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    Metsola apre la plenaria del Parlamento Europeo chiedendo la liberazione degli ostaggi europei in Iran

    Bruxelles – Dopo l’esecuzione capitale di Habib Chaab, cittadino iraniano-svedese accusato dal regime teocratico di corruzione e di aver condotto azioni terroristiche, la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, lancia l’ennesimo appello a Teheran: la liberazione “immediata e senza condizioni” di tutti gli ostaggi europei dalle carceri iraniane.
    Manifestazione per la liberazione di Ahmad Reza Jalali a Stoccolma (Photo by Anders Wiklund / Tt News Agency / AFP) / Sweden Out)
    Tra le decine di detenuti con cittadinanza europea nel Paese, la leader Ue ha menzionato il caso di Ahmad Reza Jalali, medico e ricercatore iraniano naturalizzato svedese che si trova in carcere dall’aprile del 2016. Dopo un anno di ingiustificata detenzione, nell’ottobre del 2017 Jalali è stato condannato a morte con l’accusa di spionaggio per conto di Israele.
    Ma non è l’unico caso della vergognosa diplomazia degli ostaggi messa in pratica da Teheran, che cerca in questo modo di esercitare pressioni sui governi occidentali e di raggiungere concessioni politiche in cambio della liberazione dei connazionali. Olivier Vandecasteele, operatore umanitario belga arrestato nel febbraio 2022 e condannato a 40 anni di carcere per spionaggio contro la Repubblica islamica, Benjamin Briére, viaggiatore e blogger francese detenuto da oltre due anni e in sciopero della fame dallo scorso 28 gennaio, Jamshid Sharmhad, giornalista iraniano naturalizzato tedesco, contro cui è stata emessa una condanna a morte lo scorso 26 aprile. E altri ancora.
    Davanti all’Eurocamera riunita per la sessione plenaria a Strasburgo, Metsola ha lanciato un messaggio alla Repubblica Islamica, che ha nuovamente risposto alle sanzioni europee aggiungendo altri membri del Parlamento Europeo alla propria lista di individui soggetti a misure restrittive. “Nessuna minaccia, intimidazione o sanzione potrà zittire quest’Aula”, ha avvertito la presidente, convinta che le sanzioni imposte da Teheran non faranno altro che “rafforzare la nostra determinazione nel supportare le donne e la libertà in Iran”.

    La presidente dell’Eurocamera ha commentato le sanzioni imposte da Teheran a diversi europarlamentari: “Nessuna minaccia, intimidazione o sanzione potrà zittire quest’Aula”. Si cerca di evitare la condanna a morte del ricercatore iraniano-svedese Ahmad Reza Jalali

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    Ue contro Israele sulla demolizione di una scuola palestinese. Cancellato il ricevimento per la Giornata dell’Europa

