More stories

  • in

    Dure condanne della comunità internazionale agli scontri nel nord del Kosovo in cui sono rimasti feriti anche soldati Kfor

    Bruxelles – Gli ultimi sviluppi nel nord del Kosovo non sono più una semplice questione di preoccupazione – come spesso le istituzioni comunitarie esprimono in maniera più o meno partecipata – ma richiedono una forte presenza della comunità internazionale per non permettere che la situazione sfugga di mano. Le premesse ci sono tutte, parlare di rischio guerra è un totale azzardo, ma il modo in cui le proteste della minoranza serbo-kosovara sono sfociate ieri (29 maggio) in violenze anche contro i soldati della missione Kfor a guida Nato dimostra la necessità di un intervento deciso a sostegno della soluzione diplomatica su cui Bruxelles sta spingendo per la normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo. L’unico modo per creare condizioni di sicurezza e stabilità anche in una regione fragile come il nord del Kosovo.
    Scontri tra i manifestanti serbo-kosovari e i soldati della missione Nato Kfor a Zvečan, nel nord del Kosovo (29 maggio 2023)
    “L’Ue condanna nella maniera più forte possibile le violenze che abbiamo visto negli ultimi giorni“, ha commentato in modo secco l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, in un punto stampa oggi (30 maggio) a Bruxelles con il neo-eletto presidente del Montenegro, Jakov Milatović: “È impossibile non discuterne visto ciò che accade nelle vostre immediate prossimità”, ha sottolineato Borrell parlando con il leader montenegrino degli “atti violenti assolutamente inaccettabili contro i cittadini, i media, le forze dell’ordine e le truppe Kfor”. A proposito dello scoppio delle violenze nel comune di Zvečan, che ha coinvolto anche i membri della forza militare internazionale, Borrell ha ribadito che l’Ue sostiene la Nato “nel suo mandato nell’interesse della pace e della stabilità del Kosovo”, così come ricordato nel corso di due telefonate con il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, e con il presidente serbo, Aleksandar Vučić: “Ho chiesto a entrambe le parti di prendere misure urgenti per la de-escalation immediata e incondizionata”. A Pristina la richiesta è quella di “sospendere le operazioni di polizia incentrate sui municipi nel nord del Paese”, mentre i “manifestanti violenti devono ritirarsi”. Nel frattempo a Bruxelles è lo stesso alto rappresentante a essersi attivato per organizzare “un incontro di alto livello urgente del dialogo Pristina-Belgrado“, ha reso noto.
    Proteste a Zvečan, nel nord del Kosovo, il 26 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    Le proteste nel nord del Kosovo sono scoppiate venerdì scorso (26 maggio) a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di etnia albanese di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica (quest’ultimo è stato l’unico comune in cui non si sono registrate resistenze della popolazione serba). Nonostante l’affluenza al voto tendente all’irrisorio alle elezioni dello scorso 23 aprile – attorno al 3 per cento – il governo di Pristina ha deciso di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci. Una situazione determinata dagli episodi di ostruzionismo messi in atto dagli esponenti di Lista Srpska – il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić – con scontri prima con le forze di polizia kosovare e poi con i soldati Kfor in particolare a Zvečan. Come ha reso noto la stessa forza militare internazionale in un comunicato, sono 30 i membri che hanno riportato “ferite multiple, tra cui fratture e ustioni da ordigni incendiari improvvisati”. Di questi, 11 soldati appartengono dal contingente italiano e 19 a quello ungherese, ma “nessuno è in pericolo di vita”.
    Al momento due sindaci si sono già insediati nei rispettivi municipi. A Leposavić, Ljuljzim Hetemi (di etnia albanese) è da ieri nel suo ufficio e per motivi di sicurezza ci è restato tutta la scorsa notte. A Kosovska Mitrovica invece Erden Atić (della minoranza bosniaca) non ha mai avuto problemi con la popolazione e ha iniziato a svolgere la propria attività. A Zvečan, Iljir Peci (di etnia albanese) ha confermato di voler iniziare il mandato da un ufficio distaccato, mentre a Zubin Potok, Izmir Zeqiri (di etnia albanese) non si è presentato in municipio per evitare altre tensioni. Proprio in questi due comuni si sono radunati anche oggi gli esponenti di Lista Srpska per protestare contro i sindaci definiti “illegittimi e usurpatori”, come urlato ieri prima dello scoppio delle violenze. Anche se la situazione non è tesa come 24 ore fa, la forza Kfor ha aumentato i propri soldati di stanza sul campo attraverso il dispiegamento delle Forze di Riserva Operativa per i Balcani Occidentali della Nato.
    C’è la Kosovo Force della Nato
