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    Ucraina, la nuova proposta dell’Ue per i rifugiati: protezione fino al 2027 e supporto per un ritorno sicuro

    Bruxelles – La protezione 4,3 milioni di rifugiati ucraini in Europa si trova oggi a un bivio, tra la necessità di offrire continuità e quella di preparare un futuro diverso. Dopo oltre tre anni di guerra in Ucraina, la Commissione europea propone di estendere per un altro anno la protezione temporanea, mantenendo gli stessi diritti, ma avviando nel contempo un piano per una graduale transizione verso forme di sostegno più durature o il ritorno sicuro in Ucraina.Allo scoppio del conflitto l’Unione Europea ha reagito immediatamente, attivando già nel marzo 2022 la misura eccezionale che ha permesso agli ucraini fuggiti dalla guerra di avere accesso immediato a diritti come residenza, lavoro, assistenza sociale e sanitaria in tutti gli Stati membri. L’ha poi prorogata, ogni anno, di fronte al perdurare della guerra. Oggi (4 giugno) la Commissione propone di prolungare questa tutela fino al marzo 2027, assicurando così stabilità a chi è costretto a vivere lontano da casa. “La nostra solidarietà verso l’Ucraina e i suoi cittadini rimane salda”, ha affermato Ursula von der Leyen, presidente della Commissione: “Continueremo a offrire protezione a chi scappa dalla guerra e, al contempo, prepariamo le condizioni per un futuro in cui il ritorno sicuro e dignitoso sarà possibile”.L’estensione della protezione temporanea è accompagnata da una strategia più ampia che tiene conto delle esigenze di lungo termine. La Commissione invita infatti gli Stati membri a coordinarsi per facilitare una transizione graduale verso altre forme di status legale, come permessi di lavoro o di studio, per chi ha iniziato a integrarsi nei Paesi ospitanti. Questo approccio mira a evitare l’insicurezza e la frammentazione, offrendo ai rifugiati prospettive più solide. Allo stesso tempo, viene promossa l’idea di programmi che favoriscano il ritorno volontario e sicuro in Ucraina, in stretta collaborazione con le autorità locali. Si prevede la possibilità per i rifugiati di effettuare visite esplorative nel Paese per valutare le condizioni reali, mentre saranno creati centri di supporto, chiamati “Unity hubs“, con informazioni e assistenza sia per chi resta in Europa sia per chi sceglie di tornare. Henna Virkkunen, vicepresidente esecutiva per Sovranità tecnologica, sicurezza e democrazia, ha spiegato che “estendere la protezione temporanea è un segnale di solidarietà e impegno europeo. Tuttavia, è altrettanto importante preparare una gestione coordinata della fase successiva, tra reinserimento e integrazione”.Il commissario per gli Affari interni Magnus Brunner ha ricordato come siano milioni gli ucraini che hanno trovato rifugio e opportunità nell’Ue negli ultimi anni, e come sia importante offrirgli le possibilità per ricostruire il proprio Paese una volta raggiunta una condizione di stabilità duratura. Per evitare squilibri, la Commissione raccomanda una migliore condivisione dei rifugiati e l’eliminazione di permessi di soggiorno doppi. Questo aiuterà a gestire più efficacemente i flussi e a offrire risposte più coordinate. I programmi di ritorno volontario sono stati progettati per garantire che il rientro sia sicuro e dignitoso, con particolare attenzione alle categorie vulnerabili e alle famiglie. Gli “Unity Hubs” saranno punti di riferimento essenziali, a Berlino, Praga e Alicante, dove i rifugiati potranno ricevere supporto sia per la vita in Europa sia per il rientro in Ucraina. L’Unione Europea si impegna inoltre a mantenere aperti i canali di comunicazione e scambio dati tra Stati membri e con l’Ucraina tramite piattaforme dedicate, garantendo un monitoraggio costante della situazione e la possibilità di adeguare la risposta alle evoluzioni sul terreno.Per Kiev il ritorno non è solo una questione simbolica, ma una necessità economica. Il vice primo ministro ucraino, Oleksandr Chernyshev, ha parlato chiaramente della necessità di programmi strutturati per favorire un rientro volontario e sostenibile per garantire supporto pratico e informazioni sui servizi disponibili in patria, dalla scuola al lavoro. “Abbiamo bisogno dei nostri cittadini per ricostruire l’economia”, ha detto Chernyshev, aggiungendo che l’Ucraina avrà bisogno di almeno 4 milioni di persone in più nel mercato del lavoro per raddoppiare il Pil nei dieci anni successivi alla fine della guerra.La palla ora passa al Consiglio, che dovrà formalmente approvare la proposta di proroga e le linee guida per la gestione coordinata della protezione e del futuro dei rifugiati ucraini in Europa.