    Bruxelles – Un’altra scuola palestinese finanziata dall’Ue demolita dalle forze di difesa di Israele. Un’altra condanna di Bruxelles a Tel Aviv e alla sua aggressività nei territori occupati. Con la distruzione dell’istituto nel villaggio di Jubbet Adh Dhib, che si trova a pochi chilometri da Betlemme in Cisgiordania, sono già 301 le strutture palestinesi demolite dalle autorità israeliane dall’inizio del 2023.
    La scuola di Jubbet Adh Dhib prima della demolizione
    Un trend “preoccupante” che ricalca quello dello scorso anno, nel quale secondo i dati dell’ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha) sono state demolite o sequestrate 954 strutture in tutta la Cisgiordania, il numero più alto registrato dal 2016, provocando 1032 sfollati palestinesi. Nell’episodio di domenica mattina (7 maggio), la demolizione della scuola di Jubbet Adh Dhib impedirà agli 81 studenti dell’istituto di proseguire il proprio percorso di istruzione. “L’Ue ricorda che le demolizioni sono illegali ai sensi del diritto internazionale e che il diritto dei bambini all’istruzione deve essere rispettato”, ha dichiarato il portavoce del Servizio Europeo di Azione Esterna (Seae), Peter Stano.
    In gioco non c’è solamente il diritto all’istruzione dei bambini palestinesi, ma anche i rapporti tra Bruxelles e il partner israeliano. Delle oltre 9 mila strutture demolite dal 2009 a oggi, ben 1647 erano finanziate da donatori esterni: lo scorso anno, Tel Aviv ha demolito 101 costruzioni finanziate dall’Unione Europea o dai suoi Stati membri, per un valore di circa 337 mila euro. Come sottolineato da un rapporto pubblicato il 27 marzo dall’Ufficio della Rappresentanza dell’Ue all’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi), la maggior parte delle strutture sono state prese di mira per mancanza di permessi di costruzione, che tuttavia per i palestinesi sono quasi impossibili da ottenere.
    Dal Seae dunque l’invito a Israele a “fermare tutte le demolizioni e gli sgomberi, che non faranno che aumentare le sofferenze della popolazione palestinese e rischiano di infiammare le tensioni sul terreno”. Un appello che arriva pochi giorni dopo la visita a Bruxelles del ministro degli Esteri di Tel Aviv, Eli Cohen, a cui il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, aveva espresso la propria preoccupazione per la situazione incandescente nei territori palestinesi occupati.
    Lo strappo tra Ue e Israele sulla Giornata dell’Europa
    Il ministro per la Sicurezza Nazionale di Israele, Itamar Ben-Gvir (Photo by GIL COHEN-MAGEN / AFP)
    Se il governo ultra conservatore guidato da Benjamin Netanyahu rimane sordo alle condanne europee, Bruxelles ha preso oggi una decisione più incisiva e destinata a creare attriti con il partner mediorientale. La delegazione Ue in Israele ha cancellato il ricevimento diplomatico previsto per domani a Tel Aviv, in occasione della Giornata dell’Europa, per non “offrire un palcoscenico a chi ha punti di vista che contraddicono i valori dell’Unione Europea”. Si tratta in particolare del ministro per la Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, leader del partito religioso di estrema destra, incaricato dall’esecutivo Netanyahu di pronunciare un discorso durante l’evento.
    Ben-Gvir si è reso più volte protagonista di dichiarazioni di sfida verso gli alleati europei e statunitensi, per esempio quando, in risposta a un comunicato congiunto di Stati Uniti, Francia, Germania, Italia e Regno Unito in cui si esprimeva forte preoccupazione per l’espansione delle colonie in territorio palestinese, il ministro aveva risposto “ne vogliamo ancora di più, il territorio di Israele appartiene al popolo di Israele”.
    Come raccontato dal portavoce Stano, l’Ue aveva inoltrato l’invito all’evento alle autorità israeliane, che hanno confermato la presenza del ministro. A quel punto, si sono tenute in mattinata alcune consultazioni interne che hanno portato alla radicale decisione di sospendere il ricevimento, perché “il pensiero di Ben-Gvir e del suo partito è in netta contraddizione con tutti i principi e valori per cui combatte l’Ue“. Su Twitter, la delegazione Ue fa tuttavia sapere che si terrà un evento culturale aperto ai cittadini israeliani, “per celebrare con i nostri amici e partner in Israele la forte e costruttiva relazione bilaterale”.

    Nel 2022 le forze di difesa israeliane hanno distrutto “in modo illegale” 101 strutture finanziate da Bruxelles nei territori palestinesi occupati. La delegazione Ue nel Paese sospende il ricevimento diplomatico a causa della presenza del ministro di estrema destra Ben-Gvir

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    Von der Leyen sarà in visita in Ucraina per la Giornata dell’Europa. A Kiev nuovo incontro con il presidente Zelensky