    La Kosovo Force (Kfor) è una forza di pace internazionale a guida Nato, la cui missione è stata avviata il 10 giugno 1999 dopo il mandato dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. I primi soldati della forza militare internazionale sono entrati in Kosovo due giorni più tardi, con il ritiro completo delle forze dell’allora Jugoslavia. Inizialmente la Kfor era composta da 50 mila membri, ma il miglioramento del contesto di sicurezza ha permesso di diminuirne gradualmente il numero fino alle attuali 3762 unità presenti sul terreno, e il trasferimento delle competenze alle forze di polizia kosovare.
    L’obiettivo della forza militare internazionale a guida Nato è quello di mantenere un ambiente sicuro e la libertà di movimento – compresa la presenza civile internazionale e di altre organizzazioni – e il sostegno a un Kosovo “stabile, democratico, multietnico e pacifico”. I contingenti della Kfor sono stati inizialmente raggruppati in cinque brigate multinazionali e per ogni brigata era stata designata una nazione guida. Nell’agosto del 2019 la struttura è stata razionalizzata in due Comandi regionali, il Comando regionale orientale basato a Camp Bondsteel e il Comando regionale occidentale basato a Camp Villaggio Italia. La forza è attualmente guidata dal generale italiano Michele Ristuccia e l’Italia rappresenta anche il Paese con il contingente più consistente tra i 27 che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi della missione (715 su 3762, più degli Stati Uniti con 561).
    Due anni di tensione nel nord del Kosovo
    Negli ultimi due anni la tensione nel nord del Kosovo ha conosciuto diversi momenti di escalation, intrecciandosi con lo sforzo di Bruxelles di spingere sul percorso di normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado. Già nel 2021 era scoppiata la cosiddetta battaglia delle targhe tra i due Paesi, scatenata dalla decisione del governo guidato da Kurti di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. Una questione che, dopo essere stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, è tornata a infiammare la seconda metà del 2022, con blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara a fine luglio.
    Due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non avevano portato a nessuno sbocco politico. La situazione si era aggravata ancora di più il 5 novembre, con le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe e contro quella che Lista Srpska aveva definito una “violazione del diritto internazionale e dell’Accordo di Bruxelles” del 2013, ovvero la mancata istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città: in programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state rinviate al 23 aprile per non rischiare di rendere la situazione fuori controllo.
    Parallelamente era stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre tra il leader serbo e quello kosovaro, anche se prima del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana si era registrato un altro episodio di tensione politica tra Pristina e Belgrado, sempre legata alla questione del nord del Kosovo. Il presidente serbo aveva minacciato di boicottare il vertice di Tirana a causa della nomina di Nenad Rašić come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro: Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska il cui leader, Goran Rakić, si era dimesso dal ministero riservato alla minoranza serba nel Paese durante l’ondata di dimissioni di inizio novembre. Il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste è stata risolta solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, alla riunione di alto livello a Ohrid, Macedonia del Nord (18 marzo 2023)
    Con il nuovo anno Bruxelles ha spinto con forza per arrivare a un’intesa definitiva tra le due parti che risolva di riflesso anche i continui episodi più o meno violenti nel nord del Kosovo. È del 27 febbraio l’accordo di Bruxelles che ha definito gli impegni specifici che Serbia e Kosovo devono assumersi per la normalizzazione dei rapporti reciproci: una proposta in 11 punti avanzata dall’Ue e concordata da entrambi i leader dei due Paesi balcanici nel corso della riunione-fiume nella capitale dell’Unione Europea. Nonostante il testo non sia stato firmato, a renderlo vincolante per Pristina e Belgrado è stata l’intesa sull’allegato di implementazione (anche questo non firmato, ma con pesantissime conseguenze finanziarie in caso di mancato rispetto), raggiunto dopo una sessione di 12 ore di riunioni bilaterali e congiunte a Ohrid (Macedonia del Nord). A rischiare di rimettere tutto in discussione è però ancora la situazione nel nord del Kosovo, a causa della bassissima affluenza alle elezioni del 23 aprile nei quattro comuni: “Non offrono una soluzione politica a lungo termine, ma hanno il potenziale di portare a un’escalation e di minare l’attuazione dell’Accordo di Ohrid”, è stato l’allarme lanciato dall’alto rappresentante Borrell al termine dell’ultimo confronto di alto livello a Bruxelles di inizio maggio.