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    Ucraina, nuova fumata nera dai colloqui di Istanbul sul cessate il fuoco

    Bruxelles – Ucraina e Russia ci riprovano, ma senza fare progressi sostanziali. Le delegazioni di Kiev e Mosca si sono incontrate di nuovo a Istanbul per continuare i colloqui diretti sulla fine della guerra. C’è l’intesa su uno scambio di prigionieri e sulla restituzione di un gran numero di salme, ma le posizioni su un’eventuale tregua nei combattimenti rimangono inconciliabili. Nel frattempo, di qua e di là del confine continuano a cadere le bombe.Con buona pace delle speculazioni su fantomatici negoziati di pace in Vaticano circolate nelle scorse settimane, è a Istanbul che russi e ucraini continuano a incontrarsi. Lì si è svolto ieri (2 giugno) un nuovo round di colloqui diretti tra le delegazioni dei due belligeranti, sedutesi allo stesso tavolo per la seconda volta dal marzo 2022.Il primo faccia a faccia risale a metà maggio, quando le squadre negoziali avevano concordato uno scambio di 1000 prigionieri per parte, ma senza fare progressi sul nodo centrale delle trattative: le condizioni per un cessate il fuoco sostenibile e, in prospettiva, l’avvio di veri colloqui di pace.Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (foto via Imagoeconomica)Anche stavolta, nella millenaria città sul Bosforo i negoziatori di Kiev e Mosca hanno dato il disco verde alla liberazione di un numero imprecisato di prigionieri – soprattutto i soldati più giovani, di età compresa tra i 18 e i 25 anni, e i feriti più gravi – e alla restituzione di 6mila caduti per parte.Rimane invece siderale la distanza tra le rispettive posizioni su come giungere ad un’interruzione temporanea delle ostilità, punto di partenza per negoziati sostanziali su una pace duratura. Ucraina e Russia si sono scambiate dei memorandum sulle condizioni ritenute accettabili per una tregua, ma i desiderata messi nero su bianco dalle due parti sono sempre gli stessi. E non sono conciliabili.Per avviare negoziati sostanziali, Kiev continua a chiedere un cessate il fuoco immediato e totale, il rilascio di tutti i prigionieri militari e civili e il ritorno dei minori rapiti durante l’occupazione. Altri due punti cruciali sono la libertà dell’Ucraina di aderire tanto all’Ue quanto alla Nato, previo consenso politico all’interno dei due club, e le famigerate (quanto fumose) garanzie di sicurezza che dovrebbero essere fornite dalla coalizione dei volenterosi.I briefed the President of Ukraine @ZelenskyyUa on today’s meeting with the Russian side in Istanbul.Upon returning to Kyiv, I will also present the Russian proposals — which they shared only today, directly during the negotiations.The Ukrainian side acted clearly and… pic.twitter.com/MYuw15BPQw— Rustem Umerov (@rustem_umerov) June 2, 2025Kiev sostiene inoltre la necessità di un faccia a faccia tra Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin. “Riteniamo che abbia senso continuare il lavoro tra le delegazioni se è finalizzato a preparare un incontro tra i capi di Stato”, ha osservato il capo-negoziatore Rustem Umerov, titolare della Difesa ucraina. La finestra da lui proposta per organizzare il bilaterale – magari alla presenza di Donald Trump – è “entro la fine di questo mese, dal 20 al 30 giugno“.Eventuali cessioni territoriali, fanno sapere gli ucraini, andranno discusse solo al massimo livello tra i due presidenti. Se tali condizioni verranno soddisfatte, Kiev si dichiara disposta ad accettare il progressivo allentamento delle sanzioni contro Mosca, purché venga messo in piedi un meccanismo atto a reintrodurle rapidamente in caso di necessità. Zelensky ha inoltre invocato nuove misure restrittive se il processo di Istanbul non porterà a breve ad un cessate il fuoco.Si tratta con ogni evidenza di condizioni irricevibili per il Cremlino, che a sua volta mantiene le proprie richieste massimaliste già respinte al mittente da Kiev. La Federazione pretende la fine del supporto occidentale alla resistenza ucraina, la smilitarizzazione e “neutralizzazione” del Paese aggredito nonché la rinuncia a farlo entrare nell’Alleanza nordatlantica, oltre alla ritirata dell’esercito ucraino dalle quattro oblast’ parzialmente occupate – che Mosca vuole vedere riconosciute come territorio russo de jure, insieme alla Crimea – e alla rimozione di tutte le sanzioni internazionali.Il presidente russo Vladimir Putin (foto: Imagoeconomica)Quanto al cessate il fuoco, il capo-negoziatore russo Vladimir Medinsky (lo stesso che aveva guidato la squadra russa nella prima fase dei colloqui di Istanbul tre anni fa) ha messo sul tavolo la proposta di una tregua parziale di due e o tre giorni, da attivarsi solo in determinate aree del fronte durante i negoziati.Questo secondo round di colloqui a Istanbul ha avuto luogo all’indomani del più ampio attacco ucraino sul suolo della Federazione dall’inizio dell’invasione su larga scala, che avrebbe portato alla distruzione di decine di bombardieri. Così, tra le richieste avanzate dal Cremlino figura anche “il rifiuto da parte di Kiev di intraprendere attività sovversive e di sabotaggio contro la Russia”.Richiesta destinata a cadere nel vuoto, dato che proprio oggi i servizi di intelligence di Kiev hanno rivendicato il terzo attacco al ponte di Kerch dal 2022. L’infrastruttura, che collega direttamente la Federazione alla penisola nel Mar Nero, è fondamentale per rifornire le truppe russe nel sud dell’Ucraina. Nel frattempo, l’esercito di Mosca continua la sua lenta avanzata nella regione ucraina di Sumy, dove non si fermano i bombardamenti.

