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    Medio Oriente, Borrell: “Prevenire un conflitto Israele-Palestina più ampio, bene cessate il fuoco”

    Bruxelles – Israele “ha il diritto di proteggere la sua popolazione civile”, e “l’UE non sta valutando la sospensione dell’accordo di associazione”. La Commissione europea chiarisce una volta di più la sua linea, quella di una soluzione a due Stati, fatta di volontà e dialogo politici, ma fa fatica a condannare apertamente i nuovi scontri in Medio Oriente, dove Israele da giorni conduce raid e attacchi nei territori palestinesi. Azione volta a eliminare i nuovi capi del terrorismo islamico, a cui i palestinesi rispondono con lancio di razzi. Una nuova situazione di conflitto a cui l’UE risponde facendo attenzione a non urtare il partner israeliano.
    “E’ necessario fare tutto il possibile per prevenire un conflitto più ampio”, la priorità dell’Unione europea, come espresso dall’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Josep Borrell, che invoca “la massima moderazione da tutte le parti per evitare un’ulteriore escalation”. In Medio Oriente l‘Unione europea “segue con grande preoccupazione gli ultimi sviluppi a Gaza e dintorni”. Una situazione che richiama “la necessità di ripristinare un orizzonte politico e garantire una situazione sostenibile a Gaza“.
    In tal senso il cessate il fuoco raggiunto è una buona notizia. “Ora è fondamentale lavorare per consolidarlo”, commenta Borrell. Sottolinea come questa tregua riguarda “Israele e la jihad islamica palestinese“, a riprova delle posizioni assunte a Bruxelles. L’UE condanna il condannabile, ma resta fedele allo Stato ebraico. Hamas è stata inserita nella lista dell’Unione delle organizzazione terroristiche, e sarebbe difficile immaginare passi indietro in tal senso.
    L’Ue in sostanza invita a deporre le armi e sedersi attorno a un tavolo. Offre una posizione di mediatore, ma non intende scaricare Israele. Borrell critica l’operato delle forze di sicurezza israeliane per quanto accaduto alla giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh, uccisa in circostanza da accertare e oggetto di scontri nel giorno dei suoi funerali. Nella stessa risposta all’interrogazione parlamentare, Borrell assicura che non si intende porre fine all’accordo di associazione, anche perché al decisione va presa dal Consiglio, ma su proposta della Commissione. Proposta che non al momento non si ha intenzione di produrre.

    Di fronte alle operazioni militari israeliane l’Alto rappresentate ricorda che lo Stato ebraico “ha il diritto di difendersi”, e invoca “un orizzonte politico e sostenibile a Gaza”

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    Suona l’allarme a Bruxelles per i bombardamenti vicini alla centrale nucleare di Zaporizhzia, occupata dall’esercito russo

    Bruxelles – Dopo cinque mesi ritorna la paura per incidenti nucleari in Europa. Era il 4 marzo quando l’esercito russo attaccava la centrale nucleare di Zaporizhzhia, scatenando un incendio negli edifici secondari della struttura, e con l’intensificarsi delle operazioni militari nel sud-est dell’Ucraina nelle ultime settimane, l’impianto è tornato pericolosamente al centro del conflitto.
    “Le notizie di bombardamenti sono allarmanti, la sua sicurezza è fonte di massima preoccupazione”, ha scritto in un tweet il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, commentando la discussione sulla situazione nella centrale nucleare più grande d’Europa durante la telefonata di ieri (domenica 7 agosto) con il numero uno ucraino, Volodymyr Zelensky. Lo stesso presidente ucraino ha chiesto una risposta “più forte” da parte della comunità internazionale al “terrore nucleare russo”, ovvero “sanzioni sull’industria e sul combustibile nucleare” del Cremlino, in linea con quanto ventilato nel corso dell’ultima riunione dei ministri dell’Energia del G7. Tra gli altri temi al centro della conversazione tra Bruxelles e Kiev anche l’avvio dell’esportazione di grano via mare, il pacchetto di assistenza macrofinanziaria e “tutti gli aspetti del sostegno politico, militare, economico, finanziario e umanitario dell’Ue all’Ucraina”, ha reso noto il presidente Michel.