    Bruxelles – La Giornata dell’Europa, in Ucraina. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha deciso di trascorrere il 9 maggio – il giorno che celebra la pace e l’unità in Europa – a Kiev, nella capitale del Paese assediato da un anno dall’esercito russo, portando al presidente Volodymyr Zelensky l’ennesimo segno di “sostegno incondizionato” dell’Unione all’Ucraina.
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky (15 settembre 2022)
    A renderlo noto sono stati i portavoce della Commissione Europea, sia su Twitter sia nel corso del punto quotidiano con la stampa, confermando i sospetti dei giornalisti (il nome della presidente von der Leyen non era presente nella lista dei membri dell’esecutivo Ue che parteciperanno ai dibattiti alla sessione plenaria dell’Eurocamera a Strasburgo e non è prevista per domani la consueta riunione del Collegio dei commissari). Il portavoce-capo della Commissione, Eric Mamer, non ha fornito molti dettagli sulla riunione, ma ha specificato che von der Leyen e Zelensky si concentreranno su “tutte le dimensioni della nostra relazione reciproca, compreso l’allargamento dell’Unione all’Ucraina e altre questioni“.
    I viaggi di von der Leyen a Kiev
    La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky (8 aprile 2022)
    Quello di von der Leyen a Kiev domani sarà il quinto viaggio nella capitale ucraina in poco più di un anno dallo scoppio della guerra. La prima visita congiunta con l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, è datata 8 aprile 2022, quando la numero uno dell’esecutivo comunitario aveva prima visitato i luoghi dei massacri russi sui civili ucraini a Bucha e poi aveva consegnato nelle mani del presidente Zelensky il questionario per l’adesione del Paese all’Ue. Il ritorno a Kiev aveva avuto luogo due mesi più tardi, con un nuovo round di colloqui con il leader ucraino sul supporto Ue e sull’allargamento dell’Unione l’11 giugno. La terza visita del 15 settembre è stata invece quella del trionfo diplomatico per la presidente von der Leyen, quella dell’incisione del suo nome nella ‘Walk of the Brave’, la strada dei valorosi che hanno combattuto contro la Russia.
    Dopo i tre viaggi del 2022, il nuovo anno si è aperto con la visita ‘doppia’ a Kiev. Il 2 febbraio von der Leyen si è messa alla testa di 15 commissari del suo gabinetto per un incontro con le rispettive controparti del governo guidato da Denys Shmyhal. Il giorno successivo è seguito il 24esimo vertice Ue-Ucraina alla presenza di Zelensky e del presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, il primo svoltosi dall’inizio della guerra.

    I portavoce della Commissione Ue hanno annunciato che in occasione del 9 maggio la leader dell’esecutivo comunitario porterà nella capitale del Paese invaso da oltre un anno un nuovo segno di “supporto incondizionato”. Sul tavolo anche il processo di adesione all’Unione

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    Elezioni amministrative nel Regno Unito, laburisti e liberaldemocratici conquistano terreno sui Tories di Rishi Sunak

    Bruxelles – Primo e ultimo banco di prova elettorale nel Regno Unito per il primo ministro, il conservatore Rishi Sunak, in vista delle elezioni politiche che dovrebbero tenersi nell’autunno del 2024. È in corso lo spoglio dei voti per gli oltre 8 mila seggi in palio in 230 autorità locali per le elezioni amministrative in Inghilterra: l’esito finale non arriverà che in serata, ma dalle urne sta iniziando a profilarsi una netta vittoria di laburisti e liberal democratici, che avrebbero già conquistato alcuni consigli comunali chiave ai danni dei tories di Sunak.
    Secondo i dati pubblicati dalla Bbc, i Laburisti hanno ottenuto la maggioranza a Plymouth, Medway e Stoke-on-Trent, mentre i Lib dems hanno strappato ai Tories due roccaforti come Windsor e Maidenhead. Il partito di governo ha perso finora il controllo di 11 consigli comunali. Di particolare importanza la scelta dei primi cittadini in città come Bedford, Leicester, Mansfield e Middlesbrough: in quest’ultima ha vinto il laburista Chris Cooke, mentre nelle altre, in mano a progressisti e liberal democratici, ancora si attendono i risultati ufficiali.
    Risultati che, in caso di ulteriori guadagni di terreno da parte della sinistra e dell’area liberale, sconfesserebbero il cambiamento introdotto alle urne dal partito conservatore con la speranza di togliere voti agli avversari: per la prima volta infatti, per votare è obbligatorio presentare un documento d’identità con una foto. A farne le spese rischiano di essere migliaia di elettori, soprattutto giovani e minoranze etniche, disoccupati e disabili gravi, che tendono a votare laburista e che potrebbero incontrare ostacoli nella registrazione per il voto.
    Il primo ministro si è detto “deluso” della perdita di diversi consiglieri comunali,  ma a caldo ha aggiunto di non rilevare “alcuna massiccia ondata di movimento verso il partito laburista o entusiasmo per la loro agenda”. Il leader della sinistra Keir Starmer, anche lui al primo test elettorale da quando ha assunto l’incarico, si è immediatamente recato a Medway per celebrare la vittoria e ha dichiarato che i laburisti sono “sulla buona strada” per ottenere la maggioranza alle prossime elezioni politiche. Uno scenario che potrebbe ulteriormente incidere sulle relazioni tra il Regno Unito e l’Unione Europea, che dopo forti momenti di tensione post-Brexit si stanno avviando lentamente verso una cauta e necessaria distensione, confermata dal recente accordo sul Protocollo sull’Irlanda del Nord.

