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    L’Ue cerca (ancora) di distendere la tensione tra Armenia e Azerbaigian. Ma è scambio di accuse sul Nagorno-Karabakh

    Bruxelles – L’Unione Europea ci riprova, per la seconda volta in due mesi. Il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, ha convocato sabato (15 luglio) il premier dell’Armenia, Nikol Pashinyan, e il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, per un nuovo round di negoziati di alto livello tra i due Paesi da anni in conflitto, a bassa o alta intensità. “Il nostro è stato l’ultimo di una serie di intensi e produttivi incontri che hanno coinvolto i leader dell’Armenia e dell’Azerbaigian, i vice-premier e i ministri degli Esteri dall’inizio di maggio a Bruxelles, Chișinău, Washington, Mosca e sul confine bilaterale“, ha reso noto al termine del confronto lo stesso leader del Consiglio, facendo riferimento all’intensificazione degli sforzi diplomatici multilaterali che hanno ormai l’Unione come motore propulsore.
    Da sinistra: il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan (15 luglio 2023)
    Dopo la ripresa delle discussioni tra il premier azero e il presidente azero a Bruxelles lo scorso 14 maggio, l’obiettivo dei negoziatori Ue ora è quello di mantenere salda la presa sulle due parti, nonostante l’assenza di reali passi avanti e una retorica che rimane incendiaria. “Stiamo attraversando una delle fasi più complete e vigorose dei negoziati tra Armenia e Azerbaigian“, ha voluto ribadire Michel, riconoscendo però che l’incontro “si è svolto nel contesto di un preoccupante aumento delle tensioni sul terreno”. La dimostrazione è arrivata dalle accuse del ministro degli Esteri azero, Jeyhun Bayramov, all’indirizzo di Yerevan di non aver rispettato “molte disposizioni” del cessate il fuoco del 2020 e contro la Russia – tradizionale mediatrice nella guerra che prosegue tra alti e bassi dal 1992 – per non aver garantito la “piena attuazione della dichiarazione nell’ambito dei suoi obblighi”.
    È dal 1992 che si protrae in quest’area del Caucaso meridionale un conflitto congelato, con scoppi di violenze armate ricorrenti. Il più grave degli ultimi anni è stato quello dell’ottobre del 2020: in sei settimane di conflitto erano morti quasi 7 mila civili, prima del cessate il fuoco che ha imposto all’Armenia la cessione di ampie porzioni di territorio nel Nagorno-Karabakh. È per questo tra le questioni più complesse c’è la questione dell’integrità territoriale – “il territorio dell’Armenia copre 29.800 chilometri quadrati e quello dell’Azerbaigian 86.600”, ha ricordato Michel – e della delimitazione dei confini, con la volontà di “intensificare e accelerare il lavoro delle due commissioni di confine” dopo la riunione di mercoledì scorso (12 luglio): “Le discussioni sulle basi della delimitazione sono avanzate”. Preoccupa da mesi la situazione della popolazione che abita l’enclave cristiana del Nagorno-Karabakh nel sud-ovest dell’Azerbaigian (Paese a maggioranza musulmano) e più nello specifico lo stato “chiaramente non sostenibile” nell’area attorno al corridoio di Lachin: “Ho sottolineato la necessità di aprire la strada e ho preso atto della disponibilità dell’Azerbaigian di fornire aiuti umanitari attraverso Aghdam”. Il presidente del Consiglio Ue ha fatto poi sapere dell’intenzione di convocare una nuova riunione di alto livello a Bruxelles “dopo l’estate” e un nuovo un incontro a cinque – “con la partecipazione anche dei leader di Francia e Germania” – a margine del prossimo vertice della Comunità Politica Europea in programma il 5 ottobre a Granada.
    La mediazione Ue tra Armenia e Azerbaigian
    Dopo le sparatorie alla frontiera tra i due Paesi di fine maggio dello scorso anno il presidente Michel ha cercato di rendere sempre più frequenti i contatti diretti con il leader azero Aliyev e il premier armeno Pashinyan. La priorità dei colloqui di alto livello è sempre stata posta sulla delimitazione degli oltre mille chilometri di confine. Tuttavia, mentre a Bruxelles si sta provando da allora a trovare una difficilissima soluzione a livello diplomatico, sul terreno non si è mai allentata la tensione. Nel mese di settembre sono riprese le ostilità tra Armenia e Azerbaigian, che si accusano a vicenda di bombardamenti alle infrastrutture militari e sconfinamenti di truppe di terra.
    Soldati dell’Azerbaigian al posto di blocco sul corridoio di Lachin (credits: Tofik Babayev / Afp)
    La mancanza di un monitoraggio diretto della situazione sul campo da parte della Russia – che fino allo scoppio della guerra in Ucraina era il principale mediatore internazionale – ha portato alla decisione di implementare una missione Ue. Dopo il compromesso iniziale con Yerevan e Baku raggiunto il 6 ottobre a Praga in occasione della prima riunione della Comunità Politica Europea, 40 esperti Ue sono stati dispiegati lungo il lato armeno del confine fino al 19 dicembre dello scorso anno. Una settimana prima della fine della missione l’Azerbaigian ha però bloccato in modo informale (attraverso la presenza di pseudo-attivisti ambientalisti armati) il corridoio di Lachin, l’unica via di accesso all’Armenia e al mondo esterno per gli oltre 120 mila abitanti dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh. Da 154 giorni su questa strada sono in atto forti limitazioni del transito di beni essenziali come cibo e farmaci, gas e acqua potabile, e gli unici a poterla percorrere sono i soldati del contingente russo di mantenimento della pace e il Comitato internazionale della Croce Rossa.
    A seguito dell’aggravarsi della situazione nel corridoio di Lachin, il 23 gennaio è arrivata la decisione del Consiglio dell’Ue di istituire la missione civile dell’Unione Europea in Armenia (Euma) nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, con l’obiettivo di contribuire alla stabilità nelle zone di confine e garantire un “ambiente favorevole” agli sforzi di normalizzazione dei due Paesi caucasici. Ma la tensione è tornata a crescere lo scorso 23 aprile, con la decisione di Baku di formalizzare la chiusura del collegamento strategico attraverso un posto di blocco, con la giustificazione di voler impedire la rotazione dei soldati armeni nel Nagorno-Karabakh “che continuano a stazionare illegalmente nel territorio dell’Azerbaigian”. Da Bruxelles è arrivata la risposta secca dell’alto rappresentate Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “I diritti e la sicurezza degli armeni del Nagorno-Karabakh devono essere sempre garantiti”.