    In today’s call @ZelenskyyUa informed me on the the latest developments on the ground.
    Discussed also the situation at the Zaporizhzia nuclear power plant, Europe’s largest; reports of shelling are alarming; its safety is of the highest concern. (1/2)
    — Charles Michel (@CharlesMichel) August 7, 2022

    Ma è sempre la questione della centrale nucleare di Zaporizhzhia a destare le maggiori preoccupazioni sul fronte di guerra meridionale in Ucraina. Kiev e Mosca si rimbalzano le responsabilità della sempre più fragile sicurezza dell’impianto, con il governo ucraino che accusa l’esercito russo di averlo trasformato in una base militare da cui partono attacchi missilistici, mentre la Russia punta il dito contro le forze ucraine, denunciando attacchi con droni alla struttura. Secondo il direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Rafael Grossi, la situazione sarebbe “completamente fuori controllo”, dal momento in cui “tutti i principi di sicurezza nucleare sono stati violati in un modo o nell’altro“.
    Alla luce di queste parole un team di esperti della stessa Agenzia internazionale per l’energia atomica ha condotto delle valutazioni preliminari sulla centrale nucleare ucraina, definendo “stabile” lo scenario dal punto di vista della sicurezza e confermando che “non c’è una minaccia immediata”. Tuttavia, secondo quanto si legge nei risultati preliminari della valutazione resi noti su Twitter, “diversi dei sette pilastri sono stati violati”. È per questo motivo che da più parti si alzano voci per garantire l’accesso all’impianto di Zaporizhzhia per gli ispettori internazionali. Dopo la richiesta arrivata dallo stesso direttore generale Grossi, è stato il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, a esortare i due belligeranti a collaborare per garantire la sicurezza dell’impianto: “Qualsiasi attacco a una centrale nucleare è un suicidio“, ha dichiarato dopo aver partecipato alla cerimonia di commemorazione della pace di Hiroshima per il 77esimo anniversario del primo bombardamento atomico al mondo.
    Zaporizhzhia è la più grande delle quattro centrali nucleari attive in Ucraina e produce un quinto di tutta l’elettricità necessaria al Paese, con sei reattori – di cui due attualmente attivi – che a pieno regime possono erogare una potenza totale di 5.700 megawatt. L’impianto si trova sul fiume Dnepr (a circa 550 chilometri dalla capitale) e dall’inizio dell’occupazione da parte dell’esercito russo a marzo i lavoratori ucraini della centrale convivono con le truppe occupanti. Secondo il governo di Kiev l’obiettivo del Cremlino sarebbe quello di staccare la centrale dalla rete elettrica ucraina, in modo da fornire energia solo ai territori controllati dall’esercito russo nella parte orientale e meridionale del Paese. Sempre secondo le informazioni ucraine, in questi cinque mesi gli occupanti avrebbero minato la sponda del fiume Dnepr e trasformato alcune parti delle centrale in una base militare, portando al suo interno mezzi blindati, artiglieria e lanciarazzi: da lì sarebbero partiti anche attacchi al territorio dell’Ucraina. Nella controffensiva dell’esercito di Kiev nei territori occupati da Mosca la centrale di Zaporizhzhia potrebbe ora svolgere un ruolo cruciale per la difesa russa, anche a costo di mettere in conto rischi di incidenti o disastri nucleari.

