’Albania, Edi Rama, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der LeyenFinora il governo greco non è riuscito a fare pressioni diplomatiche sufficienti per la scarcerazione di Beleri e nemmeno le minacce di conseguenze negative sul percorso di adesione dell’Albania all’Unione Europea (con i negoziati iniziati nel luglio 2022) hanno sortito gli effetti sperati. La Grecia sostiene che il caso Beleri dovrebbe essere considerato un problema europeo e non solo una questione bilaterale – in quanto riguarderebbe il rispetto dello Stato di diritto e dei diritti delle minoranze in un Paese che aspira a fare ingresso nell’Unione – ma la forzatura ha infastidito alcuni tra i Ventisette più favorevoli all’accelerazione del processo di allargamento, come la Germania. È così che il premier greco ha deciso di percorrere una strada più ‘originale’ e il 15 aprile è arrivata l’ufficialità della nomina di Beleri come 25esimo candidato (su 42) nelle liste elettorali di Nuova Democrazia: “La sua candidatura ha un simbolismo molto forte, tutti coloro che sono realmente interessati ai diritti della minoranza etnica greca in Albania lo capiscono”, aveva affermato Mitsotakis due giorni più tardi a margine del Consiglio Europeo a Bruxelles.Al centro, da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro della Grecia, Kyriakos MitsotakisCon l’elezione al Parlamento Europeo di Beleri, Nuova Democrazia sposta il baricentro del discorso politico sul piano patriottico, facendo leva su quello che è diventato un campo di battaglia retorica per il nazionalismo greco e albanese. Tecnicamente Tirana e Atene sono ancora in stato di guerra – dal 1940 quando l’Albania era un protettorato italiano durante la Seconda Guerra Mondiale – e nonostante sia in vigore dal 1996 il Trattato di amicizia, cooperazione, buon vicinato e sicurezza, i due membri della Nato stanno conoscendo un’escalation di tensione sul piano diplomatico, che coinvolgono da vicino anche le istituzioni Ue e il processo di allargamento.