    Secondo vertice in due mesi voluto dal numero uno del Consiglio Ue, Charles Michel, con il presidente azero, Ilham Aliyev, e il premier armeno, Nikol Pashinyan. Sul tavolo le discussioni su confini e corridoio di Lachin, sullo sfondo di una retorica che non agevola i colloqui di pace

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    Dall’energia rinnovabile alle materie prime critiche. L’Ue investe 45 miliardi in America Latina con il Global Gateway

    Bruxelles – Si apre con la notizia di un impegno concreto dell’Unione Europea a sostegno dei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi il terzo vertice Ue-Celac in programma oggi e domani (17-18 luglio) a Bruxelles. “Sono lieta di annunciare che investiremo oltre 45 miliardi di euro fino al 2027 attraverso il nostro programma Global Gateway“, sono state le prime parole della giornata di confronti bilaterali e multilaterali della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, illustrando alla Business Round Table il programma di investimenti “di alta qualità a beneficio di entrambe le nostre regioni” e le catene di valore che avranno la priorità: “Dall’idrogeno pulito alle materie prime critiche, dall’espansione della rete di cavi dati ad alte prestazioni alla produzione dei più avanzati vaccini a base di mRNA”, il tutto accompagnato dai “più elevati standard ambientali e sociali e dalla trasparenza”.
    Si tratta di “oltre 135 progetti già in cantiere” – ha continuato von der Leyen – che si inseriscono all’interno dell’Agenda per gli investimenti Global Gateway per i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi, secondo i criteri e le priorità che la Commissione Europea aveva presentato un mese fa in vista del primo vertice di alto livello tra i Ventisette e i 33 Paesi Celac dopo otto anni dall’ultima volta: transizione verde sostenibile, trasformazione digitale inclusiva, sviluppo umano, resilienza sanitaria e vaccini. Ma ciò su cui sarà principalmente rivolta l’attenzione è l’ambito energetico e digitale, sia come produzione sia come estrazione di materie prime critiche. “L’America Latina e i Caraibi hanno il potenziale per diventare una centrale elettrica globale per le energie rinnovabili”, ha assicurato la numero uno della Commissione, facendo riferimento ai settori eolico e solare che “stanno crescendo in modo esponenziale, anche grazie agli investimenti europei”. Il passo successivo ora è quello di “trasformare l’energia pulita in idrogeno pulito”, perché non solo “può essere facilmente esportato in altri continenti” ma può anche “alimentare nuove industrie nel vostro continente”. Acciaio e cemento, fertilizzanti, treni e autobus, “tutti puliti, tutti prodotti in America Latina”, ha sottolineato con forza von der Leyen: “Il vostro continente ha il potenziale per diventare un leader globale nelle industrie pulite di domani“.
    Per raggiungere questo obiettivo e fare in modo che le tecnologie verdi e digitali possano svilupparsi in tutte le loro potenzialità “le nostre industrie hanno bisogno di accedere a materie prime essenziali“, è l’avvertimento della numero uno dell’esecutivo Ue, che ha voluto assicurare come “anche in questo caso l’Europa vuole essere il vostro partner di riferimento”. Se tutto il mondo richiede materie prime critiche – dal litio al gallio e il germanio, come dimostrato dalle ultime restrizioni della Cina – c’è una grande differenza tra l’Ue e gli altri investitori, ha voluto mettere in chiaro von der Leyen: “Non siamo interessati a investire solo nella pura estrazione di materie prime, vogliamo collaborare con voi per costruire capacità locali di lavorazione, di produzione di batterie e di prodotti finali come i veicoli elettrici“. In altre parole, non si tratta solo di investimenti, ma “possiamo contribuire con una tecnologia di livello mondiale e con una formazione di alta qualità per i lavoratori locali”.
    Da sinistra: il presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro della Spagna e presidente di turno del Consiglio dell’Ue, Pedro Sánchez (17 luglio 2023)
    Lo dimostrano gli oltre 130 progetti dal valore complessivo di 45 miliardi di euro annunciati oggi nell’ambito del Global Gateway per i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi. A partire dalla collaborazione con Argentina e Cile e attraverso il Club delle materie prime critiche “per rafforzare le catene di approvvigionamento sostenibili”. In Brasile saranno espanse le reti di telecomunicazione nella regione amazzonica, in Cile saranno promosse le attività di investimento sull’idrogeno verde, in Paraguay sarà potenziata la rete elettrica, a Panama si spingerà per l’accesso universale all’energia. in Giamaica sarà portato il 5G e la banda larga a tutta l’isola, in Costa Rica sarà elettrificato il trasporto pubblico – con la conversione all’elettrico della flotta di 40 autobus urbani – e in Colombia sarà costruita una linea metropolitana. Più in generale saranno implementate l’Alleanza digitale – attraverso la creazione di due centri Copernicus per la riduzione del rischio di catastrofi, il cambiamento climatico e il monitoraggio terrestre e marino – l’Iniziativa Health Resilience per lo sviluppo della produzione locale di farmaci e vaccini e l’Iniziativa Global Green Bonds sul mercato dei green bond nell’America Latina e nei Caraibi. Focus anche sul programma Società inclusive per affrontare le disuguaglianze, ridurre la povertà e l’esclusione sociale attraverso politiche sociali e di genere, l’istruzione e lo sviluppo delle competenze.