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    Siria, Ue al lavoro per i rimpatri. Frontex: “Oltre mille ritorni da marzo”

    Bruxelles – Oltre mille rimpatri volontari dal territorio dell’Unione europea a casa, la Siria. Frontex, l’Agenzia di guardia costiera e di frontiera dell’Ue, da marzo ad oggi sta aiutando a ripristinare una situazione di normalità al Paese dopo la caduta del regime di Bashar Al-Assad, permettendo a quanti hanno goduto di protezione di ricominciare nel nuovo corso nazionale. Quattordici gli Stati membri da cui Frontex ha agevolato il trasferimento di cittadini siriani verso il Medio Oriente, spiega la stessa Agenzia.“Questo importante traguardo riflette l’impegno continuo per garantire rimpatri sicuri e dignitosi”, sottolinea Hans Leijtens il direttore esecutivo Frontex. “Tornare a casa è un’aspirazione profondamente umana. Per molti, significa ricongiungersi con la famiglia, riprendere in mano la propria vita e ritrovare la propria dignità”. L’attività dell’Agenzia dell’Ue si aggiunge a quella degli organismi internazionale. In particolare, sottolinea il commissario per gli Affari interni e l’immigrazione, Magnus Brunner, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) stima che “oltre 356.200 siriani siano tornati in Siria attraverso i paesi vicini dall’inizio di dicembre 2024 e che quasi 890mila sfollati interni siano tornati nella loro regione di origine dal novembre 2024″. Questa la fotografia fornita nella sua risposta all’interrogazione parlamentare depositata per fare un punto della situazione. Per quanto riguarda l’aspetto legato ai richiedenti asilo, “l’Ue si impegna a contribuire a creare le condizioni per un ritorno sicuro, volontario e dignitoso dei rifugiati“.L’Ue sta scommettendo (al buio) sulla nuova leadership in SiriaPer questo serve un Paese stabile, politicamente solido e inclusivo. L’Unione europea scommette sulla nuova leadership, e in segno di buona fede le sanzioni decretate in passato e rimaste in vigore per tutti questi anni sono state eliminate. In occasione dell’ultimo Consiglio Ue Affari esteri, i ministri degli Esteri degli Stati membri dell’Ue hanno deciso di rimuovere dalla lista nera europea 24 entità soggette al congelamento di fondi e risorse economiche. Molte di queste entità sono banche, tra cui la Banca Centrale della Siria, o società che operano in settori chiave per la ripresa economica della Siria.La scelta del resto trova la sua logica nella necessità di creare le condizioni per fare del Paese un luogo sicuro e stabile dove tornare a vivere, e il rilancio economico in tal senso rappresenta un elemento chiave per convincere i rifugiati siriani a tornare. Dall’Ue però nessun assegno in bianco: il Consiglio dell’Ue si dice “pronto a introdurre nuove misure restrittive” nei confronti di chi viola i diritti umani e alimenta l’instabilità in Siria. Un concetto ribadito anche dallo stesso Brunner: “Il sostegno dell’Ue e la sospensione delle sanzioni sono commisurati agli sviluppi nel Paese“.

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    I dazi di Trump sono illegali: una Corte federale Usa blocca l’arma commerciale di Washington