    In corso lo spoglio dei voti in 230 autorità locali in Inghilterra, i conservatori hanno già perso il controllo di 11 consigli comunali. Si vota anche per i sindaci di Bedford, Leicester, Mansfield e Middlesbrough. “Deluso” il primo ministro, il leader laburista Starmer ottimista per le prossime elezioni politiche

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    Se il sultano cade. L’Ue osserva le presidenziali in Turchia, tra Erdoğan e il rinnovamento di Kılıçdaroğlu

    Bruxelles – Il momento è di quelli storici, forse epocali. Sia per la Turchia, sia per l’Unione Europea. Fra una settimana, sabato 14 maggio, i cittadini turchi saranno chiamati alle urne per eleggere il presidente della Repubblica per i prossimi cinque anni, in una sfida tra l’uomo forte di Ankara, Recep Tayyip Erdoğan, e lo sfidante che incarna il rinnovamento della politica nazionale secondo le opposizioni, l’economista Kemal Kılıçdaroğlu. Un testa a testa che anche per Bruxelles avrà un impatto significativo. Dal quasi scontato doppio turno di elezioni (che si concluderà il 28 maggio) emergerà l’attore politico con cui sviluppare i futuri rapporti: o un prosieguo delle relazioni tese degli ultimi anni su diversi fronti, o una speranza di riavvicinamento e distensione diplomatica.
    Il leader del Partito popolare repubblicano (Chp) e candidato presidente della Turchia, Kemal Kılıçdaroğlu (credits: Yasin Akgul / Afp)
    Per sfidare il presidente al potere da 20 anni esatti (dal 2003 al 2014 come primo ministro, dal 2014 a oggi come capo di Stato), sei partiti di opposizione si sono uniti nella cosiddetta ‘Tavola dei Sei’ e hanno espresso un candidato comune. Si tratta del leader del Partito popolare repubblicano (Chp), il principale partito d’opposizione fondato nel 1923 dal primo presidente turco, Kemal Atatürk. Per Kılıçdaroğlu, politico 73enne noto per la sua onestà e frugalità a livello comunicativo e per le vittorie del suo partito a Istanbul e Smirne nel 2019, l’ostacolo maggiore potrebbe essere l’estrema varietà della coalizione di partiti che lo supporta – che va dal centrosinistra alla destra nazionalista – e dal fatto che a tenerli uniti è soprattutto il tentativo di mettere fuori gioco il leader conservatore del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp). In ogni caso va segnalata la piattaforma di riforme che lo sfidante di Erdoğan ha proposto, tra cui compare l’abolizione del presidenzialismo (la figura del primo ministro è stata abolita nel 2018).
    Dall’altra parte dello spettro politico il presidente Erdoğan è indebolito da due fattori che hanno colpito la Turchia nell’ultimo anno: l’inflazione galoppante sta mettendo in crisi la classe media da mesi, e le critiche dell’opinione pubblica nazionale allo stesso leader turco (cosa non scontata in un Paese guidato da un regime sempre più autoritario) per la gestione del terremoto dello scorso 6 febbraio che ha causato oltre 50 mila morti. La rete clientelare e di corruzione che ha permesso l’abusivismo edilizio nelle zone colpite dal sisma è stata considerata uno degli elementi di maggiore responsabilità per il collasso di intere città come Adana. Tutto questo si è tradotto in un evidente crollo dei consensi per Erdoğan – che nel 2018 aveva vinto al primo turno con il 52,6 per cento dei voti – anche se non ancora sufficiente per evitare un testa a testa al ballottaggio e un possibile recupero da parte di uno dei politici più instancabili in campagna elettorale (fino a poche settimane fa Kılıçdaroğlu guidava i sondaggi con oltre il 55 per cento delle preferenze).
    Manifesti elettorali di Recep Tayyip Erdoğan (a sinistra) e di Kemal Kılıçdaroğlu (a destra), in vista delle elezioni presidenziali in Turchia (credits: Ozan Kose / Afp)
    Il presidente della Turchia è eletto direttamente con il sistema del doppio turno: se nessun candidato conquista la maggioranza semplice (più del 50 per cento dei voti) al primo, si svolge un ballottaggio tra i due candidati più votati. Gli aspiranti presidenti devono avere almeno 40 anni e devono aver completato l’istruzione superiore, mentre qualsiasi partito che abbia ottenuto il 5 per cento dei voti nelle precedenti elezioni parlamentari può presentare un candidato (si possono formare alleanze e schierare candidati comuni, gli indipendenti possono candidarsi se raccolgono 100 mila firme). Considerata la presenza di altri due candidati minori – Muharrem İnce del Partito della Patria e l’indipendente Sinan Oğan sostenuto dall’Alleanza Ata – alle elezioni presidenziali più decisive della storia recente della Turchia lo scenario più verosimile è una sfida al secondo turno tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu, in programma il 28 maggio.