    L’annuncio della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, prima dell’inizio del vertice Ue-Celac. Saranno sviluppati oltre 130 progetti fino al 2027 per spingere la transizione digitale e verde e per aumentare i partenariati industriali e sanitari

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    Fondi alla Tunisia per rimpatri e frontiere dure. Ma l’Ue non ha nulla da dire sulla teoria della “sostituzione etnica” di Saïed

    Bruxelles – Un partenariato che dovrebbe spianare la strada per altri accordi con la regione nord-africana in materia di migrazione, ma che a nemmeno 24 ore dalla firma del memorandum d’intesa già pone grosse perplessità sul rispetto dei valori fondanti dell’Unione Europea. La Tunisia riceverà da Bruxelles 105 milioni di euro per rimpatri e rafforzamento delle proprie frontiere esterne, ma quello che fa davvero rumore è che nessuno dei tre leader Ue recatisi ieri (16 luglio) a Tunisi – la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, la prima ministra italiana, Giorgia Meloni, e l’omologo olandese, Mark Rutte – abbia avuto qualcosa da dire sulle parole razziste e complottiste del presidente tunisino, Kaïs Saïed, a proposito delle persone migranti di Paesi terzi africani sul proprio territorio nazionale e sulle accuse contro le Ong europee di “diffondere fake news” su di lui e sulle violenze nel Paese.
    Da sinistra: il primo ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il presidente della Tunisia, Kaïs Saïed, e la prima ministra dell’Italia, Giorgia Meloni, a Tunisi (16 luglio 2023)
    “La Tunisia ribadisce la sua posizione di non essere un Paese di insediamento per i migranti irregolari, ribadisce inoltre la sua posizione di presidiare solo le proprie frontiere”, si legge nel memorandum d’intesa Ue-Tunisia. “Questo approccio si baserà sul rispetto dei diritti umani e comprenderà la lotta contro le reti criminali di trafficanti di migranti e di esseri umani”, ma soprattutto “lo sviluppo di un sistema di identificazione e di rimpatrio dei migranti irregolari già presenti in Tunisia verso i loro Paesi di origine“. È proprio questo il tema su cui si gioca tutta la credibilità dell’Unione, considerato il fatto che negli ultimi mesi il leader tunisino ha aumentato i suoi attacchi contro le persone migranti in arrivo sul territorio nazionale dall’Africa sub-sahariana, mettendo in campo una retorica complottista di estrema destra basata sulla teoria della ‘sostituzione etnica’. Già in occasione di un consiglio di sicurezza nazionale a febbraio aveva parlato di “orde di immigrati clandestini” la cui presenza in Tunisia sarebbe dettata dalla “volontà di renderci solo un altro Paese africano e non un membro del mondo arabo e islamico”.
    Prima, durante e dopo i due incontri in poco più di un mese che gli stessi tre leader europei hanno avuto a Tunisi con Saïed non è mai arrivata alcuna reazione da Bruxelles a parole che sono chiaramente contrarie ai valori promossi dall’Unione Europea di non-discriminazione e anti-razzismo, ma che soprattutto hanno creato in Tunisia un clima favorevole per gli attacchi fisici su queste persone, soprattutto nella città costiera di Sfax. E nel corso della conferenza stampa svoltasi al termine della cerimonia di firma del memorandum d’intesa sono rimaste senza risposta le accuse rivolte dallo stesso leader tunisino alle Ong che operano nel Mar Mediterraneo di veicolare un’immagine negativa del Paese e della sua leadership, sempre come parte di un grande progetto complottista: “I tunisini hanno provveduto con rifugi e tutto quello che potevano aspettarsi queste persone migranti, con grande ospitalità e generosità illimitata”, ha attaccato Saïed, puntando il dito sul “ruolo giocato da molte organizzazioni umanitarie con le loro dichiarazioni e con fake news e notizie distorte per gettare discredito sui tunisini e sul Paese in generale“. Nessuna presa di distanza, nessuna precisazione, nessuna parola di sostegno ai professionisti europei che lavorano per la difesa dei diritti umani da parte di von der Leyen, Meloni o Rutte, in particolare rivelando deportazioni dalle coste tunisine al deserto al confine con la Libia.
    (credits: Fethi Belaid / Afp)
    Al contrario l’Unione è pronta a mettere sul piatto un pacchetto da 105 milioni di euro, da dividere tra circa 60 milioni per il rafforzamento delle frontiere esterne e altri 15 milioni per i rimpatri, fanno sapere fonti Ue (non si sa nel dettaglio cosa prevedano i restanti 30 milioni). Sono confuse le informazioni che arrivano sia sul piano delle modalità di esborso dei fondi – se attraverso emendamenti ai fondi Ue con la proposta di revisione del bilancio pluriennale presentato poche settimane fa, o attraverso programmi di lavoro ad hoc – ma soprattutto sulla suddivisione dei finanziamenti sul rimpatrio. Il testo ufficiale non chiarisce nulla di tutto questo, ma fonti riferiscono che i 15 milioni di euro saranno destinati per rimpatriare nei propri Paesi di origine (prevalentemente sub-sahariani) circa seimila persone che attualmente risiedono in modo irregolare in Tunisia. Si tratta di una chiara concessione al presidente Saïed, a cui si aggiunge un ulteriore punto segnato dall’uomo forte di Tunisi nell’aver messo nero su bianco che i rimpatri dai Paesi membri Ue alla Tunisia potranno riguardare solo cittadini di nazionalità tunisina. “Non accetteremo mai di essere i guardiani dei confini di nessun Paese, né accetteremo l’insediamento di migranti sul nostro territorio”, era il punto di partenza di Saïed. Ed è stato anche quello di arrivo, a dispetto di quanto Paesi come l’Italia vorrebbero fare attraverso il concetto di ‘Paese terzo sicuro’ nel futuro Patto migrazione e asilo.
    Cosa prevede il memorandum Ue-Tunisia sulla migrazione
    “Le due parti convengono di continuare a collaborare per affrontare le sfide poste dall’aumento della migrazione irregolare in Tunisia e nell’Ue, riconoscendo gli sforzi compiuti e i risultati ottenuti dalle autorità tunisine”, è quanto hanno concordato i quattro leader a Tunisi, con un rapido riferimento al “coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio in mare” e l’attuazione di “misure efficaci per combattere il traffico di migranti e la tratta di esseri umani”. Da una parte l’Unione Europea fornirà un “adeguato sostegno finanziario supplementare” per appalti, formazione e supporto tecnico “necessari per migliorare ulteriormente la gestione delle frontiere tunisine”. E poi c’è, appunto, la questione dei rimpatri. Bruxelles sosterrà Tunisi nell’attuazione del memorandum “in contesti bilaterali con gli Stati membri” dell’Ue, ma soprattutto offrirà sostegno sia per il rimpatrio dalla Tunisia verso i Paesi d’origine delle persone che attualmente risiedono nel Paese in modo irregolare “in conformità con il diritto internazionale e nel rispetto della loro dignità”, sia dall’Ue verso dalla Tunisia solo “dei cittadini tunisini in situazione irregolare”, con tutto ciò che riguarda i cittadini di Paesi terzi emendato dal testo.
    Nel capitolo del memorandum sulla gestione della migrazione trova spazio anche la “promozione di canali legali, comprese le opportunità di lavoro stagionale” e le opportunità di “mobilità internazionale a tutti i livelli di qualificazione”. L’impegno dell’Unione è quello di mettere in campo “misure appropriate per facilitare la mobilità legale tra le due parti, anche agevolando la concessione dei visti riducendo i ritardi, i costi e le procedure amministrative“, mentre il lavoro congiunto dovrebbe concentrarsi sull’attuazione di un “Partenariato dei talenti nell’interesse di entrambe le parti, in base alle esigenze reciproche della Tunisia e degli Stati membri dell’Ue, e a beneficio dei settori di attività e dei mestieri identificati congiuntamente”.