    Bruxelles – Una sentenza storica emessa dalla Corte del commercio internazionale degli Stati Uniti ha dichiarato illegittima l’imposizione dei dazi generalizzati annunciata da Donald Trump nel ‘Liberation Day’, lo scorso 2 aprile. Un colpo di scena clamoroso, che mette un freno alla linea aggressiva del presidente in materia di politica commerciale e che rimescola le carte nella complessa partita delle negoziazioni che i partner commerciali di Washington – Unione europea compresa – stanno portando avanti con la nuova amministrazione americana.La decisione, giunta ieri sera (28 maggio) da un collegio di tre giudici presso la sede della corte a New York, arriva a seguito di numerosi ricorsi presentati da imprese e stati americani, che accusano il tycoon di aver abusato dei propri poteri presidenziali. Al centro della contesa, l’uso dell’International emergency economic powers act (Ieepa), una legge nata per gestire minacce “inusuali e straordinarie” in tempi di emergenza nazionale, che secondo la corte non può essere utilizzata per introdurre dazi su scala globale. La corte ha dichiarato che gli ordini tariffari di Trump “superano qualsiasi autorità conferita al presidente in materia di regolamentazione dell’importazione tramite dazi”.Nella sentenza si sottolinea come i giudici non abbiano espresso alcun giudizio sull’opportunità o efficacia delle misure tariffarie in sé, ma piuttosto abbiano rilevato la loro incompatibilità con l’attuale quadro normativo. “L’uso dei dazi è inammissibile non perché è inefficace o poco saggio, ma perché la legge federale non lo consente”, si legge nella motivazione.Il presidente statunitense Donald Trump annuncia l’imposizione di dazi sulle importazioni dai partner globali, il 2 aprile 2025 (foto: Brendan Smialowski/Afp)La sentenza mette in discussione uno degli strumenti chiave del trumpismo economico: l’utilizzo di dazi punitivi per esercitare pressione su partner commerciali, rilocalizzare la produzione e ridurre il deficit commerciale statunitense, che ammonta a oltre 1.200 miliardi di dollari. Secondo la corte, il presidente non può aggirare il Congresso giustificando tali misure con la semplice esistenza di un disavanzo commerciale, che non costituisce di per sé un’emergenza nazionale. Il pronunciamento giudiziario invalida immediatamente tutti gli ordini tariffari emessi tramite l’Ieepa. Trump, dunque, sarà costretto a revocare i provvedimenti e, eventualmente, emettere nuovi ordini che riflettano l’ingiunzione permanente, entro dieci giorni. Va precisato che la decisione non si applica ai dazi settoriali del 25 per cento su auto, componenti, acciaio e alluminio, imposti da Trump all’Ue precedentemente e già in vigore.I mercati finanziari hanno accolto con entusiasmo la notizia. Il dollaro ha registrato un’impennata, guadagnando terreno su euro, yen e franco svizzero. In Europa, le principali borse hanno chiuso in rialzo: il Dax di Francoforte è salito dello 0,9 per cento, il Cac 40 di Parigi dell’ 1 per cento, il Ftse 100 di Londra ha guadagnato lo 0,1 per cento mentre il Ftse Mib di Milano si attesta a +0,3 per cento. I mercati asiatici hanno condiviso la scia positiva, mentre i futures a Wall Street indicano un’apertura in forte rialzo.Nonostante ciò, la Casa Bianca ha reagito duramente alla decisione. Kush Desai, portavoce dell’amministrazione, ha contestato con forza l’autorità dei giudici: “Non spetta a giudici non eletti decidere come affrontare un’emergenza nazionale”. Stephen Miller, vice-capo di gabinetto, ha parlato di “un colpo giudiziario fuori controllo”, mentre Donald Trump non ha ancora reagito ufficialmente alla questione. La decisione sarà impugnata in appello presso la Corte federale di Washington e, potenzialmente, davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Il verdetto mette in seria difficoltà la strategia di Trump, costruita su dazi estesi che miravano a rinegoziare gli equilibri commerciali globali. Senza il ricorso all’Ieepa, l’amministrazione dovrebbe ora seguire iter più lenti e complessi, basati su indagini commerciali formali e l’applicazione di altre leggi specifiche in materia doganale.US President Donald Trump speaks with European Commission President Ursula von der Leyen prior to their meeting at the World Economic Forum in Davos, on January 21, 2020. (Photo by JIM WATSON / AFP)La corte si è pronunciata su due cause principali. La prima è stata intentata da un gruppo di piccole imprese americane, che hanno lamentato danni economici ingenti, mentre la seconda è stata avviata da una dozzina di stati, guidati dall’Oregon. Il procuratore generale dello stato, Dan Rayfield, ha commentato: “Questa sentenza ribadisce che le nostre leggi contano e che le decisioni commerciali non possono dipendere dai capricci del presidente”. Gli avvocati dei ricorrenti hanno sostenuto che il deficit commerciale non costituisce un’emergenza ai sensi dell’Ieepa, ricordando che gli Stati Uniti registrano un disavanzo commerciale da 49 anni consecutivi. La tesi centrale era che l’utilizzo della legge d’emergenza per introdurre dazi fosse un abuso di potere, e la corte ha dato loro ragione.Il caso resta aperto a ulteriori sviluppi giudiziari ma intanto, con questa sentenza, i giudici mettono un argine alle derive unilaterali della politica commerciale statunitense, riaffermando la centralità del diritto, e del Congresso, nelle decisioni economiche di portata globale, e ricordando a Trump che spesso avere carte in mano non significa poterle giocare a proprio piacimento.The judicial coup is out of control. https://t.co/PRRZ1zU6lI— Stephen Miller (@StephenM) May 28, 2025

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    L’Ue si dà una strategia per il Mar Nero, dopo tre anni di guerra in Ucraina