    In una telefonata con il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, il numero uno del Consiglio Ue, Charles Michel, ha espresso “massima preoccupazione” per la sicurezza dell’impianto. Kiev chiede alla comunità internazionale sanzioni su industria e combustibile nucleare del Cremlino

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    Dopo le tensioni al confine tra Serbia e Kosovo, si terrà il 18 agosto a Bruxelles il nuovo round di dialogo ad alto livello

    Bruxelles – Dopo le tensioni di confine, il tentativo di rimettere insieme i cocci con il dialogo. Si terrà il prossimo 18 agosto il nuovo incontro a Bruxelles tra il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier del Kosovo, Albin Kurti, nel quadro del dialogo facilitato dall’Unione Europea, a più di un anno dall’ultimo (il quinto) infruttuoso vertice di alto livello mediato dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e dal rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák. “L’invito dell’alto rappresentante Borrell è stato accettato da entrambe le parti”, ha spiegato il portavoce Peter Stano durante il punto quotidiano con la stampa europea. “Speriamo in un buon incontro, è da tempo che c’è necessità di un incontro di questo livello“, ha aggiunto.
    Il nuovo round di alto livello tra i leader di Serbia e Kosovo arriva dopo le tensioni di confine dell’ultima settimana sulla questione delle targhe automobilistiche al passaggio della frontiera, un tema che già nel settembre del 2021 aveva esacerbato i rapporti tra i due Paesi. A seguito di quella che era stata definita “la battaglia delle targhe” (per l’imposizione da parte del governo di Pristina dell’applicazione di targhe di prova kosovare ai veicoli serbi in ingresso, misura identica a quella applicata da Belgrado), a Bruxelles era stato trovato un accordo per trovare – all’interno di un gruppo di lavoro congiunto – una soluzione definitiva al problema entro il 21 aprile 2022, sulla base di pratiche e standard comunitari (mentre temporaneamente sono stati coperti con degli adesivi i simboli nazionali sulle rispettive targhe). Dopo otto incontri in sei mesi tra gli esperti di Belgrado e Pristina, il compito di raggiungere l’intesa è passato ai capi-negoziatori delle due parti – con indiscrezioni della presenza di tre proposte sul tavolo – ma da mesi la situazione è in stallo.

    In cooperation with our international allies, we pledge to postpone implementation of decisions on car plates & entry-exit documents at border crossing points w/ Serbia for 30 days, on the condition that all barricades are removed & complete freedom of movement is restored. pic.twitter.com/oJNaQi0qPO
    — Albin Kurti (@albinkurti) July 31, 2022

    A gettare di nuovo benzina sul fuoco è stata la decisione del governo di Pristina di introdurre l’obbligo su tutto il territorio nazionale di utilizzare le targhe kosovare al posto di quelle serbe (molto diffuse tra la minoranza serba nel nord del Paese) a partire da lunedì primo agosto. La misura ha scatenato le proteste proprio di centinaia di cittadini di etnia serba, che hanno creato barricate ai valichi di confine di Jarinje e Bernjak. Dopo il crescere delle tensioni tra i manifestanti e la polizia – con alcuni spari da parte dei primi, che non hanno provocato nessun ferito – su consiglio di Bruxelles e di Washington il premier Kurti ha deciso di posticipare l’introduzione dell’obbligo di un mese, al primo di settembre.
    Come hanno fatto notare diversi analisti, la situazione non è mai sfuggita di mano anche nei momenti di maggiore tensione, sia per la retorica allarmistica e nazionalistica che rappresenta una costante nei rapporti tra i due Paesi, sia per la presenza del più grande contingente della Nato proprio in Kosovo (pronto a intervenire a ogni eventualità di scoppio delle ostilità). In ogni caso, ci si attende che all’incontro del 18 agosto tra Vučić e Kurti anche la questione delle targhe venga affrontata tra le priorità “da spingere nell’agenda del dialogo facilitato dall’Ue”, ha sottolineato il portavoce Stano, non volendo però rendere noti i temi su cui si concentreranno le discussioni di alto livello a Bruxelles.

