More stories

  • in

    “Gaza parte essenziale del futuro stato palestinese”. L’Ue, alla fine, risponde a Trump

    Bruxelles – “Gaza è una parte essenziale di un futuro stato palestinese“. Alla fine la Commissione europea si esprime pubblicamente. E’ Anouar El Anouni, portavoce della Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, a chiarire la linea e rispondere alle provocazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, deciso a calpestare decenni di faticosi processi di una pace in Medio Oriente che l’Ue vuole. “L’Ue sostiene pienamente la soluzione dei due stati, che riteniamo sia l’unico modo per raggiungere una pace sostenibile sia per gli israeliani che per i palestinesi”, aggiunge il portavoce di Kaja Kallas.La risposta però è tardiva. La Commissione europea impiega qualcosa come 36 ore per commentare le uscite di Trump. Alle parole riecheggiate in Europa nella mattina di mercoledì, 5 febbraio, la prima replica ufficiale e pubblica è affidata a un portavoce poco dopo le 12 del giorno dopo, giovedì 6 febbraio. Una ‘calma’ che offre la riprova dell’incapacità ad agire sui grandi temi e tradendo una volta di più le aspirazioni geopolitiche morte e sepolte comunque da anni.Anouar El Anouni, portavoce dell’Alta rappresentante Ue [Bruxelles, 6 febbraio 2025]Nel frenetico attivismo delle alte sfere Ue, sempre pronte a commentare qualunque cosa e sempre smaniose di apparire, comparire e presenziare, sui mezzi d’informazione e ancor più sui social, si nota l’assenza di commenti da parte della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, come dell’Alta rappresentante Kaja Kallas, incapaci anche di esprimersi sulla volontà dichiarata di Trump di spostare la popolazione di Gaza.La questione è grossa. In Parlamento europeo non mancano malumori tra le file dei gruppi che hanno stretto alleanza con il Ppe. Si vede in von der Leyen e nella sua Commissione “assenza di leadership”. Così riferiscono fonti parlamentari. Prima della ‘questione Gaza’ si imputava all’esecutivo comunitario la mancata reazione all’imperversare di Elon Musk e le sue ingerenze nelle questioni dell’Unione europea tramite il suo social X. Adesso si aggiunge una reazione tardiva sulla questione arabo-israeliana, con la Commissione che, parole del portavoce El Anouni, “prende nota delle dichiarazioni del presidente Trump”. Non proprio una figura delle migliori per chi vorrebbe un ruolo di peso nel mondo e una politica estera europea.

  • in

    Difesa: Ue del tutto impreparata al coordinamento dello spostamento di Forze Armate