    Bruxelles – Dopo più di tre anni dall’inizio della guerra neo-imperialista della Russia in Ucraina, l’Ue prova a darsi una prospettiva strategica nella regione del Mar Nero, per controbilanciare l’influenza di Mosca e consolidare la propria. Parole d’ordine: sicurezza, connettività e investimenti. Nelle speranze di Bruxelles, si potrà fare tutto questo senza impiegare nuove risorse di bilancio, ma semplicemente “razionalizzando” quelle già esistenti.La Commissione europea ha presentato oggi (28 maggio) la sua nuova strategia per la regione del Mar Nero, con la quale cercherà di proiettarsi nella zona che fa da cerniera naturale tra Europa orientale, Caucaso meridionale e Asia centrale. Nell’idea dell’esecutivo comunitario, servirà per “rafforzare il ruolo geopolitico dell’Ue” attraverso l’approfondimento della cooperazione con tutti i Paesi della regione: Ucraina, Moldova, Georgia, Armenia, Azerbaigian e Turchia.Secondo il Berlaymont, l’iniziativa dovrà imperniarsi su tre pilastri principali. Il primo, neanche a dirlo, riguarda la sicurezza regionale: la cui responsabilità, ha sottolineato l’Alta rappresentante Kaja Kallas, “non può ricadere solamente sulle spalle degli Stati membri”. A tal scopo, Bruxelles prevede di istituire un “hub per la sicurezza marittima” aperto alla partecipazione di tutti i Paesi dell’area.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas (foto: Lukasz Kobus/Commissione europea)Come spiegato dal capo della diplomazia a dodici stelle, si tratterà di “un sistema europeo di allerta precoce per aumentare la consapevolezza situazionale e proteggere le infrastrutture critiche” di Stati membri e Paesi terzi dalle minacce ibride – ivi comprese campagne di disinformazione e interferenze elettorali varie (vedi alle voci Moldova e Romania) – poste da attori stranieri malevoli, in primis la Russia.Tale hub, di cui andranno concordati in un secondo momento l’ubicazione e il “modello operativo” e che collaborerà con le strutture della Nato e della coalizione dei volenterosi, dovrà inoltre contribuire a “monitorare qualunque accordo di pace stipulato tra Russia e Ucraina” e ad assicurare la sicurezza di navigazione nel Mar Nero, prendendo parte tanto al contrasto della flotta ombra di Mosca quanto alle operazioni di sminamento del fondale una volta terminato il conflitto.Infine, fungerà anche da centro di coordinamento per la mobilità militare regionale, partecipando con modalità non meglio definite agli interventi di ammodernamento di porti, ferrovie, strade e quant’altro possa servire a “muovere truppe ed equipaggiamenti”.Il secondo pilastro è quello della connettività. Il Mar Nero, nelle parole della commissaria all’Allargamento Marta Kos, è “un ponte verso il Caucaso meridionale e l’Asia centrale, un’arteria vitale per il commercio, i flussi energetici e le esportazioni alimentari” e dunque l’Ue avverte “la necessità di diversificare i legami” coi partner dell’area per ridurre ulteriormente le proprie dipendenze da Mosca.When dependencies are weaponised, we must diversify.The Black Sea is the bridge to the South Caucasus & Central Asia – vital for trade, energy flows, & food exports.Our new strategy offers partnerships & better connectivity stepping up our collective security & prosperity. pic.twitter.com/HJNzkKHl6b— Marta Kos (@MartaKosEU) May 28, 2025Andranno quindi sviluppati nuovi corridoi energetici, reti di trasporto e infrastrutture digitali che connettano la regione coi bacini del Baltico e del Mediterraneo da un lato e del Caspio dall’altro. Secondo le previsioni di Kos, Kiev e Chisinau potrebbero essere “completamente disaccoppiate dalle fonti energetiche russe entro la fine del 2027“. Parallelamente, Bruxelles punta a “migliorare la cooperazione nel settore energetico con l’Armenia e l’Azerbaigian“.L’ultimo cardine della strategia riguarda la preparazione e la resilienza, soprattutto per quanto riguarda il cambiamento climatico e gli impatti ambientali della guerra d’Ucraina. Un occhio di riguardo sarà riservato alle comunità costiere, puntando in particolare all’economia blu e alle opportunità di crescita sostenibile.Ma non si diventa una potenza geopolitica coi proclami trionfalistici. Da dove si prenderanno i soldi? “Non faremo ricorso a nuovi strumenti finanziari“, hanno chiarito Kallas e Kos. Le risorse arriveranno da fondi già esistenti, come la Ukraine facility o i piani di crescita stipulati da Bruxelles, ad esempio, con Armenia e Moldova. Un altro contributo dovrebbe arrivare dalla revisione del funzionamento della Garanzia per l’azione esterna, la spina dorsale di quel Global gateway con cui Bruxelles ha provato a rispondere alla Nuova via della seta di Pechino.La commissaria all’Allargamento, Marta Kos (foto: Lukasz Kobus/Commissione europea)Come illustrato dal commissario per i Partenariati internazionali, Jozef Síkela, si tratta di stimolare la crescita sostenibile dei partner ma anche di migliorare l’efficacia degli aiuti allo sviluppo. “Il successo della strategia dipenderà dal potere di fuoco finanziario che saremo in grado di mettere in campo”, ha dichiarato. La verità, tuttavia, è che la coperta è corta, e la partita entrerà nel vivo in autunno quando inizieranno i negoziati tra Consiglio e Parlamento sul nuovo Quadro finanziario pluriennale (Qfp).L’obiettivo, dice Síkela, è fare “un uso più dinamico delle risorse dell’Ue senza bisogno di nuove risorse di bilancio“. Nei suoi calcoli, si potrebbe arrivare a mobilitare fino a 10 miliardi di investimenti aggiuntivi senza mettere un centesimo in più nel budget comunitario. Per riuscirci, andranno riviste le norme sugli investimenti nei Paesi terzi, verrà ridotta la copertura del rischio da parte della Banca europea degli investimenti (Bei) e si procederà all’ennesima sburocratizzazione del settore. Basterà?