    Nel memorandum d’intesa firmato a Tunisi sono previsti 105 milioni di euro per la gestione della migrazione, anche se non è chiaro come saranno sborsati. Oltre alle dichiarazioni di circostanza, fa rumore l’assenza di reazioni al complottismo e le accuse alle Ong del presidente tunisino

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    Fumata bianca a Tunisi. Intesa tra l’Ue e il presidente Saïed su migranti, assistenza macro-finanziaria ed energia

    Bruxelles – La firma tanto attesa con la Tunisia è arrivata. La partnership “modello” per i rapporti con i vicini del Nord Africa è stata messa nero su bianco ieri sera (16 luglio) a Tunisi, dal trio Ue formato dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, dalla prima ministra italiana, Giorgia Meloni, dall’omologo olandese, Mark Rutte, e dal presidente tunisino, Kaïs Saïed. Cinque pilastri, dallo sviluppo economico alla cooperazione energetica, fino alla migrazione. L’asse principale rimane l’assistenza macro-finanziaria a un Paese a rischio default, ma l’accordo politicamente più significativo riguarda la mobilitazione immediata di fondi europei per rafforzare la lotta alla migrazione irregolare e aumentare i rimpatri.
    A distanza di oltre un mese dalla dichiarazione di intenti firmata lo scorso 11 giugno, il memorandum d’intesa siglato al Palazzo di Cartagine è l’ultimo step prima di rendere effettivamente operativo il pacchetto di partenariato globale tra Bruxelles e Tunisi. Le trattative, proseguite non senza difficoltà a causa dell’oltranzismo di Saied, che ha cercato il più possibile di giocare al rialzo facendo leva sulla minaccia di un ulteriore aumento di sbarchi ai confini europei, alla fine non hanno ridimensionato i termini dell’accordo. Tranne che su un punto: come gridato a più riprese dal leader tunisino, nel documento si afferma che “la Tunisia ha ribadito di non essere un Paese d’installazione di migranti irregolari”, e che “vigilerà solo sulle proprie frontiere”.
    Un miliardo di assistenza macro-finanziaria, ma Saied deve chiudere con l’Fmi
    Quattro dei cinque pilastri del pacchetto sono rimasti pressoché invariati. Quello sull’assistenza macro-finanziaria prevede l’erogazione urgente di 150 milioni di euro per rimpinguare le casse tunisine e 900 milioni che restano vincolati allo sblocco del maxi-prestito da 1,9 miliardi che il Fondo Monetario Internazionale sta negoziando con Saïed dallo scorso ottobre. Per ricevere il finanziamento e scongiurare il rischio bancarotta del Paese, in cui da mesi l’inflazione viaggia sul 10 per cento e il tasso di disoccupazione supera il 17 per cento, il presidente dovrebbe avviare una serie di riforme impopolari, come richiesto dall’Fmi. Ma fino ad ora non ne vuole sapere.
    Le due parti si impegnano inoltre ad approfondire le relazioni economiche e commerciali, con una particolare enfasi sulla doppia transizione verde e digitale. L’Ue conta su Tunisi per ampliare il proprio portafoglio energetico e mira a “rafforzare le infrastrutture” tunisine per “rafforzare la sicurezza dell’approvvigionamento energetico e fornire ai cittadini e alle imprese energia a basse emissioni di carbonio a prezzi competitivi”. In vista c’è la sovvenzione da 307,6 milioni di euro per la realizzazione di una prima interconnessione tra Italia e Tunisia con un cavo elettrico sottomarino ad alta tensione. Si chiama interconnettore Elmed, assegnato nell’ambito dell’Interconnection in Europe Facility per collegare i due lati del Mediterraneo e “rafforzare la rispettiva sicurezza energetica”.
    Accordo confermato anche sulla cosiddetta partnership per i Talenti, con l’obiettivo di promuovere percorsi regolari per la migrazione e stimolare una maggiore mobilità a “tutti i livelli di competenza”. Opportunità di lavoro stagionale in Europa e formazione tecnica e professionale per rafforzare le competenze della forza lavoro tunisina al fine di “sostenere lo sviluppo economico della Tunisia a livello nazionale, regionale e locale”.
    Fondi Ue per rimpatri dalla Tunisia ai Paesi d’origine
    Il piano iniziale di Bruxelles per fare di Tunisi una sorta di piattaforma dove rispedire migranti irregolari da Paesi terzi – con l’idea di sottoporli alle procedure d’asilo nel Paese nordafricano e di riprendere solamente coloro a cui fosse riconosciuto il diritto d’asilo – è saltato. La Tunisia riaccoglierà soltanto i propri cittadini e l’Europa pagherà i rimpatri di migranti sub-sahariani dal territorio tunisino, per alleggerire la pressione sul Paese che promette di stringere le maglie sulle partenze. Dei 105 milioni di euro che l’Ue mobiliterà per la migrazione, 60 saranno destinati a rafforzare le capacità delle autorità tunisine nel controllare i confini e intercettare i migranti, mentre secondo fonti europee 15 milioni copriranno i rimpatri di seimila migranti sub-sahariani dal territorio tunisino. 2,500 euro a persona. Al momento la Commissione europea non ha reso noto nel dettaglio come saranno ripartiti i restanti 30 milioni dedicati alla migrazione.
    Il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, firma il memorandum d’intesa con la Tunisia (16 luglio 2023)
    Il memorandum sbriga in una riga le preoccupazioni sollevate da diversi media e organizzazioni internazionali sul trattamento riservato alle persone migranti in Tunisia. “Il nostro approccio sarà basato sul rispetto dei diritti umani“, aggiungendo che i rimpatri saranno attuati nel “rispetto del diritto internazionale e della dignità dei migranti”. A onor del vero, ancora meno hanno detto von der Leyen, Meloni e Rutte durante la pseudo conferenza stampa con Saïed, in un Palazzo di Cartagine chiuso ai media. Nessun accenno alla questione, nonostante ancora una volta Saïed abbia parlato di “trasferimento [di persone migranti, ndr] organizzato da alcune reti criminali”, rispolverando la teoria complottista della grande sostituzione che negli ultimi tempi in Tunisia ha fomentato episodi di violenza contro migranti sub-sahariani. E nonostante le ricostruzioni di diversi media e Ong, che hanno rivelato le deportazioni di migranti dalle coste tunisine al deserto al confine con la Libia, dove sono stati lasciati senza acqua e cibo.