    Bruxelles – Secondo le conclusioni di una nuova relazione della Corte dei conti europea, le forze armate degli Stati membri dell’Ue non sono ancora in grado di spostarsi rapidamente a livello transfrontaliero. L’ultimo piano d’azione dell’Unione sulla mobilità militare “ha riscontrato progressi eterogenei a causa di carenze di progettazione, e l’attuazione è tuttora ostacolata”. L’obiettivo di spostare personale, equipaggiamento e attrezzature militari in modo rapido e scorrevole nell’Ue e al di fuori, “anche con breve preavviso e su larga scala, non è stato ancora raggiunto”.Con il ritorno della guerra ad alta intensità nel continente europeo, le priorità in termini di difesa sono cambiate e, pertanto, l’Unione intende prepararsi in modo efficiente a possibili aggressioni future. La politica in materia di mobilità militare si è evoluta dal primo piano d’azione, pubblicato nel 2018. Per la prima volta nella storia, il bilancio per il periodo 2021‑2027 ha riservato un importo dedicato a progetti di infrastrutture di trasporto civili e militari a duplice uso. Tuttavia, rilevano i magistrati contabili, “il punto di svolta è stato la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, che ha reso la necessità strategica dell’Ue di mobilità militare una questione da affrontare con urgenza”. Sotto pressione, è stato pubblicato il secondo piano d’azione nel novembre 2022.“La mobilità militare è fondamentale al fine di rendere la capacità di difesa dell’Ue credibile, e c’è chiaramente bisogno di accelerare il passo. Tuttavia, la mobilità militare non ha ancora raggiunto la velocità massima a causa di strozzature lungo il percorso” – ha affermato Marek Opioła, membro della Corte responsabile della relazione.L’organizzazione dei movimenti militari “potrebbe subire notevoli ritardi per vari motivi, come la burocrazia. Per esempio, lo spostamento di carri armati da un paese dell’Ue a un altro non è possibile se i mezzi superano il peso massimo consentito dalle normative sulla circolazione stradale. In circostanze normali, uno Stato membro dell’Ue necessita attualmente che le autorizzazioni dei movimenti transfrontalieri gli vengano notificate con 45 giorni di anticipo”.La Corte ha riscontrato che la Commissione europea non aveva condotto una valutazione dei bisogni approfondita nella progettazione del piano d’azione 2.0, e non ha quindi potuto effettuare una stima attendibile dei finanziamenti necessari per realizzare i suoi obiettivi. La dotazione totale per la mobilità militare per il periodo 2021‑2027, pari a 1,7 miliardi di euro, “è relativamente modesta, ma gli Stati membri lo hanno accolto come un passo nella giusta direzione. I fondi dell’Ue sono stati resi disponibili rapidamente, il che ha inviato un messaggio politico importante. Tuttavia, poiché la domanda superava di gran lunga l’offerta, la dotazione finanziaria disponibile è terminata a fine 2023”. Di conseguenza, vi sarà un intervallo significativo, di oltre quattro anni, prima che i fondi vengano nuovamente resi disponibili, “il che ostacola la stabilità e la prevedibilità dei finanziamenti”.I fondi devono essere ben mirati perché abbiano impatto, “ma – rileva la Corte – non sono stati presi in considerazione fattori geopolitici e militari nella selezione dei progetti infrastrutturali a duplice uso da finanziare. Inoltre, i progetti sono stati selezionati in modo frammentario, non sempre tenendo conto delle zone più strategiche né del quadro più ampio”. I progetti finanziati erano ubicati principalmente nell’Europa orientale, ma l’Ue non ha finanziato quasi nessun progetto sulla rotta meridionale verso l’Ucraina. Per di più, “l’Unione aveva già selezionato i progetti da finanziare ben prima che fossero stabilite le necessità più urgenti”.I dispositivi di governance per la mobilità militare sono complessi e frammentati, e non presentano alcun punto di contatto. “Ciò – sottolinea la Corte – rende difficile sapere con esattezza chi fa cosa”. Al fine di aiutare l’Ue a fare progressi, la Corte suggerisce di migliorare tali dispositivi e la focalizzazione dell’intervento dell’Ue, oltre a rendere i finanziamenti più prevedibili. Per alleviare le strozzature della mobilità militare, l’Unione può inoltre sfruttare le potenzialità dei fondi attualmente destinati al trasporto civile.

  • in

    Trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente”. Il piano shock che Trump ha esposto a Netanyahu