    Welcome Kosovo decision to move measures to 1 September. Expect all roadblocks to be removed immediately.Open issues should be addressed through EU-facilitated Dialogue&focus on comprehensive normalisation of relations btwn Kosovo&Serbia, essential for their EU integration paths
    — Josep Borrell Fontelles (@JosepBorrellF) July 31, 2022

    Al vertice nel quadro del dialogo facilitato dall’Unione Europea parteciperanno il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il premier del Kosovo, Albin Kurti. L’alto rappresentante Ue Borrell e il rappresentante speciale Lajčák proveranno a mediare anche sulla questione delle targhe

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    L’ex-presidente dell’Ucraina Janukovyč è finito nella lista delle sanzioni Ue per aver aiutato i separatisti filo-russi

    Bruxelles – Dentro anche l’ex-presidente ucraino Viktor Janukovyč e il figlio Oleksandr nella lista di sanzioni dell’Ue. Il Consiglio dell’Unione Europea ha deciso di inserire tra i soggetti colpiti dalle misure restrittive il numero uno a Kiev dal 2010 al 2014, a causa delle sue operazioni “tese a destabilizzare il Paese e a tutelare i propri interessi economici” dopo il trasferimento in Russia e nel contesto dell’invasione dell’Ucraina voluta dal Cremlino. Al figlio del presidente ucraino sono anche imputate transazioni con i gruppi separatisti nella regione ucraina del Donbass.
    A sole due settimane dall’ultima tornata di sanzioni (il pacchetto maintenance and alignement, aggiornamento e allineamento), si allunga così a 1.214 individui e 108 entità la lista di chi in Russia è colpito delle misure restrittive dell’Ue, con l’ingresso di un pezzo da novanta come l’ex-presidente ucraino Janukovyč. Come viene sottolineato nella descrizione riportata nella Gazzetta Ufficiale dell’Ue, “durante il suo mandato Janukovyč ha perseguito una politica filorussa”, al punto che un tribunale ucraino lo ha riconosciuto “colpevole di tradimento per aver cercato di reprimere le manifestazioni filo-occidentali del 2014“, ovvero la sollevazione popolare di piazza Maidan che lo ha destituito nel febbraio di otto anni fa. Da allora Janukovyč “ha favorito l’ingerenza militare russa in Ucraina invitando” il presidente Putin “a inviare truppe russe” nel Paese nel marzo dello stesso anno e “ha sostenuto politici filorussi che ricoprivano cariche pubbliche nella Crimea occupata” dall’esercito di Mosca (dove la sua famiglia possiede una catena di negozi e proprietà immobiliari nel paese di Otradnoye).
    Per quanto riguarda il figlio Oleksandr Janukovyč, è noto il suo ruolo di uomo d’affari finanziatore della creazione delle Repubbliche popolari separatiste nel Donbass. “Grazie agli stretti legami con i separatisti filorussi, ha acquisito attività economiche essenziali” in questi territori – ricorda il testo delle sanzioni – in particolare nei settori dell’energia, del carbone e immobiliare: “I suoi progetti di sviluppo immobiliare nella cosiddetta Repubblica popolare di Donetsk sono stati protetti dal battaglione separatista Oplot”, nell’elenco delle sanzioni Ue dal febbraio del 2015.
    Per tutte queste ragioni Janukovyč padre e figlio sono ritenuti “responsabili di aver attivamente sostenuto o attuato azioni e politiche che minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina“, traendo anche vantaggio dall’annessione russa della Crimea e della destabilizzazione delle regioni orientali che in queste settimane sotto il costante fuoco dell’esercito russo. Come per gli altri soggetti colpiti dalle sanzioni Ue, anche per l’ex-presidente ucraino è previsto il congelamento dei beni e il divieto di mettere fondi a sua disposizione da parte dei cittadini dell’Unione, oltre al divieto di viaggio che impedisce l’ingresso o il transito attraverso il territorio dei Paesi membri e dei partner allineati.