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    In Irlanda è pronta una legge per vietare le importazioni dagli insediamenti israeliani nella West Bank

    Bruxelles – L’Irlanda potrebbe diventare il primo Stato membro dell’Ue a vietare l’importazione di beni prodotti negli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati. Il governo irlandese presenterà domani (27 maggio) una proposta di legge che, se approvata, renderebbe reato l’acquisto di prodotti israeliani provenienti dalla Cisgiordania e da Gerusalemme Est, aree considerate illegalmente occupate dallo Stato ebraico secondo il diritto internazionale.Il disegno di legge, annunciato dal tánaiste e ministro degli Esteri e del Commercio Simon Harris, si inserisce in un contesto di crescente attenzione internazionale sulla situazione a Gaza. “È evidente che si stanno commettendo crimini di guerra: i bambini vengono affamati e il cibo è usato come arma”, ha dichiarato Harris al Financial Times: “Il mondo non ha fatto abbastanza, e dobbiamo agire”. La proposta irlandese rappresenta il primo tentativo concreto all’interno dell’Ue di introdurre una restrizione commerciale mirata nei confronti degli insediamenti israeliani.Insediamenti israeliani in CisgiordaniaIl disegno di legge prevede il divieto di importazione di beni fisici come datteri, arance, olive, legname e cosmetici, provenienti da insediamenti israeliani. A rimanere esclusi dal provvedimento sarebbero invece i prodotti realizzati da aziende palestinesi nella stessa area, come l’olio d’oliva Zaytoun. Tra il 2020 e il 2024, il valore complessivo delle importazioni irlandesi da questi territori è stato di appena 685.000 euro, ma la portata del provvedimento è considerata altamente simbolica. Oltre ai beni materiali, è in corso un dibattito giuridico sull’inclusione dei servizi, come turismo e tecnologia. Più di 400 accademici e giuristi irlandesi hanno firmato una lettera aperta a sostegno dell’estensione del divieto anche a settori come l’ospitalità, sottolineando come non vi siano ostacoli insormontabili nel diritto irlandese, europeo o internazionale a un provvedimento di questo tipo. Se inclusi, i servizi potrebbero coinvolgere aziende come Airbnb, che ha la propria sede europea a Dublino e sarebbe quindi soggetta alla normativa irlandese. Nel 2019, Airbnb aveva inizialmente annunciato il ritiro delle sue inserzioni nei territori occupati, salvo poi fare marcia indietro in seguito a cause legali, decidendo infine di devolvere i profitti derivanti da quelle attività a organizzazioni umanitarie. Harris ha dichiarato di non avere obiezioni politiche all’estensione del divieto ai servizi, confermando di aver ricevuto pareri legali secondo cui l’inclusione sarebbe attualmente impossibile.Sebbene il commercio sia una competenza dell’Unione Europea, esistono eccezioni in cui gli Stati membri possono agire autonomamente, specialmente in situazioni considerate di “straordinaria gravità”. A tal fine, l’Irlanda si richiama a un parere consultivo emesso lo scorso anno dalla Corte internazionale di giustizia, secondo cui gli Stati devono “adottare misure per impedire relazioni commerciali o d’investimento che contribuiscano al mantenimento della situazione illegale nei territori palestinesi occupati”.A livello comunitario, il provvedimento giunge pochi giorni dopo che una maggioranza di Stati membri ha votato per una revisione dell’accordo di associazione Ue-Israele del 1995. Una richiesta simile, avanzata da Irlanda e Spagna nel febbraio 2024, era stata in precedenza respinta dalla Commissione europea. L’esecutivo comunitario ha dichiarato che commenterà la proposta solo dopo che sarà adottata dal parlamento irlandese e formalmente trasmessa a Bruxelles. “Vogliamo fare qualcosa di significativo, ma un’azione collettiva dell’Unione avrebbe un impatto molto più forte“, ha osservato Harris.