    Bruxelles – Donald Trump vuole mettere le mani su Gaza e trasformarla nella “Riviera del Medio Oriente”. In una conferenza stampa alla Casa Bianca con il primo ministro d’Israele, Benjamin Netanyahu (su cui pende un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale), il presidente degli Stati Uniti ha esposto un piano che ha tutti i contorni di una vera e propria pulizia etnica. Acclamato immediatamente dall’élite politica israeliana, respinto dai principali alleati di Washington e dai suoi più importanti rivali, Russia e Cina. Da Bruxelles invece, per ora, non trapela nulla.Sono ripresi da pochissimo i negoziati tra Israele e Hamas per limare i dettagli della seconda fase della tregua, che dovrebbe portare alla liberazione di tutti gli ostaggi israeliani e al ritiro completo dell’esercito di Tel Aviv dalla Striscia, ma già il presidente americano rimescola le carte. E l’idea – finora – piace soltanto a Israele. Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti “prenderanno il controllo” della Striscia di Gaza: “Ne saremo proprietari e saremo responsabili dello smantellamento di tutte le pericolose bombe inesplose e di altre armi presenti sul posto”, ha affermato ai cronisti, aggiungendo inoltre che Washington “spianerà” gli edifici distrutti e “creerà uno sviluppo economico che fornirà un numero illimitato di posti di lavoro e di alloggi per la popolazione dell’area”.Di quale popolazione parla Trump non è dato sapere, ma sicuramente non i gazawi: Trump ha affermato che i quasi 2 milioni di palestinesi di Gaza dovrebbero trasferirsi nei Paesi vicini con “cuori umanitari” e “grandi ricchezze”. Ma né la Giordania, né l’Egitto, né tanto meno le monarchie del Golfo hanno mai aperto all’accoglienza della popolazione palestinese di Gaza. Nello scioccante piano della Casa Bianca, da “simbolo di morte e distruzione” la Striscia di Gaza diventerebbe una “Riviera del Medio Oriente”, dove “la gente del mondo” potrebbe andare a vivere.Sfollati palestinesi nella spiaggia di Deir el-Balah, nel centro della Striscia di Gaza (Photo by AFP) Il tycoon newyorkese non ha escluso l’invio di truppe statunitensi per mettere in sicurezza l’enclave palestinese. “Per quanto riguarda Gaza, faremo ciò che è necessario. Se sarà necessario, lo faremo”, ha risposto ad un cronista. Trump ha inoltre annunciato che il prossimo mese prenderà una posizione sulla sovranità israeliana sulla Cisgiordania, aggiungendo che intende visitare la Striscia di Gaza, Israele e l’Arabia Saudita. Il supporto al trasferimento forzato degli abitanti dall’enclave palestinese e l’eventuale riconoscimento dei territori israeliani occupati nella West Bank costituirebbero un drastico cambiamento nell’approccio che Washington – seppur strettissimo alleato di Israele – ha tenuto per decenni. Quello del sostegno per la soluzione dei due Stati, secondo i confini tracciati dalla risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e con Gerusalemme Est capitale dello Stato di Palestina. Trump ha smentito in modo confuso: “Non significa nulla riguardo a due Stati o a uno Stato o a qualsiasi altro Stato. Significa che vogliamo dare alle persone una possibilità di vita, che non hanno mai avuto perché la Striscia di Gaza è stata un inferno per le persone che vi abitano”.Dalla Cina all’Egitto, il “sud del mondo” respinge il piano di TrumpPer quanto Trump abbia sostenuto che “tutti quelli con cui ho parlato amano l’idea che gli Stati Uniti possiedano quel pezzo di terra”, le reazioni alla proposta dell’uomo a capo dell’esercito più potente del mondo sembrano di tutt’altro tenore. A partire da Hamas, che l’ha definito “ridicolo”: il portavoce Sami Abu Zuhri ha dichiarato che “la nostra gente nella Striscia di Gaza non permetterà che questi piani vengano approvati”, ribadendo che “ciò che è richiesto è porre fine all’occupazione e all’aggressione contro la nostra gente, non espellerla dalla sua terra”.Il governo saudita, in una dichiarazione, ha minacciato che non ci sarà alcuna normalizzazione delle relazioni con Israele senza la creazione di uno Stato