    Von der Leyen, Meloni e Rutte finalizzano il memorandum d’intesa. Pronti 150 milioni di supporto alle casse nazionali e 105 per la migrazione, di cui 60 milioni per il controllo delle frontiere e 15 destinati al rimpatrio dalla Tunisia di circa seimila persone verso i Paesi dell’Africa sub-sahariana

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    È stallo sul memorandum d’intesa con la Tunisia. Nuova missione di von der Leyen, Meloni e Rutte

    Bruxelles – Che le parti non fossero così vicine si era percepito dal silenzio delle ultime due settimane, dopo che all’ultimo Consiglio Europeo del 29-30 giugno i leader Ue avevano dato ormai per chiuso l’accordo con la Tunisia. Ma ora arriva la conferma. C’è bisogno di una nuova missione di Ursula von der Leyen, Giorgia Meloni e Mark Rutte per “portare il lavoro a un passo successivo”.
    Da sinistra: il primo ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il presidente della Tunisia, Kais Saied, e la prima ministra dell’Italia, Giorgia Meloni, a Tunisi (11 giugno 2023)
    La presidente della Commissione Europea, accompagnata dai primi ministri di Italia e Olanda, incontrerà il presidente tunisino, Kais Saied, domenica pomeriggio (14 luglio), in un secondo round dopo la prima visita congiunta dello scorso 11 giugno. Un mese fa i tre avevano concordato con le autorità tunisine di portare avanti il lavoro su un pacchetto di partenariato globale fondato su cinque pilastri: sviluppo economico, scambi e investimenti, accordi sulle energie rinnovabili, gestione dei flussi migratori, mobilità e formazione nell’ambito della partnership per i talenti. L’obiettivo di Bruxelles era firmare il memorandum d’intesa sulla partnership prima del vertice dei 27 leader europei di fine giugno. Alla vigilia del Consiglio Ue il commissario per la Politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, era pronto a volare a Tunisi per finalizzarlo ma – non senza imbarazzo – ha dovuto annullare la trasferta a causa delle celebrazioni della festa islamica del sacrificio. Il motivo sembra però essere piuttosto l’assenza di un accordo definitivo: “Le discussioni sono ancora in corso“, ha ammesso oggi (14 luglio) la portavoce della Commissione Ue, Dana Spinant.
    In base ai termini attuali dell’accordo, l’Ue sarebbe pronta a mobilitare immediatamente 150 milioni di euro di supporto al budget di Tunisi e 105 milioni per la gestione della migrazione, di cui 60 per il controllo dei confini. E 900 milioni di euro di assistenza macrofinanziaria, vincolati allo sblocco del maxiprestito da 1,9 miliardi che il Fondo Monetario Internazionale sta negoziando con Saied dallo scorso ottobre. In cambio dell’impegno del presidente tunisino a continuare a fermare le partenze dei barconi e a trasformare la Tunisia in una sorta di piattaforma dove rispedire le persone migranti che arrivano in modo irregolare, che verrebbero sottoposte alle procedure d’asilo nel Paese nordafricano. Le persone migranti a cui fosse riconosciuto il diritto d’asilo verrebbero ripresi dagli Stati membri, gli altri resterebbero in Tunisia.
    L’accordo con Saied e le violazioni dei diritti umani in Tunisia
    Ma una fetta importante della popolazione locale non vuole le persone migranti subsahariane. E il populista Saied lo sa, tant’è che da mesi soffia sul fuoco del malcontento nazionale con pericolose dichiarazioni pubbliche. A febbraio aveva evocato la teoria complottista della sostituzione etnica, per poi ribadire a più riprese che la Tunisia “non accetterà mai di essere il guardiano dei confini di nessun Paese, né accetterà l’insediamento di migranti sul proprio territorio”. Da settimane si succedono episodi di violenza nei confronti di persone migranti, soprattutto nella zona di Sfax, città da cui partono la maggior parte delle imbarcazioni dirette verso l’Italia. E le autorità tunisine, per abbassare la tensione, stanno deportando centinaia di migranti verso la zona desertica al confine con la Libia, lasciandoli alla mercé di gruppi armati e trafficanti.
    La prima ministra italiana, Giorgia Meloni, e il presidente della Tunisia, Kais Saied, a Tunisi (11 giugno 2023)
    C’è da chiedersi se l’Unione Europea chiuderà un occhio sul rispetto dei diritti umani, mettendoli sull’altare della riduzione della pressione migratoria ai propri confini. Bruxelles è già stata avvisata dall’inviato speciale per il Mediterraneo Centrale e Occidentale dell’Unhcr, Vincent Cochetel, sul fatto che qualsiasi accordo sulla migrazione con Saied “deve essere fermato senza un effettivo rispetto dei diritti di migranti e richiedenti asilo”. Dalla Commissione Ue assicurano che “il partenariato con la Tunisia è basato ovviamente sul rispetto dei diritti dell’uomo e della dignità dei migranti” e che l’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, è pronto a sollevare il tema in occasione del prossimo Consiglio d’Associazione Ue-Tunisia. Che potrebbe tenersi entro la fine dell’anno, ma ancora non c’è alcuna data.