    Il controverso rapporto Ue-Turchia sotto Erdoğan
    Non solo per la Turchia, ma anche per l’intera Unione Europea si tratta di un passaggio politico che potrebbe segnare una svolta forse irripetibile per i rapporti con Ankara. Ancora non si sa quale sarà la posizione di una eventuale leadership di Kılıçdaroğlu sui dossier aperti con Bruxelles, anche e soprattutto considerate le posizioni non proprio sovrapponibili della coalizione elettorale ‘Tavola dei Sei’ che lo sostiene. Ma di certo c’è quello che potrebbe continuare a replicarsi in caso di rielezione di Erdoğan. In particolare negli ultimi anni le relazioni con l’uomo forte di Ankara – definito due anni fa dall’allora premier italiano Mario Draghi “dittatore” – sono diventate sempre più tese, anche se la posizione e l’importanza geopolitica della Turchia hanno sempre costretto o quantomeno spinto i Ventisette a non chiudere al dialogo.
    La dimostrazione più evidente è stato il congelamento dei capitoli negoziali per l’adesione della Turchia all’Unione Europea, avviati nel 2005 e da anni “a un punto morto” per i “continui gravi passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura”, aveva sottolineato ancora nel 2020 il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. C’è poi la questione della delimitazione delle aree marittime nel Mediterraneo, con la Turchia di Erdoğan che dal 2019 continua a mettere in discussione i confini greci – e di conseguenza le frontiere esterne dell’Unione – a sud dell’isola di Creta. L’ultimo episodio di tensione risale all’ottobre dello scorso anno, quando Ankara ha siglato un nuovo accordo preliminare sull’esplorazione energetica con la Libia. Nel contesto mediterraneo si inserisce anche la controversia diplomatica più che quarantennale sulla divisione dell’isola di Cipro, dove solo la Turchia riconosce l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord e dal 2017 sono fermi i tentativi di compromesso.
    Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio Europe, Charles Michel, e il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ad Ankara (6 aprile 2021)
    Altra questione di non poca rilevanza, che riguarda sia la politica interna sia quella estera di Erdoğan, è il tema della repressione della minoranza curda e del veto sull’adesione della Svezia alla Nato, almeno fino a quando non si adeguerà alle richieste sull’estradizione dei membri del movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). L’intransigenza del leader turco ha indispettito non poco i leader dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (che ha sede proprio a Bruxelles) e dei Paesi membri Ue, che hanno visto sfumare l’ingresso congiunto di Svezia e Finlandia nell’Alleanza nello stesso giorno (il 4 aprile 2023). Sul tema dei diritti umani c’è poi la questione della gestione delle persone migranti dirette verso l’Europa: se nel marzo 2016 l’Ue ha stretto un accordo con la Turchia per bloccare e accogliere sul suo territorio i rifugiati siriani in fuga dalla guerra in cambio di finanziamenti comunitari, in diverse occasioni la Grecia ha lanciato dure accuse ad Ankara per violazioni dell’accordo stesso e sta implementando una politica di costruzione di barriere fisiche alla frontiera per impedire gli ingressi irregolari.
    Ultimo, ma non per importanza diplomatica, quello che è passato alle cronache politiche come ‘Sofagate’. Il 6 aprile 2021 la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e del Consiglio Europeo, Charles Michel, si erano recati ad Ankara in visita istituzionale per rilanciare il dialogo Ue-Turchia. Ma l’accoglienza al palazzo presidenziale per la numero uno dell’esecutivo comunitario era stata tutt’altro che piacevole e rispettosa: mentre al leader del Consiglio è stata riservata una sedia accanto a Erdoğan, von der Leyen si era dovuta accomodare – con evidente imbarazzo e disappunto – su un sofà, appunto. Uno sgarbo istituzionale arrivato a poche settimane dalla decisione del presidente di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, che ancora una volta aveva evidenziato tutta la tensione nei rapporti tra Bruxelles e Ankara. Episodi e politiche che potrebbero essere relegati nel passato della Turchia, se gli elettori sceglieranno il rinnovamento politico di Kılıçdaroğlu – anche se incerto – alla continuità di Erdoğan.