    Tra i membri della forza militare internazionale guidata dalla Nato intervenuti per disperdere i manifestanti violenti serbo-kosovari contrari all’insediamento del nuovo sindaco di etnia albanese di Zvečan, 30 hanno riportato ferite anche gravi e quasi la metà sono italiani

  • in

    Nel nord del Kosovo ci sono stati scontri tra le forze Nato Kfor e i manifestanti contrari all’insediamento dei sindaci

    Bruxelles – L’ennesimo episodio, gli ennesimi scontri, l’ennesimo rischio di destabilizzazione di una situazione particolarmente fragile nella regione. Nel nord del Kosovo l’ultima escalation di tensione tra le frange estremiste della minoranza serba e le forze di polizia intervenute per permettere l’insediamento dei nuovi sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica hanno messo di nuovo in allarme la comunità internazionale. E per la prima volta da anni le forze militari della Nato presenti sul terreno sono dovute intervenire per disperdere la folla, nel pieno delle violenze che le hanno coinvolte.
    Proteste a Zvečan, nel nord del Kosovo, il 26 maggio 2023 (credits: Stringer / Afp)
    “Questa mattina, la missione Kfor a guida Nato ha aumentato la sua presenza nei quattro comuni del Kosovo settentrionale, a seguito degli ultimi sviluppi nell’area”, è quanto si legge in un comunicato della forza militare internazionale Kosovo Force, attiva nella regione dal 1999. L’esortazione a “tutte le parti” è quella di “astenersi da azioni che potrebbero infiammare le tensioni o causare un’escalation”, anche se la forza comandata dal generale italiano Michele Ristuccia è “pronta a intraprendere tutte le azioni necessarie per garantire un ambiente sicuro in modo neutrale e imparziale”. Lo stesso comandante è in “stretto contatto” con sia con organizzazioni di sicurezza del Paese sia lo Stato Maggiore delle Forze armate serbe, ma soprattutto con la missione Eulex dell’Unione Europea: “Esortiamo Belgrado e Pristina a impegnarsi nel dialogo guidato dall’Ue per ridurre le tensioni e come unica via per la pace e la normalizzazione”, precisa il comunicato. Nel pomeriggio di oggi le stesse forze Kfor sono intervenute per dispendere i manifestanti di fronte agli edifici: 41 militari della Kfor sono rimasti feriti a Zvečan durante gli scontri, di cui 11 sono militari italiani e tre sono in condizioni gravi (ma non in pericolo di vita).
    La situazione a cui si fa riferimento è lo scoppio delle proteste di venerdì scorso (26 maggio) per l’insediamento dei neo-eletti sindaci dei quattro comuni. Nonostante le perplessità dei partner internazionali sull’affluenza al voto tendente all’irrisorio alle elezioni dello scorso 23 aprile – il dato complessivo è attorno al 3 per cento – il governo kosovaro guidato da Albin Kurti, ha deciso di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci. Una situazione determinata dall’intensificazione degli episodi di violenza e ostruzionismo messi in atto dagli esponenti di Lista Srpska – il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo, Aleksandar Vučić – che hanno cercato di ostacolare l’entrata in carica dei nuovi primi cittadini di etnia kosovaro-albanese, causando così scontri con le forze di polizia.
    Auto della polizia del Kosovo presa di mira durante le proteste del 26 maggio 2023 a Zvečan, nel nord del Kosovo (credits: Stringer / Afp)
    Ciò che però è cambiato rispetto al recente passato è il tipo di retorica nella condanna delle violenze da parte dei partner del Kosovo, sia degli Stati Uniti sia dell’Unione Europea. “Ribadiamo la nostra dichiarazione del 26 maggio che condanna la decisione del Kosovo di forzare l’accesso agli edifici comunali nel nord del Kosovo nonostante i nostri ripetuti appelli alla moderazione”, si legge in una nota congiunta delle ambasciate di Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Europea in Kosovo: “Anche i sindaci eletti dovrebbero dare prova di moderazione e agire immediatamente per dimostrare il loro impegno e la loro responsabilità nel rappresentare e servire tutti i membri delle loro comunità”. Allo stesso tempo gli esponenti di Lista Srpska sono stati messi “fortemente in guardia” su “altre minacce o azioni che potrebbero avere un impatto su un ambiente sicuro e protetto”. In particolare vengono condannati l’attacco alle pattuglie della missione Eulex e le azioni unilaterali e provocatorie, ma è forte anche la critica alle azioni perseguite da Pristina dopo le elezioni del 23 aprile: “Una soluzione politica a lungo termine per i comuni coinvolti può essere trovata solo attraverso un vero dialogo tra tutte le principali parti interessate”.
    Due anni di tensione nel nord del Kosovo
    Negli ultimi due anni la tensione nel nord del Kosovo ha conosciuto diversi momenti di escalation, intrecciandosi con lo sforzo di Bruxelles di spingere sul percorso di normalizzazione dei rapporti tra Pristina e Belgrado. Già nel 2021 era scoppiata la cosiddetta battaglia delle targhe tra i due Paesi, scatenata dalla decisione del governo guidato da Kurti di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro. Una questione che, dopo essere stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, è tornata a infiammare la seconda metà del 2022, con blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara a fine luglio.
    Due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non avevano portato a nessuno sbocco politico. La situazione si era aggravata ancora di più il 5 novembre, con le dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe e contro quella che Lista Srpska aveva definito una “violazione del diritto internazionale e dell’Accordo di Bruxelles” del 2013, ovvero la mancata istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città: in programma inizialmente per il 18 dicembre, sono state rinviate al 23 aprile per non rischiare di rendere la situazione fuori controllo.
    Parallelamente era stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre tra il leader serbo e quello kosovaro, anche se prima del vertice Ue-Balcani Occidentali del 6 dicembre a Tirana si era registrato un altro episodio di tensione politica tra Pristina e Belgrado, sempre legata alla questione del nord del Kosovo. Il presidente serbo aveva minacciato di boicottare il vertice di Tirana a causa della nomina di Nenad Rašić come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi all’interno del governo kosovaro: Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado e concorrente di Lista Srpska il cui leader, Goran Rakić, si era dimesso dal ministero riservato alla minoranza serba nel Paese durante l’ondata di dimissioni di inizio novembre. Il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste è stata risolta solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi.
    Con il nuovo anno Bruxelles ha spinto con forza per arrivare a un’intesa definitiva tra le due parti che risolva di riflesso anche i continui episodi più o meno violenti nel nord del Kosovo. È del 27 febbraio l’accordo di Bruxelles che ha definito gli impegni specifici che Serbia e Kosovo devono assumersi per la normalizzazione dei rapporti reciproci: una proposta in 11 punti avanzata dall’Ue e concordata da entrambi i leader dei due Paesi balcanici nel corso della riunione-fiume nella capitale dell’Unione Europea. Nonostante il testo non sia stato firmato, a renderlo vincolante per Pristina e Belgrado è stata l’intesa sull’allegato di implementazione (anche questo non firmato, ma con pesantissime conseguenze finanziarie in caso di mancato rispetto), raggiunto dopo una sessione di 12 ore di riunioni bilaterali e congiunte a Ohrid (Macedonia del Nord). A rischiare di rimettere tutto in discussione è però ancora la situazione nel nord del Kosovo, a causa della bassissima affluenza alle elezioni del 23 aprile nei quattro comuni: “Non offrono una soluzione politica a lungo termine, ma hanno il potenziale di portare a un’escalation e di minare l’attuazione dell’Accordo di Ohrid”, è stato l’allarme lanciato dall’alto rappresentante Borrell al termine dell’ultimo confronto di alto livello a Bruxelles di inizio maggio.

    Dal 26 maggio sono in corso proteste della minoranza serba contro l’insediamento dei nuovi sindaci a Leposavić, Zvečan, Zubin Potok e Mitrovica. La comunità internazionale accusa il governo Kurti per aver forzato la mano, ma sul campo sale la tensione con Lista Srpska

  • in

    La rimonta dell’opposizione turca fallisce. L’Ue si congratula con Erdoğan per l’ennesima rielezione alla presidenza