    L’obiettivo iniziale era di finalizzare l’accordo prima del Consiglio Europeo di fine giugno, ma la data continua a slittare. Nel Paese nord-africano aumentano le tensioni tra popolazione locale e persone migranti subsahariane: per l’Unhcr l’Ue non può ignorare il rispetto dei diritti umani

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    Semiconduttori, energie pulite e abolizione delle restrizioni ai prodotti alimentari da Fukushima al vertice Ue-Giappone

    Bruxelles – Una riunione di alto livello per approfondire una cooperazione sempre più stretta tra due alleati distanti geograficamente ma vicinissimi sul piano strategico. Il 29° vertice Ue-Giappone è stato un’occasione per i leader dell’Unione e del Paese asiatico per mettere in fila le priorità del partenariato, dalle materie prime critiche all’Alleanza verde, dai semiconduttori alle tecnologie per l’energia pulita, fino all’eliminazione delle restrizioni europee sulle importazioni alimentari dopo l’indicente nucleare di Fukushima.
    Da sinistra: il primo ministro del Giappone, Fumio Kishida, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen (13 luglio 2023)
    “La cooperazione Ue-Giappone è più forte e positiva che mai, Tokyo è uno degli alleati più stretti nell’area dell’Indo-pacifico e oggi abbiamo concordato di lavorare per garantire più sicurezza e di lavorare per generare più opportunità per le nostre imprese”, ha aperto la conferenza stampa post-vertice il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel. Parole confermate dalla numero uno della Commissione Ue, Ursula von der Leyen: “È stato un ottimo summit con risultati tangibili, siamo più vicini che mai”. In primis sul piano del digitale e della tecnologia d’avanguardia, considerato il lavoro del partenariato digitale Ue-Giappone: “Accelereremo la nostra cooperazione sulla trasformazione digitale“, con attenzione particolare sulle “infrastrutture di comunicazione aperte, sicure, innovative e resilienti” e la “mitigazione dei rischi e la governance dell’intelligenza artificiale”, si legge nella dichiarazione congiunta del vertice. La presidente della Commissione ha anche ricordato gli “ottimi progressi sulla connettività, che stanno portando a risultati significativi”, come per esempio il cavo sottomarino artico di 14 mila chilometri che permetterà di bypassare la Russia e il Canale di Suez.
    Al fianco dell’agenda digitale c’è l’Alleanza verde che sta spingendo il lavoro congiunto sulla transizione climatica ed energetica. Gli obiettivi  sono stati definiti al vertice Ue-Giappone dello scorso anno e adesso è il momento della messa a terra degli impegni, come dimostrato dal Memorandum di cooperazione sull’idrogeno firmato nel dicembre 2022. “Intensificheremo la cooperazione in settori quali le tecnologie di rete, l’efficienza energetica, l’idrogeno a basse emissioni di carbonio e rinnovabile, l’eolico off-shore e tecnologie di cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio“, hanno messo in chiaro i tre leader nella dichiarazione congiunta, che specifica anche un lavoro ad hoc sulle catene di approvvigionamento, l’uso e il riciclaggio sostenibile delle batterie. “Siamo motori della protezione del pianeta“, ha rivendicato Michel, mentre von der Leyen ha ricordato anche il lavoro dei due partner “in tutto il mondo con il Global Gateway e le iniziative da parte giapponese”, come i progetti idroelettrici in Vietnam “per liberare la regione dal carbone”.
    Da sinistra: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il primo ministro del Giappone, Fumio Kishida, e il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel (13 luglio 2023)
    Per la transizione energetica sono però vitali le materie prime critiche e i semiconduttori, su cui “mostriamo dipendenze simili“, ha sottolineato la numero uno della Commissione: “Abbiamo bisogno di de-risking sulla catena di approvvigionamento soprattutto dalla Cina per prodotti che sono vitali per le nostre economie, come per esempio le materie prime critiche”. Ecco perché è cruciale non solo il dialogo bilaterale sull’economia Ue-Giappone, ma anche il rafforzamento della cooperazione ad hoc su materie prime e semiconduttori. “L’accordo rappresenta un’opportunità per approfondire la cooperazione su questioni essenziali per la transizione verde e digitale delle nostre industrie“, si legge nel testo finale del vertice a proposito della collaborazione sulle materie prime, che “consentirà di condividere informazioni e approfondire le rispettive conoscenze in materia di gestione dei rischi della catena di approvvigionamento, innovazione, riciclaggio e circolarità”. Sui semiconduttori è invece in atto una “cooperazione approfondita su un meccanismo di allerta precoce” in caso di carenze, grazie al memorandum di cooperazione Ue-Giappone siglato il 12 maggio 2022 a Tokyo.
    Il commercio alimentare Ue-Giappone ristabilito
    A margine del vertice Ue-Giappone è arrivata anche una notizia particolarmente attesa da Tokyo, ovvero l’eliminazione delle restrizioni europee all’importazione di prodotti alimentari a seguito dell’incidente nucleare di Fukushima. “Permetterà la ripresa dei territori colpiti dal disastro”, ha spiegato in conferenza stampa il primo ministro giapponese, Fumio Kishida. La revoca delle misure “deriva dai risultati positivi dei controlli effettuati sui prodotti dalle autorità giapponesi e dagli Stati membri”, si legge nella nota dell’esecutivo Ue.
    Dopo l’incidente del 2011 l’Unione Europea aveva adottato misure per proteggere la salute dei cittadini comunitari dalla possibile contaminazione radioattiva di alimenti e mangimi importati dal Giappone e ha imposto test approfonditi di radioattività sui prodotti alimentari prima dell’esportazione. Le misure sono state riesaminate ogni due anni e a oggi (dopo l’ultima revisione del 2021) erano rimaste restrizioni solo a funghi selvatici, specie ittiche e piante commestibili selvatiche. “È una decisione basata sulla scienza e sulle evidenze dell’Agenzia per l’energia nucleare”, ha messo in chiaro von der Leyen al termine del vertice Ue-Giappone, sottolineando che il sistema di monitoraggio “rigoroso” delle autorità giapponesi dal 2011 è “un’altra dimostrazione di affidabilità” dei rapporti di Bruxelles con Tokyo. Ora che le restrizioni sono state completamente abolite, “è importante che il governo giapponese continui a monitorare la produzione nazionale per verificare la presenza di radioattività”, incluso il pesce, i prodotti della pesca e le alghe marine “vicine al sito di rilascio dell’acqua di raffreddamento contaminata”, specifica la Commissione Ue.