palestinese indipendente. L’Arabia saudita ha respinto “qualsiasi tentativo di sfollare i palestinesi dalla loro terra”. Il ministro degli Esteri egiziano, Badr Abdelatty, dopo aver discusso con il premier dell’Autorità palestinese, Mohamed Mostafa, ha sottolineato la necessità che “i palestinesi rimangano a Gaza, visto il loro fermo attaccamento alla loro patria e il rifiuto di abbandonarla”.Per la Turchia il piano è “inaccettabile”: il ministro degli Esteri di Ankara, Hakan Fidan, ha ricordato a Trump che “la guerra è iniziata proprio per questo motivo: la sottrazione di terra ai palestinesi” e assicurato che “non c’è nessuno spiraglio per una discussione su questo tema”. Contrari al trasferimento forzato dei palestinesi anche la Cina, che “ha sempre sostenuto che il dominio dei palestinesi sui palestinesi è il principio di base della governance post-bellica di Gaza”, e la Russia, secondo cui  “la soluzione in Medio Oriente può avvenire solo sulla base della presenza di due Stati”.L’Ue rimane in silenzio. Francia, Germania e Regno Unito: “Gaza è dei palestinesi”Se dalle istituzioni europee non trapela nulla, dalle capitali cominciano ad arrivare reazioni preoccupate. Il ministro degli Esteri del Regno Unito, David Lammy, ha dichiarato da Kiev che Londra rimane convinta che i palestinesi debbano “vivere e prosperare nelle loro terre d’origine a Gaza e in Cisgiordania”, mentre per Parigi l’avvenire di Gaza passa per “un futuro stato palestinese” e non dal controllo “di un paese terzo”. Il Quai d’Orsay, sede del ministero degli Esteri francese, ha ribadito “la sua contrarietà a qualsiasi trasferimento forzato della popolazione palestinese di Gaza, che rappresenterebbe una violazione grave del diritto internazionale, un attacco alle aspirazioni legittime dei palestinesi, ma anche un forte ostacolo alla soluzione a due stati e un fattore di destabilizzazione per i nostri partner vicini che sono l’Egitto e la Giordania, oltre che l’insieme della regione”.Perfino Annalena Baerbock, la ministra degli Esteri tedesca che qualche mese fa aveva dichiarato che la popolazione civile “perde il proprio status di protezione” quando è utilizzata come scudo umano, si è opposta con fermezza: “È chiaro che Gaza, come la Cisgiordania e Gerusalemme est, appartiene ai palestinesi. Esse costituiscono la base per un futuro stato palestinese”, ha affermato. Il vicepremier italiano, Antonio Tajani, ha sottolineato il no di Giordania ed Egitto che rendono “un po’ difficile” il piano di Trump. Ben più duro il capodelegazione del Partito Democratico al Parlamento europeo, Nicola Zingaretti, che ha definito la “folle proposta” di Trump “un insulto alla pace e ai diritti del popolo palestinese”.Dall’estrema destra all’opposizione, Israele con TrumpDa Netanyahu, agli esponenti dell’estrema destra sionista, al leader dell’opposizione israeliana Benny Gantz, Israele ha invece applaudito il piano di trasformazione della Striscia di Gaza suggerito da Trump. Un piano che “potrebbe cambiare la storia”, ha affermato il premier israeliano durante la conferenza stampa congiunta a Washington, definendo Trump “il più grande amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca” ed elogiandolo per aver “pensato fuori dagli schemi con idee nuove”. Netanyahu ha inoltre ringraziato l’amministrazione americana per aver interrotto i finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi (Unrwa).Il piano di Trump rinvigorisce i leader dell’estrema destra. Itamar Ben-Gvir, ex ministro per la Sicurezza nazionale che si è dimesso dopo la firma della tregua con Hamas, ha rivendicato la paternità del piano e affermato che questa “è l’unica soluzione al problema di Gaza”, mentre Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, ha promesso che farà di tutto per “seppellire definitivamente” l’idea di uno Stato palestinese. Il piano è piaciuto anche al leader del partito di opposizione israeliano Unita’ nazionale, Benny Gantz, che ha elogiato le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti definendole “creative, originali e interessanti”.