    Bruxelles – Le speranze già flebili dell’opposizione turca di mettere fine al potere di Recep Tayyip Erdoğan sono arrivate al capolinea. Al ballottaggio delle elezioni presidenziali in Turchia, il leader in carica ha vinto ancora, mettendo fine all’illusione di quasi metà della popolazione di un cambio al vertice, dopo 20 anni quasi da capo assoluto del Paese. Erdoğan ha vinto, non trionfato, e questo mostra una Turchia molto divisa soprattutto tra città e aree rurali.
    La mappa delle circoscrizioni elettorali in Turchia vinte da Recep Tayyip Erdoğan (in giallo) e da Kemal Kılıçdaroğlu (in rosso)
    Chiamati al secondo turno di voto ieri (28 maggio), gli elettori turchi hanno riconfermato la fiducia nel presidente in carica, che ha conquistato il 52,16 per cento dei voti. Tre punti percentuali in più rispetto al primo turno, abbastanza per garantirsi la rielezione alle spese dello sfidante Kemal Kılıçdaroğlu, che ha tentato la rimonta impossibile e si è fermato al 47,84 per cento delle preferenze nel testa a testa. Ribaltati completamente i sondaggi di sole poche settimane fa, quando una vittoria del candidato unico dell’opposizione turca veniva dato alle stesse percentuali (se non leggermente più alte) di quelle conquistate ieri da Erdoğan. Una vittoria che – nonostante non sia arrivata già al primo turno come invece accaduto nelle tornate del 2018 e del 2014 – può sancire definitivamente l’aura di invincibilità del ‘sultano’ turco.
    Perché sei partiti di opposizione si erano uniti nella cosiddetta ‘Tavola dei Sei’ per esprimere un candidato comune e aumentare le possibilità di scalzare il leader del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) dalla presidenza del Paese. I sondaggi avevano evidenziato una reale occasione per Kılıçdaroğlu, economista dai toni pacati e leader del Partito popolare repubblicano (Chp), il principale partito d’opposizione fondato nel 1923 dal primo presidente turco, Mustafa Kemal Atatürk. La prima doccia fredda è arrivata al primo turno del 14 maggio, quando Erdoğan è riuscito a mettere il sigillo quasi perfetto sulle presidenziali del 2023 – contrariamente alle aspettative – e arrivando a mezzo punto percentuale dalla rielezione. Ben sotto le aspettative il risultato di Kılıçdaroğlu, fermo al 45 per cento e costretto alla rimonta. Prospettiva diventata ancora più ardua dopo che il terzo candidato escluso dal ballottaggio, il nazionalista di estrema destra Sinan Oğan, ha espresso l’indicazione di voto per i suoi sostenitori a favore proprio del presidente in carica e ha così indirizzato l’esito finale delle elezioni.
    “L’unico vincitore oggi è la Turchia”, ha rivendicato Erdoğan nel suo discorso post-vittoria, attaccando nuovamente l’opposizione sulle questioni Lgbtq+, dei curdi e del terrorismo. “Tutti i mezzi dello Stato sono stati messi ai piedi di un solo uomo, sono le elezioni più ingiuste degli ultimi anni“, ha contrattaccato Kılıçdaroğlu, che però non ha contestato l’esito delle urne. Con la seconda rielezione a presidente (prima ha rivestito la carica di premier dal 2003 al 2014, carica abolita nel 2018), Erdoğan si appresta a diventare il leader più longevo dopo Atatürk (1923-1938), il padre fondatore della Turchia moderna rinata dalle rovine dell’Impero Ottomano: il centenario della nascita della Repubblica sarà celebrato il prossimo 29 ottobre proprio con il nuovo ‘sultano’ saldamente alla testa del Paese. Un leader che sta portando la Turchia su una strada nazionalista, conservatrice e di matrice islamista.
    Quali sfide attendono l’Ue con la Turchia di Erdoğan
    Quasi immediate nella serata delle vittoria di Erdoğan le congratulazioni da parte dei leader delle istituzioni dell’Unione Europea. “Non vedo l’ora di lavorare ancora con lei per approfondire le relazioni Ue-Turchia negli anni a venire“, ha commentato in un tweet il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel. A fargli eco la numero uno della Commissione Ue, Ursula von der Leyen: “È di importanza strategica per l’Ue e la Turchia lavorare per far progredire queste relazioni, a beneficio dei nostri popoli”. Al momento nessun commento è invece arrivato dalla presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, mentre l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, si sono esposti in una nota congiunta: “L’Ue ha un interesse strategico a continuare a intrattenere relazioni cooperative e reciprocamente vantaggiose con la Turchia e con tutto il suo popolo, nonché a creare un ambiente stabile e sicuro nel Mediterraneo orientale“. A questo si aggiunge l’impegno con Ankara per la “prosperità e stabilità condivisa, sulla base degli impegni per i diritti umani, lo Stato di diritto, il diritto internazionale e la stabilità regionale”.
    Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan (credits: Adem Altan / Afp)
    Tutte questioni calde per i rapporti tra Bruxelles e Ankara negli ultimi anni di presidenza Erdoğan, destinati a continuare (almeno) per altri cinque anni. Uno dei temi più caldi sul tavolo è quello della delimitazione delle aree marittime nel Mediterraneo, con la Turchia che dal 2019 continua a mettere in discussione i confini greci – e di conseguenza le frontiere esterne dell’Unione – a sud dell’isola di Creta. L’ultimo episodio di tensione risale all’ottobre dello scorso anno, quando Ankara ha siglato un nuovo accordo preliminare sull’esplorazione energetica con la Libia. Nel contesto mediterraneo si inserisce anche la controversia diplomatica più che quarantennale sulla divisione dell’isola di Cipro, dove solo la Turchia riconosce l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord e dal 2017 sono fermi i tentativi di compromesso.
    C’è poi il congelamento dei capitoli negoziali per l’adesione della Turchia all’Unione Europea, avviati nel 2005 e da anni “a un punto morto” per i “continui gravi passi indietro su democrazia, Stato di diritto, diritti fondamentali e indipendenza della magistratura”, aveva sottolineato ancora nel 2020 il commissario Várhelyi. Per Bruxelles è di cruciale importanza anche la questione della gestione delle persone migranti dirette verso l’Europa: se nel marzo 2016 l’Ue ha stretto un accordo con la Turchia per bloccare e accogliere sul suo territorio i rifugiati siriani in fuga dalla guerra in cambio di finanziamenti comunitari (oggi Erdoğan parla esplicitamente di rimpatri in Libia per milioni di persone), in diverse occasioni la Grecia ha lanciato dure accuse ad Ankara per violazioni dell’accordo stesso e sta implementando una politica di costruzione di barriere fisiche alla frontiera.
    Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio Europe, Charles Michel, e il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, ad Ankara (6 aprile 2021)
    Per la presidenza di turno svedese del Consiglio dell’Ue è invece caldissimo il tema del veto sull’adesione di Stoccolma alla Nato, legato alla repressione della minoranza curda. Ora che Erdoğan si è riconfermato leader del Paese, ci si aspettano movimenti sul dossier – che riguarda sia la politica interna sia quella estera del presidente – fermo da mesi per le richieste intransigenti da Ankara a Stoccolma di estradare i membri del movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan). La posizione irremovibile del leader turco ha indispettito non poco i leader dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord e dei Paesi membri Ue, che hanno visto sfumare l’ingresso congiunto di Svezia e Finlandia nell’Alleanza nello stesso giorno (il 4 aprile 2023).
    Ultimo, ma non per importanza diplomatica, quello che è passato alle cronache politiche come ‘Sofagate’. Il 6 aprile 2021 i presidenti von der Leyen e Michel si erano recati ad Ankara in visita istituzionale per rilanciare il dialogo Ue-Turchia. Ma l’accoglienza al palazzo presidenziale per la numero uno dell’esecutivo comunitario era stata tutt’altro che piacevole e rispettosa: mentre al leader del Consiglio è stata riservata una sedia accanto a Erdoğan, von der Leyen si era dovuta accomodare – con evidente imbarazzo e disappunto – su un sofà, appunto. Uno sgarbo istituzionale arrivato a poche settimane dalla decisione del presidente turco di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, che ancora una volta aveva evidenziato tutta la tensione nei rapporti tra Bruxelles e Ankara.