    Il Consiglio dell’Ue ha deciso di inserire Viktor e il figlio Oleksandr Janukovyč per il “ruolo svolto nel minare o minacciare l’integrità territoriale, sovranità e indipendenza” del Paese e per aver condotto “transazioni con i gruppi separatisti nella regione ucraina del Donbas”

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    Stop all’uranio russo, l’UE e il G7 aprono un nuovo fronte geopolitico

    Bruxelles – Parola d’ordine: “Ridurre ulteriormente la dipendenza dal nucleare civile e dai beni correlati provenienti dalla Russia”. Il G7 e gli Stati dell’UE che vi fanno parte sono decisi ad andare avanti con la strategia di isolamento e indebolimento economico della federazione russa, privandola degli introiti derivanti dall’uranio, dopo la cancellazione del business del carbone e del petrolio. Una decisione assunta in modo ufficiale, e dunque con chiare intenzione e volontà politica. Questa decisione, per quanto comprensibile e doverosa alla luce di un cambio di orientamenti derivati dalla guerra di aggressione in Ucraina, ha nella realtà un banco di prova non semplice e non scontato.
    C’è mezza Unione europea alimentata con reattori e centrali nucleari. Tredici dei 27 Stati membri si affidano ad elettricità prodotta da fusione dell’atomo. La Germania ha annunciato di abbandonare la produzione e uscire definitivamente dal nucleare, ma nel breve periodo non sembra semplice per l’Unione europea tenere federe a proclami, intenzioni e impegni solenni. Serve uranio per alimentare le centrali e produrre energia dai reattori, risorsa di cui il sottosuolo del Vecchio continente è povera. Bisogna affidarsi all’offerta straniera, e oltre i confini dell’UE uno dei grandi produttori e fornitori è proprio la Russia.
    La sola federazione russa risponde a un quinto del fabbisogno dei reattori a dodici stelle. Il 20 per cento delle forniture e degli approvvigionamenti della materia prima è garantito dal Paese oggi non più amico. Una quota di mercato che non appare difficile da rimpiazzare, considerando che nel mondo giacimenti non mancano e che i partner del G7 sono disposti a venire incontro alle esigenze dei partner occidentali. Ma nel grande gioco della alleanze, non va dimenticato come Russia, Kazakistan e Uzbekistan abbiano sempre marciato compatte e insieme. L’UE acquista uranio anche dalle altre due repubbliche dell’Asia centrale. Insieme, gli acquisti nei Paesi dell’ex Unione sovietica contano il 42 per cento di tutte le importazioni complessive.
    Se questi tre Paesi dovessero davvero confermarsi uniti e compatti le politiche in materia di affrancamento dall’uranio potrebbero essere riscritte, proprio a est. Nelle logiche tipiche delle amicizie e del reciproco spalleggiamento di fronte a potenze straniere ostili o avvertiti come tali, Kazakistan e Uzbekistan potrebbero decidere di non venire incontro alle rinnovate esigenze europee per non fare torto al partner russo.
    Va detto che né Kazakistan né Uzbekistan vedono di buon occhio l’aggressione dell’Ucraina, e non sembrano schierate con il presidente russo Putin in questa sua campagna militare. Quel che è certo è che l’annuncio del G7 mette in moto nuovi scenari geopolitici. I malumori in Asia centrale per le iniziative e le manovre del Cremlino potrebbero essere un’arma a favore degli europei, che devono fare attenzione a non indispettire ancora di più la Russia e i suoi centri di potere. Nella ridefinizione di confini, alleanze, sfere d’influenza, agli occhi di Putin l’UE e l’occidente si sono già spinti troppo oltre. Ma in questo rimescolamento di relazioni e fattori, la mossa dell’Occidente appare obbligata. Comprare uranio altrove appare una scelta obbligata, per un nuovo ordine mondiale.
    Da chi andare a rifornirsi diventa il vero interrogativo. Gli Stati Uniti non hanno interesse a ché la Cina, principale concorrente sullo scacchiere internazionale, si arricchisca. Chiedere uranio ai cinesi, dunque non è via percorribile. Gli europei dovranno andare a pescare in Africa, dove pure presenza e penetrazione economica di Cina e Sudafrica non sono irrilevanti, o America Latina, sponda brasiliana. Oppure comprare dai partner del G7, a prezzo da stabilire, e scordandosi ogni velleità di indipendenza strategica.