  • in

    Norvegia, Jens Stoltenberg è il nuovo ministro delle Finanze, per tentare di salvare i socialdemocratici

    Bruxelles – A volte ritornano. Stavolta, a tornare è stato Jens Stoltenberg, l’ex primo ministro norvegese che, dopo un decennio alla guida dell’Alleanza nordatlantica, è stato arruolato nuovamente nell’esecutivo di Oslo al dicastero delle Finanze.L’annuncio è arrivato ieri (4 febbraio). Il 65enne ha assunto l’incarico di ministro delle Finanze nel gabinetto del premier Jonas Gahr Støre, dal 2014 alla guida del Partito laburista (Ap) a seguito della nomina di Stoltenberg (che a sua volta lo presiedeva dal 2002) a Segretario generale della Nato. Stoltenberg si è dichiarato “profondamente onorato di essere stato chiamato ad aiutare il mio Paese in questa fase critica”.Gahr Støre aveva dato vita ad un governo di minoranza nell’ottobre 2021 in coalizione col Partito di centro (Sp), ma lo scorso 30 gennaio quest’ultimo si è chiamato fuori dall’esecutivo in disaccordo coi socialdemocratici relativamente alle regole del mercato energetico dell’Ue. Questo sviluppo ha “liberato” diverse caselle ministeriali, tra cui appunto quella delle Finanze, occupata dal leader dell’Sp Trygve Slagsvold Vedum.Stoltenberg è una figura di lungo corso della politica nazionale: membro dello Storting (il Parlamento monocamerale di Oslo) dal 1993 al 2017, è stato ministro (prima dell’Industria e dell’energia, dal 1993 al 1996, poi delle Finanze, tra il 1996 e il 1997 e nuovamente ora) e ministro di Stato (come si chiama il premier norvegese) due volte (dal 2000 al 2001 e quindi tra il 2005 e il 2013).An honour to be appointed as Minister of Finance of Norway in PM @jonasgahrstore government. We face geopolitical challenges & a more uncertain world. Economic stability & prosperity will be my focus.It’s a privilege to serve my country, and I am ready to play my part. pic.twitter.com/UhGidpC2hT— Jens Stoltenberg (@jensstoltenberg) February 4, 2025Nell’ottobre 2014, qualche mese dopo l’annessione unilaterale della Crimea (e il sostegno ai separatisti del Donbass) da parte della Russia di Vladimir Putin, ha iniziato il suo mandato da Segretario generale della Nato – che all’epoca contava 28 Stati membri – per venire successivamente riconfermato quattro volte, stante la necessità di mantenere la continuità alla guida dell’Alleanza di fronte all’invasione su larga scala dell’Ucraina lanciata da Mosca nel febbraio 2022.In tale capacità, si è guadagnato il soprannome di “sussurratore di Trump” per aver apparentemente convinto il presidente statunitense a non ritirare Washington dalla Nato nel corso del suo primo mandato. Lo scorso ottobre ha lasciato il testimone di Segretario generale all’ex primo ministro olandese Mark Rutte.La Norvegia ha in programma delle elezioni legislative per il prossimo settembre, e il Partito laburista è dato in calo di oltre 7 punti (appena sotto il 19 per cento) dai sondaggi, mentre si troverebbero per ora in testa il Partito del progresso (FrP), di destra (quasi al 24 per cento), tallonato dal partito conservatore Høyre al 22,4 per cento.La chiamata di Stoltenberg da parte di Gahr Støre risponde dunque, oltre alla necessità di rimpolpare il gabinetto con figure di alto profilo, anche a quella di rinvigorire la campagna elettorale dell’Ap in vista di un appuntamento con le urne che si annuncia particolarmente difficile, anche considerato il rischio che Oslo diventi bersaglio dei dazi commerciali di Washington e, potenzialmente, anche di Bruxelles.