    Il 14 maggio gli elettori turchi saranno chiamati a votare al primo turno di una delle tornate più decisive degli ultimi anni. Potrebbe essere arrivato al termine il potere ventennale del presidente che ha reso tesi i rapporti tra Ankara e Bruxelles, tra migrazione, energia, Nato e ‘Sofagate’

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    Borrell: “Almeno 13 miliardi per sostegno militare all’Ucraina”. Ma potrebbero essere di più

    Bruxelles – Aiuti finanziari militari, il tesoro a dodici stelle cresce sempre più. Fin qui, in termini di denaro, all’Ucraina sono stati garantiti “almeno 13 miliardi di euro” tra risorse messe a disposizione dallo Strumento europeo per la pace (Epf) e contributi dei singoli Stati membri. Le cifre le offre l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, rispondendo a un’interrogazione parlamentarie sulla strategia di assistenza a Kiev.
    “Il sostegno militare dell’Ue all’Ucraina comprende 3,6 miliardi di euro attraverso l’Epf oltre all’assistenza bilaterale degli Stati membri, per un totale di almeno 13 miliardi”. Ecco le cifre, che però non sono consolidate. Si tratta di stime, si affermano a chiarire a Bruxelles. I governi non sono obbligati a condividere con l’esecutivo le informazioni riguardanti iniziative di sostegno nazionali. La Commissione europea dunque non dispone delle quote Paese.
    A Bruxelles però sugli ordini di grandezza qualche idea c’è. Si stima che oltre a quanto finanziato dall’Epf gli Stati membri abbiamo speso circa 3-4 volte di più a livello bilaterale. Per cui, alla fine, la somma di risorse Ue e contributi dei vari Stati membri “potrebbe raggiungere i 20 miliardi di euro” per l’assistenza militare europea complessiva, confidano fonti Ue. Si tratta solo del denaro necessario per rispondere all’offensiva russa. Poi ci sono gli aiuti umanitari e il rifornimento di mezzi, munizioni e armi, due capitoli diversi.