    Il leader al potere da 20 anni si riconferma alla guida del Paese, superando al ballottaggio lo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu con il 52,16 per cento dei voti. Per Bruxelles ora si apre una nuova fase su temi già caldi, dalla migrazione all’allargamento, fino a Nato, energia e diritti umani

  • in

    Borrell a L’Avana, l’Ue pronta a sostenere le neonate aziende private di Cuba

    Bruxelles – L’Ue sembra pronta a scrivere un nuovo capitolo nella complicata storia delle relazioni con Cuba. È questo il messaggio che Josep Borrell, al suo primo viaggio a L’Avana come Alto Rappresentante per gli Affari Esteri, sta portando nell’isola della rivoluzione castrista: Bruxelles guarda con interesse all’apertura verso il libero mercato che sta attuando il Paese e al suo neonato settore privato.
    Perché il governo di Miguel Diaz-Canel, alle prese con una delle peggiori crisi economiche della storia di Cuba e con forti tensioni sociali, nel 2021 ha dato il via libera alla creazione di micro, piccole e medie imprese (Mpmi), che in poco più di un anno hanno già cambiato radicalmente il panorama economico del Paese socialista. Oggi un cubano su tre lavora in una delle quasi 8 mila mpmi, che producono ormai il 12 per cento del prodotto interno lordo nazionale.
    Josep Borrell all’incontro con gli imprenditori cubani (Photo by YAMIL LAGE / AFP)
    Non a caso il primo incontro di Borrell nella due giorni a L’Avana è stato proprio con i rappresentanti delle nuove imprese private: per loro “il contesto attuale è ricco di sfide, ma anche di formidabili opportunità – ha dichiarato il capo della diplomazia europea-, speriamo che saranno in grado di consolidarsi e di continuare a contribuire alla modernizzazione economica di Cuba”. Bruxelles, ha promesso Borrell, “è impegnata a supportarle”: nel periodo 2021-24, l’Ue ha stanziato 91 milioni di euro in diversi accordi di collaborazione con Cuba, di cui 14 per il suo emergente settore privato. Corsi di formazione, supporto tecnico, consulenza, accesso ai finanziamenti: queste le carte messe sul tavolo dall’Unione per stimolare il nuovo ecosistema economico dell’isola.
    Dopo la firma dell’Accordo di Dialogo Politico e di Cooperazione nel 2017, che ha messo fine a vent’anni di allontanamento, la distanza tra l’Ue e Cuba potrebbe finalmente ridursi. All’interno di questo spazio, se per l’Avana è di primaria importanza la condanna europea del logorante embargo statunitense – in vigore da sessant’anni- e l’impegno diplomatico perché l’amministrazione Biden rimuova l’isola dall’elenco dei Paesi che sponsorizzano il terrorismo (con Corea del Nord, Siria e Iran), per Bruxelles uno dei temi chiavi del dialogo con l’Avana è il progresso nel campo dei diritti umani. “Ci sono cose che le persone dovrebbero avere anche se non possono permettersele: i diritti”, ha twittato Borrell a margine dell’incontro con gli imprenditori cubani, ricordando che “è necessario trovare un equilibrio tra libertà fondamentali, iniziativa privata, equità fiscale, azione statale e azione economica individuale”.
    L’invito a mettere da parte qualsiasi ambiguità sul rispetto dei diritti sarà probabilmente ribadito durante l’incontro di oggi (26 maggio) con il ministro degli Esteri cubano, Bruno Rodríguez, nel terzo Consiglio congiunto Ue-Cuba dopo la firma dell’accordo del 2017. Sul piatto ci sarà anche la condanna della guerra d’aggressione russa in Ucraina, dal momento che il governo di Diaz-Canel negli ultimi mesi ha accresciuto, anche per far fronte alla crisi economica e sociale interna, il suo avvicinamento alla Russia sia economicamente che politicamente. Il 23 febbraio scorso, in occasione della risoluzione Onu per la pace giusta in Ucraina, che chiedeva l’immediato abbandono delle truppe russo dal territorio invaso, Cuba ha infatti preferito astenersi.