    E’ l’obiettivo dichiarato quello di “ridurre ulteriormente la dipendenza dal nucleare civile e dai beni correlati provenienti dalla Russia”. Ma l’UE, in questo nuovo corso, rischia rimetterci

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    I più colpiti possono continuare a comprare energia russa, la mossa del G7 che può favorire moratorie sul gas russo

    Bruxelles – La possibilità di “garantire che i paesi più vulnerabili e colpiti mantengano l’accesso ai mercati energetici, anche dalla Russia” adesso fa la sua comparsa nell’agenda politica del G7. Un’eventualità, quella a cui ragionano Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, tutta da valutare ma che potrebbe permettere di avanzare con le sanzioni nei confronti di Mosca per l’aggressione dell’Ucraina. Non è un controsenso, al contrario la mossa che consentirebbe di procedere verso  moratorie sul gas, ancora non toccato dalle sanzioni, E’ stato chiesto di ridurne i consumi, ma non di fermare gli acquisti. Ciò per evidenti difficoltà sia di approvvigionamenti sia per la forte dipendenza di alcuni Stati membri dell’Ue.
    L’Ungheria acquista da Gazprom il 95 per cento di tutto il gas che importa per permettere funzionamento industriale e vita domestica, la Slovacchia compra sempre dal gigante russo l’85 per cento di tutto il gas di cui ha bisogno, e la Bulgaria soddisfa il proprio fabbisogno per tre quarti (75,2 per cento) acquistano sullo stesso mercato. Anche la Repubblica ceca si affida completamente alla federazione russa per il gas. Se l’Unione europea dovesse ottenere il via libera in sede internazionale per poter continuare a fare acquisti, seppur limitati, nello spazio energetico russo trovare un’intesa sarebbe più semplice.
    I Ventisette hanno diversi sistemi energetici, diversi mix. Non tutti possono permettersi di rinunciare alla Russia allo stesso modo, alcuni molto meno di altri, come visto. La nota congiunta del G7 sulla guerra in Ucraina e le ripercussioni sul settore dell’energia se da una parte condanna sia le manovre militari sia l’utilizzo ricattatorio dell’energia, dall’altra sembra prendere atto della necessità di rivedere le strategie. Indebolire economicamente il Cremlino vuol dire anche ridurre gli introiti derivanti dalle commesse di gas. Nulla di certo, nulla di stabilito.
    “Rimaniamo impegnati a considerare una serie di approcci”, chiariscono i sette governi, incluso quello di sanzioni a geometrie variabili. “Prenderemo in considerazione anche i meccanismi di mitigazione insieme alle nostre misure restrittive per garantire che i paesi più vulnerabili e colpiti mantengano l’accesso ai mercati energetici, anche dalla Russia”.
    Se una porta forse si apre, un’altra invece si chiude. E’ quella del nucleare civile. Alimentare centrali, per chi le ha, vuol dire reperire uranio utile allo scopo. E’ la materia prima indispensabile per alimentare i reattori e produrre energia. Tra i principali produttori di urani c’è proprio la Russia. Qui il G7 è chiaro. Dopo carbone e petrolio, e in attesa di moratorie sul gas, è tempo di mettere un bando anche quest’altra risorsa naturale di cui la federazione russa è ricca. “Ridurremo ulteriormente la nostra dipendenza dal nucleare civile e dai beni correlati dalla Russia”, l’impegno del G7, deciso a lavorare “in solidarietà e in coordinamento” al fine di “stabilizzare i mercati e mitigare gli aumenti dei prezzi dell’energia”.

    Il gruppo dei grandi prende “in considerazione” questa misura di mitigazione, utile per chi dipende fortemente da Gazprom

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    Non solo Italia, anche la Bulgaria al voto anticipato