  • in

    Von der Leyen agli ambasciatori Ue: “Abbiamo un nostro ruolo, costruiamo la politica estera europea”

    Bruxelles – “La necessità è di costruire una politica estera europea“, che sia “mirata” e che tenga fermo il principio per cui si negozia quando si può e quando si deve, ma non a tutti a costi. Tradotto: “Se ci sono vantaggi reciproci in vista, siamo pronti a impegnarci con te”. Altrimenti niente. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, sprona gli ambasciatori Ue nel mondo ad una nuova diplomazia, che sia pragmatica e sappia rispondere al mondo di oggi. “Gran parte del mondo vede l’Europa come più forte di come la vediamo noi stessi, e l’Europa – insiste von der Leyen – ha molta più influenza in questo mondo di quanto a volte potremmo pensare“. Uno strumento da usare, anche nel confronto con gli amici di sempre.La presidente dell’esecutivo comunitario è brava a non fare nomi, a dire quello che deve in modo da non esporsi ma comunque affondare il colpo. Von der Leyen non chiama mai in causa Donald Trump, ma quello che lei dice ben si presta ad essere lette come riferimento al presidente degli Stati Uniti. E’ vero quando avverte gli ambasciatori che “ci sarà un uso crescente e una maggiore minaccia di strumenti di coercizione economica, quali sanzioni, controlli sulle esportazioni e dazi“. Un chiaro riferimento a Trump e il suo ‘bullismo commerciale’, contro cui von der Leyen ribadisce fermezza: “Ci prepariamo ad ogni scenario”, dice. Vuol dire anche eventualmente una guerra dai dazi Ue-Usa.Bandiere dell’Unione europea e degli Stati Uniti [foto: imagoeconomica]Non va per il sottile von der Leyen, in fin dei conti sono altri gli ambasciatori, e a loro invita a “cambiare il nostro modo di agire”. Un invito a essere pronti a “impegnarsi in difficili trattative, anche con partner di lunga data” – altro riferimento agli Stati Uniti – e un invito allo stesso ad accettare di “dover lavorare con paesi che non hanno idee simili ma condividono alcuni dei nostri interessi”. Perché, insiste la presidente della Commissione Ue, “il principio di base della diplomazia in questo nuovo mondo è di tenere gli occhi puntati sull’obiettivo”. Ciò significa real-politik, “trovare un terreno comune con i partner per il nostro reciproco beneficio, e accettare che a volte dovremo accettare di non essere d’accordo”.Si tratta di “un nuovo approccio che riguarda la garanzia della futura sicurezza e prosperità dell’Europa”, insiste von der Leyen, e che riguarda anche le relazioni con Repubblica popolare cinese. “La Cina è uno dei paesi più intricati e importanti al mondo. E il modo in cui la gestiremo sarà un fattore determinante per la nostra futura prosperità economica e sicurezza nazionale”.

  • in

    Niente crescita e meno commercio, per Londra la Brexit cinque anni dopo è un ‘flop’

    Bruxelles – Meglio soli che male accompagnati. Il noto detto devono conoscerlo anche oltre Manica, dove si è deciso di dire addio all’Unione europea per un futuro più radioso che però non c’è. Ecco che il noto detto mostra i suoi limiti, riassunti nei numeri certificati anche dall’Ufficio per la responsabilità di bilancio, l’ente pubblico finanziato dal Tesoro britannico. Meno crescita, meno produttività, meno commercio: ecco il Regno Unito post-Brexit, a cinque anni dalla ‘nuova indipendenza’.L’analisi dell’Ufficio governativo, certifica che essere usciti dal mercato unico non è stato un vantaggio. Al contrario, “sia le esportazioni che le importazioni saranno inferiori di circa il 15 percento nel lungo periodo rispetto a quanto sarebbe stato se il Regno Unito fosse rimasto nell’Ue“. Questo per via di costi alle dogane in termini di nuovi dazi e tempi lunghi per i nuovi controlli delle merci scattati quale effetto della Brexit. Inoltre, la libertà di decidere da sé come fare libero scambio si riflette nell’incapacità di essere davvero innovativiDavid Cameron, primo ministro del Regno Unito dall’11 maggio 2010 al 13 luglio 2016. Fu lui a volere il referendum sulla Brexit, e si dimise a seguito dell’esito del voto [foto: imagoeconomica] “I nuovi accordi commerciali con Paesi non Ue non avranno un impatto materiale e qualsiasi effetto sarà graduale”, sottolinea ancora l’Ufficio britannico. “Questo perché gli accordi conclusi fino a oggi replicano (o ‘rinnovano’) accordi di cui il Regno Unito ha già beneficiato come stato membro dell’Ue”. Inoltre, il nuovo accordo di commercio e cooperazione (Tca) Ue-Regno Unito entrato in vigore l’1 maggio 2021 “ridurrà la produttività a lungo termine del 4 percento rispetto alla permanenza nell’Ue”.Dove il Regno Unito ci guadagna dalla Brexit è sull’immigrazione. Si stima che il nuovo regime del governo possa ridurre la migrazione netta in entrata. Sempre che questo sia un vantaggio per il sistema economico e produttivo britannico. Il National Institute of Economic and Social Research di Londra rileva come a seguito della Brexit la carenza di manodopera ha messo “a dura prova l’economia” del Regno Unito. Se prima del recesso dall’Ue le imprese potevano facilmente soddisfare le loro esigenze di lavoro attraverso il mercato del lavoro integrato dell’Ue, a seguito della Brexit settori critici come agricoltura, assistenza sanitaria e ristorazione hanno incontrato carenze di manodopera, con conseguente aumento dei costi operativi e limitazioni di produzione.