    L’Alto Rappresentante Ue ha incontrato gli imprenditori delle ormai 8 mila piccole medie imprese dell’isola della rivoluzione castrista. “Il contesto attuale è ricco di sfide e di formidabili opportunità”, ha dichiarato. Oggi l’incontro con il ministro degli Esteri, sul piatto progressi sui diritti e condanna dell’embargo statunitense

  • in

    I territori ucraini chiedono aiuto alle Regioni Ue in vista della ricostruzione

    Bruxelles – Essere pronti per quando sarà il momento, per quando la ricostruzione dell’Ucraina potrà partire. La riforma della pubblica amministrazione, con il decentramento e il trasferimento di maggiori poteri e maggiori competenze e regioni e comuni diventa cruciale. Ucraina ed Europa sono già lavoro, ma la prima ha bisogno della seconda per non farsi trovare impreparata. Il sindaco di Kiev, Vitalii Klychko, si rivolge al Comitato europeo delle regioni per chiedere aiuto in un percorso non scontato, perché la guerra ha cambiato contesto e paradigma.
    “Abbiamo poco tempo, e dobbiamo fare adesso ciò che serve per fare dell’Ucraina un Paese europeo”, riconosce Klychko. “Serve una riforma per l’autogoverno”, e in tal senso “voglio chiedere al Comitato europeo delle regioni l’assistenza per fare queste riforme“. La richiesta di sostegno riguarda in particolare “una roamap”, quanto mai fondamentale, come l’aiuto che si cerca in Europa. “Senza questa assistenza non saremmo in grado”.
    Ripete in sostanza quanto già espresso dal presidente della Repubblica. Anche Volodymyr Zelensky ha apertamente invitato le regioni europee a lavorare con il Paese, con la differenza che il sindaco di Kiev porta il punto di vista delle comunità locali e loro esigenze, quelle che si porranno.
    Il Comitato europeo delle regioni è già al lavoro. Ospita la riunione dell’Alleanza europea delle città e delle regioni per ricostruzione dell’Ucraina, in vista delle conferenza internazionale di Londra in programma il 21 e 22 giugno. La disponibilità c’è, consapevoli che “il decentramento amministrativo nel contesto della ricostruzione è importante”, scandisce Niina Ratilainen, facente le veci del presidente Vasco Alves Cordeiro. “Il Comitato incoraggia la riforma della pubblica amministrazione e il decentramento amministrativo, e siamo d’accordo con l’andare avanti” nonostante tutto, per essere pronti.
    Alla fine delle ostilità saranno le comunità locali a dover far uso delle risorse utili per ricostruire i territori, e si vuole già un quadro legislativo chiaro, pronto per l’uso. “Vediamo pressioni di centralizzazione” legate alle logiche della guerra, ammette Andreas Schaal, direttore per la Cooperazione e le relazioni globali dell’Ocse, ma “è cruciale avere decentralizzazione quando arriverà il momento delle ricostruzione”. Territori d’Ucraina e d’Europa si preparano.

    Il sindaco di Kiev al Comitato europeo: “Per il decentramento amministrativo ci serve la vostra assistenza”

  • in

    Israele non si ferma più, ennesimo appello dell’Ue per porre fine alle “colonie illegali”

    Bruxelles – Continuano gli appelli europei per porre fine all’illegale occupazione israeliana nei territori palestinesi. Ma, invece che ridursi, le colonie sono sempre di più: dopo il via libera, datato 17 maggio, del governo israeliano per la costruzione di oltre 600 unità abitative negli insediamenti esistenti e nuovi in Cisgiordania, il 22 maggio gli abitanti di Ein Samiya, piccolo villaggio a pochi chilometri da Ramallah, hanno dovuto dire addio alle proprie case dopo anni di angherie subite per mano di cittadini israeliani.
    “L’Ue è sconvolta nell’apprendere che la comunità palestinese di Ein Samiya, che comprende 172 persone, tra cui 78 bambini, è stata costretta a lasciare definitivamente le proprie case a seguito dei ripetuti attacchi dei coloni e degli ordini di demolizione”, ha dichiarato in una nota Peter Stano, portavoce del Servizio Europeo di Azione Esterna (Seae). Dopo diversi episodi di violenza, restrizioni sulla costruzione di case e infrastrutture, demolizioni – l’ultima approvata da Tel Aviv riguarda una scuola finanziata proprio dall’Unione Europea- gli abitanti palestinesi hanno alzato bandiera bianca. Se anche la scuola del villaggio verrà rasa al suolo, andrà ad aggiungersi alle 101 costruzioni finanziate dall’Unione Europea o dai suoi Stati membri demolite lo scorso anno da Israele, per un valore di circa 337 mila euro.
    Una tenda bruciata nel villaggio di Ein Samiya, dopo un attacco di estremisti israeliani nel 2015 (Photo by ABBAS MOMANI / AFP)
    Anche il commissario Ue per la gestione delle crisi, Janez Lenarčič, ha espresso dure parole di condanna: “Lo sgombero forzato dei palestinesi dalla Cisgiordania, la demolizione delle strutture finanziate dai donatori, la violenza e la coercizione devono finire. Esorto Israele a prevenire i trasferimenti forzati, porre fine alle violazioni del diritto internazionale e garantire la sicurezza delle persone colpite”, ha dichiarato su Twitter.
    Oggi sono circa 475 mila i coloni israeliani che vivono in insediamenti, autorizzati dal governo, nella West Bank palestinese. “Gli insediamenti – ha ricordato il portavoce dell’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell – sono illegali secondo il diritto internazionale e minano la praticabilità della soluzione dei due Stati. Tali azioni unilaterali vanno contro gli sforzi per abbassare le tensioni sul terreno”.

    Dopo il via libera alla costruzione di oltre 600 nuove unità abitative in Cisgiordania, i quasi 200 abitanti del piccolo villaggio palestinese di Ein Samiya sono stati costretti ad abbandonare le proprie case. A rischio demolizione anche una scuola finanziata dall’Ue. “La violenza deve finire”, ha dichiarato il commissario Ue, Janez Lenarčič

  • in

    L’Ue reagisce alla visita del serbo-bosniaco Dodik a Putin: “I nostri alleati non vanno in Russia”