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    Gaza, la Spagna chiede sanzioni contro Israele: “Fermi la sua guerra ingiusta e disumana”

    Bruxelles – La Spagna torna all’attacco e chiede sanzioni internazionali contro Israele se Tel Aviv non interromperà immediatamente la sua offensiva nella Striscia di Gaza e non permetterà agli aiuti umanitari di raggiungere la popolazione palestinese. La richiesta arriva direttamente da Madrid, dove ieri (25 maggio) un gruppo di Paesi europei e arabi si è riunito per cercare un approccio comune e aumentare la pressione su Benjamin Netanyahu affinché ponga fine alla catastrofe in corso e restituisca la parola alla diplomazia.Erano 20 gli Stati rappresentati nella capitale spagnola per discutere di una via d’uscita diplomatica alla devastante guerra che lo Stato ebraico sta portando avanti da oltre un anno e mezzo nell’enclave palestinese. Oltre alla Spagna, c’erano diversi Paesi Ue (Francia, Germania, Irlanda, Italia e Slovenia) ed europei (Norvegia, Islanda e Regno Unito), più gli arabi (Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Marocco e Turchia, cui si aggiungevano gli emissari della Lega araba e dell’Organizzazione della cooperazione islamica).La campagna militare israeliana a Gaza sta conoscendo una sanguinosa recrudescenza nelle ultime settimane, mentre gli aiuti umanitari per i civili della Striscia vengono sistematicamente bloccati da quasi tre mesi dall’esercito dello Stato ebraico (Idf) e, quando riescono a entrare, rischiano di venire attaccati.Per il padrone di casa, il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares, quella che Israele sta conducendo a Gaza è una “guerra ingiusta, crudele e disumana”. Secondo lui, la Striscia è una “ferita aperta dell’umanità” e il silenzio del mondo è “complice di questo massacro”. I camion con gli aiuti per la popolazione civile devono entrare “massicciamente, senza condizioni e senza limiti”, ha aggiunto, specificando che la gestione dell’intero processo “non dovrebbe essere controllata da Israele”.A fare le veci dell’Alta rappresentante Ue, Kaja Kallas, c’era a Madrid anche l’inviato speciale di Bruxelles per il Golfo, Luigi Di Maio, che momentaneamente detiene la delega al processo di pace mediorientale. Stando al resoconto dei portavoce della Commissione, l’ex ministro italiano ha ribadito “la necessità di un cessate il fuoco immediato a Gaza, il rilascio di tutti gli ostaggi e la ripresa completa degli aiuti a Gaza, immediatamente”.L’Alta rappresentante Ue per la politica estera, Kaja Kallas, e il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares (foto: European Council)La Spagna, ha sostenuto Albares, solleciterà i suoi partner a imporre un embargo sulla vendita di armi a Tel Aviv – metà delle bombe che vengono sganciate sulla Striscia sono europee, ha rivelato l’ex capo della diplomazia a dodici stelle Josep Borrell – e spingerà per “considerare le sanzioni” poiché, dice, occorre “considerare tutto per fermare questa guerra“. Ma, fanno notare dal Berlaymont, la questione delle sanzioni è spinosa perché richiede l’unanimità dei Ventisette.Non è una novità che Madrid assuma posizioni intransigenti nei confronti di Tel Aviv, soprattutto da quando Benjamin Netanyahu è tornato al potere. Il premier spagnolo Pedro Sánchez ha bollato Israele come “Stato genocida” in un discorso al Parlamento nazionale la settimana scorsa, scoperchiando un ginepraio di polemiche e critiche.Del resto, osserva Albares, non sono da escludere nemmeno sanzioni individuali contro coloro che “intendono rovinare per sempre la soluzione dei due Stati“. Quest’ultimo è uno dei temi al centro dei lavori del cosiddetto Gruppo di Madrid (noto anche come G5+). Ma ora come ora si tratta sostanzialmente di una chimera, vista la netta opposizione del primo ministro israeliano e dei suoi partner di governo dell’ultradestra messianica alla creazione di un’entità statale palestinese.L’incontro di ieri è servito anche come preparazione alla conferenza di alto livello dell’Onu dedicata specificamente alla soluzione a due Stati, in calendario per il 17 giugno a New York e organizzata da Francia e Arabia Saudita. Albares si augura che il summit del mese prossimo possa aprire la strada ad un riconoscimento della Palestina come nazione indipendente da parte del numero maggiore possibile di Paesi.Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto: Ohad Zwigenberg/Afp)Il primo ministro palestinese Mohammad Mustafa spera che il presidente Usa Donald Trump possa giocare un ruolo chiave per sbloccare questa difficilissima partita. Gli sforzi di Washington per un cessate il fuoco nella Striscia “sono apprezzati”, ha dichiarato, e l’auspicio è che “un impegno concreto, un impegno positivo da parte degli Stati Uniti contribuisca a portare la pace e la stabilità nella regione“.All’Onu, 147 Paesi su 193 riconoscono ufficialmente lo Stato di Palestina. Tra questi ci sono 10 membri dell’Ue, ma nel Vecchio continente mancano ancora all’appello Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi e Regno Unito, più Canada e Usa da oltreoceano. Teoricamente, il futuro Stato palestinese dovrebbe esercitare la propria sovranità su quelli che sono oggi i territori occupati: Gaza e Cisgiordania. Ma sul terreno la situazione appare impossibile.La Striscia è il teatro delle più sanguinose operazioni militari della storia recente (almeno 54mila morti, stando ai dati del ministero della Sanità guidato da Hamas) e Israele sta pianificando di occuparla militarmente una volta terminata la guerra, facendo marcia indietro sullo storico ritiro dall’enclave nel 2005. Quanto alla West Bank, continuano a espandersi sia gli insediamenti illegali dei coloni israeliani sia la violenza contro le comunità locali. Che è recentemente tracimata nell’aggressione ad una delegazione diplomatica in visita al campo profughi di Jenin, denunciata da Kallas come “inaccettabile”.Infine, Albares ha ribadito la richiesta dell’esecutivo di Madrid di sospendere l’accordo di associazione Ue-Israele, anche se si tratta probabilmente di una battaglia contro i mulini a vento. Per metterlo in pausa serve, anche qui, l’unanimità degli Stati membri. Tuttavia, il Consiglio Ue ha recentemente aperto alla revisione dell’accordo, una mossa che evidenzia l’isolamento politico crescente di Netanyahu.