  • in

    Serbia, le proteste segneranno “la fine del regime” di Aleksandar Vučić. Intervista a Srđan Cvijić

    Bruxelles – Come nelle tessere del domino, in Serbia il crollo fatale di una pensilina alla stazione ferroviaria di Novi Sad ha innescato il più grande movimento di protesta dai tempi della caduta del regime di Slobodan Milošević. Venticinque anni dopo, un altro regime rischia di sbriciolarsi di fronte alle manifestazioni che si susseguono da ormai tre mesi, quello “violento e brutale” del Partito progressista serbo (Sns) e del suo leader, il presidente Aleksandar Vučić. “In un modo o nell’altro, questa è la fine del regime di Vučić”, ha predetto in un’intervista a Eunews Srđan Cvijić, analista politico e presidente dell’International Advisory Committee of the Belgrade Centre for Security Policy.Pochi giorni fa, nel tentativo di placare le proteste studentesche, si è dimesso il primo ministro Miloš Vučević, al centro della bufera perché sindaco di Novi Sad ai tempi della ristrutturazione della stazione ferroviaria. “Un non evento”, secondo Cvijić, perché Vučević altro non era che un burattino del presidente, che nei dodici anni al potere “ha concentrato progressivamente tutto il potere su di sé”. Per questo – spiega da Belgrado Cvijić – “non ha sortito alcun effetto sulle manifestazioni“: gli studenti non si sono fermati, e non si fermeranno.Srđan Cvijić, presidente dell’International Advisory Committee of the Belgrade Centre for Security PolicyLa morte di 15 persone – più due feriti gravi – nell’incidente del 15 novembre scorso a Novi Sad ha scoperchiato il vaso di pandora sulla corruzione dilagante nel Paese balcanico, rovesciando per strada migliaia di persone al grido di ‘Corruption kills’. L’avanguardia della mobilitazione sono le Università: gli studenti hanno insediato nelle facoltà dei plenum, organi “dal basso” incaricati di prendere le decisioni e coordinati tra loro a livello nazionale. Senza colori politici e senza leader riconoscibili. “Gli studenti sono estremamente cauti a non avere niente a che fare con la politica, non c’è nessun contatto nemmeno con l’opposizione“, racconta ancora Cvijić, che ha potuto partecipare in prima persona – in quanto membro della società civile – ad alcuni di questi plenum.Nelle piazze di Belgrado e delle principali città serbe, a differenza di quanto succede in Georgia, non si vedono nemmeno bandiere dell’Unione europea. Eppure entrambi sono paesi candidati all’adesione all’Ue, e – a Belgrado come a Tbilisi – nelle mobilitazioni entrano in gioco anche le posizioni marcatamente filo-russe dei propri governi. Ma “qui l’Unione europea è percepita come un alleato di Vučić“, ammette Cvijić, che è stato anche analista politico senior per le relazioni esterne dell’Ue. “A causa di tutta una serie di rapporti economici. È comprensibile, l’Ue non vuole isolare la Serbia, ma ha creato questa percezione”, spiega ancora, mettendo in chiaro che “non vuol dire che popolazione è anti-europea, ma che è delusa dall’Unione europea”.A livello nazionale invece, secondo il politologo serbo l’elusione delle etichette politiche non è soltanto una “decisione pragmatica” per evitare di esporsi alla “macchina del fango incredibilmente feroce” dell’apparato governativo, ma il frutto di anni di “antipolitica di Vučić”, che ha fatto sì che la popolazione “percepisce con sospetto qualsiasi attore politico”. È proprio la mancanza del legame con la politica la chiave del successo travolgente delle proteste: “Gli studenti hanno canalizzato la rivolta di una popolazione intera“, la “frustrazione di dodici anni di questo regime violento e brutale”, e “il livello di solidarietà è incredibile”, conferma Cvijić.Addirittura, dopo una prima fase di arresti coatti durante i cortei di novembre, ultimamente – come durante il blocco stradale messo in atto lo scorso 27 gennaio da studenti e agricoltori su due importanti arterie verso il centro di Belgrado – la polizia stessa non ha voluto intervenire contro i manifestanti. Il partito nazionalista di Vučić si fa vendetta da solo: i responsabili delle violenze commesse sui manifestanti – sarebbero una ventina le persone attaccate in questi mesi – si sono spesso dimostrati affiliati all’Sns, come nel caso dell’agguato, sempre il 27 gennaio, subito a Novi Sad da un gruppo di studenti, colpevoli di aver imbrattato con graffiti e adesivi anti-governativi un ufficio del Partito progressista serbo, e nel quale è rimasta gravemente ferita una donna.Il presidente serbo, Aleksandar Vučić, e di spalle l’ex premier Miloš Vučević (credits: Oliver Bunic / Afp)“Anche quando il coinvolgimento non è diretto, le violenze sono il risultato dell’istigazione e della propaganda” del regime, accusa Cvijić. Un regime “che assomiglia più a un’organizzazione mafiosa piuttosto che a un governo“. A questo punto, Vučić sembra essere scivolato in uno stretto pozzo, e qualsiasi tentativo di dimenarsi e risalire la china non fa altro che ricacciarlo più in giù. Come le accuse esplicite contro l’ingerenza nelle proteste di “agenti stranieri, provenienti da diversi Paesi occidentali”, che rischiano di alienargli definitivamente il già scarso supporto di cui gode nel resto d’Europa. Come l’apertura ad un rimpasto del governo e le dimissioni del premier: “Ora il regime è in difficoltà, perché se nominerà semplicemente un altro primo ministro come Vučević farà infuriare la gente – spiega Cvijić -, ma nemmeno le elezioni sono un’opzione perché i partiti di opposizione hanno già dichiarato che non parteciperebbero”.L’unica opzione – indica l’analista – è “nominare un governo tecnico di transizione, con due scopi: liberare i media controllati dal governo e creare condizioni per elezioni libere”. A quel punto, sarà fondamentale scoprire se il movimento studentesco si sfilaccerà o se appoggerà uno dei candidati. Per ora, questa questione non si pone perché, più che politica, in Serbia è in atto “una vera rivoluzione morale e emotiva”. E questo, “in un modo o nell’altro, è la fine del regime di Vučić”.