    Al centro dell’ultima riunione di alto livello tra i leader dell’Unione e di Tokyo è stata rafforzata la cooperazione in campo digitale e delle tecnologie per la transizione verde, con l’attenzione rivolta soprattutto alla catena di approvvigionamento di materie prime critiche e all’Alleanza verde

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    Semaforo verde dell’Eurocamera ai 500 milioni per le munizioni Ue. Allineato anche il Partito Democratico

    Bruxelles – Via libera definitivo del Parlamento europeo all’Asap, il piano Ue per aumentare la consegna di munizioni e missili all’Ucraina e imprimere un cambio di passo sulla capacità di produzione bellica nei 27 Stati membri. Acronimo di ‘Act in support of ammunition production’ e di ‘As soon as possible’, il regolamento presentato dalla Commissione Ue lo scorso 3 maggio è stato in effetti finalizzato in tempo di record. Ora manca solo la ratifica del Consiglio, prima che il piano diventi legge.
    Il piano prevede di mobilitare in via d’urgenza cinquecento milioni di euro dal bilancio comunitario fino a giugno 2025 per aumentare la capacità dell’industria europea di produrre munizioni, con l’obiettivo di produrre almeno un milione di pezzi all’anno, tra munizioni terra-terra, artiglieria e missili. Ultimo di tre pilastri di un più ampio e complesso ‘Piano per la difesa’ proposto ai Ventisette dal commissario al Mercato interno, Thierry Breton, e dall’alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, per rispondere all’emergenza della fornitura di munizioni all’Ucraina, ma anche per costruire una visione di lungo termine per la difesa europea.
    Oltre all’Asap, il Piano per la difesa comprende un miliardo di euro mobilitato attraverso lo strumento europeo per la pace (strumento fuori bilancio comunitario) per la consegna immediata di munizioni a Kiev attraverso le scorte degli Stati membri e un altro miliardo di euro per gli acquisti congiunti di armi.
    Fondi del Pnrr per le armi. L’opposizione di Pd e M5s
    La parte più dibattuta del regolamento è la possibilità per i governi di usare i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per raggiungere l’obiettivo fissato di almeno un milione di munizioni all’anno. Dei 500 milioni di euro mobilitati per l’Asap, 260 milioni provengono dal Fondo europeo per la difesa e 240 milioni dal regolamento che istituisce il rafforzamento dell’industria europea della difesa attraverso l’atto comune in materia di appalti pubblici (Edirpa), per sostenere progetti industriali o anche partenariati transfrontalieri, oppure ottimizzare o espandere ammodernamento le capacità produttive esistenti, crearne di nuove o ancora incentivare progetti transfrontalieri. Nessun obbligo di utilizzare i fondi del Pnrr, una scelta che sarà a discrezione dei governi nazionali.
    Nell’accordo trovato con il Consiglio il 7 luglio, l’Eurocamera è riuscita a scongiurare invece l’inclusione dei fondi di coesione tra gli strumenti per finanziare la produzione bellica, oltre a ottenere che i finanziamenti “saranno stanziati per una gamma più diversificata di progetti e che anche le piccole e medie imprese potranno beneficiare di un tasso di finanziamento da parte dell’Ue più elevato”.
    Il testo ha messo d’accordo quasi tutti, passando in plenaria con 505 voti favorevoli, 56 contrari e 21 astensioni. Tra gli italiani, se le defezioni del Movimento 5 Stelle e degli esponenti dei Verdi erano annunciate, gli occhi erano puntati sull’orientamento del Partito Democratico, con la segretaria Elly Schlein che lo scorso 28 giugno a Bruxelles aveva dato l’endorsement al provvedimento nonostante la contrarietà all’uso del Pnrr. Alla fine, i 16 della delegazione guidata da Brando Benifei si sono allineati con il resto dei socialisti europei, al netto dei no di Pietro Bartolo e Massimiliano Smeriglio. La posizione del Nazareno è stata sintetizzata da Elisabetta Gualmini, vicepresidente del gruppo S&d: “Avevamo proposto una serie di emendamenti che chiedessero la cancellazione del riferimento ai fondi del Pnrr e di coesione”. Questi ultimi “per fortuna” sono stati eliminati, “sul Pnrr ci fidiamo di quello che ha detto il governo“. Che ha garantito, in seguito a una mozione promossa dai dem e approvata all’unanimità dalla Camera, l’impegno a non toccare i soldi del Piano di ripresa e resilienza per le munizioni.

    Con 505 voti favorevoli, 56 contrari e 21 astensioni il Parlamento Ue ha adottato formalmente l’accordo politico trovato il 7 luglio con il Consiglio, che prevede la possibilità di attingere dal Pnrr per la produzione di armi. Sui 16 del Nazareno, solo Bartolo e Smeriglio si sono opposti, così come le delegazioni del Movimento 5 Stelle e dei Verdi

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    Un piano per la de-escalation in Kosovo e il ritiro delle misure Ue. Meno polizia al nord ed elezioni locali dopo l’estate