    L’Alto rappresentante fornisce la stima dei contributi finanziari, risultato di finanziamenti Ue e contributi nazionali bilaterali. A Bruxelles si chiarisce: “Sono stime, potrebbero essere 20 miliardi”

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    Unione Europea chiama Balcani Occidentali. Price cap e tariffe più basse per il roaming dati dal primo ottobre 2023

    Bruxelles – Ora la Dichiarazione è diventata una tabella di marcia, i cui effetti tangibili si faranno sentire dal prossimo primo ottobre per chiunque viaggi tra i 27 Paesi membri dell’Unione e uno qualsiasi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia). Grazie a un accordo messo a terra da 38 operatori di telecomunicazioni il roaming dati tra le due aree europee sarà soggetto a un tetto massimo dei prezzi al dettaglio, per un beneficio che potrà essere avvertito da tutti i cittadini in viaggio per motivi turistici, di lavoro o familiari, rendendo più concreto l’avvicinamento politico sancito nell’ultimo anno.
    La tabella di marcia concordata dai 38 operatori (aperta alla firma a chiunque voglia aderire) prevede tre fasi: dal primo ottobre 2023 il prezzo massimo per 1 gigabyte diminuirà 18 euro, dal 2026 passerà a 14 euro e infine dal 2028 si dimezzerà a 9 euro. Sono previste revisioni annuali per valutare l’impatto e le fasi successive dell’implementazione, anche se per ora non è stata messa sulla carta l’ambizione massima che fonti Ue avevano confessato a margine del vertice Ue-Balcani Occidentali di Tirana il 6 dicembre dello scorso anno: la completa eliminazione di ogni costo aggiuntivo del roaming entro il 2027. In ogni caso si tratta del primo vero risultato tangibile di quell’appuntamento politico, in linea con quanto definito nella Dichiarazione sul roaming firmata in apertura del vertice nella capitale albanese.
    Il price cap sulle tariffe roaming via via più basso nel corso dei prossimi cinque anni garantirà a tutti i cittadini comunitari e balcanici di fare chiamate, mandare messaggi e navigare online sul proprio smartphone alla stessa tariffa a casa e negli altri Stati aderenti (se il proprio operatore ha firmato l’intesa). La base di partenza è il successo dell’accordo sul Roam like at Home nella regione a partire dal luglio 2021, a cui era seguita la tabella di marcia al vertice di Kranj (Slovenia) del 6 ottobre seguente. “Questo accordo volontario porterà prevedibilità, contribuirà a eliminare gli shock sulle bollette dei consumatori e faciliterà una sostanziale riduzione delle tariffe di roaming dati per i consumatori dell’Ue e dei Balcani Occidentali”, ha sottolineato il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi. Il risparmio stimato per i cittadini comunitari e balcanici è di “almeno un terzo rispetto agli attuali prezzi medi”, specifica l’esecutivo Ue, con gli operatori che sarebbero già al lavoro su prodotti con prezzi inferiori ai massimali concordati. Il sogno del roaming gratuito tra Unione Europea e Balcani Occidentali non è ancora tramontato.
    L’obiettivo ‘roaming gratuito’ Ue
    L’appello al roaming gratuito nell’Unione Europea al Parlamento Ue nel 2015
    Quello a cui si tende è appunto rendere gratuiti i servizi di roaming anche ai Balcani Occidentali entro il decimo anniversario dall’entrata in vigore sul territorio dell’Unione Europea. Nel 2017 era stata siglata un’intesa tra i Ventisette per un periodo di prova di cinque anni, scaduto il 30 giugno dello scorso anno. Grazie al via libera dei co-legislatori del Parlamento e del Consiglio dell’Ue alla proposta della Commissione Europea, il roaming gratuito è stato esteso fino al 2032.
    Le regole aggiornate permettono ai cittadini europei di continuare a fare chiamate, mandare messaggi e navigare online sul proprio smartphone alla stessa tariffa a casa e negli altri Stati membri. Lavoratori e turisti che viaggiano sul territorio comunitario hanno diritto alla stessa qualità e velocità di connessione mobile – se le condizioni sono disponibili sulla rete del Paese Ue visitato – con il divieto di pratiche che riducono la qualità dei servizi di roaming (per esempio, passare la connessione da 4G a 3G). È gratuito l’accesso ai servizi di emergenza, sia per le chiamate sia per i messaggi di testo, inclusa la trasmissione di informazioni sulla geolocalizzazione. Sul territorio comunitario le tariffe all’ingrosso (il prezzo massimo che gli operatori si addebitano a vicenda quando i rispettivi clienti usano altre reti in roaming nell’Ue) sono limitate a 2 euro per gigabyte, e dal 2027 scenderanno a 1 euro. Se i consumatori superano i limiti previsti dal contratto con il proprio operatore, ogni costo aggiuntivo non può essere superiore ai massimali all’ingrosso.