  • in

    Il congelamento degli aiuti Usa mette in ginocchio le organizzazioni umanitarie, soprattutto in Ucraina

    Bruxelles – “Il governo statunitense non è un ente benefico“. Sta tutta in queste parole, pronunciate ieri (30 gennaio) dal nuovo Segretario di Stato Marco Rubio, la direzione che la nuova amministrazione a stelle e strisce intende seguire già dal suo avvio. Tra i primi ordini esecutivi firmati da Donald Trump il giorno del suo insediamento, lo scorso 20 gennaio, c’era il congelamento per 90 giorni dei generosi aiuti allo sviluppo che Washington elargiva in giro per il mondo.Questa decisione, come prevedibile, sta mettendo in seria difficoltà moltissime organizzazioni umanitarie internazionali, che ora non saranno più in grado di operare sul campo. E i problemi maggiori si stanno già riscontrando in Ucraina, che da sola era beneficiaria di quasi metà dei fondi federali bloccati.Fondi congelatiStando ai dati compilati dal governo statunitense, nel 2023 l’Agenzia federale per lo sviluppo internazionale (Usaid) ha destinato oltre 36,5 miliardi di dollari a progetti umanitari nel mondo, di cui quasi 16,5 miliardi a Kiev. Ma, dallo scorso 24 gennaio, la quasi totalità di quei fondi è stata bloccata per un periodo iniziale di 90 giorni, cui dovrebbe seguire una revisione per valutare se continuare su questa strada o rimodulare la sospensione.In estrema sintesi, l’ordine di sospensione impone – oltre allo stop ai lavori sul campo finanziati con le risorse dell’Usaid e la proibizione di avviare nuovi progetti – anche il divieto di utilizzare i fondi già stanziati per qualunque tipo di spesa, incluso il pagamento degli stipendi del personale per tre mesi.“Stiamo eliminando gli sprechi“, si legge in un comunicato del Dipartimento di Stato pubblicato per fornire ulteriori dettagli sulla storica decisione della Casa Bianca. “Stiamo bloccando i programmi ‘woke’ e stiamo smascherando le attività contrarie ai nostri interessi nazionali“, aggiunge la nota.The U.S. contributes roughly 40% of global humanitarian aid. Americans deserve transparency and accountability. As we pause and review U.S. foreign aid, @SecRubio issued a waiver for life-saving humanitarian assistance programs. https://t.co/Kwr6Bi8MES— Department of State (@StateDept) January 29, 2025Bancarotta forzata?“Se devo essere sincero, è un maledetto disastro per l’intero settore“, confessa preoccupato a Eunews un membro dello staff di un’organizzazione attiva nella tutela dei diritti umani, che ha condiviso le sue riflessioni in condizione di anonimato poiché l’ordine esecutivo proibisce agli operatori umanitari di diffondere dettagli in materia. “Mi aspetto che entro la fine del periodo di revisione molte organizzazioni che svolgono un lavoro importante in tutto il mondo saranno in bancarotta“, spiega, aggiungendo che “questo è probabilmente, almeno in parte, intenzionale da parte di Trump” per evitare di dover continuare a sostenere programmi non più in linea con le priorità della Casa Bianca.“Ci hanno legato le mani dietro la schiena“, prosegue, illustrando la situazione: “Al momento abbiamo circa mezzo milione di dollari nel nostro conto, ma il 90 per cento non lo possiamo spendere perché proviene dal governo statunitense“, il quale evidentemente “si aspetta che noi restiamo a galla in questo modo per tre mesi, mentre loro spuntano qualche casella”. Il team della sua organizzazione attivo in Ucraina, invece, è finanziato interamente da Washington.“Per le organizzazioni più piccole che ricevevano tutti i loro finanziamenti dal governo Usa potrebbe essere più realistico riuscire a ottenere delle sovvenzioni di emergenza altrove”, ragiona, mentre la sua si troverà con ogni probabilità in difficoltà più grosse. “Anche se sospendiamo tutte le nostre attività” come richiesto dall’ordine presidenziale, “avremo bisogno di circa 450mila dollari solo per pagare il personale in questo trimestre, e non credo che nessun donatore sia disposto a concedere una simile somma ad una singola organizzazione“, dice, visto che un numero altissimo di entità stanno già richiedendo con urgenza sostegno finanziario.La situazione in UcrainaQuesta settimana, Rubio ha introdotto ulteriori esenzioni dal congelamento per i programmi umanitari che forniscono medicine salvavita, servizi medici, cibo, ripari e assistenza di sussistenza, che si vanno ad aggiungere alle deroghe inizialmente previste unicamente per i programmi alimentari di emergenza e gli aiuti militari ad Israele ed Egitto (che nel 2023 hanno ricevuto 3,3 e 1,2 miliardi rispettivamente).Il Dipartimento di Stato e il Pentagono hanno assicurato che continuerà anche l’aiuto militare all’Ucraina, così come il sostegno ai programmi “salva vita”. Ma questo lascia ancora col fiato sospeso – e in preda alla confusione – non solo i programmi civili indispensabili allo sforzo bellico di Kiev (incluso il sostegno agli stipendi pubblici che mantengono in funzione la macchina statale ucraina) ma anche l’affollata galassia di organizzazioni umanitarie attive nell’ex repubblica sovietica, dove tra meno di un mese si celebrerà il terzo anno dall’inizio dell’invasione russa su larga scala.Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (foto via Imagoeconomica)“Il problema sta nella natura improvvisa della decisione“, ha spiegato a Euractiv Ivona Kostyna, direttrice di un’ong che si occupa di assistere i veterani ucraini. “Se avessimo avuto un preavviso, avremmo potuto ristrutturare le nostre attività, cercare altri donatori ed evitare danni ai nostri clienti”, ha osservato, spiegando di aver dovuto chiudere uno dei centri di lavoro.Come la sua, sono numerose le organizzazioni che, nonostante svolgano attività che di fatto salvano vite umane, sono comunque rimaste fuori dalle deroghe. Molte di queste sono costrette a licenziare personale, altre a chiudere definitivamente. C’è chi, a poche decine di chilometri dalla linea del fronte, fornisce servizi essenziali come aggiornamenti costanti sulla dislocazione delle mine antiuomo, oppure sui siti dove poter recuperare acqua non contaminata, o ancora i giubbotti antiproiettile per i giornalisti che seguono l’evoluzione della guerra, e non potrà più contare sulle sovvenzioni di Washington.Come prevedibile, dal Paese aggredito si stanno moltiplicando gli appelli di un numero crescente di organizzazione ai loro partner europei, affinché entrino in azione per compensare, almeno parzialmente, la voragine che il ritiro degli Stati Uniti ha aperto nei loro bilanci, che si traduce inevitabilmente nell’incapacità di proseguire le proprie attività in un momento in cui non è certo cessata l’urgenza.