    Bruxelles – Qualcosa si muove a Pristina, dopo le minacce dell’Unione Europea concretizzatesi nelle misure “temporanee e reversibili”, imposte lo scorso 28 giugno contro il governo del Kosovo per la mancanza di “misure necessarie” per la riduzione della tensione nel nord del Paese. Il confronto degli scorsi giorni tra il rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák, e il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, ha portato alla definizione di un piano in quattro tappe che da questa mattina (13 luglio) è già passato alla fase operativa e nel giro di due settimane dovrà portare a risultati concreti e misurabili.
    A rendere noto lo sblocco dello stallo era stato il rappresentante speciale Lajčák lunedì (10 luglio) al termine degli incontri istituzionali con i rappresentanti del governo di Pristina, ma solo ieri (12 luglio) il premier kosovaro ha pubblicato su Twitter la tabella di marcia con le quattro tappe per la de-escalation nel nord e la normalizzazione delle relazioni con la Serbia: “Questo dimostra la nostra volontà di compiere passi concreti per garantire pace, sicurezza e stabilità in Kosovo e nella regione, al servizio della democrazia e dello Stato di diritto”, ha commentato lo stesso Kurti. Le azioni che Pristina deve intraprendere si concentrano tutte nelle prime due settimane dall’accordo del 10 luglio. Nella prima settimana (entro il 17 luglio) il governo del Kosovo deve “annunciare pubblicamente il suo impegno a lavorare per evitare un’escalation della situazione e che non intraprenderà alcuna misura per inasprire la situazione nel nord del Kosovo”, come fatto ieri da Kurti. Questo impegno include soprattutto “un’immediata riduzione del 25 per cento di tutta la presenza della polizia all’interno e nei pressi degli edifici municipali” di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Il graduale ritiro degli agenti di polizia è iniziato questa mattina.
    Come secondo passo a partire dalla settimana 1 e da proseguire poi “su base continuativa” c’è la valutazione “regolare” delle condizioni di sicurezza insieme alla missione civile dell’Ue Eulex e “se dal caso” con la missione Nato Kfor, per “valutare la possibilità di diminuire ulteriormente la presenza della polizia all’interno e nei pressi degli edifici comunali“. Sempre entro il 17 luglio – e con “finalizzazione il prima possibile” – il governo del Kosovo dovrà rilasciare una dichiarazione pubblica “che incoraggia lo svolgimento di elezioni locali anticipate nei quattro comuni del nord dopo l’estate“, accompagnata dall’impegno a “predisporre la base giuridica necessaria per l’organizzazione” della nuova tornata elettorale anticipata. A fronte di questi tre passi compiuti da Pristina, nella seconda settimana (entro il 24 luglio) l’Ue inviterà i due capi negoziatori di Serbia e Kosovo a Bruxelles per “finalizzare il piano di sequenza dell’Accordo sul percorso di normalizzazione delle relazioni” e a quel punto potrà iniziare “l’attuazione di tutte le disposizioni dell’Accordo”. Dopo l’annuncio del premier Kurti l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha accolto “con favore” l’impegno del Kosovo a rispettare l’accordo raggiunto lunedì: “Ci aspettiamo che compia ulteriori passi positivi e continui a progredire in questa direzione”.
    Da sinistra: il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, e l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell (22 giugno 2023)
    Con la messa a terra del piano in quattro tappe il Kosovo dovrebbe riuscire a convincere Bruxelles a ritirare le misure restrittive comunicate a Pristina il 28 giugno. Come appreso da Eunews, l’Ue ha temporaneamente sospeso il lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione avviato nel 2016. Sul piano diplomatico i rappresentanti del Kosovo non saranno invitati a eventi di alto livello e saranno sospese le visite bilaterali, fatta eccezione per quelle incentrate sulla risoluzione della crisi nel nord del Kosovo nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue. Dure anche le due decisioni sul piano finanziario: sospesa la programmazione dei fondi per il Kosovo nell’ambito dell’esercizio di programmazione Ipa 2024 (Strumento di assistenza pre-adesione) e le proposte presentate da Pristina nell’ambito del Quadro per gli investimenti nei Balcani Occidentali (Wbif) non sono state sottoposte all’esame del Consiglio di amministrazione riunitosi il 29-30 giugno.
    Le tensioni tra Serbia e Kosovo
    Lo scorso 26 maggio sono scoppiate violentissime proteste nel nord del Kosovo da parte della minoranza serba a causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica. Proteste che si sono trasformate il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato (30 sono rimasti feriti, di cui 11 italiani). Una situazione deflagrata dalla decisione del governo Kurti di forzare la mano e far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti lo scorso 23 aprile in una tornata particolarmente controversa: l’affluenza al voto è stata tendente all’irrisorio – attorno al 3 per cento – a causa del boicottaggio di Lista Srpska, il partito serbo-kosovaro vicino al presidente serbo Vučić e responsabile anche dell’ostruzionismo per impedire ai sindaci di etnia albanese (a parte quello di Mitrovica, della minoranza bosniaca) di assumere l’incarico. Dopo il dispiegamento nel Paese balcanico di 700 membri aggiuntivi del contingente di riserva Kfor e una settimana di apparente stallo, nuove proteste sono scoppiate a inizio giugno per l’arresto di due manifestanti accusati di essere tra i responsabili delle violenze di fine maggio e per cui la polizia kosovara viene accusata di maltrattamenti in carcere.
    A gravare su una situazione già tesa c’è stato un ulteriore episodio che ha infiammato i rapporti tra Pristina e Belgrado: l’arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi lo scorso 14 giugno. Un evento per cui i due governi si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine tra il nord del Kosovo e il sud della Serbia scarsamente controllata dalla polizia kosovara e solitamente usato da contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati né a Pristina né a Belgrado, per Bruxelles si è resa necessaria una nuova soluzione ‘tampone’, ovvero convocare una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per cercare delle vie percorribili per ritornare fuori dalla “modalità gestione della crisi” e rimettersi sul percorso della normalizzazione dei rapporti intrapreso tra Bruxelles e Ohrid. A pochi giorni dalla riunione a Bruxelles del 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma per il momento non è stato deciso nulla sulle nuove elezioni nel nord del Kosovo.
    La questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno, quando i leader Ue hanno condannato “i recenti episodi di violenza nel nord del Kosovo” e hanno chiesto “un’immediata attenuazione della situazione, sulla base degli elementi chiave già delineati dall’Unione Europea il 3 giugno 2023″ (riferimento alla dichiarazione dell’alto rappresentante Borrell sulle violenze di inizio mese). Entrambe le parti sono state invitate a “creare le condizioni per elezioni anticipate in tutti e quattro i comuni del nord del Kosovo“, con la minaccia velata che “la mancata attenuazione delle tensioni avrà conseguenze negative”. La soluzione risiede sempre nella ripresa del dialogo facilitato dall’Ue e la “rapida attuazione dell’Accordo sul percorso di normalizzazione e del relativo Allegato di attuazione” (ripetitivamente l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio che ha definito gli impegni specifici per Serbia e Kosovo e l’intesa sull’allegato di implementazione raggiunta a Ohrid il 18 marzo), con l’esplicito riferimento alla “istituzione dell’Associazione/Comunità dei Comuni a maggioranza serba“.

    Bruxelles e Pristina hanno concordato le tappe della tabella di marcia per ridurre la tensione tra il governo centrale e la minoranza serbo-kosovara. Già iniziata la riduzione del 25 per cento degli agenti di polizia, atteso a breve l’annuncio per il ritorno anticipato alle urne in quattro comuni