    Bruxelles – È successo di nuovo. In più di un anno di guerra in Ucraina non era mai successo che un leader europeo facesse visita all’autocrate russo, Vladimir Putin, a Mosca. E invece per due volte in otto mesi a rompere l’unità del continente su questo punto è stato Milorad Dodik, presidente della Repubblica Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina), il più controverso e divisivo politico tra i partner dell’Unione Europea. Un viaggio che rappresenta il culmine di una striscia di provocazioni a Bruxelles, dalle spinte separatiste all’onorificenza a Putin, fino alla legge sugli ‘agenti stranieri’ di ispirazione russa, che rappresenta una sorta di ‘recidiva’ rispetto alla visita al Cremlino del 20 settembre dello scorso anno.
    Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 23 maggio 2023 (credits: Alexey Filippov / Sputnik / Afp)
    “Noi pensiamo che la Federazione Russa, che con insistenza si è battuta per un suo quadro di sicurezza e che ha cercato di ottenere tali garanzie, sia stata semplicemente costretta all’operazione militare in Ucraina“, è quanto riporta il Cremlino in una trascrizione delle parole rivolte da Dodik a Putin, durante il colloquio andato in scena al Cremlino nella giornata di ieri (23 maggio). Proprio sulla guerra in Ucraina l’autocrate russo ha rivolto un ringraziamento al leader serbo-bosniaco per aver mantenuto una “posizione neutrale”, impendendo di fatto alla Bosnia ed Erzegovina di allinearsi alle posizioni dell’Ue e alle sanzioni internazionali contro la Russia.
    Proprio su questo punto Dodik si è lamentato con Putin del fatto che “la Repubblica Srpska è soggetta a pressioni da parte di partner occidentali che ci impediscono di svilupparci normalmente”. Nonostante ciò il commercio bilaterale tra l’entità serba in Bosnia e la Russia nel 2022 sarebbe aumentato del 57 per cento rispetto all’anno precedente, in particolare per quanto riguarda le forniture di gas: come la Serbia, anche la Bosnia ed Erzegovina (e di conseguenza la Republika Srpska) riceve gas dal colosso energetico russo Gazprom attraverso il gasdotto BalkanStream (prolungamento del TurkStream tra Russia e Turchia), che passa dalla Bulgaria. Nonostante Sofia non riceva più gas russo da oltre un anno per essersi rifiutata di pagarlo in rubli, non ha mai impedito il transito del flusso verso i due Paesi balcanici. Duro l’attacco da parte di Bruxelles, che ancora una volta ribadisce come “mantenere stretti legami con la Russia è incompatibile con il percorso dell’Ue“. Il portavoce del Servizio Europeo per l’Azione Esterna (Seae), Peter Stano, ha fatto leva su quanto messo in chiaro con tutti i Paesi candidati all’adesione all’Unione – come lo sono la Bosnia ed Erzeogovina e le sue due entità costitutive dal 15 dicembre dello scorso anno: “Le relazioni con la Russia non possono essere business as usual con Putin“.
    Distributore Gazprom in Bosnia ed Erzegovina
    Ecco perché l’Ue si aspetta dai partner che aspirano a fare ingresso nell’Unione “affidabilità per principi, valori, sicurezza e prosperità comuni”, come ricordato dall’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, lunedì (22 maggio) durante la riunione a Bruxelles con ministri degli Esteri di tutti i sei Paesi dei Balcani Occidentali (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia). Anche il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, al termine di una riunione a Sarajevo la settimana scorsa con la neo-premier bosniaca, Borjana Krišto, aveva condannato il possibile viaggio di Dodik a Mosca: “Gli alleati dell’Ue non vanno in Russia”. Sulla possibilità di imporre sanzioni contro Dodik o la Republika Srpska, fonti Ue rivelano a Eunews che esiste già da tempo un quadro di misure restrittive pronto per essere applicato, ma per qualsiasi atto concreto serve l’unanimità ed è l’Ungheria a non permettere il via libera. In altre parole, finché Viktor Orbán “gli coprirà le spalle”, Dodik non sarà inserito nella lista delle sanzioni dell’Unione Europea.
    Le provocazioni di Dodik a Bruxelles
    È dall’ottobre del 2021 – ben prima dell’inizio dell’invasione russa in Ucraina – che Dodik è diventato una spina nel fianco dell’Ue, facendosi promotore di un progetto secessionista in Republika Srpska. L’obiettivo è quello di sottrarsi dal controllo dello Stato centrale in settori fondamentali come l’esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario, a più di 20 anni dalla fine della guerra etnica in Bosnia ed Erzegovina. Il Parlamento Europeo ha evocato sanzioni economiche (le stesse che le fonti precisano essere in stallo) e dopo la dura condanna dei tentativi secessionisti dell’entità a maggioranza serba in Bosnia (con un progetto di legge per l’istituzione di un Consiglio superiore della magistratura autonomo), a metà giugno del 2022 i leader bosniaci si sono radunati a Bruxelles per siglare una carta per la stabilità e la pace, incentrata soprattutto sulle riforme necessarie sul piano elettorale e costituzionale nel Paese balcanico.
    Da sinistra: il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, e l’autocrate russo, Vladimir Putin, al Cremlino il 20 settembre 2022 (credits: Alexey Nikolsky)
    Alle provocazioni secessioniste si è affiancato dal 24 febbraio dello scorso anno il non-allineamento alla politica estera dell’Unione e alle sanzioni internazionali contro il Cremlino: insieme alla Serbia la Bosnia ed Erzegovina è l’unico Paese europeo a non aver adottato le misure restrittive Ue a causa dell’opposizione della componente serba della presidenza tripartita. Già il 20 settembre dello scorso anno Dodik aveva viaggiato a Mosca per un incontro bilaterale con Putin, dopo le provocazioni ai partner occidentali sull’annessione illegale da parte del Cremlino delle regioni ucraine Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia. Provocazioni che sono continuate a inizio gennaio di quest’anno con il conferimento all’autocrate russo dell’Ordine della Republika Srpska (la più alta onorificenza dell’entità a maggioranza serba del Paese balcanico) – come riconoscimento della “preoccupazione patriottica e l’amore” nei confronti delle istanze di Banja Luka – in occasione della Giornata nazionale della Republika Srpska, festività incostituzionale secondo l’ordinamento bosniaco.
    Parallelamente sono continuati i tentativi di imporre un sistema di controllo sui media e la libertà di stampa che ricorda molto da vicino quello russo. A fine marzo l’Assemblea nazionale della Repubblica Srpska ha votato a favore di emendamenti al Codice Penale che reintroducono sanzioni penali per la diffamazione. Il 22 maggio sono scaduti i 60 giorni di consultazione pubblica per l’entrata in vigore degli emendamenti. Allo stesso tempo il governo dell’entità serba della Bosnia ed Erzegovina ha presentato un progetto di legge per istituire un registro di associazioni e fondazioni finanziate dall’estero: il modello è simile a quello adottato a Mosca dal primo dicembre dello scorso anno, che ha ampliato l’utilizzo politico dell’etichetta ‘agente straniero’ già utilizzata dal 2012 per colpire media indipendenti e Ong.