    Bruxelles – La crisi di governo in Bulgaria è giunta alla fine. Il presidente della Repubblica, Rumen Radev, ha preso atto che non era più possibile andare avanti. Il leader di Gerb, Boyko Borissov, non è riuscito a costruire consensi attorno a sé, e dunque niente nuova maggioranza. Radev ha mantenuto la promessa e ha sciolto il parlamento, per indire nuove elezioni, fissate per il 2 ottobre. Voto anticipato anche nel Paese dell’est, che si aggiunge a quello italiano, in programma il 25 settembre.
    Per gli affari correnti in carica un governo ad interim, guidato dall’ex ministro del Lavoro, Galab Donev, incaricato di traghettare il Paese fino al giorno del voto anticipato e lasciare spazio al nuovo esecutivo. La Bulgaria cerca dalle urne quella stabilità finora mancata. Quelle del 2 ottobre saranno le quarte elezioni in due anni, a riprova di un’opinione pubblica divisa e di una difficoltà sempre più manifesta di procedere con coalizioni
    La Bulgaria era uno di quegli otto Stati membri con maggioranza traballante, e uno dei più a  rischio crisi e voto anticipato, come mappato da Eunews nei giorni scorsi. Nel caso bulgaro la crisi non è rientrata, e si acutizzata ancora di più.
    Le nuove elezioni rischiano però di consegnare la Bulgaria a nuova instabilità politica. I sondaggi vedono un testa a testa tra il partito del primo ministro uscente, Kiril Petkov, e il partito Gerb dell’ex primo ministro Boyko Borissov, entrambi attorno al 22 per cento.

    Sciolto il Parlamento, cittadini al voto il 2 ottobre

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    Salpa da Odessa la prima nave carica di grano. L’UE: “Un primo passo benvenuto, ora attuare accordo”

    Bruxelles – “E’ il primo convoglio che lascia il porto, e questo è il primo passo benvenuto” verso il ritorno ad una situazione di maggiore normalità e azioni che riescano a scongiurare una crisi nella crisi, quella alimentare all’interno di quella ucraina. “Siamo molto contenti per la partenza di questa nave carica di grano, dopo mesi di blocco”. Sollievo, contentezza, e l’augurio di una pagina nuova nel conflitto russo-ucraino. Eric Mamer, capo del servizio dei portavoce della Commissione europea, saluta positivamente la partenza della nave Razoni, carica di grano, diretta in Libano via Turchia. E’ la prima nave mercantile che lascia il porto di Odessa da quando è scattata l’aggressione russa.
    Il motivo per iniziare a tirare un sospiro di sollievo c’è, così come quello per non illudersi. “Attendiamo con impazienza la piena attuazione dell’accordo e la ripresa delle esportazioni ucraine verso i clienti di tutto il mondo colpiti dalla crisi alimentare”, scandisce Peter Stano, il portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Josep Borrell. Si teme che questa intesa sulle materie prime alimentari possa non reggere, e si teme ancor più nello specifico che tutto questo possa saltare a causa della Russia.
    Il 22 luglio scorso Russia e Ucraina hanno raggiunto a Istabul l’intesa per la creazione di un corridoio marittimo volto alla ripresa delle esportazioni di grano, prodotti agricoli e fertilizzanti, per alleviare una crisi alimentare globale che ha visto i prezzi salire in alcuni dei Paesi più poveri del mondo a causa del blocco dei porti ucraini in seguito all’inizio del conflitto con la Russia. Un accordo siglato sotto l’egida delle Nazioni Unite e con la mediazione della Turchia. La prima nave è partita, altre dovrebbero salpare l’ancora a breve.

    The ship departing from Odesa today must be the first of many commercial ships bringing relief to global food markets & hope for the millions of people worldwide who depend on the smooth running of Ukraine’s ports to feed their families. pic.twitter.com/DO8mWxZ3k2
    — António Guterres (@antonioguterres) August 1, 2022

    Il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, guarda l’avvenimento con ottimismo, e auspica che “questa sia la prima di molte navi commerciali” a  mettersi in viaggio, nel rispetto dell’accordo. Un primo passo benvenuto, a cui dovranno seguirne altri. Queste uscite dal porto di Odessa occorrono a portare “stabilità necessaria e assistenza alla sicurezza alimentare globale, soprattutto nei contesti umanitari più fragili“. U

    La nave cargo Razoni ha lasciato l’Ucraina, destinazione Libano. Soddisfatto anche il segretario generale della Nazioni Unite. “Che sia la prima di molte navi commerciali a salpare”