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    Von der Leyen chiama Trump, nuova giravolta sui dazi: sospesi fino al 9 luglio

    Bruxelles – Nuovo passo indietro di Donald Trump sui dazi alle merci Ue. Dopo la minaccia, arrivata come un fulmine a ciel sereno, di tariffe del 50 per cento su tutte le importazioni a partire dal primo giugno, ieri (25 maggio) il presidente americano ha ricevuto la telefonata di Ursula von der Leyen. La leader Ue l’avrebbe convinto – il condizionale ormai è d’obbligo – a congelare i dazi reciproci e mantenere aperto il dialogo fino al 9 luglio, riconfermando la proroga di 90 giorni decisa lo scorso 9 aprile.“Una buona telefonata”, l’ha definita von der Leyen. La prima, da quando il tycoon è tornato alla Casa Bianca. “L’Unione europea e gli Stati Uniti intrattengono il rapporto commerciale più stretto e importante al mondo. L’Europa è pronta a far avanzare i colloqui con rapidità e decisione. Per raggiungere un buon accordo avremmo bisogno di tempo fino al 9 luglio“, ha affermato la presidente della Commissione europea in un post su X. Dall’altro capo della cornetta, Trump ha “acconsentito alla proroga” chiesta da von der Leyen. “È stato un privilegio per me farlo. La presidente della Commissione ha affermato che i colloqui inizieranno rapidamente. Grazie per l’attenzione dedicata a questa questione!”, ha scritto sul suo social Truth. In realtà, i Paesi Ue continuano comunque a essere soggetti a tariffe reciproche del 10 per cento su tutto l’export negli Stati Uniti, e a dazi del 25 per cento sull’export di acciaio, alluminio e derivati, auto e componenti.Di buono c’è che per la prima volta Washington e Bruxelles hanno stabilito un confronto diretto al massimo livello sulla questione. “È grazie all’Italia se si è avuto questo rapporto diretto von der Leyen-Trump”, si è affrettato a dire questa mattina il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani. Nel tentativo di mantenere il ruolo di mediatore abilmente ritagliatosi – e minacciato dal ponte diretto tra i due leader -, Giorgia Meloni starebbe accelerando il lavoro diplomatico per orchestrare un vertice europeo prima del D-Day.Il presidente statunitense Donald Trump annuncia l’imposizione di dazi sulle importazioni dai partner globali, il 2 aprile 2025 (foto: Brendan Smialowski/Afp)Ruolo effettivo o presunto di Roma a parte, la telefonata e le dichiarazioni immediatamente successive di Trump e von der Leyen portano una ventata di ottimismo. Lo confermano le borse europee, che oggi si sono svegliate in deciso rialzo, con il Dax di Francoforte al +1,76 per cento, il Cac40 di Parigi al +1,36 per cento e il Ftse Mib di Milano al +1,53 per cento.Ora la palla torna nelle mani di Maroš Šefčovič, il commissario europeo per il commercio, che guida i complessi negoziati con le controparti americane. Finora, il socialista slovacco sta tornando da Washington ogni volta a mani vuote: venerdì scorso (23 maggio), l’ultimo round di negoziati ha portato all’annuncio furioso di Trump – che ha addirittura raddoppiato l’onere delle tariffe sull’import Ue rispetto a quanto previsto nel ‘Liberation Day‘ – accompagnato dal commento: “Le nostre discussioni con loro non stanno andando da nessuna parte!“.Lo stesso Šefčovič aveva dichiarato piccato, dopo i colloqui con il rappresentante commerciale americano Jamieson Greer e il segretario al Commercio Howard Lutnick, che il commercio tra Ue e Stati Uniti “deve essere guidato dal rispetto reciproco, non dalle minacce“. Aggiungendo che Bruxelles è “pronta a difendere i nostri interessi”. Il piano B svelato dalla Commissione europea, in caso le trattative naufragassero, prevede contromisure su una lunga lista di prodotti americani, dal valore di 95 miliardi di euro, e una procedura formale contro Washington all’Organizzazione Mondiale del Commercio. Ma anche Bruxelles ha un asso nella manica con cui minacciare Trump: lo strumento anti-coercizione, con cui potrebbe tassare pesantemente i profitti delle big tech americane nel vecchio continente. La Commissione europea ha fatto sapere che già oggi pomeriggio Šefčovič avrà un nuovo contatto telefonico con Lutnick.