    Il presidente della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba della Bosnia ed Erzegovina, è tornato il primo leader europeo a incontrare a Mosca l’autocrate russo. Fonti Ue riportano a Eunews che a ostacolare l’imposizione di un regime di sanzioni è il veto dell’Ungheria di Viktor Orbán

  • in

    L’indipendente Oğan appoggia Erdoğan al ballottaggio. In Turchia è sempre più probabile la rielezione del sultano

    Bruxelles – Le speranze dell’opposizione in Turchia di estromettere dal potere il presidente in carica, Recep Tayyip Erdoğan, sono appese a un filo sempre più sottile. Perché il terzo candidato sconfitto al primo turno delle presidenziali, l’indipendente Sinan Oğan, ha reso finalmente nota la propria indicazione di voto ai sostenitori in vista del ballottaggio del prossimo 28 maggio. E il sostegno non è andato a chi avrebbe avuto più bisogno di quei 5,2 punti percentuali per insidiare da vicino l’uomo forte di Ankara e riaprire la partita elettorale, ovvero lo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu. “Chiedo ai miei elettori di appoggiare Erdoğan“, ha annunciato il leader ultra-nazionalista in una conferenza stampa convocata nel tardo pomeriggio di ieri (22 maggio), in cui ha messo in chiaro che il presidente in carica è il candidato che potrà dare più stabilità al Paese.
    Il candidato indipendente sconfitto al primo turno delle elezioni presidenziali in Turchia, Sinan Oğan (credits: Adem Altan / Afp)
    In verità l’annuncio non ha sorpreso gli analisti, considerato il fatto che il partito da cui Oğan proviene, il Partito del Movimento Nazionalista (Mhp), farà parte della nuova maggioranza di 323 deputati che in Parlamento sosterrà l’esecutivo a trazione Akp (il Partito della Giustizia e dello Sviluppo del presidente Erdoğan). L’Alleanza Ata che ha sostenuto Oğan – formata da piccoli partiti di destra nazionalista e ultranazionalista – si è già sciolta, ma sembra verosimile che i quasi tre milioni di elettori del primo turno seguiranno le indicazioni dell’ormai ex-candidato comune. Ad accomunarli ci sono gli stessi sentimenti di odio sia nei confronti delle persone migranti arrivate dalla Siria, sia nei confronti della minoranza curda, che hanno fatto propendere la scelta del candidato sconfitto al primo turno più per Erdoğan che per Kılıçdaroğlu.
    Nei giorni successivi al voto del 14 maggio il candidato estromesso dalla corsa a due di domenica prossima ha incontrato il presidente in carica che, secondo quanto riportato in conferenza stampa, condivide la sua visione di “prendere tutte le misure per rimpatriare i migranti” nel più breve tempo possibile. Buona parte della campagna elettorale è stata giocata proprio sul tema della gestione degli oltre tre milioni di cittadini siriani rifugiati in Turchia dopo lo scoppio della guerra civile del 2011. Erdoğan ha promesso che incoraggerà il rimpatrio di almeno un milione di persone e negli ultimi giorni Kılıçdaroğlu l’ha seguito su questa strada di consenso elettorale, nella speranza di strappare voti al leader dell’Akp su questo tema, ma non è sembrato sufficientemente credibile agli occhi dei nazionalisti. Un’altra questione di non poco conto è quella delle accuse dell’ex-Alleanza Ata alla cosiddetta ‘Tavola dei Sei’ – il patto tra sei partiti di opposizione per esprimere un candidato comune – di sostenere il movimento politico-militare curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), a causa del sostegno dal Partito della Sinistra Verde (Ysp), di orientamento filo-curdo.
    Il primo turno delle elezioni in Turchia
    Da sinistra: il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen
    Al primo turno delle elezioni presidenziali in Turchia la presenza Oğan è stata decisiva per portare gli elettori di nuovo alle urne per il ballottaggio tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu. Dopo un recupero quasi clamoroso rispetto ai sondaggi elettorali, il presidente in carica è andato molto vicino a farsi eleggere già il 14 maggio, conquistando il 49,5 per cento delle preferenze, mentre lo sfidante dell’opposizione si è fermato al 44,89, ben sotto le aspettative. Il candidato dell’Alleanza Ata ha incassato un 5,17 per cento, che ha significato diventare l’ago della bilancia per il secondo turno, mentre lo 0,43 è andato al candidato del Partito della Patria Muharrem İnce, il cui nome è rimasto sulle schede nonostante il ritiro dalla corsa elettorale a due giorni dall’appuntamento elettorale.
    Da Bruxelles i leader delle istituzioni comunitarie non si sono esposti – dopo aver chiesto trasparenza e incisività alle elezioni – sottolineando più il successo della tornata elettorale in termini di affluenza (attorno al 90 per cento). “È molto importante sottolineare il processo democratico, ora dobbiamo aspettare il risultato del secondo turno”, è stato il commento post-voto del presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel. A fargli eco la numero uno della Commissione Ue, Ursula von der Leyen: “La Turchia è un partner importante, abbiamo visto un’affluenza enorme a queste elezioni e questa è davvero un’ottima notizia, perché è un segno che i cittadini turchi danno valore alle istituzioni democratiche”.

    Il candidato ultra-nazionalista sconfitto al primo turno delle elezioni presidenziali ha sciolto le riserve, chiedendo ai sostenitori di votare il presidente in carica. Ridotte al minimo le possibilità dell’opposizione unita guidata da Kemal Kılıçdaroğlu di raggiungere la maggioranza assoluta