    In linea con la Dichiarazione siglata al vertice di Tirana del 6 dicembre dello scorso anno, 38 operatori di telecomunicazioni hanno concordato il livello massimo dei prezzi al dettaglio per 1 gigabyte a 18 euro, con una tabella di marcia in tre fasi al 2028 (quando saranno dimezzati)

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    Via libera dagli ambasciatori Ue al piano da un miliardo di euro per acquisti congiunti di munizioni e missili per l’Ucraina

    Bruxelles – Nel giorno a suo modo storico per l’Unione Europea sul piano della definizione di una strategia militare basata sull’aumento della capacità di produzione di munizioni negli Stati membri, a Bruxelles è stata raggiunta un’intesa che si incastra con l’obiettivo delle istituzioni comunitarie di sostenere lo sforzo bellico della resistenza ucraina contro l’esercito russo invasore. Dalle discussioni tra i 27 ambasciatori Ue al Coreper (il Comitato dei rappresentanti permanenti) è emerso un allineamento sulla proposta di istituire una nuova misura di assistenza per la fornitura di munizioni e missili alle forze armate ucraine attraverso l’acquisto congiunto da parte dei Ventisette.
    Il via libera dagli ambasciatori è arrivato nel pomeriggio di oggi (3 maggio), a poche ore dalla proposta presentata dal commissario per il Mercato interno, Thierry Breton, sui 500 milioni di euro dal budget Ue per l’aumento della produzione di munizioni. Quanto concordato tramite procedura scritta in Coreper – che ora dovrà essere adottato all’unanimità da parte del Consiglio – è una misura che prevede uno stanziamento complessivo da un miliardo di euro nell’ambito dell’European Peace Facility (lo strumento fuori bilancio per la prevenzione dei conflitti, la costruzione della pace e il rafforzamento della sicurezza internazionale), per gli acquisti congiunti di munizioni e missili a sostegno della controffensiva dell’esercito ucraino, attraverso l’Agenzia per la Difesa (Eda) o un consorzio di Paesi membri.
    Il piano per le munizioni Ue all’Ucraina
    Si tratta del secondo dei tre pilastri della proposta presentata dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: donazione di munizioni di artiglieria da 152/155 millimetri dagli stock già esistenti per un miliardo di euro (su cui è stata trovata l’intesa tra i 27 ministri Ue, ma con tempistiche che non sembrano rispettare le aspettative di Kiev), coordinamento della domanda per gli ordini dei Ventisette per un altro miliardi di euro, e aumento della capacità manifatturiera europea con diminuzione dei tempi di produzione.
    L’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell
    Quella su cui è stata trovata l’intesa oggi tra gli ambasciatori è una svolta di una certa rilevanza per l’Unione, considerato il fatto che l’intenzione è quella di far acquistare agli Stati le munizioni in modo congiunto, sul modello di quanto già fatto per i vaccini durante la pandemia Covid-19 e per le riserve di gas contro la crisi energetica. A oggi sono 23 gli Stati membri Ue più Norvegia ad aver firmato l’accordo di progetto dell’Agenzia europea per la difesa per l’approvvigionamento comune di munizioni, aprendo la strada a due opzioni: una procedura accelerata di due anni per i proiettili di artiglieria da 155 mm e un progetto di sette anni per l’acquisizione di più tipi di munizioni. Al momento rimangono fuori Bulgaria, Danimarca, Irlanda e Slovenia. Come riferiscono fonti diplomatiche potranno essere acquistati in modo congiunto munizioni e missili di operatori economici stabiliti e che producono nell’Ue o in Norvegia, ma sono ammissibili anche quegli armamenti che siano stati assemblati nell’Ue in Norvegia con catene di produzione “in parte” extra-europee.

    Trovata l’intesa al Comitato dei rappresentanti permanenti (Coreper) per istituire una nuova misura di assistenza tramite l’European Peace Facility, parte del piano in tre fasi che comprende anche una donazione da un altro miliardo e l’aumento della capacità manifatturiera europea